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Prof. Francesco Di Raimondo
Primario Emerito dell'Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico "Lazzaro Spallanzani" di Roma. Antropologia Medica per la Clinica |
Introduzione
Sono particolarmente grato al Prof. Rocco Pisani che, con l'affettuosa
partecipazione di Mario Giampà, mi ha convinto che avrei avuto titolo
e ascolto per presentare le mie riflessioni, su esperienza clinica e interessi
culturali correlati, ad un pubblico altamente qualificato in ambiti di
cui so la rilevanza per un medico anche se non ne ho la preparazione specifica.
Se oso parlare in questa sede interdisciplinare dagli obiettivi alti ed
ardui è perchè avverto una spinta interiore, forte, a partecipare
talune proposte concettuali e certe suggestioni operative che nascono dall'attenzione
crescente, nel praticare clinica, a tentare un passaggio essenziale e certamente
atteso dall'universo dei sofferenti: dalla "verità sulla malattia"
alla "verità sul malato".
Da quella lontana sensibilità e attenzione generali e da una serie di contributi in merito a "tutto l'uomo" è scaturita, nell'ultimo decennio, la scelta di riversare le mie riflessioni in una disciplina di confine, l'Antropologia Medica. Questa, infatti, può offrire la conoscenza di componenti fenomeniche e di approcci culturali finalizzati alla praticabilità di un percorso clinico "integrato", cioè funzionale a perseguire, insieme, la doppia verità - un diritto-dovere di un medico "Medico" - cioè quella sulla malattia e quella sul malato. Le circostanze fecero maturare l'assegnazione di una docenza in materia alla Pontificia Università "Gregoriana": un corso post-laurea di tipo seminariale che mi ha molto arricchito per i contributi di tesi da parte di discenti di varie nazionalità, e quindi portavoce di sensibilità e problematiche diversificate nei vissuti individuali e socio-culturali della salute, della malattia e del morire. Il testo che segue si richiama a quell'esperienza didattica, sviluppando quanto può più immediatamente costituire stimolo e indicazione concreta per tradurre in opzioni comportamentali coerenti ai nuovi assunti la prassi medico-assistenziale attuale, specie di quella esercitata in determinati contesti temporo-spaziali di strutture sanitarie pubbliche. E qui va fatta un'annotazione: l'intera materia del testo che segue era già in fase di avanzata elaborazione e in stesura di base per conto del "Canale Parallelo Romano", il Corso di Laurea in Medicina della "Sapienza", coordinato dal Prof. Aldo Torsoli; un corso che propone una didattica integrata da nozioni formative "umanistiche", funzionali quindi a sviluppare una figura professionale preparata all'ascolto-risposta anche alle istanze "inespresse" di quel mistero vivente che ogni malato è. Tenuto conto di questo dato di fatto, e con il consenso dei Colleghi Pisani e Torsoli, il testo previamente prospettato al Seminario nel suo impianto generale appare in questa sede editoriale così come appena pubblicato nel volume II (1999) di "Scienze Umane, Letteratura ed Arte per la Medicina", a cura dello stesso Canale Parallelo Romano.
1 - Introduzione Obiettivo del testo è persuadere dell'utilità della
disciplina più oltre definita Antropologia Medica per un'adeguata
formazione pre- e postlaurea, in ordine allo sviluppo di una personalità
professionale rispondente ad antiche e nuove domande di salute "globale".
In questa prospettiva le informazioni ed i richiami culturali necessari
sono stati selezionati per la loro applicabilità immediata a percorsi
formativi, che tentino la massima integrazione possibile tra discipline
scientifiche e umanistica medica [1].
2 - Antropologia Medica: una Definizione ad uso Clinico Un approccio antropologico alla Medicina esige in primo luogo
una definizione della terminologia adottata [Tabella I]. L' Antropologia
Medica è una componente rilevante di quella globalità di
dimensioni della realtà Uomo, che si è ritenuto di chiamare
"Antropologia Globale".
Possibili Approcci Antropologici: - Antropogenico: analisi del processo di discendenza del genere umano da antenati animali - Antropogonico (antopologia filosofico-religiosa): Spiegazione mitologica e religiosa della comparsa del genere umano e del suo manifestarsi nel mondo - Biomedico: studio dell'uomo nella sua variabilità individuale di composto psico-fisico - Culturale: studio dei fenomeni nel loro concreto manifestarsi nelle diverse società umane - Globale: sintesi pluridisciplinare e pluriprospettica delle conoscenze e delle teorie interpretative della realtà uomo nella sua fenomenologia individuale e nella sua dimensione relazionale-comunitaria La costituzione dell'Antropologia Medica in disciplina autonoma non ha datazione certa; la prima comparsa del termine è dovuta a Von Weizsacker nel 1941 [2]. Autori posteriori hanno sostanzialmente seguito due percorsi epistemologici, tra loro in qualche modo complementari: a. un'Antropologia Medica come aspetto dell'Antropologia culturale, legata cioè a concezioni e prassi di diverse civiltà e Paesi, di cui sono espressione le cosidette medicine tradizionali o empirico-popolari. Tali l'interessante lavoro di Schirripa [3] in questa stessa sede editorale, come gran parte di quelli prodotti dalla Società Italiana di Antropologia Medica. In questa direzione i contributi provengono soprattutto da studi di estrazione filosofica, sociologica, psicologica e letteraria. b. Un'Antropologia Medica costruita intorno ad un ripensamento antropologico dell'atto medico, visto come relazione "integrale" fra medico e paziente e come occasione per un nuovo umanesimo. In questa seconda direzione i contributi vengono in prevalenza da studiosi con esperienza clinica diretta [4, 5, 6, 7, 8]. Le due posizioni non sono tuttavia mutualmente escludenti [9]. Nel testo che segue si cercherà di isolare, nello spazio
biomedico di un "Uomo in situazione", realtà e vissuti di immediata
salienza per un rinnovato percorso medico e clinico. L'autore è
un clinico, e naturalmente la voce medica che si tenterà di rappresentare
dovrà richiamarsi, di volta in volta, ad altre aree (filosofia,
antropologia generale, psicologia e sociologia).
3 - Corporeita': Significato e Vissuti Il corpo dell'Uomo, oggetto primo di ogni atto medico, racchiude
in sé realtà e valenze tanto numerose e complesse da apparire
un mistero ancora mal penetrabile. S.Agostino affermava: "sono diventato
io stesso un grande problema per me". Da un lato si svolgono nel corpo
umano attività strettamente biologiche, dall'altro si ha una produzione
immateriale convenzionalmente distinta in "razionalità" e "affettività":
attività e funzioni cui le neuroscienze si sforzano di attribuire
specificità di sede e di modalità esplicative. La consapevolezza
della propria psico-fisicità e l'incontro esistenziale con innumerevoli
altre unità umane si pongono come valori cardine nell'avventura
della vita.
Il problema coscienza ha un rilievo centrale per la persona, al quale l'attività clinica non può sottrarsi. Si considerino alcune condizioni fondamentali, in cui la coscienza è coinvolta da protagonista. a. Fenomenologie reattive e comportamentali [Tabella II] relative al desiderio, spesso ansioso, di conoscere i meccanismi della propria biofisicità specie in ordine all'esercizio della sessualità, di attività sportive o di tempo libero in generale, ma anche del come perseguire l'obiettivo, impossibile in assoluto, di un binomio perfetto salute-bellezza. b. La tendenza a superare la condizione tradizionale, nel caso di malattia, di sentirsi "oggetto" nelle mani del medico, per divenire soggetto decisionale: un passaggio di vissuto che può anche portare, non sempre motivatamente, a rendersi criticamente autonomi dalla competenza professionale, donde possibili interventi arbitrari e rischiosi sul proprio corpo e l'utilizzo di pratiche non scientifiche, tradizionali o meno, oggi purtroppo diffuso. c. L'aumento di patologie indotte da fattori o cofattori collegati
o attivati da determinati stili di vita. Si espandono inoltre condizioni
di sofferenza anche fisica per il fluire impetuoso, su vasti territori
somatici, dell'ansia-malattia [11] e della stessa anoressia-bulimia.
- Identità accettata o rifiutata da se stessi - Immagine riconosciuta, accolta o rigettata da parte di terzi - Consapevolezza, corretta o distorta di benessere/malessere - Fonte o eco di sofferenza - Luogo di estinzione della vita o di trasformazione dopo la morte La tipizzazione soggettiva della corporeità dipende da
un insieme di componenti variamente distribuite: peculiarità temperamentali,
vicende di vita, cultura personale e dell'ambiente di appartenenza, esperienza
di malattie pregresse e/o in atto, specie di quelle a decorso cronico-invalidante.
- Avvertenza "animale" del corpo in base a messaggi provenienti dal sistema biologico - Consapevolezza del valore identificante e comunincante del corpo nell'esperienza esistenziale personale - Coscienza di problematiche superiori e metafisiche, possibile per la mediazione corporea ma di natura aperta ad interpretazioni diversificate 4 - Salute e Malattia: un'unica Antropologia Le due realtà, corpo "sano" e corpo "malato", sono state sempre distinte come antagonistiche , l'una escludente l'altra. E' tipica in proposito la lettura biologica sviluppatasi con la medicina ottocentesca, che focalizzava un guasto di tessuto, organo o sistema, una volta riparato il quale la "macchina corpo" riprendeva il modulo funzionale precedente, ritornava cioè in salute. Nell'ultimo cinquantennio si sono invece sempre più diffusi modelli più articolati circa il modo individuale con cui ogni uomo avverte in se stesso gli stati di salute e di malattia, non tanto come due condizioni distinte dell'essere quanto come momenti spesso compresenti e mal distinguibili tra loro. La stessa attuale "medicina del sano", cioè la valutazione di status biopatologico quale risulta da accertamenti a scopo preventivo, consente di rilevare soltanto parzialmente le possibili anomalie in atto e di identificare tendenze patologiche in fieri. La "sanità" d'altra parte, secondo la concezione dell'OMS, si realizza e si mantiene non soltanto per l'assenza di malattia avvertita o rilevata, quanto come dispiegamento di tutte le proprie potenzialità fisiche e psichiche, in un contesto in cui siano assicurati fabbisogni esistenziali essenziali in termini nutrizionali, ecologici e di insediamento abitativo. Ne seguono due percorsi di ricerca epistemologica: a. La concezione di sanità umana una e tripartita insieme, cioè fisica o corporea, psichica o mentale, ambientale o ecologica, componenti strettamente interrelate ed interdipendenti tra loro. b. Il nuovo territorio interdisciplinare delle medical humanities o"umanistica medica" di cui si ha un insegnamento ad hoc nel Canale Parallelo Romano della Facoltà di Medicina dell'Università La Sapienza, nella Facoltà di Medicina dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, nel "Campus Bio-medico", sempre in Roma, e nell'Istituto San Raffaele di Milano. Tutto ciò aumenta il distacco dal concetto di malattia
come di un bioguasto, contribuendo ad accrescere la rilevanza della duplice
soggettività -malato e medico- in gioco nel realizzarsi di ogni
atto clinico. L'ovvietà del richiamo è solo apparente, in
quanto è proprio la relazione tra i due ad apparire sempre di più
in crisi senza che possano darsi per scontate analisi ed ipotesi di soluzioni
semplici e di validità universale.
Due funzioni fondamentali consentono ad ogni uomo di vivere la
propria corporeità nella salute e nella malattia, in modo individuale
ed autonomo, e servono alla mens clinica per strutturare un giudizio diagnostico
capace di cogliere i tratti essenziali dell'originalità personale;
l'omeostasi e la cenestesi.
- Il termine "cenestesii" indica " la sensazione vaga che si ha del nostro essere indipendentemente dal concorso dei sensi; od anche, secondo Deny e Camusn, la sensazione che si ha dell'essere grazie alla sensibilità vaga e debolmente cosciente nello stato normale, derivante da tutti i nostri organi e tessuti compresi gli organi si senso. Nel Dizionario medico italo-inglese di M.L. Petrilli (ed. Le Lettere-Firenze, 1992) "coenesthesia" viene definita come "sesto senso", una scelta concettuale sintetica e convincente. La prima appare come il meccanismo principe di autoregolazione organismica nelle oscillazioni minime e massime di valori accettati come "normali" per ogni sistema e funzione biologici: l'omeostasi termica, l'omeostasi metabolica e si può aggiungere - la più misteriosa omeostasi psichica o meglio somatopsichica. Se dunque un corpo può definirsi "in salute" quando tutti i suoi comparti omeostatici sono a perfetto regime, la malattia dovrebbe essere intesa come evento fisiopatologico conseguente alla rottura di uno o più di detti sistemi. L'epifenomeno è rappresentato da segni, sintomi e reperti analitico-strumentali anomali. Il problema è di capire quando e con quali modalità una rottura omeostatica di settore raggiunga la soglia clinica e insieme, ma spesso preceduta da, la consapevolezza diretta, da parte del soggetto colpito, di una qualche anomalia nella propria fisicità: anomalia il cui significato può essere variamente interpretato dall'interessato. Si tratta qui della seconda funzione, la cenestesi. Di essa fanno parte complessi elementi di "umanizzazione" del puro biologico, che a loro volta influiscono sulla risposta personalizzata alla comparsa avvertita di segnali di malattia, in particolare del dolore. Per cenestesi (una sorta di autofeeling) si intende l'avvertenza, comune a tutti, del proprio corpo come di un insieme in stato di "normalità" o meno. E' difficile classificare determinate sensazioni come segnali certi di anomalia emergente, ed è proprio qui che l'avvertenza di una rottura biologica si carica di infinite caratterizzazioni personali (psicologiche, socio-culturali, ideologiche, religiose). Si potrà così parlare di una cenestesi complessiva o indeterminata ("non mi sento in forma", "devo avere qualcosa", "mi sento stanco anche senza essermi affaticato", "mi sta passando l'appetito", e di una mirata ("ho una sonnolenza inspiegabile", "non ho più fame di carne", "ho difficoltà a concentrarmi ed a ricordare"). Nel colloquio anamnestico con il medico l'estrinsecazione cenestesica
è un momento cardine per il risultato finale dell'atto medico,ed
è ovvio che anche da questo punto di vista il malato resta la principale
fonte informativa [12]. D'altra parte una cenestesi modificata non è
necessariamente annunzio di malattia: la soggettività può
tradire l'autenticità dei messaggi che provengono dal corpo, con
oscillazioni individuali tra timorosa sottovalutazione ed eccessiva esaltazione,
talvolta con annotazioni patofobiche.
La malattia non è un accadimento a sé, di cui sono
o si pensa siano responsabili fattori del mondo inorganico o biologico,
è un'esperienza rilevante nella vita dell'uomo colpito, e non è
cancellabile dalla sua memoria emotiva. C'è un salto antropologico
essenziale tra una concezione puramente biologica della malattia e quella
di un evento umano globale, con echi ma anche con matrici esistenziali
complesse, cioè con un suo vissuto anche metabiologico; il tutto
ovviamente moltiplicato quando si tratta di infermità grave o cronico-invalidante.
[Tabella IV].
- Incidente di percorso - Evento accettabile se si ha certezza di durata breve e di ritorno perfetto allo stato di salute - Inizio di cambiamento radicale nella qualità della vita residua, nel caso di cronicizzazione, con sofferto abbandono di attività e stili di vita incompatibili con l'infermità - Sensazione di essere in un tunnel (se resta speranza) o in un pozzo (se si ha certezza di morte) - Spinta ad un'auto-analisi a 360o - Causa di onere economico diretto e/o indiretto (riduzione di introiti lavorativi e/o di capacità professionali) - Esperienze nuove ed imprevedibili nelle relazioni interpersonali e sociali (in peggio o in meglio) - Passaggio, temporaneo o protratto, dall'autonomia personale
allo stato di dipendenza, anche totale.
- Nessuna discontinuità tra modello "domestico" e prestazioni assistenziali da parte dei familiari - Sensazione di una sinergia protettiva e rassicurante tra familiare e "medico di capezzale" - Semplificazione delle procedure diagnostiche-terapeutiche - Sicurezza, o quasi, di finire i giorni nel propio letto, con i familiari intorno - Sensazione di essere ancora un soggetto ascoltato e corresponsabile di decisioni.
- Frattura con i propri "mondi vitali" soprattutto se ospedalizzati - Emarginazione istintiva da parte dei sani-attivi, "non sta bene, è fuori gioco, inutile sentirlo" - Possibili contenziosi tra familiari circa la presa in carico, a rotazione o meno - Difficoltà di tempo e di "sentire" nello stabilire relazioni "terapeutiche" con un familiare infermo - Obiettivi ostacoli temporo-spaziale e/o economici ad una assistenza adeguata - Negligenza nella somministrazione di farmaci prescritti e/o nella dietetica consigliata Una costante sottende tutte le variabili di reattività
personale e sociale alla malattia, quella della sofferenza umana e di una
sorta di mutazione antropologica dei colpiti. Il termine sofferenza caratterizza
bene lo stato di pena esistenziale, comune in ogni malattia, anche in assenza,
spontanea o farmacologica, di algie somatiche [14, 15]. Accanto al dolore
per malattia esiste quello da malattia [16].
In sintesi, i punti più qualificativi di una lettura autenticamente umana della malattia si possono così elencare: a. La malattia come rottura della "sintesi a priori" che l'uomo in salute è ed avverte in sé. Il medico ha il compito di aiutare a ristabilire tale sintesi [13]. b. Medico e malato si riconoscono nella reciprocità e debbono formare un "noi", una "dualità" collaborativa tra due "esperti", l'uno di medicina, l'altro di sofferenza. c. Il malato, specie negli stati di cronicità, deve sforzarsi di realizzare un modulo personalizzato di convivenza con la propria infermità (coping) . Il medico deve aiutare il malato a realizzare tale reazione ad un evento che lo coinvolge, oltre che nel fisico, nelle sue relazioni umane, nella visione della vita, nei suoi progetti di futuro. d. A parte le malattie lievi e/o fugaci, la guarigione non è
un semplice ritorno allo stato precedente, ma l'instaurazione di una nuova
consapevolezza di sé, della necessità di nuove regole, di
nuovi obiettivi, di diverse relazioni con gli altri [4]. Anche di ciò
il medico deve tener conto, tanto più che come esito positivo di
un evento morboso è da considerare non solo quello di una conversione
liberante, ma anche quello di un miglioramento o della stabilizzazione
di una patologia che consenta, almeno entro certi limiti, di sentirsi liberi
"nella" malattia anche quando non si è ancora o non si potrà
più essere liberi "dalla" malattia.
- Mitologico-religiosa - Biochimico-fisiopatologica
- La compresenza di fattori, bioligici e non, anche in patologie apparentemente monoeziologiche come le infettive - L'influenza di condizionamenti psico-culturali e socio-ambientali sulla espessività clinica individuale del medesimo stato morboso - Un effetto, rivelatore a monte e promotore a valle, di problematiche soggettive e relazionali In altri termini è necessario per il medico: 1. Andare preventivamente incontro alla richiesta dei malati, esplicita o inespressa, di ascolto e di rispetto delle modalità di reazione individuale ad un evento così coinvolgente il loro modulo esistenziale. 2. Contribuire a mediare fra il controllo tecnico-scientifico e farmacologico dell'organismo umano e l'esercizio di una libera corresponsabilità nel governo di sé persona. Di qui la necessità di una rifondazione educativa del medico,
consensuale alla crescita di consapevolezza del malato nel gestire al meglio
il suo status di debolezza personale e sociale. In proposito è anche
da ricordare l'importanza che nella relazione diagnostico-terapeutica medico-malato
ha l'affettività ("intelligenza emozionale", 18). La categoria della
"tenerezza" confidenziale è un'arma potente per ridurre la sensazione
di distacco professionale, frequentemente avvertita e lamentata nel contatto
con anche medici di alto livello tecnico-scientifico.
5 - Morte e Morire Agli studenti di Medicina non si parla mai di morte nè
del morire, come se fossero estranei o contraddicessero alla natura stessa
della professione medica. In realtà la coscienza di fondo di un
destino mortale, usualmente rimossa nella pienezza della salute, si fa
angoscia quando il corpo entra in una condizione invalidante sempre meno
sopportabile. L'infinita varietà di reazioni dei malati al pensarsi
morituri ad essere certi di un exitus a breve termine, deve essere tenuta
ben presente dal clinico e da quanti assistono un paziente con prognosi
infausta. Una tale sensibilità è indispensabile per ridurre
la sofferenza aggiuntiva della "solitudine sanitaria", che in ospedale
tiene il paziente lontano dal suo mondo familiare od amicale proprio quando
ne è maggiore la nostalgia ed insostituibile la presenza. Ciò
vale ancor più nell'isolamento totale in aree di terapia intensiva,
ed anche nel caso di malati apparentemente incoscienti, nei quali è
pur possibile che sussistano stati di consapevolezza ambientale, capacità
di percepire rumori e voci cui non è dato rispondere.
- Tentazione idolatrica: un corpo " sano e bello" a tutti i costi: in alternativa permanente sensazione di un corpo tabù ed ostacolo alle relazioni interpersonali - Difficoltà ad accettare in sè e negli altri lo stato di malattia come evento compatibile con la socializzazione - Adozione consapevole di stili di vita a rischio di danni fisici e/o psichici (alcool, droga, sessualità non protetta, "giochi di morte") - Morte non avvertita nella sua naturalità, ma da esorcizzare e da rimuovere, anche attraverso la virtualizzazione mass-mediatica - Consapevolezza di un morire soggetto a tecno-manipolazioni ed alla "solitudine sanitaria" 6 - Fondamenti di una Medicina Dialogica L'avventura esistenziale tra medico e malato oscilla tra silenzi e dialogo: i primi erano soprattutto, in passato, frutto della reciproca discrezione, di timore reverenziale da parte del malato e di pietà da parte del medico. Oggi invece il "parlarsi" appare l'essenza di un soddisfacente confronto interpersonale. Il dialogo ha l'obiettivo è di ottimizzare gli effetti diagnostico-terapeutici ed il significato ampio di un'interconnessione di logos individuali, a significare nel medico una straordinaria capacità di "ascolto" anche del non esplicitato, nel malato una domanda di aiuto globale. Dovrebbe cioè farsi svelamento, insieme, di razionalità e di cuore ("intelligenza emozionale") [18]. La scienza della comunicazione offre strumenti preziosi per l'identificazione
delle caratteristiche e delle condizioni di realizzo di un dialogo autentico
[20, 21]: questo momento cardine della relazione va visto come uno specchio
che, riflettendo la propria immagine nell'altro, ce la fa riconquistare
in modo critico: comunicare autenticamente è mettere in comune,
far conoscere e far partecipi di se stessi. Per diventare comunicazione
piena, il dialogo deve poter evitare i cosiddetti rumori, in particolare
quelli psicologici come la diffidenza, l'antipatia, la precomprensione
o pregiudizio, il distacco e disimpegno, l'aggressività. Occorre
verificare il messaggio di ritorno (feed-back) anche non verbale, per evitare
sia ridondanze che deviazioni. Una buona comunicazione medico-paziente
garantisce il fluire del massimo di verità informativa sullo status
fisiopatologico del soggetto in esame e sulle sue caratteristiche esistenziali.
Il parlarsi non dev'essere un frettoloso ed ansiogeno interrogatorio giudiziale
("a domanda risponde"), ma una pacata collaborazione nella comune ricerca
di verità su se stesso e sull'altro. Deve servire a far emergere
la ragione immediata della consultazione o del ricovero, ma anche a mettere
in luce, mediante un'arte maieutica globale, connotazioni personali ed
esistenziali che giocano direttamente nel vissuto di malattia e sulla speranza
di guarigione [23, 24]. Il contrassegno dialogico è la cifra distintiva
della medicina clinica. Purtroppo, quello del medico è spesso un
comunicare "facile", in codice, senza lo sforzo di traduzione mentale simultanea
dal proprio codice tecnico-scientifico in una lingua costruita in base
all'apparente livello socio-culturale dell'interlocutore. E' uno sforzo
che esige, accanto alla disponibilità interiore, anche una certa
attitudine alla semplificazione concettuale e linguistica. La sua mancanza,
più dei deficit professionali, è causa di gran parte delle
lamentele del pubblico.
7 - Si può parlare di un'Antropologia Medica del Medico? Non sono rintracciabili nella letteratura scientifica contributi che affrontino esplicitamente questo aspetto.Vi sono tuttavia alcuni dati di fatto a sostegno di una risposta affermativa. a. Il vissuto di corporeità Cultura biomedica ed esperienza clinica incidono sul proprio sentirsi corpo da parte del medico. Forse più di altri professionisti, egli si rende conto che la sua apparenza fisica è una componente non troppo secondaria dell'indice di gradimento fiduciario da parte dei malati. Una fisicità gradevole, un parlare "pensato", privo di concitazione ansiogena, una gestualità messaggera di attenzione solidale e non solo al servizio di manovre tecnico-professionali, una cura alla buona tenuta di mani, capelli e barba, sono senza dubbio fattori di una buona relazione con il malato. La cenestesi dell'uomo-medico si caratterizza probabilmente per la capacità di attribuire, in modo più precoce e chiaro, un significato di rilevanza clinica a sensazioni di malessere generale o locale. Esiste naturalmente anche qui una notevole variabilità individuale. b. L'esperienza personale di malattia Quando il medico avverte mutamenti nella propria cenestesi, la risposta soggettiva può essere razionale, l'affidarsi cioè a un collega stimato, oppure correre un duplice opposto rischio: quello della sottovalutazione per il timore di segnali che egli stesso giudicherebbe allarmanti in un suo paziente, oppure una percezione ansiogena che lo porterà ad affannose consultazioni plurime, magari senza uscirne tranquillizzato. Questo incrocio tra avvertenza profana e consapevolezza professionale di fenomeni fisici ritenuti o temuti come patologici non è facile da analizzare. Spesso la specificità dell'io medico tende a prevalere sulla reattività propria degli altri uomini. Il tentativo di dimenticare il proprio sapere, imponendosi una sana "ignoranza medica" per potersi abbandonare senza riserve alle cure dei colleghi, è sempre difficile. E' del pari mal definibile il prevalere dell'una o dell'altra reattività a rischi di salute legati a stili personali di vita, di cui ogni medico ha consapevolezza scientifica e professionale: basti pensare a quanti medici continuano ad abusare di tabacco, alcool, psicofarmaci, oppure trascurano elementari norme dietetiche e pongono scarsa attenzione al moto fisico ed al necessario riposo! c. La reattività alla morte di un paziente Questa reattività è probabilmente modificata e alleviata, nel medico, dalla sua capacità di anticipazione prognostica. D'altro canto il medico può anche identificare nella morte di un suo paziente una sconfitta professionale; forse è un'intuizione del genere che contribuisce alle iniziative di accanimento terapeutico, come per rinviare la scadenza e il peso di una sconfitta. d. Impatto e coinvolgimento professionale diretto con malattie di familiari La malattia o l'anomalia fisica o psichica di un proprio caro può essere sconvolgente per il medico, combattuto com'è tra l'affetto e l'esperienza clinica. E' difficile in questi casi un giudizio ad un tempo distaccato e impegnato. Ci sono medici gelosi custodi in prima persona della salute dei congiunti, tentati dalla critica verso pareri espressi da colleghi anche stimati; ce ne sono altri che preferiscono fidarsi della competenza e maggiore serenità altrui. Certamente l'antropologia del medico è permeata dalla doverosa ovvietà di prendersi cura di chiunque chieda soccorso, e ciò gli rende difficile disimpegnarsi solo perché la persona colpita gli è particolarmente cara. e. Ricadute dell'esperienza clinica sull'umanità del medico.
L'avanzare nell'esperienza clinica fa si che il medico tenda a diventare
un osservatore attento di quell'umanità nascosta del malato che
si rivela spesso in modo imprevedibile e con un solo sguardo, specie nell'angoscia
del morire. Individui apparentemente forti crollano alla prova ed altri,
apparente deboli dal punto di vista intellettuale e/o sociale, rivelano
impensabili energie reattive anche, e forse più, quando avvertono
l'andamento sfavorevole della malattia. Il medico diventa così,
quasi senza rendersene conto, un singolare riferimento di cultura antropologica
in ordine allo spazio biomedico; d'altra parte cresce la sua capacità
di estendere le fondamentali categorie mentali del processo clinico ad
altre realtà umane, favorito, in questo, dalla fondamentale unità
del procedimento scientifico.
8 - Applicabilita' della Medicina Dialogica nell'attuale Contesto Sanitario In rapporto alla natura dialogica dell'atto medico autentico, può essere utile un breve riferimento al contesto operativo del Servizio Sanitario italiano. Il tipo di contatto tra medici e "utenti" in un ambulatorio pubblico od in una corsia ospedaliera rende spesso evidenti difficoltà e condizionamenti per quanto in particolare attiene a: - Vincoli temporo-spaziali . Vi è squilibrio tra la richiesta-attesa dei malati in tema di relazioni e prestazioni "personalizzate", e risposta propria di un ambiente e di modalità sostanzialmente irrispettosi della privacy e dei tempi e modi auspicati. - La riduzione degli spazi di effettiva autonomia professionale dei medici coinvolti. - L' insufficiente preparazione alla relazione dialogica da parte di medici o infermieri - L'esitazione o anche l'indisponibilità da parte del medico a rapportarsi con il malato utente di servizio pubblico con la stessa premurosa attenzione riservata ad un paziente del proprio studio. Sono da aggiungere i riflessi negativi della pletora medica italiana,
che costringe molti giovani laureati a sommatorie di prestazioni diversificate
senza la possibilità di un contatto protratto e gratificante con
la popolazione di pazienti con cui viene a contatto. La contabilità
ospedaliera, a sua volta, rivoluzionata dalla prescrizione dei cosiddetti
D.R.G., ha accresciuto i tempi burocratici rispetto a quelli assistenziali
veri e propri, con sofferenze e disagi aggiuntivi per molti pazienti dimessi
in tempi standard senza adeguate garanzie per i seguiti domiciliari; ed
ha portato a rilevare meno la variabilità di espressività
clinica di una medesima patologia e dei contesti socio-familiari dei singoli
pazienti, con conseguenze negative proprio per la salvaguardia della medicina
dialogica. Si noti, a questo riguardo, quanto una medicina dialogica sia
rilevante per l'istituto di un reale, non burocratico consenso informato.
9 - Derivate per la formazione medica e l'aggiornamento L'analisi antropomedica rimane inadeguata se non è sorretta
dal rigore della metodologia clinica [25] e da una formazione umanistica
ad hoc. La maggior parte dei cultori di umanistica medica appartiene peraltro
al mondo delle scienze umane non mediche, come filosofia, psicologia, etica,
religione, sociologia. Si tratta di persone molto informate su diverse
problematiche mediche ma prive di esperienza clinica, ed il loro insegnamento
può apparire aggiuntivo, interessante, ma cosa ben diversa dall'insegnamento
clinico. Potrebbe cioè essere prezioso un modello formativo unitario,
che rappresentasse in chiave multidisciplinare l'insieme di nozioni, tecniche
e testimonianze utili per un approccio ideale alle complesse fenomenologie
propria dell'atto medico, ed ai coinvolgimenti antropologici che fanno
della malattia un evento tanto rilevante nella vita dell'uomo.
Esistono in Italia alcuni programmi di insegnamento universitario,
per lo più ancora sperimentali, arricchiti variamente di umanistica
medica, è anche da segnalare il contributo dell'Istituto "Giano"
di Roma, che organizza corsi e seminari ad hoc e pubblica la prestigiosa
rivista pluridisciplinare l'Arco di Giano. Si è tuttavia lontani
dall'auspicato superamento di un taglio solo bio-scientifico, tecnologico
e specialisticamente troppo frammentato degli studi di Medicina: caratteristica
evidente anche nell'aggiornamento o qualificazione post-laurea, che ha
diretti riflessi sul modello di professionalità. Sarebbe auspicabile
una riflessione da parte delle Facoltà Mediche, dagli Ordini dei
Medici, delle Associazioni professionali e delle Società medico-scientifiche,
che delineasse una strategia comune, tendente a riconoscere alla Medicina,
nel suo complesso, un ruolo centrale nella promozione umana integrale [27].
10 - Conclusione Viviamo in un'epoca di sempre più frequenti corto-circuiti
informativi mass-mediatici tra sedi della ricerca medico-scientifica e
potenziali utenti di procedure diagnostiche o terapie innovative, di moltiplicazione
delle volgarizzazioni con conseguenti iniziative sempre più diffuse
di autodiagnosi e autoterapia. Nuovi mezzi diagnostici, nuove e più
sofisticate terapie (come quella genica), nuove frontiere della trapiantistica,
progressi straordinari nelle neuroscienze, quale impatto avranno sulla
soggettività del vissuto salute-malattia? Quale espansione potranno
assumere correnti di pensiero e prassi ispirate a o promuoventi medicine
c.d. alternative? Sono tutte ragioni in più per auspicare una formazione
di base e ricorrente di tipo insieme scientifico e umanistico, che consenta
di capire più a fondo un'umanità rapidamente mutevole; e
porti i clinici a compiere il loro compito non soltanto secondo una professionalità
predeterminata, ma come una vera e propria avventura dello spirito [Tabella
IX].
Bibliografia 1. Di Raimondo F. Per una Medicina dialogica: le ragioni dell'Antropologia
Medica, Atti Accademia Lancisiana, Roma, 1998, 42/I, 22-27.
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