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A. M. P.
SEMINARI 2003 - 2004
Luigi Frighi *

La comunicazione nei gruppi di discussione interdisciplinari


Potrebbe sembrare persino inutile o pleonastico sottolineare l'importanza della comunicazione umana nel contesto culturale attuale in cui siamo sommersi da un flusso di comunicazioni addirittura imponente e, al limite, quasi soffocante e intrusivo, dal quale è difficile difendersi se non ricorrendo a un silenzioso solipsismo, seguendo in parte l'aforisma francese che recita: la seule parole digne de vèneration est le silence.
D'altra parte, appare abbastanza significativo e persino paradossale che, di fronte al flusso straripante delle attività comunicative, non si possa negare l'esistenza di un altro fenomeno, forse di uguale dimensione, che si compendia nella tanto proclamata incomunicabilità dell'uomo contemporaneo.
Possiamo chiederci come sia possibile comporre questa apparente aporia tra un habitat trasudante, senza tregua e da ogni suo distretto, comunicazioni di ogni tipo e una umanità che si definisce alienata in funzione di una presunta incomunicabilità tra i suoi membri.
Una risposta possibile risiede nella constatazione che un'unica parola comprende universi di discorso quanto mai disparati e confusi.
Il linguaggio verbale rappresenta l'aspetto più importante della comunicazione interpersonale e presuppone la socializzazione dell'individuo, in quanto questo tipo di linguaggio è fondato su una convenzione dei segni da usarsi e su un accordo sul come interpretarli, processo che Sapir (grande studioso del linguaggio) ha chiamato ratificazione sociale.
Il linguaggio rappresenta la funzione simbolica per eccellenza, l'essenza dell'uomo inteso, secondo Cassirer, come animal simbolicum.
Le parole, infatti, sono segni convenzionali o simboli dei quali la filosofia scolastica dava una definizione stringata: simbolo= stat aliquid pro aliquo...intendendo con questo che la parola detta o scritta rappresenta un segno il cui referente è la cosa che deve indicare mentre la persona costituisce chi dà il segno o chi lo riceve.
In modo più scientifico si è soliti dire che il rapporto segno-referente rappresenta un rapporto semantico, quello tra segno e segno un rapporto sintattico e, infine, quello tra segno e persona un rapporto pragmatico.
Al linguista interessa precipuamente il rapporto sintattico, mentre allo psicologo o al sociolinguista interessano maggiormente i rapporti semantici e pragmatici.
Si capisce allora che il rapporto semantico tra il segno (la parola) e il referente (ciò che la parola dovrebbe indicare) è mediato dal contesto nel quale quella parola viene usata.
Per fare un esempio, la parola colomba può riferirsi all'uccello così nominato,oppure, in altro contesto, alla pace e, in un altro ancora, allo Spirito Santo e così via.
Prerequisito essenziale di ogni forma di comunicazione umana è il gradiente di intenzionalità nell'inviare un messaggio comunicativo.
Tuttavia, non basta l'intenzionalità pura e semplice per assicurare un'esatta ricezione del messaggio informativo, dal momento che può esservi a monte o a valle un difetto nella codificazione o nella decodificazione del messaggio dovuto all'uso delle stesse parole in contesti informativi diversi e questo spiega il perché molte volte, il messaggio debba essere ridondante,cioè contenere più elementi informativi di quel che sarebbe necessario in un medium comunicativo ideale.
Tutto questo diventa ancor più evidente a livello della comunicazione in gruppi nei quali l'interdisciplinarietà costituisca la cifra caratteristica.
Per interdisciplinarietà nei gruppi intendiamo sia la compresenza, nel gruppo, di interlocutori di diversa estrazione ideologica e scientifica, sia il ricorso a un dialogo multidisciplinare, pur nella omogeneità dei partecipanti.
In contesti come quelli summenzionati è naturale che la polisemia che possono assumere certe parole, il cui segno convenzionale risulti in rapporto con referenti diversi, risulta un elemento di disturbo della comunicazione abbastanza importante.
Per tornare a quanto si diceva all'inizio a proposito della incomunicabilità tra esseri umani che, come mai è accaduto nel passato, si trovano, al contrario, in un profluvio di comunicazioni e attività informative, si può pensare, et pour cause, all'influenza, al riguardo, di quella confusione semantica che è determinata dall'accelerazione che ha subito il nostro vissuto contemporaneo, per cui, oltre ai limiti dell'ascolto provocato dal troppo rumore (noise) di fondo, si dà anche il fatto che le parole del lessico familiare abituale vadano incontro a una specie di usura, di obsolescenza, di fronte all'incalzare degli slogan, di frasi fatte, di motti verbali mutuati da idiomi stranieri, di sigle enigmatiche, frutto di conformismo verbale e di mistificazione pubblicitaria.
Per superare l'impasse di una comunicazione in gruppo tra partecipanti esposti alla trappola della confusione semantica sarebbe necessario che ognuno, non dico dei dialoganti, ma dei candidati al dialogo, chiarisse, sin dall'inizio, a quale universo di discorso fa capo la sua comunicazione verbale.
Un esempio che può rendere ancora più evidente i risultati patologici di una errata codificazione e ricezione dei messaggi è quello che si riferisce alla disfunzione comunicativa del doppio legame che ha un'indubbia influenza in certe patologie della coppia, nell'anoressia, nell'emozioni espresse nei riguardi degli schizofrenici.
A livello macrosociale, si è giunti persino a pensare che il mondo della realtà trovi un'inconsapevole fondamento nelle abitudini linguistiche delle società coinvolte e che il nostro modo di vedere e di osservare le cose sia dovuto alla predisposizione verso scelte interpretative che ci sono imposte dalle abitudini linguistiche della comunità cui apparteniamo.
Uno studioso di sociolinguistica, Whorf, ha spinto questa ipotesi fino al punto di sostenere che la percezione del mondo varia, fondamentalmente, secondo il linguaggio e che le differenze nella struttura del linguaggio indicano le differenze nel modo di percepire e organizzare la realtà. L'essenza dell'ipotesi relativa al determinismo linguistico sarebbe costituita dal fatto che la stessa evidenza fisica condurrebbe due osservatori alle medesime percezioni della realtà ambientale solamente nel caso che essi avessero quadri di riferimento linguistico simili.
Gli esempi più noti sono quelli ricavati dalle decine e decine di motti verbali che i nomadi arabi usano per designare un cammello, distinguendo categorie diverse in funzione delle loro mansioni, della consistenza e del colore del pelame, della loro provenienza, dello stato di gravidanza,ecc., oppure le centinaia di parole che gli esquimesi usano per differenziare innumerevoli aspetti della neve che, noi consideriamo, soltanto bianca al massimo, biancosporca.
La tesi unilaterale di Whorf che sia la grammatica a determinare l'esperienza,è stata modificata da altri sociolinguisti che hanno considerato il processo come circolare, nel senso che la struttura sociale determina il comportamento linguistico, il quale, a sua volta, riproduce la struttura.

Una volta descritti, per sommi capi, alcuni aspetti, abbastanza generici, della comunicazione verbale, penso che sia opportuno rivolgere la nostra attenzione ad alcune comunicazioni in gruppo nelle quali sia riscontrabile un'influente componente psicologica.
Una di queste situazioni particolari mi sembra quella che, nell'ambito della scuola, si instaura nella singolarità del rapporto triangolare, sottolineo triangolare, coinvolgente l'insegnate, l'alunno e il gruppo di classe.
Si tratta di un rapporto che presuppone un'opera di mediazione relazionale e culturale particolarmente impegnativo e defatigante.
Infatti, di fronte alla classe l'insegnante può sperimentare una condizione estremamente inquietante di solitudine e di isolamento, poiché egli si trova, unico rappresentante della categoria degli adulti, a dover fronteggiare un gruppo omogeneo per età, inesperienza e ruolo.
Nel gruppo-classe si formano e si sciolgono, con relativa rapidità, aggregazioni di coppia, alleanze, fenomeni collettivi di indipendenza o di passività, di ribellione e di fuga.
Tutto questo rende la relazione dell'insegnante con l'allievo, all'apparenza duale, in realtà sempre triangolare per cui, molte volte, le reazioni del singolo allievo diventano comprensibili soltanto quando si prende in considerazione lo sfondo, tutt'altro che passivo della classe-gruppo.
La classe, insomma, rappresenta un campo particolarmente fecondo per il dispiegarsi delle dinamiche di gruppo cui l'insegnante non può sottrarsi e non v'è dubbio che siffatte dinamiche di gruppo rientrino, a buon diritto, nel processo di socializzazione.
Purtroppo, non sono molto convinto che gli insegnanti siano sufficientemente addestrati a gestire la situazione triangolare descritta che invece rappresenta una realtà scolastica da cui non si può prescindere.

Un altro esempio di comunicazione in gruppo nella quale è possibile evidenziare una rilevante componente psicologica è quella che, a mio parere, concerne il processo di formazione a carico di operatori psi che, magari con ruoli e qualifiche diverse, vanno a costituire l'intera èquipe di un servizio di salute mentale.
L'obbiettivo della formazione potrebbe essere quello di guidare l'èquipe verso quella che Guyotat chiamava un atteggiamento, una disposizione psicoterapica che, a sua volta, lo psicoanalista Speziale-Bagliacca aveva definito come l'orientamento verso "la percezione psicoanalitica".
Guyotat distingueva nettamente l'atteggiamento psicoterapico dalla psicoterapia sistematizzata che presuppone invece un contratto tra il terapeuta e il paziente, un training tecnico preciso, una teoria sul funzionamento psichico e un setting preciso.
Da quanto è stato detto credo che risulti abbastanza evidente che il compito del formatore è tutt'altro che facile e impone una seria riflessione sul come procedere.
Si potrebbe, a tal fine, immaginare lo svolgimento della funzione del formatore secondo tre direttive di cui la prima potrebbe incentrarsi sul fatto che gli dovrebbe essere, naturalmente, portatore di sapere psicoanalitico e relazionale del quale farsi mediatore al gruppo non nel senso di proporre una parafrasi psicoanalitica a delle constatazioni cliniche che rimarrebbe senza conseguenze operative, bensì proporre modelli di comunicazione maggiormente centrati sull'immaginario del discorso che non sul linguaggio delle cose.
La seconda direttiva potrebbe esplicarsi sulla base di interventi psicoterapici limitati nel tempo, con scopi ben definiti, senza aspettative grandiose e soprattutto non disgiunte dalle altre attività dell'èquipe.
La terza direttiva si fonda sulla necessità per il formatore di farsi carico dei problemi emozionali che possono insorgere nell'èquipe a fronte di situazioni di crisi del tipo: suicidi, regressioni improvvise di determinati pazienti, rifiuti di proseguire la terapia farmacologia, necessità di temporanei ricoveri,rottura di pseudo equilibri familiari, ecc..
In tutti questi casi, l'azione del formatore può risultare essenziale nel fornire modelli interpretativi che servano di sostegno agli operatori nella elaborazione delle istanze depressive susseguenti ad ogni scacco terapeutico.

A questo punto, se mi è permesso dall'assenso degli altri partecipanti a questa tavola rotonda, desiderei riprendere la distinzione di Guyotat a proposito delle psicoterapie. Dopo la distinzione tra atteggiamento psicoterapico e psicoterapia sistematizzata l'Autore, opera una classificazione delle psicoterapie a seconda delle tecniche (psicoanalisi, terapie del comportamento e cognitivistiche, metodiche di rilassamento, ecc.), a seconda della natura dei disturbi di cui si occupano, dell'età (infanzia, adolescenza, medietà, vecchiaia), del loro rapporto con la psicoanalisi (psicoterapie d'ispirazione psicoanalitica, psicoterapie analitiche brevi, focali, di gruppo, ecc.), a seconda del luogo (privato o istituzionale), ecc.
Si tratta sino a questo punto, di distinzione generiche e, infatti,Guyotat si è spinto oltre e, in modo originale, ha cercato di sistemare le psicoterapie servendosi di quattro poli di riferimento situati secondo due assi: uno orizzontale e l'altro verticale.
L'asse orizzontale sarebbe quello privilegiato delle nuove psicoterapie, mentre i due poli sarebbero quelli del corpo e del gruppo.
L'Autore definisce questo asse come quello della sincronia, della simbiosi, della esperienza vissuta nell'immediatezza del piacere e del dolore.
Il medesimo asse è quello dell'incontro e dell'emozione cui viene ancorata la metafora energetica.
Su questo asse si dispiegherebbero gli effetti delle psicoterapie legate al "sapere del corpo": piacere, dolore, rilassamento,ecc. che lo psicoterapeuta cerca di far scoprire al paziente in relazione al suo sviluppo psicologico.
Il processo psicoterapico si svolge in questo asse nella direzione della scoperta del "corpo emozionale".
Sul medesimo asse si situano gli effetti del gruppo come contenitore diffuso, come sostanza materna nella quale si sviluppano gli effetti della riassicurazione, della mutua idealizzazione attraverso lo psicoterapeuta e mediante una serie di effetti a specchio o a risonanza.
In questo gruppo di psicoterapie si collocano i gruppi di incontro, il grido primario di Janov, la Gestalt, le rève èveillè di Desaille e certi aspetti del rilassamento.
L'asse verticale sarebbe invece il vettore degli effetti che hanno a che fare con la diacronia, la successione, la differenza, la scansione temporale.
Questo asse corrisponderebbe, nel processo psicoterapico, all'iscrizione del paziente nel simbolico, cioè nel linguaggio da un lato e nell'istituzione dall'altro, come forma organizzativa di un gruppo sociale preposto a una determinata funzione che, nel nostro caso, si identifica con la funzione della cura.
Questo asse, scrive sempre Guyotat, potrebbe chiamarsi dell'interpretazione, che è in grado di donare un senso al vissuto del paziente e alla sua storia.
Secondo l'Autore, le istituzioni, le scuole di psicoterapia servono non solo a trasmettere saperi, ma soprattutto a fornire un rapporto di filiazione che è tanto importante per l'acquisizione dell'identità di psicoterapeuta.

La comunicazione non verbale nelle relazioni psicoterapiche.

Si potrebbero includere in quest'area di ricerca le forme di espressione plastica (grafica, pittorica, figurativa, musicale,ecc.) tanto care agli studiosi dei linguaggi privati dei pazienti, specie schizofrenici,tuttavia mi sembra maggiormente opportuno occuparci delle forme di comunicazione non verbale indicate dallo psicopatologo Gruhle nella sua Verstehende Psychologie scritta nel lontano 1948: mimica, gestica ed espressione fisiognomica.
Ad esse vanno aggiunti tratti o segmenti comportamentali riferiti sia all'occupazione di uno spazio, più o meno distante, tra due interlocutori (prossemica), sia ad un sistema di metacomunicazione , cioè di istruzioni implicite in una definizione del setting in psicoterapia.
Occorre anche dire che ogni atto di comportamento costituisce, di per sé, una forma di comunicazione non verbale. Perché questo accada occorre tuttavia l'intervento di quel procedimento psichico che chiamiamo genericamente intenzione o intenzionalità.
E' proprio la presenza dell'intenzionalità che crea il presupposto per la comunicazione e investe di valore informativo un comportamento e non è neppure necessario che essa inerisca a entrambi gli interlocutori, cioè al trasmettitore e al ricevitore della comunicazione non verbale.
Per es., il naufrago che si agita per richiamare l'attenzione di una barca lontana, anche se non è visto da alcuno, attua una comunicazione.
Una segnalazione non verbale (per es. un gesto) riceve un suo specifico significato di comunicazione soltanto se inserito in una situazione di comportamento, allo stesso modo che nel linguaggio una parola acquista uno specifico significato solo se colta nell'ambito della frase o del discorso (Valore pragmatico della comunicazione).
Passiamo ora a chiederci quale sia il diverso significato che si può attribuire ai due tipi di comunicazione: quella verbale che risulta acquisita e culturalmente fondata su segni convenzionali codificati (le parole) e quella non verbale costituita da segni che sono parte integrante di uno stato emotivo e può essere colta solo in modo analogico.
Ricordiamo, a questo proposito, l'ipotesi darwiniana che postulava una base innata per l'espressione di almeno alcune emozioni per cui a ciascuna emozione fondamentale corrisponderebbe una data espressione facciale, uguale per tutte le persone umane a prescindere dai popoli d'appartenenza (ipotesi universalistica).
All'opposto, per i sostenitori di una posizione relativistica, il legame tra emozione ed espressione facciale sarebbe, in ogni caso, mediato dalla cultura.
Un altro modo, totalmente diverso, di considerare la comunicazione non verbale è quella offertaci da Watzlavik, autore della "pragmatica della comunicazione", che nella radice arcaica del messaggio analogico, implicito nella comunicazione non verbale,ha colto un'origine materna per cui questo tipo di comunicazione si effettuerebbe, primariamente, nel rapporto simbiotico madre-bambino.
Anche Cremerius, nel suo libro: Il silenzio dell'analista, afferma a proposito della comunicazione non verbale offerta dal silenzio, che essa costituisce il linguaggio della sensazione, della vicinanza emotiva, della fusione primaria che lega il bambino alla madre.
Il linguaggio verbale viene dopo, come una forma comunicativa dal di fuori e che conduce all'esterno, al mondo dei concertti, della ragione, dell'ordinamento e dell'indagine.
Quindi, mentre la comunicazione verbale risulta a decisa impronta paterna, la non verbale mostra un'origine decisamente materna.
A suo tempo Lacan, col suo linguaggio incisivo, ha sostenuto che la parola rappresenta la spada edipica che, nell'intento di categorizzare e di classificare razionalmente, finisce per separare il soggetto dall'oggetto e, in questo modo, distrugge la fusione primaria, narcisistica tra madre e bambino.
Rimane da chiederci se il gruppo psicoterapeutico, nella sua funzione di contenitore di emozioni, riesca a esprimere forme di comunicazione non verbale atte a ricostruire, in certo qual modo, quel contenitore primordiale che è la culla materna, sede dell'unità preverbale e, perciò, ineffabile, costituita, per l'appunto, dalla fusione primaria: madre-bambino.


* Prof. LUIGI FRIGHI
Professore Emerito di Igiene Mentale Università di Roma "La Sapienza"
153 ROMA, via baccio pontelli n.16

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