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Lucrezia Giordanelli
Sull'Agorafobia |
Estratto da: Rivista di Psicoanalisi, Volume XXXVIII - 4 - Ottobre-Dicembre 1982 English version: On Agoraphobia
In quella seduta il clima emotivo rischiava di divenire incandescente: fin dall'ingresso la paziente aveva cominciato a stuzzicarmi, a provocarmi, ad accusarmi di mie intenzioni inesistenti, e tutto ciò in assoluto contrasto con quanto detto e vissuto nelle sedute precedenti. Sentivo la rabbia crescere dentro di me, mi rendevo conto che avrei dovuto potermi controllare ma temevo di non riuscirci abbastanza, e alla fine, con tono di voce un po' alterato, le chiesi il perché di quell'attacco ingiustificato. Negando l'evidenza, disse che ero io che la stavo attaccando, come suo padre quella volta in cui la tensione era cresciuta talmente tra loro che lei svenne e a lui venne la febbre a 40 gradi. Da allora i sintomi agorafobici della paziente si attenuarono e in pochi mesi scomparvero, al punto che cominciò a viaggiare e andò a vivere da sola. Credo che in quel caso riuscimmo a raggiungere una comunanza emotiva destrutturante che si riferiva a livelli molto antichi e profondi, che avevano agito nella scena col padre, della cui morte la paziente si accusava, ripetendo emozioni precedentemente vissute. La madre era percepita dalla paziente come asessuata, priva di comunicativa e piena di rabbia e di invidia, e l'ambivalenza e i desideri di morte nei suo confronti - come nei pazienti agorafobici della Deutsch - obbligavano la paziente a controllare le persone che le apparivano come sostituti materni. Non so quale presentazione, estremamente primitiva, passasse tra me e la paziente, al di 1à dei contenuti, delle immagini e delle parole dette ed evocate; ma fu come se l'affetto, estremamente violento e destrutturante, si sganciasse dalla presentazione, e come se tutta una catena di presentazioni collegate e conseguenti cedesse e si sfaldasse. Era come se l'oggetto persecutorio e indispensabile uscisse da sé e si trovasse non più dentro, ma di fronte, e si potesse dialogare. In effetti, migliorò il rapporto tra noi e nel transfert io divenni un oggetto più narcisistico che anaclitico.
Ricordo un altro caso di agorafobia, in cui la malattia mortale della madre, che progressivamente si paralizzava finché solo gli occhi indicavano imperiosamente al paziente ciò che bisognava fare, fu vissuta da entrambi come il terrore della paralisi motoria ed emotiva, che sia io che lui vivevamo come minaccia e come proiezione di sé nell'altro. Anche in quel caso riuscimmo a condividere un'emozione primitiva e paralizzante, una necessità di controllo e una ribellione al controllo, che reciprocamente ci coinvolgeva. La madre era per il paziente impenetrabile, groviglio di passioni imprevedibili, in cui egli non poteva collocare le proprie tensioni, che fin dalla più tenera età aveva imparato a collocare in altri oggetti disponibili; i desideri di morte nei confronti della madre erano da sempre coscienti ed espressi; il padre era assente. Dopo la morte della madre il paziente riuscì a separarsi dalla moglie e a vivere da solo.
In altri casi di agorafobici da me trattati era evidente una incomunicabilità a livelli profondi, il che non impediva una buona e anche ottima possibilità di comunicazione a livelli più evoluti. Analisi, si poteva dire, abbastanza riuscite, se non si teneva conto di quello zoccolo duro, di quell'impossibilità del paziente di considerarsi veramente autonomo e differenziato. Per esempio la fusionalità, indagata recentemente da alcuni colleghi (Pallier, Tagliacozzo et al. 1990), è da essi collocata in una fase estremamente precoce dello sviluppo, precedente la posizione schizo-paranoide; per tali Autori una buona fusionalità è necessaria al rapporto primitivo madre-bambino, mentre una "cattiva" ricerca di fusionalità sarà alla base di "un'identificazione proiettiva violenta e possessiva tendente ad annullare la separatezza, L'individuazione e la separazione" (Tagliacozzo). Secondo Pallier con certi pazienti è necessario permettere un transfert adesivo che consenta una situazione di fusione con l'analista e il costituirsi di un fantasma di "estensione del sé".
Credo che sia possibile nella pratica clinica utilizzare diversi modelli, a volte complementarmente, se un certo paradigma ci sembra più adatto a risolvere determinati problemi, mentre altri paradigmi sono più utili ad altri problemi. Ciò corrisponde alla tesi modellista di M.Hesse (1966), secondo cui le varie teorie si possono trattare come modelli integrabili, trascurando le analogie negative, utilizzando le analogie positive e soprattutto sfruttando le analogie neutre (da verificare) per L'ampliamento delle teorie stesse. D'altra parte, secondo M. Black (1962), le teorie scientifiche subiscono continui slittamenti di significato, significato che è sempre metaforico.
Fu proprio un caso di agorafobia che mi permise, nel 1980, di convalidare un modello che avevo sviluppato con C. Gragnani all'interno di un gruppo di ricerca con A.M. Muratori, E. Cargnelutti e A. Cerletti. Partendo da un modello di base strutturalistico-operazionale, condiviso da tutti i partecipanti al gruppo, io e C. Gragnani, rifacendoci alla metapsicologia freudiana, utilizzammo insieme i modelli economico, sistemico e informazionale, giungendo all'ipotesi che la relazione analitica si fondi nel continuo spazio-temporale, in cui non esistono qualità precise e quindi non esistono differenze, per interrompere tale continuo e creare una nuova dimensione, che è una struttura-funzione, che evolverà a partire dai due componenti della coppia analitica e precisamente dal loro punto-momento d'incontro. Possiamo concepire i processi di confine come eventi organizzatori, nel senso della strutturazione dei sistemi, per esempio nella primitiva organizzazione psichica non solo dell'io ma anche dell'es, con costituzione del rimosso secondario. Ciò può avvenire per la presenza di codici, che si istituiscono fin dal primo solco, in cui secondo Freud si incidono le tracce mnestiche. Queste vengono intese come il luogo in cui, attraverso lo stabilirsi di un'identità di percezione, si avrà L'incisione delle primitive esperienze, le cui successive trascrizioni nel preconscio condurranno all'organizzazione del ricordo e della memoria (Freud 1895).
Il confine è dunque sede di codici, intesi come "meccanismi che permettono la trasformazione tra due sistemi, legati ad un'ipotesi comunicativa, ma non per questo garanti del passaggio di informazione, bensì della coerenza strutturale" (Eco 1980). Tali codici, organizzatori delle rappresentazioni ideo-affettive, possono mediare non solo la comunicazione, ma anche la non-comunicazione. Mentre il sistema secondario assume quote energetiche del sistema primario, scarica in esso prodotti di rifiuto (il rimosso secondario).
Nella relazione analitica il non-comunicato è dunque ciò che fonda e determina ogni comunicazione-informazione, mentre se ne distingue, permettendo alla relazione di strutturarsi, a tutti i livelli, secondo le modalità più convenienti per i sotto-sistemi del sistema analitico.
Ritornando alla patologia agorafobica, mi sembra che, a prescindere dai modelli adottati, sia opinione diffusa in psicoanalisi che essa ha a che fare con il costituirsi delle frontiere corporee e mentali dell'io, cioè con livelli molto vicini al biologico. Diversi sono i sintomi che insorgono nell'attacco del panico, quando il paziente si trova solo, ed è allora che la tachicardia, le extrasistoli, la sudorazione, le vertigini e i più vari disturbi di tipo neurovegetativo sono espressione di un'angoscia di morte che si placa solo in presenza di un'altra persona che sia in grado di rassicurarlo. é come se L'altro permettesse di allargare il proprio spazio vitale, come uno spostamento di confine per cui le pulsioni che si affastellano e si intrecciano disordinatamente minacciando L'esplosione e la destrutturazione potessero incanalarsi secondo circuiti normali. Allora, il timore dell'infarto o dell'ictus scompare, anche se L'oggetto d'amore che rassicura è spesso inadeguato e, come dicono i pazienti stessi, nulla potrebbe fare per dare aiuto. La non-accettazione del proprio corpo è una caratteristica comune a tutti i pazienti agorafobici che ho avuto: una paziente parlava di un disagio che la segnava dalla nascita e che appariva in un sogno come il segno di un forcipe; un altro paziente diceva di sentirsi segmentato e che non aveva la percezione del proprio corpo come unità; sia quest'ultimo che un altro paziente si appropriavano con lo sguardo e con il contatto del corpo altrui idealizzato per tentare di dare forma al proprio, sentito sempre come informe e inadeguato. In tutti i miei pazienti agorafobici ho notato L'impossibilità di vivere il proprio corpo come "ben fatto", e nello stesso tempo il desiderio di esibirlo come manifestazione megalomanica del proprio sé. A ciò è spesso collegato il sentimento di vergogna, oltre che alla tendenza ad occupare spazi non propri. Aspetti megalomanici sono spesso presenti, come espressione di un ipotetico limite tendente all'infinito del proprio spazio somato-psichico, e anche aspetti perversi, come conseguenza di un intreccio pulsionale con percorsi aberranti in circuiti compressi e pertanto distorti.
In analisi i risultati mi sembrano essere inversamente proporzionali alla distanza che si stabilisce tra paziente e analista; quanto più il rapporto è tendenzialmente fusionale, tanto più e possibile raggiungere un'identità di coppia definita e rassicurante, dove i circuiti pulsionali possono essere tenuti sotto controllo e gradualmente differenziati. Negli episodi che ho citato all'inizio, i pazienti riuscirono a comunicarmi quelle sensazioni di rabbia impotente e di paralisi emotiva e motoria che erano Una riedizione dei vissuti primitivi nel rapporto con le imagines genitoriali. Nel primo caso si poté accettare una parziale identificazione con il padre, precedentemente rifiutato perché violento, ma comunque vitale; nel secondo caso si poté rifiutare L'identificazione con la madre, la cui morte fu poi percepita come liberazione. In tutti e due i casi L'io poté fare un'azione di prova utilizzando L'io dell'analista come ampliamento del proprio campo di forze. I limiti di questo furono poi determinati insieme, senza inutili restrizioni, né espansioni megalomaniche, né abusive occupazioni di spazi non propri. Tale delimitazione si compiva dall'interno, come rapporto tra le forze pulsionali e le esigenze della realtà esterna, esigenze identificate soprattutto come forze con cui era possibile trattare, accettando quelle compatibili con le proprie e rifiutando quelle incompatibili. Questo lavoro, dapprima svolto tra analista e analizzando da una parte e mondo esterno dall'altra, poté gradualmente avvenire anche tra analizzando e analista percepito come altro da sé, cioè come entità fornita di sue proprie pulsioni. Fu però necessaria la fase preliminare di fusione e poi L'azione di prova che accertasse la capacità dell'analista di reggere l'impeto delle forze pulsionali del paziente e di sopravvivere.
Secondo quanto detto sopra, nel primo caso clamorosamente, nel secondo in modo più lento e graduale si verificò il passaggio da una condizione di fusionalità, con prevalenza della comunicazione sull'informazione, ad una condizione di individuazione, con una risignificazione sia dell'esperienza infantile sia di quella analitica.
Quando L'analista è chiamato a vivere esperienze cosi profonde e primitive, come quelle relative alla fusionalità, può dire ben poco del proprio vissuto indissolubilmente legato a quello dell'altro o a ciò che l'altro rappresenta per lui. Solo nel momento della separazione può tentare di recuperare la propria identità e i propri confini, ben sapendo che comunque anche in lui sono avvenute trasformazioni. Negli episodi citati, gli eventi vissuti e ricordati nell'esperienza analitica, sembrano potersi considerare come catalizzatori del cambiamento, che si manifestò con il verificarsi di una serie di eventi, precedentemente ritenuti impossibili. La costellazione sintomatologica, quale catena di significanti a punto di partenza corporeo, che utilizzava simboli di un particolare linguaggio, sembrava mutare per un cambiamento di codice, anche se il vecchio codice si dimenticava lentamente, come una lingua che gradualmente si abbandona per praticarne un'altra, ma che seguita ad operare attraverso particolari costruzioni semantiche e sintattiche. Questo è quanto si verifica non solo nei casi di agorafobia, ma in ogni analisi riuscita e il "mestiere impossibile" dell'analista mi sembra essere quello che permetta di comprendere e di parlare linguaggi diversi, che sono espressione di una pressoché infinita potenzialità di lingue che estraiamo da noi stessi attraverso la comunicazione con l'altro.
L'A. riconduce L'agorafobia ad una compromissione molto primitiva della sensazione dell'io corporeo, con difficoltà di stabilire un confine tra sé e non-sé e di delimitare lo spazio interno in rapporto alla forza costituzionale delle pulsioni. Seguendo un modello strutturalistico e sistemico, 1'A. ipotizza che L'agorafobico tenda a spostare il proprio confine a spese del mondo esterno, sentito come infinito e incontrollabile, fagocitando i partners e appropriandosi del loro spazio. In analisi 1'A. suggerisce di offrirsi dapprima al paziente come io ausiliario e di permettere la fusione; successivamente pub avvenire la differenziazione della coppia analitica dall'ambiente esterno e infine la differenziazione del paziente dall'analista e L'acquisizione dell'autonomia da parte del paziente.
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Lucrezia Giordanelli |
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