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A. M. P.
SEMINARI 2000 - 2001
M. Musacchio

Matriarcato e patriarcato.
Fenomenologia del patriarcato



Il primo novembre 1954, in coincidenza con la festa di Ognissanti, la Chiesa cattolica proclamò ufficialmente il dogma della Assunzione di Maria. La bolla Munificentissimus Deus di papa Pio XII ascrisse tra le verità di fede l’asserto per cui la Vergine era ascesa in cielo non solo con l’anima ma anche col corpo. L’immagine si consolidò in assioma, principio immediatamente evidente e premessa a futuri sviluppi teorici.
Dalla sua residenza di Zurigo, C. G. Jung salutò l’evento con estremo interesse interrogandosi sul destino così riservato alla tradizionale relazione vigente nella cultura occidentale tra lo Spirito, il padre e la virilità da un lato, la materia, la madre e la femminilità dall’altro. Si chiese, insomma, quali nuove ideazioni potessero scaturire dal rinnovato modello di percezione approntato per il lato abissale dell’uomo corporeo, con le sue passioni animali e la sua natura istintuale. Il pronunciamento ecclesiastico situava il corpo umano, la cosa più esposta alla grossolana corruzione materiale, non solo in basso ed al di sotto, ma anche in alto ed al di sopra. L’inferiorità, ivi compresa l’inferiorità morale, si rivelava equiparabile alla superiore, celeste sfera del valore; la quale, a sua volta, era costretta ad emanciparsi dalle pretese di assolutezza. L’elevazione della materia implicava un diverso rapporto con lo Spirito, con la res cogitans, restituendo entrambe le entità a condizione sostanzialmente simmetrica, con ricadute potenzialmente eversive per la concezione, tra l’altro, del bene e del male. Il dogma schiudeva la possibilità di approdare ad una immagine unitaria del mondo perché lo Spirito maschile e la materia femminile non si situavano più in relazione gerarchica ed antagonista quali polarità rispettivamente positiva e negativa.

Cambiamenti rilevanti sono intervenuti nel mezzo secolo intercorso da quel lontano 1954. L’espansione del movimento femminista ha messo in crisi anche le certezze più consolidate in fatto di rapporto tra i sessi. Non pare, però, che la struttura di coscienza, i modi che formalizzano l’esperienza, ed i relativi sistemi di valore, si siano trasformati significativamente. Le donne possono vantare indiscutibili successi nella lotta alla subalternità ed alla discriminazione. Ma il tema che ci occupa ha poco da spartire coi diritti delle donne, con la pari dignità, con l’aborto e la pillola in senso stretto. Investe, piuttosto, una serie di fatti come l’imperfezione, l’incompletezza, la passività, e la nozione di corpo fisico. Investe, in breve, tutte le qualità tradizionalmente riassunte nel concetto di femminilità ma che, a stretto rigore, attengono alla specie umana in generale, a prescindere dal genere sessuale degli individui. In assenza di una trasformazione adeguatamente radicale della forma mentis persiste l’egemonia di valori solitamente condensati nel termine virilità. La cosiddetta liberazione della donna ha comportato, in effetti, il suo mascolinizzarsi. Gli individui di sesso femminile potranno anche ascendere ai vertici sociali ed istituzionali, ma la femminilità in quanto tale, la femminilità archetipica, continuerà a soffrire pregiudizi di segno negativo, nella misura in cui l’attuale modo di pensare resterà integro, pur tra le inevitabili metamorfosi più o meno accidentali. Vale, perciò, la pena di esaminare da vicino la fenomenologia del patriarcato, l’insieme di ideazioni, sentimenti ed emozioni correlate al mito della superiorità maschile, così da ritagliare, per opposizione, alternative che siano veramente autentiche.

L’indagine è obbligata a principiare dal mito di Adamo ed Eva in quanto asse portante del nostro assetto culturale. I significati del racconto biblico possono agevolmente sintetizzarsi nella formula: prima Adamo e poi Eva. Il testo annuncia che il maschio fu creato ad immagine e somiglianza di Dio, mentre tace sul modello adottato per la femmina. La qual cosa già implica, per costei, una divinità subordinata, per così dire di seconda mano. Adamo precede, inoltre, nel tempo per essere stato creato prima. Egli è anche superiore in coscienza perché Eva è stata tratta dal suo sonno profondo. La donna personifica, dunque, l’incoscienza dell’uomo la quale, a sua volta, costella una condizione degradata. Non a caso Jacob Boehme, mistico tedesco vissuto a cavallo dei secoli XVI e XVII, postulava per l’Adamo originario uno stato di veglia perenne. Idee analoghe continuano a serpeggiare anche oggi. Hans Blumenberg, filosofo di fama e professore emerito presso l’università di Münster, scrive che l’uomo originario, il quadrumane ancora appollaiato sui rami, ed ancora poco differenziato dai primati nella scala evolutiva, non si abbandonava mai al sonno. Solo più tardi, divenuto bipede, e trasferitosi nelle grotte, poté concedersi di dormire esponendosi all’esperienza onirica.
Ad allora, però, risale la formazione dell’inconscio, un evento che, secondo la lezione di Freud, coincide con la psicopatogenesi la cui natura femminile viene testimoniata dalla storia dell’isteria. Veglia, salute, virilità e, potremmo aggiungere, purezza connotano la condizione originaria e preistorica; per dirla in linguaggio biblico, connotano la condizione antecedente alla caduta di cui la femmina sarebbe responsabile, e da cui la storia prende inizio. In età moderna l’immagine è stata ripristinata da Rousseau che l’ ha riportata a grande auge in versione secolarizzata.
Tornando ad Adamo ed Eva notiamo, infine, che la donna risulta preformata nell’uomo come la parte rispetto al tutto.
Bisogna, quindi, convenire che l’essenza, l’esistenza e la sostanza materiale di Eva dipendono da Adamo. Egli ne è la causa formale in quanto Eva è preformata in lui; ne è la causa materiale perché lei è stata tratta dalla sua costola, e ne è, oltre tutto, la causa finale perché ella è stata creata al preciso scopo di servirlo. Il maschio assurge, insomma, a precondizione della femmina, ed a fondamento della sua possibilità.
Nel corso del tempo queste ideazioni hanno finito per investire in primo luogo la sessualità ed i suoi organi. Già nel XVI secolo Sforno teorizzava l’assoluta uguaglianza di uomini e donne, eccezion fatta per gli organi sessuali. Il medesimo concetto è stato riproposto in pieno ‘900 dal filosofo russo Berdiaev, il quale ha esordito con l’adesione al marxismo, ed è in seguito approdato ad un cristianesimo venato da sfumature mistiche e gnostiche. Egli ha teorizzato una più stretta coincidenza tra sessualità e femminilità. L’uomo – dice Berdiaev – è meno esposto della donna alle seduzioni della carne. Replica, insomma, la inossidabile equazione tra sessualità, fisicità, materia, femminile, oscurità e male ben nota in Occidente, fin dall’antichità, per essere stata accuratamente approfondita dalla religione manichea.
La sessualità e la fisicità, elette a rappresentanti emblematiche del femminile, sono state investite da proiezioni antifemminili che non hanno risparmiato gli uomini di scienza. Essi hanno, anzi, elaborato le argomentazioni più sofisticate a conferma del mito biblico di cui sono stati epigoni e vittime allo stesso tempo. La connessione tra religione ebraico cristiana e scienza non è arbitraria come potrebbe sembrare. A scopo esplicativo, leggeremo in trasparenza le teorie di alcuni eminenti scienziati vissuti tra il XVII ed il XVIII secolo: Delapatius, Hartsaeker, Garden, Bourget e Leeuwenhoek. Il loro spessore è emblematicamente certificato da quest’ultimo che scoprì, tra l’altro, gli elementi figurati del sangue, la striatura dei muscoli, e la generazione agamica degli asfidi. Tutti costoro, indistintamente, rilevarono minuscole forme di uomini forniti di braccia, gambe e teste negli spermatozoi osservati al microscopio. Trovarono, cioè, la conferma sperimentale della creatività come attributo esclusivamente maschile. A sua volta William Harvey, lo scopritore della circolazione sanguigna, decretò l’impossibilità anatomica di penetrare nell’uovo da parte dello sperma. Esso non era perciò necessario al concepimento. La conclusione scaturì da sezionamenti mirati delle daine allevate nelle tenute reali inglesi. Per contro George Louis Buffon constatò presenza di sperma anche nel liquor folliculi delle ovaie. Il seme maschile veniva, quindi, prodotto anche dalle femmine. Buffon fu naturalista insigne, fondatore del Museo di storia naturale a Parigi, appassionato osservatore della natura, e traduttore di Newton in francese. L’attenzione esclusiva ai dati della osservazione, ed il ripudio dei pregiudizi religiosi gli valsero addirittura l’ostilità degli ambienti accademici contemporanei. L’incondizionata adesione al metodo sperimentale non lo preservò, tuttavia, dalla clamorosa svista.
Altri autori, tra cui il nostro Marcello Malpigli, videro nelle uova un abbozzo di cuore, fegato e cervello accendendo accanite discussioni circa l’organo cui assegnare la priorità. Evidente la trasposizione della fantasia trinitaria, cristiana o platonica che fosse.
Il padre dell’embriologia intesa come scienza esatta, Leonardo da Vinci, dopo avere effettivamente sezionato cadaveri umani, acclarò la presenza di due passaggi uretrali, uno per lo sperma, l’altro per il pneuma o aura seminalis. Le sue osservazioni furono minuziosamente trasferite nei disegni realizzati per illustrare la scoperta. Leonardo rimase chiaramente soggiogato dalla fantasia aristotelica secondo cui l’erezione è dovuta all’elemento aereo della immaginatio. Tale convinzione aveva a suo tempo indotto anche Galeno a postulare la presenza di aria nei corpora cavernosa.
Bisognerà attendere il 1827 perché Von Baer scopra l’uovo femminile. Neppure lui, comunque, riuscì ad ipotizzare l’unione di uovo e sperma quale prerequisito del concepimento. Malgrado la potenza intellettuale, spesso paragonata a quella di Darwin, e malgrado sia inventore del termine stesso di spermatozoo, egli ascrisse questo organismo alla categoria del chaos ritenendolo un semplice parassita variforme. Venne in ciò a concordare con Linneo il quale definì gli spermatozoi col termine di animalculae.
La scoperta definitiva che nel concepimento lo sperma penetra l’uovo è appena del 1875, mentre il rapporto ciclico tra ovulazione e mestruazione fu riconosciuto solo agli inizi del XX secolo.

In buona sostanza, la ricerca scientifica, nel corso della sua storia plurisecolare, e comunque attraverso il suo linguaggio rigorosamente neutro, ha generalmente veicolato i medesimi temi già presenti nel mito biblico, e riassunti nella espressione: prima Adamo e poi Eva. Talora i ricercatori hanno anche assegnato la priorità alla femmina, come nel caso di Harvey e di Von Baer. Tuttavia non sono mai riusciti ad ipotizzare la simmetrica coessenzialità del maschio e della femmina ai fini della procreazione. Menti di assoluta eccellenza intellettuale, pur potendo giovarsi di strumenti tecnologicamente idonei a garantire correttezza di osservazione, sono incorse in grossolani errori, in autentiche sviste, quando non in vere e proprie allucinazioni. Il fatto documenta il ruolo assolto dai paradigmi a priori, dalle fantasie che l’osservatore alimenta, non solo sulla scelta del campo di indagine, ma anche sui contenuti che i sensi identificano, e su cui l’attenzione si sofferma. Il romanzo In nome della rosa, di Umberto Eco, offre un esempio perspicuo della ambiguità gnoseologica assoggettando a lettura religiosa dati che la cultura successiva, senza offendere la loro qualità, avrebbe senza dubbio interpretato in chiave scientifica. L’opinabilità dell’opzione scientista era già nota a Galeno il quale precisò che

lo studio della funzione delle varie parti del corpo non è utile solo per il medico. Un interesse molto maggiore esso riveste per il filosofo che si sforza di pervenire a una comprensione di tutta la natura.

Tale consapevolezza si eclissò col consolidarsi dell’egemonia culturale cristiana secondo cui la conoscenza scaturisce da un atto unilaterale della Verità; in altri termini di Dio stesso che decide autonomamente di rivelarsi. Cadde nell’oblio l’incidenza dello sforzo umano e dei suoi limiti intrinseci, apportando una radicale disattenzione verso la soggettività quale componente ineliminabile del percorso euristico. Solide perplessità insistono, dunque, sulla nozione di progresso scientifico concepito in termini di lineare espansione evolutiva. L’argomento di Galeno è stato risuscitato solo di recente, a distanza di 1700 anni, da Ludwig Edelstein, nel volume The History of Anatomy in Antiquity. Il libro dimostra che la teoria del corpo umano è sempre parte della filosofia, e che la ricerca non è solo fisiologica ma anche filosofica. Gli enunciati si coniugano sempre con specifiche immagini del mondo; le quali, d’altronde, sono determinate e strutturate dalla fantasia che orienta l’attenzione verso i contenuti da osservare. Se è ovvio che l’osservazione produca convinzioni, è pur vero che le convinzioni determinano l’osservazione. Vedere equivale a credere, ma credere equivale a vedere. Il fenomeno è noto da tempo, anche in ambienti non sospetti di indulgenze metafisiche, e sicuramente animati da intransigente spirito scientifico; per esempio tra i cosmologi. Costoro sanno che le teorie eliocentriche e le scoperte di Keplero non scaturirono da osservazioni e misurazioni via via più accurate, bensì da convinzioni filosofiche e religiose connesse al neopaganesimo rinascimentale che identificava il sole quale signore e centro del creato.
Non è agevole percepire l’intreccio di dati osservati e fantasie a priori che concorrono al formarsi delle nostre certezze; specialmente se il ripensamento critico è unilateralmente focalizzato sul presente. La fantasia agisce per vie subliminali rendendo arduo il proprio riconoscimento. La capacità discriminante matura attraverso lo studio della storia. Gli errori degli scienziati, soprattutto se inspiegabili in rapporto alle condizioni intellettuali, ed allo stato della tecnologia, chiamano in causa le seduzioni esercitate dalle immagini fantastiche, ed addestrano a dubitare delle certezze odierne in misura direttamente proporzionale alla loro solidità. Sono, pertanto, giustificati, sotto tale profilo, i precedenti cenni alla storia della scienza accanto alla rievocazione del mito di Adamo ed Eva. L’embriologia, infatti, in quanto logos degli inizi, riecheggia in misura esponenziale i mitologemi della creazione.

Il mito biblico non è l’unico ad attraversare e sorreggere la tradizione occidentale, e forse non è neppure il più importante. Meno noti, ma sicuramente più fertili di esiti, sono i mitologemi di Apollo così come sono stati tramandati da Eschilo nelle Eumenidi. Il drammaturgo mette in scena Oreste che ha ucciso sua madre Clitennestra per vendicare il padre Agamennone, a sua volta assassinato dalla moglie. Il protagonista, perseguitato dalle Furie, numi tutelari del diritto materno, è rinviato a giudizio davanti all’ Areopago, tribunale ateniese competente sui delitti di sangue. Nel dibattimento Apollo ed Atena operano da avvocati difensori, ed Apollo pronuncia una arringa che suona a prima vista incomprensibile se non demenziale:

Non è la madre la generatrice di colui che si dice da lei generato, di suo figlio, bensì è la nutrice del feto in lei seminato. Generatore è chi getta il seme……Padre uno può essere anche senza madre.

Nelle affermazioni del Dio la filologia classica ha intravisto riferimenti alla transizione dal matriarcato al patriarcato, situando l’antropologia e la sociologia a fondamento della fantasia. Avverso tale opinione si possono invocare i risultati della stessa ricerca antropologica la quale ha appurato che le società matriarcali oggi superstiti non sostengono univocamente la prevalenza del seme femminile nella procreazione. Nel volume A Comparative Study of Human Reproduction, S.C. Ford ha analizzato otto società le quali non danno importanza alle secrezioni sessuali femminili. Di queste sei si organizzano per assetti patrilineari, ma due restano senz’altro matrilineari. Altre società, le quali attribuiscono pari importanza alle secrezioni sia maschili che femminili, sono alternativamente patrilineari, matrilineari o miste, ovvero patrilineari nella regolamentazione dei gruppi, e matrilineari nella regolamentazione matrimoniale. Notiamo, inoltre, che la teoria ovista, la quale assegna funzioni procreative solo alla femmina, è stata tranquillamente messa a punto presso le società patriarcali occidentali. In buona sostanza la teoria del seme femminile non è conseguenza, né logica né necessaria, di uno specifico modello di organizzazione sociale. La fantasia è irriducibile alle spiegazioni causali. Essa trova in se stessa la propria ragion d’essere, e si lascia penetrare esclusivamente da accostamenti fenomenologici. L’impostazione vuole che l’esegesi del discorso apollineo maturi dai contenuti del medesimo, dalle sue premesse, e dalle implicazioni correlate, non da elementi estranei identificati causanti.
Osserviamo, pertanto, che il testo da cui siamo partiti implica, quanto meno, l’interrogativo se la donna possegga il seme. Nel Medioevo la stessa domanda trasmutò nella formula habet mulier animam? che ossessionò a lungo i dottori della Chiesa.
I presupposti dell’eloquio riposano, invece, nella stessa personalità dell’oratore quale ci viene chiarificata proprio dalla tradizione mitica. Apollo esercita la sua sovranità sulla distanza. Egli colpisce da lontano sicché l’arco rappresenta l’arma che gli è più tipicamente propria. La distanza dà fondamento alla oggettività che qualifica lo specifico stile di pensiero anche perché il Dio ama la chiarezza e la distinzione. Ogni concetto è chiamato a stagliarsi nitido nella identità con se stesso e nella sicura differenziazione da ogni altro. Tra significante e significato deve instaurarsi un rapporto certo, univoco e predefinito. Nessuno spazio viene riservato alla ambiguità, sicché il linguaggio smarrisce qualsiasi valenza simbolica da cui Apollo rifugge in ragione della intrinseca polisemia. Edipo che scioglie l’enigma, spazzando via l’ambiguità, personifica l’eroe apollineo per eccellenza. Chiarezza e distinzione costellano i prerequisiti indispensabili alla oggettività, ed accanto ad essa sorreggono l’edificio intellettuale della moderna cultura scientifica restaurata e rinvigorita da Cartesio dopo la crisi rinascimentale.
La scienza trae, dunque, alimento dallo stile di coscienza apollineo, e più in particolare lo trae la medicina così come la conosciamo, e come il mito stesso sottolinea adeguatamente. Apollo, infatti, è padre di Esculapio protettore ed archetipo dell’operare medico.
D’altro canto il Dio si qualifica anche per una radicale difficoltà col femminile. I mitologemi che lo riguardano riferiscono di esiti sistematicamente catastrofici per i suoi tentativi di congiunzione. In coincidenza delle avance apollinee il femminile regredisce ad un livello meramente vegetativo, come accade a Dafne che si trasforma in alloro.
Fuor di metafora, e traducendo in termini logico discorsivi, si evince che la struttura psichica, la quale presiede alle coordinate del pensiero scientifico, secerne anche, nei riguardi del femminile, ostilità fisiologica, accompagnata da pretese di superiorità. Tra scienza e donna si apre un abisso non meno effettivo perché inconscio. La cultura occidentale non può non impregnarsi di pregiudizi antifemminili nella misura in cui si sforza di costruirsi scientifica. Da qui la conclusione che il mito apollineo, molto più del mito biblico, incida sugli assetti antropologici della nostra civiltà. Nella Bibbia, ancorché latenti e sullo sfondo, si intravedono suggestioni diverse. Prima della creazione di Eva, l’essere umano sintetizzava in sé entrambi i principi, il maschile ed il femminile, con evidenti implicazioni androgine che rinviano ad una diversa costellazione psichica, preludio ad una diversa struttura di coscienza. Invece la modalità apollinea risulta coerentemente impegnata a denigrare il femminile relegandolo in stato di inferiorità con argomentazioni omogenee alla propria essenza, ovvero di carattere oggettivo, anatomico, fisiologico, in una parola scientifiche. L’embriologia, proprio perché scientifica, anche quando ha ammesso l’esistenza del seme femminile, e perfino quando, più raramente, ne ha decretata l’indispensabilità ai fini della riproduzione, lo ha comunque valutato inferiore.

La relativa tradizione risale ai primordi stessi della storia europea improntando la riflessione dei più eminenti studiosi e ricercatori, a partire da Aristotele. Il filosofo dedicò cure scrupolose precisamente alla embriologia la quale abbraccia il 37% della sua investigazione in campo biologico. L’argomento principe dei suoi scritti è che la femmina non concorre alla procreazione col proprio seme, bensì con la materia dei catameni. La convinzione scaturisce sia dal dato empirico della cessazione del mestruo durante la gravidanza, sia da considerazioni di ordine metafisico. Così egli argomenta con procedimento tipico:

E’ necessario che vi sia ciò che è preposto alla generazione, e ciò da cui esso genera. E che questi due, anche se si trovino ad essere una cosa sola, siano tuttavia diversi nella forma in quanto diversa è la loro essenza. Perciò, se vi è il maschio come agente trasformatore, e la femmina come paziente, la femmina non potrà aggiungere liquido seminale al liquido seminale del maschio, bensì materia. La natura del mestruo è, infatti, conforme alla prima materia.

Il brano instaura una evidente coincidenza tra femminile e materia, e riduce a finzione il parallelismo di funzioni tra maschio e femmina. Non solo perché il sangue mestruale, contributo della femmina, è universalmente considerato una scarto, un fattore contaminante o un tabù; ma anche in ragione della natura ravvisata del seme maschile. Lo sperma non sarebbe altro, se non sangue raffinato, divenuto cioè bianco per un processo di digestione o pepsi, altrimenti definito cozione. Il sangue della femmina non ha attraversato il medesimo processo perché -dice Aristotele- esso è più freddo, e manca del calore innato necessario alla cozione, talché risulta fisiologicamente inferiore. L’idea gli fu suggerita da Diogene di Apollonia uno dei naturalisti presocratici che nel suo cosmo assegnava un ruolo preponderante all’aria riconoscendola, tra l’altro, quale agente trasformatore del sangue nella sostanza più rarefatta, più leggera, più bianca, e più nobile dello sperma. A questo riguardo merita appena di accennare alla ininterrotta assunzione dell’aria quale metafora dell’elemento spirituale pneumatico di cui sono noti gli attributi virili.
L’assunto aristotelico trovò vasta udienza presso i padri della chiesa i quali, continuando a motivarsi con argomentazioni fisiologiche, convennero che le passioni animali e la natura istintuale dell’essere umano sono retaggio delle sue ascendenze femminili. Si possono consultare a riprova l’Ad Theodorum di S. Giovanni Crisostomo, il De cultu foeminarum ed il De virginibus velandis di Tertulliano, le due epistole De virginitate di Clemente Romano, ed il Contra Helvidium di S. Girolamo, nonché le sue epistole n° 22, 52, 54 e 107.

Tale conglomerato concettuale sopravvisse al crollo del mondo antico arricchendo l’eredità del Medioevo. S. Tommaso ripete quasi pedissequamente che la femmina nihil facit ad generationem, perché semen mulieris non est de necessitate conceptionis. La donna si configura ignobilior et vilior in quanto incapace di generare un essere umano, immediata implicazione della sua incapacità di trasformare il sangue in sperma. Ella offre all’embrione solo il contenitore e l’alimento, sicché l’idea della inferiorità femminile assume, qui, una coloritura funzionale. La stessa eventuale sterilità della coppia va imputata esclusivamente alla femmina perché -dice S. Tommaso- si ha impotentia generandi solo quando il sangue mestruale non può essere ceduto a nutrimento dell’embrione.
Il quadro non mutò nel Rinascimento. Nel 1503 fu pubblicato Il capolavoro di Aristotele, volume coevo, nonostante il titolo, e privo di legami con la tradizione del pensiero peripatetico. Il suo valore, sicuramente modesto, illumina sul comune sentire collettivo di quel periodo, come dimostrato dalla fortuna editoriale che approdò, in pochi anni, a ben 17 edizioni. Il testo, strutturato per domande e risposte, alla maniera del catechismo, così replica al quesito sul perché il seme dell’uomo sia bianco e quello della donna rosso:

Negli uomini è bianco in ragione del maggior calore e della più celere digestione, giacché viene rarefatto nei testicoli. Il seme della donna è rosso perché i suoi periodi corrompono il sangue non assimilato che dà al seme il suo colore.

L’attenzione si concentra sulla polarità cromatica del bianco e del rosso. Il bianco, equiparato al maschile, si trova ad uno stadio più avanzato e maturo perché più asciutto e coagulato in ragione del maggior calore, e della più celere digestione esitanti dalla rarefazione del sangue nei testicoli.
L’immagine insiste anche presso aree di tradizione culturale diversa. Nel mondo ebraico, ad esempio, le ossa, i tendini e le unghie del neonato provengono dal padre che semina bianco. La pelle e le parti colorate rappresentano il legato della madre che semina rosso. Dal che si evince che questa specifica fantasia germoglia da profondità molto remote, più tipiche della specie in sé, che non di una peculiare determinazione antropologica.

Significati identici accoglie anche la diade sfera – ovoide. Gli studiosi di embriologia, dall’antico Egitto alla moderna biologia scientifica, si sono costantemente affaticati sulla osservazione dell’uovo e dell’embrione dei pulcini. L’uovo, tuttavia, non costituisce solo un insostituibile materiale empirico; esso si offre anche come simbolo di portata straordinaria sicché scatena proiezioni di vario genere. Aristotele, per esempio, preferiva le uova di forma oblunga ritenendole più perfezionate in quanto più vicine all’essenza stessa dell’uovo, all’ovità in quanto tale. Da queste, a suo parere, nascevano i pulcini maschi. Convinzioni analoghe espresse più tardi anche il poeta Orazio il quale, nella satira II, vv. 4 – 12, esaltò le uova più buone che sono quelle dolci e bianche, di forma oblunga e qualità maschile.
Alberto Magno rovesciò il giudizio. Egli assumeva quale forma perfetta la sfera; pertanto dovevano ritenersi più perfette le uova tonde da cui questa volta originavano i pulcini maschi. Anche Leonardo da Vinci assegnò la palma alle uova sferiche che, a suo parere, sarebbero più perfette e genererebbero ovviamente maschi. L’ininfluenza della forma sul genere sessuale del feto fu accertata solo nel XVIII secolo.
In sintesi la generazione maschile è stata sempre attribuita alla forma considerata superiore. La coscienza apollinea predilige la perfezione e la scopre nella forma. Se la perfezione è maschile, alla nascita del maschio non può presiedere altra forma se non quella riconosciuta perfetta.

Una ulteriore polarità di opposti, che pure ha molto influito nel dare corpo alla fantasia, risiede nella diade destra – sinistra, e nella sinonimia instaurata tra destra, maschile e superiore da un lato, sinistra, femminile ed inferiore dall’ altro. L’asserto risale addirittura ai primordi della civiltà greca. Galeno lo attribuisce a Parmenide. Aristotele pare l’avesse assimilato da Anassagora, non senza averlo verificato anche sperimentalmente osservando la predominanza della destra presso le chele dei granchi. In ogni caso lievitò a luogo comune di dimensioni diacroniche e transculturali. Artemidoro di Daldi, il celebre autore dell’ Interpretazione dei sogni del II secolo dopo Cristo, scrive che le immagini oniriche della mano e dell’occhio destri alludono a parenti maschi, mentre la mano e l’occhio sinistri a parenti femmine. La medicina indiana tenne per scontato che la gestazione dei maschi avesse luogo nell’area destra dell’utero; al contrario accadeva per le femmine. Le medesime certezze hanno regnato anche in Occidente, praticamente fino ai giorni nostri. Nel ‘700 i nobili francesi che desideravano assicurarsi una discendenza maschile erano soliti legare, e talora recidere, il testicolo sinistro. La convinzione non fu mai scalfita dalle immancabili smentite dei fatti. Ancora nel 1895, il noto scienziato E. Seligson sosteneva che le gravidanze tubariche evidenziavano embrioni maschi nella tromba destra, ed embrioni femmina nella sinistra. L’opinione era convalidata da osservazioni ed esperimenti effettuati sui conigli della cui prole egli si diceva in grado di determinare il sesso mediante pratiche chirurgiche coerentemente demolitorie. Gli ultimi esperimenti che suonarono confermativi dell’assunto risalgono al 1913. La qual cosa di nuovo documenta quanto possa riuscire ingannevole l’osservazione, anche l’osservazione scientifica, non solo e non tanto per la nota inaffidabilità dei sensi, quanto perché rimuove l’ineliminabile fattore fantasmatico soggettivo che plasma le osservazioni.
Nella nostra tradizione, peraltro, il lato sinistro evoca suggestioni di segno negativo. Sinistro equivale a infausto, maligno, infernale. L’aggettivo declina valenze etiche. Un individuo è qualificato sinistro se omologato a criminale o malvagio, e qualora susciti terrore o repulsione. Il mito della inferiorità femminile ha così finito per assemblare motivi morali con contenuti di natura fisiologica viaggiando attraverso il tempo senza soluzioni di continuità. Già la scuola ippocratica insegnava che il feto maschile si presentava completo in 30 giorni; per la femmina ne occorrevano 42. Il grande naturalista latino, Plinio il Vecchio, spostò i termini rispettivamente a 40 e 90 giorni. Sostenne, inoltre, che la madre percepisce maggior pesantezza nelle gambe se incinta di una bambina. Miglior colorito e vivacità più intensa importano, di contro, una gravidanza maschile a causa del più elevato calore intrinseco che, in armonia col pensiero aristotelico, connoterebbe il maschio. Le proposizioni non sono ascrivibili esclusivamente ad uno scientismo arcaico afflitto da metodi di indagine insufficientemente raffinati. Nel 1859 la Società di ostetricia di Ostenda ribadì che il polso più accelerato, indice di calore più elevato, allude ad una gravidanza maschile. Nel 1870 una ricerca rigorosamente empirica, condotta dal medesimo istituto su 15 gestanti, si concluse col singolare risultato per cui allegria, gioia e freschezza della madre attestavano una gravidanza maschile, mentre il pallore e la depressione ne testimoniavano una femminile; evidentemente perché la femmina era concepita da una sostanza inferiore. Per lungo tempo il pregiudizio dispiegò effetti rilevanti anche in sede giuridica. Il diritto canonico, per esempio, stabiliva che l’infusione d’anima nel feto aveva luogo a 40 giorni dal concepimento per i maschi, ad 80 per le femmine. Il rispettivo arco temporale fu unificato in età relativamente tarda.

Talora, la fantasia apollinea, padre uno può essere anche senza madre, ha dato luogo anche ad ideazioni diverse, meno radicali nella forma, ma altrettanto violentemente misogine nella sostanza. In età antica, per esempio, Galeno si discostò da Aristotele appunto patrocinando la realtà del seme femminile. In altri termini egli riconosceva la creatività delle donne. La cognizione del dato risale, dunque, a tempi molto antichi, avvalorata dal consenso dei circoli scientifici più accreditati. L’amnesia delle età posteriori non discende da lacunosità di conoscenze, bensì dal trionfo di fantasie diverse che hanno trasfigurato il preconcetto della sterilità femminile in evidenze immediate, indiscutibili, ed avvalorate dalle prove empiriche.
Malgrado le apparenze, però, la vena misogina non risparmiava neppure Galeno. Egli, dopo essersi dichiarato per l’esistenza del seme femminile, aggiunge che quest’ultimo è più inconsistente, più freddo, più viscoso, più debole, quantitativamente minore e di tono inferiore. La conclusione diventa inevitabile a causa della comparazione anatomica adottata quale criterio di ricerca. Gli organi sessuali maschili e femminili sono identici, e concorrono in eguale misura alla procreazione. Si distinguono solo perché gli uni sono orientati all’esterno, gli altri all’interno. La vagina sarebbe, insomma, un pene introflesso. Dal momento che l’estroversione costella uno stadio più avanzato, il maschio incarna una condizione più perfezionata essendo in atto; la femmina resta irretita ad uno stadio semplicemente potenziale. Innalzato il maschio a modello, la diversità femminile non può che colorarsi di inferiorità nella misura in cui diverge dalla tipologia riconosciuta ideale. Sotto tale profilo Galeno sembrerebbe echeggiare la fantasia biblica del prima Adamo e poi Eva. Il maschio rappresenta, infatti, il prototipo; la femmina l’analogo. Dal canto loro le ovaie scadono a testicoli inferiori. Se la femmina rimane sempre in nuce è perché, a parere di Galeno, difetta del calore necessario alla maturazione. Egli restaura, quindi, la posizione aristotelica a cui pretendeva di opporsi.
A distanza di 16 secoli rintracciamo il medesimo impianto concettuale nell’opera di Freud. Gli antecedenti culturali immediati da cui egli attinge sono Fliess e Charcot. Fliess, che gli fu amico intimo, ed assiduo corrispondente nella fase pionieristica della psicoanalisi, era ossessionato dalla polarità destra – sinistra, tanto da edificare su queste due uniche categorie il proprio sistema di pensiero. Egli identificava il lato sinistro col lato controsessuale segnato da valutazioni morali negative:

Poiché la degenerazione consiste in equilibri alterati tra maschile e femminile possiamo comprendere perché tante persone mancine si danno alla prostituzione o ad attività criminali.

Essendo avvertiti che nella nostra tradizione mancino e femminile si equivalgono, comprendiamo come l’elaborazione di Fliess si risolva nella surrettizia denigrazione della donna.
Da Charcot Freud apprese l’equiparazione di isterico, malato e femmina. Era, dunque, al corrente della inferiorità femminile ancora prima di avviare la ricerca clinica i cui risultati confermarono puntualmente l’ a priori fantasmatico soggettivo. La monumentale biografia di Jones riassume molto efficacemente l’essenza delle sue ideazioni:

Nei Tre saggi sulla teoria sessuale egli ribadisce, come in tutti i suoi scritti, l’importanza dell’impulso maschile. Sostiene che la libido della bambina ha un carattere più maschile che femminile, poiché l’attività autoerotica delle bambine interessa soprattutto il clitoride. Avanza anche l’oscura ipotesi che la libido, essendo come tutti gli altri impulsi di natura attiva, sia tutta di natura maschile.

Se la forza vitale è esclusivamente maschile, poiché maschile coincide con attivo, ne discende che la donna sia un esito maldestro della natura, una sorta di devianza patologica, quanto meno una entità solo parzialmente sviluppata. L’invidia del pene germoglia da una lacuna fondamentale ed incolmabile, dalla forza vitale carente, connessa alla innata inferiorità strutturale. E’ il maschio che personifica il tipo ideale di umanità. I medesimi concetti furono variamente replicati col succedersi degli anni. Nel saggio sulla Dissoluzione del complesso edipico, che è del 1924, Freud scrisse che

la distinzione morfologica non può che riflettersi in disparità dello sviluppo psichico. L’anatomia è destino,

ribadendo tale convinzione nel 1925, nel saggio Alcune conseguenze della differenziazione anatomica fra i sessi. La sanzione definitiva data addirittura al 1940 quando uscì, postumo, il Compendio di psicoanalisi nel quale si soffermò ancora più diffusamente sul tema.

La bambina non può, come ovvio, temere di perdere il pene. Essa, tuttavia, è costretta a reagire al fatto di non averne ricevuto uno. Fin dall’inizio essa invidia ai ragazzi il possesso del pene. Si può dire che tutto il suo sviluppo psichico sia condizionato dall’invidia del pene. Essa si sforza di compensare questo suo difetto, e tali sforzi possono alla fine condurre ad un normale atteggiamento femminile. Se durante la fase fallica tenta di ricavare piacere, come un ragazzo, dalla stimolazione manuale dei propri genitali, spesso accade che non riesca a ricavare una sufficiente gratificazione, e ciò la porta ad estendere il suo giudizio di inferiorità dal suo pene atrofico al suo intero sé.

L’ottica della comparazione anatomica, e l’assunzione del membro quale prototipo sorreggono, dunque, l’elaborazione freudiana sulla medesima falsariga suggerita da Galeno. L’inferiorità della femmina diventa, così, incontrovertibile ed irreversibile.

Non risulta, tuttavia, che Galeno abbia mai sezionato cadaveri umani, mentre per Freud è assolutamente certo che non ha mai analizzato una bambina. In verità non ha mai analizzato neppure bambini maschi. Tutta la sua esperienza in materia era circoscritta ad un unico incontro col piccolo Hans sul quale aveva notizie esclusivamente indirette, filtrate dai resoconti del genitore. Nella fattispecie il procedimento scientifico viene inficiato dall’assenza dell’osservazione empirica che costituisce uno dei suoi snodi cruciali. Forse per questo Freud nutrì insuperabili perplessità circa la praticabilità dell’analisi infantile contraddicendo i presupposti essenziali della sua opera, e suscitando la meraviglia degli allievi come ci riferisce, ancora una volta, la biografia di Jones. Dal nostro punto di vista le sue perplessità ratificano una ulteriore, eccellente prova della sua genialità poiché sicuramente scaturivano dall’intuizione delle proiezioni inconsce condizionanti del suo modo di pensare. Oggi abbiamo definitivamente acclarato che le fantasie sulla psicologia infantile femminile altro non erano, se non fantasie freudiane situate nella mente delle bambine, e poi recuperate in veste di dati clinici. La circostanza sferza gli psicologi, ma non solo essi, a rispettare minuziose cautele metodologiche quando pervengono ad asserzioni teoretiche partendo dalla osservazione dei bambini, dei primitivi, degli animali, del passato archeologico e, vorremmo aggiungere, dei pazienti. Se del caso bisogna discriminare con cura gli apporti soggettivi poiché la nebulosità del materiale esaspera il rischio di proiezioni. Molto facilmente accade che venga attribuito all’oggetto osservato ciò che in effetti appartiene al soggetto osservatore. Questo rischio, che oggi viene pericolosamente trascurato, è stato storicamente ben ponderato da autori come S. Tommaso e Spinoza i quali hanno combattuto la tentazione di ricavare conclusioni sugli esseri umani a partire dal sezionamento di animali.
Le fantasie deformanti sono assorbite anche dalla matrice culturale. Le teorie di Freud furono in particolare influenzate da motivi e pregiudizi ereditati dalla psichiatria ottocentesca su cui vale la pena di soffermarsi.
J.F.Mechel (1781-1833), capostipite di una vera e propria dinastia di scienziati illustri, e di noti specialisti della malattia mentale, riteneva che

la donna, se raffrontata all’uomo, è un organismo umano sessualmente indifferenziato.

Bisogna, dunque, riconoscergli la paternità moderna del metodo fondato sulla comparazione anatomica. Un altro Mechel, Albrecht (1790 – 1829), scrisse nel 1819 un saggio intitolato L’analogia dei genitali con gli intestini abbozzando la miscela di genitalità ed analità che fornirà alla psicanalisi uno dei suoi pilastri portanti. Ma più che di ogni altro autore, su Freud incise la lezione di Paul Julius Möbius i cui studi conosceva ed apprezzava. Nato a Lipsia nel 1853, Möbius segnò la storia della psichiatria per avere distinto tra classi endogene e classi esogene della malattia mentale. L’opera per noi più interessante è Geschlecht und Kopfgrösse (Sesso e dimensioni del cranio) pubblicata nel 1903. Tra il 1903 ed il 1905 il libro uscì in sette edizioni incontrando un favore strepitoso di pubblico, proprio mentre L’interpretazione dei sogni di Freud si rivelava un gigantesco flop editoriale. Nelle sue opere Möbius indicava la donna col termine weib. Per l’uomo si serviva del sostantivo herr benché la parola semanticamente simmetrica a weib fosse mann. La sfasatura non è casuale poiché weib allude ad aspetti materiali, animali ed istintuali giudicati tipici dell’essenza femminile. In Sesso e dimensioni del cranio precisò senza equivoci il suo punto di vista:

Un uomo normale, anche se di piccola taglia, ha bisogno di una circonferenza cranica di 53 cm. Per i compiti di vita di una donna, un cranio di 51 cm. è sufficiente. Ma per i compiti della vita di un uomo non è sufficiente. Con 51 cm. si può essere una donna intelligente, ma non un uomo intelligente.

A pagina 14 del volume afferma ancora che la donna è una cosa intermedia tra il bambino e l’uomo, per molti aspetti anche mentalmente. A pagina 24 sintetizza che la debolezza mentale della donna è una necessità fisiologica ed un postulato.
Möbius parlava da scienziato ed esibiva prove rigorosamente scientifiche della inferiorità femminile. Forse, però, per intendere meglio il clima allora respirato in Europa, e la matrice culturale da cui scaturisce Freud, giova maggiormente attardarsi su Otto Weininger, filosofo e psicologo, nato a Vienna nel 1880, e deceduto, ad appena 23 anni, nel 1903, dopo avere poderosamente plasmato la mentalità dell’epoca. L’opera che lo rese famoso è Geschlecht und Charakter (Sesso e carattere), in Italia tradotto per i tipi di Fenoglio nel 1912, e più tardi ripubblicato nel 1922. Il volume struttura l’equazione tra il maschile e le qualità di buono, bello, vero ed oggettivo, dove oggettivo è da intendersi correlato alle qualità di distanza, chiarezza e distinzione. Femminile equivale a negativo, delittuoso, pazzo e soggettivo. L’uomo che si accoppia - scrive Weininger - si abbassa al suo contrario, al male. Da tali premesse egli sviluppa un parallelo tra isteria, degenerazione razziale e femminilità che avrà larga fortuna nei decenni a seguire.

Gli orientamenti riepilogati in precedenza sembrerebbero contraddetti dalle teorie degli ovisti, tra cui il nostro Lazzaro Spallanzani. Costoro immaginarono la riproduzione come sviluppo di piccoli embrioni fisiologicamente presenti nell’uovo. Il maschio aprirebbe ad essi semplicemente il passaggio e fornirebbe fluido liquido per attirarli fuori dalla serra. Lo sperma servirebbe, inoltre, come catalizzatore della fermentazione. La priorità passa, dunque, alla donna unica depositaria della creatività. Tale corrente di pensiero, oltre tutto sensibilmente minoritaria, non modifica, le linee di fondo dello scenario culturale. Si tratta del semplice rovesciamento di posizioni da una estremità al suo opposto, di una enantiodromia, e gli opposti, come noto, coincidono. Nella fattispecie la coincidenza consiste nella persistenza dello squilibrio relazionale, nella incapacità di immaginare un rapporto simmetrico tra maschile e femminile. In realtà sopravvive, rigorosamente identica a se stessa, ed al di là delle metamorfosi occasionali, la medesima struttura di coscienza lacerata che presiede alle lacerazioni delle contrapposte opzioni teoriche.
La scienza è impossibilitata ad immaginare l’uguaglianza dei sessi poiché opera prendendo cognizione della materia. La qual cosa implica una distanza incolmabile dall’oggetto che non può essere mai conosciuto effettivamente. Il metodo si rivolge contro se stesso, in special modo nelle osservazioni che riguardano la femmina e tutto ciò che viene considerato femminile, a cominciare dalla materia. La scienza, alla maniera di Apollo, guarda da lontano, a distanza, il suo materiale; non si mescola mai o, per dirla in linguaggio alchemico, non si sposa con esso. Da qui la pretesa che solo il pensiero conoscente, lo Spirito, sia vivo, penetrante ed affilato, mentre la materia è concepita morta, inanimata, destituita di valore ed inferiore. Proprio a causa degli attributi che le sono riconosciuti, viene interpretata come semplice res extensa, esclusivamente esposta alla misurazione, impermeabile all’approccio qualitativo ed alle gerarchie di valore. L’insieme declina quella specifica struttura di coscienza qualificata scientifica, occidentale e moderna che ha espulso da sé una parte della sua stessa sostanza chiamandola Eva, inferiore o femminile. Essa ha partorito una filosofia del corpo umano sanzionante la superiorità del maschile, del pensiero, dello Spirito, verso ogni opposto con cui si congiunge. Ma ciò che più conta non è solo il sistema dei contenuti specifici, bensì l’usurpazione della nozione stessa di coscienza, l’idea che solo la forma mentis apollinea possa veramente definirsi coscienza. I fenomeni non riconducibili al modello sono stati qualificati inconsci, patologici, errati, bisognosi di restituzione alla norma e, se del caso, anche moralmente perversi. La patologizzazione di tali eventi scaturisce dalla misoginia sottesa. Femminile equivale a malato.

L’assioma emerge con chiara evidenza dalla storia dell’isteria. La sindrome consta dell’improvviso insorgere di affetti dolorosi, di lacrime, urla ed agitazione violenta che esprimono la conversione somatica di fantasie, così come Freud la descrisse. Essa era conosciuta fin dall’antichità. Ne parlava il Corpus ippocratico successivamente ripreso da Platone nel Timeo.

La cosiddetta matrice e la vulva somigliano ad un animale desideroso di far figli che, quando non produce frutti per molto tempo dopo la stagione, si affligge e si duole, ed errando qua e là per tutto il corpo, e chiudendo i passaggi dell’aria e non lasciando respirare, getta il corpo nelle più grandi angosce e genera malattie di ogni specie.

L’utero viene qui rappresentato come una sorta di creatura vivente, come un animale che, attivandosi, taglia fuori la femmina dall’aria e dalla respirazione provocando i sintomi. La stessa fisiologia espone la femmina ai suoi assalti che la dissociano dall’elemento aereo spirituale a cui i maschi restano coerentemente aderenti. La teoria non diede mai adito a dubbi o ripensamenti. Il Medioevo ne accentuò in misura maggiore le implicazioni morali. Nel 1494 il Malleus maleficarum prospettò una significativa interpretazione etimologica per parola femmina la quale deriverebbe da minus e fe. La donna avrebbe meno fede e sarebbe più facilmente aggredita dal demonio. L’isterica diventa, così, una posseduta, una strega.
La concezione moderna risale a Edward Jorden, ed al suo A Brief Discourse of a Disease Called the Suffocation of the Mother che trasmutò la debolezza della fede in debolezza psicofisiologica. Egli pose termine all’antica superstizione religiosa ed inaugurò la nuova superstizione scientifica. Spostando l’afflizione dall’utero al cervello, la posizione del femminile, per certi versi, peggiora ulteriormente poiché la fisiologia disegna un destino inderogabile, a differenza della possessione che può essere redenta dall’esercizio della fede. La strega può salvarsi, mentre l’isterica resta tale per innate lacune morfologiche. Le potenzialità della impostazione furono esplicitate da Broussais e Georget i quali, sul declinare del XVIII secolo, scrissero che

solo i sistemi nervosi immaturi, sottosviluppati, quali si ritrovano nelle donne, sono inclini alle reazioni isteriche.

L’abito scientifico delle proposizioni non scalfì, tuttavia, l’assetto delle ideazioni anteriori. Rimase l’antica associazione tra sindrome specifica e genitali femminili. Ne dà conferma il trattamento terapeutico adottato da Richer alla Salpêtrière parigina negli stessi anni in cui Freud vi seguiva le lezioni di Charcot. La cura consisteva nella compressione delle ovaie con impacchi di ghiaccio, nella asportazione delle stesse, o nella cauterizzazione del clitoride. I più illustri rappresentanti della comunità scientifica si accanirono a considerare l’isteria come malattia femminile o, per meglio dire, a contemplare il femminile come malattia. Lo stesso Freud rispolverò la nozione nel 1931, nel saggio intitolato Sessualità femminile. La convinzione costituì un punto fermo ed una certezza assoluta specialmente per la psichiatria tedesca che non sollevò mai dubbi a riguardo, diversamente dalla scuola francese. Tra le due si accese, anzi, un serrato confronto nel corso del quale i Francesi giustificarono i loro dubbi presentando casi di maschi affetti da isteria. La replica fu che se essi potevano registrare casi di isteria maschile ciò aveva a che fare piuttosto con la virilità dei loro connazionali che non con la malattia in quanto tale.
D’altro canto sopravvisse anche l’equiparazione tra isterica e strega. In Francia, per tutto il corso dell’800, si continuò a diagnosticare clinicamente la sindrome pungendo con aghi le pazienti; lo stesso mezzo utilizzato dagli inquisitori per riconoscere i casi di stregoneria. Lo slogan femminista, le streghe son tornate, assume, in questa luce, una pregnanza insospettabile a prima vista. Ancora più rilevante, ai fini della omologazione tra vecchie e nuove superstizioni, appare il giudizio morale negativo che colpiva le isteriche. Nel 1861 Griesinger, autore del celebre Pathologie und Therapie der psychischen Krankheiten, scrisse che

l’isterica è incline all’inganno ed alla menzogna. Presenta tratti di pronunciata invidia e, in varia misura, una tendenza alla sporcizia,

anticipando quella che diventerà l’invidia freudiana del pene, fondamento del disturbo mentale femminile. Nel 1866, Falret, nell’opera significativamente intitolata Folie raissonante ou folie morale, ribadì che la vita dell’isterica non è altro che perpetua menzogna. Nel 1893 Kraepelin tirò le somme del dibattito sanzionando che

l’isterica è una virtuosa dell’egoismo ed è completamente spietata…..L’isteria negli uomini è un disturbo psicopatico. Nelle donne corrisponde piuttosto a una naturale direzione di sviluppo. In talune circostanze significa rimanere ad un livello infantile.

Egli non esitò a trarre tutte le conclusioni implicite negli asserti, sconfinando anche nei territori della sociologia e dell’etnologia.

Viene spesso asserito che i popoli latini e slavi rivelano una più forte tendenza ai disturbi isterici che non il popolo tedesco. Considerando la maggiore eccitabilità e passionalità dei Latini, e la ben nota mollezza degli Slavi, in contrasto con la più calma e sobria disposizione dei Tedeschi, questa posizione sembra tutt’altro che improbabile. Anche gli Ebrei gravati da un alto tasso di consanguineità dovrebbero essere più facilmente isterici.

Traducendo in termini più prosaici, Latini, Slavi ed Ebrei rappresentano stirpi indebolite, inquinate dalla consanguineità, passionali, eccitabili e molli, in una parola degenerate, ovvero effeminate. La virilità, intesa quale calma e sobria disposizione, appartiene ai Tedeschi così giustificati nelle pretese di superiorità razziale e di egemonia politica, o nelle operazioni di pulizia etnica intese ad estirpare l’infezione apportata dal sangue tarato delle stirpi inferiori. Hitler ed il Nazionalsocialismo non costituiscono, insomma, un incidente fortuito nella storia d’Europa.
Nei 25 anni seguenti, e fino alla prima guerra mondiale, i quattro volumi di Kraepelin ebbero ben otto edizioni e rimasero, fino a quella data, il più accreditato ed apprezzato manuale di psichiatria a livello mondiale. Le tesi enunciate fecero scuola, definitivamente sistematizzate, nel 1910, dal Manuale di psichiatria di Dubois che così si esprime:

Un uomo colto, un uomo di ragione, non può mai essere un vero isterico. Soltanto gli uomini che mostrano debolezza mentale, emozioni infantili e femminee, possono essere isterici.

Frammenti di tali concezioni sopravvivono ancora oggi, almeno a livello di opinione corrente, ed almeno in rapporto al giudizio morale negativo gravante sull’isterica. Nel 1998, presso l’ambulatorio della Clinica per le malattie nervose e mentali, all’Università La Sapienza di Roma, i famigliari accompagnatori insistettero con grande energia, e con trasparente giudizio di condanna, sull’atteggiamento menzognero di una paziente isterica ormai sull’orlo di una psicosi.
La ricognizione storiografica può arrestarsi a questo punto poiché emerge ormai con chiarezza un ventaglio di contenuti associati al termine femminilità: introflessione, lentezza, depressione, corpo fisico e così via. Tali contenuti sono stati percepiti, e continuano ad esserlo oggi, in termini patologizzati, quanto meno come distorsioni da ricondurre ad un “normale” statuto fisiologico. Il giudizio, però, non scaturisce dalla loro condizione di fatto, bensì da apriorismi fantasmatici correlati al mito della superiorità maschile. La consapevolezza in merito non solo delinea sistemi di valore alternativi sul piano più genericamente esistenziale, ma impone anche un ripensamento su quelle che sono le più abituali categorie diagnostiche e terapeutiche, argomenti questi, su cui non possiamo soffermarci in questa sede per evidenti ragioni di tempo, ma che meritano accurate riflessioni per la natura radicale delle implicazioni correlate.


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