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Prof. Fabio Mura
Ideazione fobica e comportamenti ossessivi |
Sconfiggere la solitudine, liberarsi dal peso della colpa, fugare i ricordi dolorosi è condizione indispensabile per gustare la vita ed aprirsi ad esperienze gioiose. Per molte persone è un'impresa ciclopica, un affanno interminabile tra tentativi ed insuccessi continui. I versi di un Poeta contemporaneo che inneggia alla vita con la metafora del viaggio di Ulisse nel suo ritorno ad Itaca, recitano così:
fa voti che ti sia lunga la via, e colma di vicende e conoscenze. Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi o Poseidone incollerito: mai troverai tali mostri sulla via, se resta il tuo pensiero alto, e squisita è l'emozione che ti tocca il cuore e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi né Poseidone asprigno incontrerai, se non li rechi dentro, nel tuo cuore, se non li drizza il cuore innanzi a te." (Costantino Kavafis : "Itaca". Poesie, Mondadori, 1961)
Il Poeta sostiene che il desiderio di conoscere, di esperire la vita nelle sue molteplici sfaccettature, può sconfiggere ogni paura e può dare all'uomo il coraggio di osare, andare avanti, percorrere anche i cammini più insidiosi, sempre che il suo pensiero voli alto, sia cioè sostenuto da un ideale, da un credo che mantenga viva la capacità di emozionarsi e di appassionarsi; da qui l'esortazione a non temere mostri e a non vedere nemici dappertutto essendo questi realmente spaventosi e temibili solo se li si reca dentro di sé e si consente al cuore di rizzarli innanzi, ad ogni passo del proprio cammino.
Per il fobico non ha importanza che l'evento paventato abbia scarsissime probabilità di attuarsi in relazione alle circostanze del momento, ma è la possibilità in sé, in quanto possibilità, che richiama l'idea di quell'evento e rende incombente il pericolo che esso accada. Perciò potremmo includere le fobie nella patologia della coscienza, in quanto viene a ridursi o a mancare totalmente la capacità critica, la capacità di valutazione del rapporto tra causa ed effetto, proprio riguardo all'evento temuto. Il caso di Marino può aiutarci a comprendere tutto ciò: Marino, rupofobico da oltre trent'anni, descrive con dovizia di particolari il momento in cui insorse il suo disturbo: "Frequentavo allora, da qualche settimana, l'istituto di entomologia; fresco di laurea mi era stata offerta, infatti, l'opportunità di accedere alla carriera universitaria. Ricordo che, un giorno, l'assistente al quale ero stato affiancato per una ricerca mi condusse in laboratorio e, presa da un contenitore una cavalletta viva, la mise in un'ampolla con del cotone imbevuto di formaldeide. Vidi quell'insetto morire in pochi istanti e, immediatamente, fui colto da un senso di soffocamento indicibile, come se io stesso mi trovassi dentro quell'ampolla. Dovetti allontanarmi dal laboratorio ed uscire dall'istituto per riuscire a respirare bene, come se l'aria, in quel luogo, mi fosse improvvisamente venuta a mancare. Da quel momento ho temuto ogni cosa che potesse in qualche modo sporcarmi o contaminarmi ed ho cercato di evitarla come se si trattasse di un veleno mortale."
Il disturbo si presentò quindi all'improvviso, scatenato da un fatto apparentemente banale, un'osservazione sperimentale. Ma quell'osservazione, per il contenuto simbolico che la connotava, ha certamente innescato nella mente di Marino un processo associativo di travolgente portata emozionale: vedere l'insetto morire per asfissia dentro l'ampolla lo fece sentire come l'insetto, chiuso e senz'aria respirabile, lui l'insetto e l'istituto l'ampolla, ed ebbe il terrore di poter morire per asfissia; fu colto dal panico e dovette fuggire fuori, all'aria aperta, in cerca di ossigeno.
La vita di Marino divenne da quel giorno molto più accidentata, con ostacoli ed insidie ad ogni angolo, complicata inoltre da dubbi ricorrenti: "Dovetti lasciare l'istituto di entomologia poiché tra sostanze chimiche ed altri agenti inquinanti non potevo più vivere. Ma anche fuori dell'istituto, in altri luoghi come, ad esempio, le aziende agricole dove, più tardi, esercitai la mia professione di agronomo, dovevo stare sempre attento a dove mettere le mani, all'erba che calpestavo, all'aria che respiravo; guai se venivo a sapere che nei campi dove mi trovavo erano stati usati degli anticrittogamici o dei pesticidi; in quel caso dovevo correre a lavarmi ed a cambiarmi d'abito; ma pur così facendo non ero ancora sicuro: spesso ero tormentato dal dubbio che mi fosse rimasta addosso qualche particella venefica e dovevo ripetere le operazioni igieniche più volte."
La coazione a ripetere costituisce il nucleo della patologia ossessiva, e la storia di Marino evidenzia chiaramente la correlazione tra questo e l'ideazione fobica. Di grande attualità è, ancor oggi, l'analisi che Karl Jaspers faceva, all'inizio del secolo, dell'ideazione coatta che caratterizza il modo ossessivo: "Le idee coatte sono caratterizzate dal fatto che l'individuo crede in un contenuto generalmente significativo, pur sapendo che tale contenuto è falso. Esiste una lotta fra convinzione e conoscenza del contrario, che si distingue tanto dal dubbio quanto dalla ferma opinione"; e, a proposito del dubbio patologico che la sostiene, affermava: "Nel dubbio esiste una ponderazione riflessiva dei motivi che portano alla indecisione, sotto forma di un giudizio psicologicamente unitario, mentre nella coazione sussistono contemporaneamente convinzioni e consapevolezza del contrario. ... Esiste un contrasto permanente fra coscienza della verità e coscienza dell'errore; entrambe si sospingono in qua e in là, ma nessuna può ottenere il sopravvento, mentre nel giudizio del dubbio normale non si sperimenta né giustezza né falsità ma, in questo atto unitario, per il soggetto il fatto rimane indeciso."
(Jaspers K.: Allgemeine Psychopathologie. Heidelberg 1919. Se, nell'accostarci ai disturbi fobici, abbiamo ipotizzato la legittimità di annoverarli fra i disturbi della coscienza, i disturbi ossessivi, per l'inscindibile complesso ideativo-coattivo che li caratterizza, potremmo situarli al confine tra patologia della coscienza e patologia della volontà.
Anche quando è trascinato dalle passioni più violente l'Io della persona sana rimane pur sempre in grado di orientare le proprie scelte, di controllare i propri istinti e dirigere la propria affettività, e conserva piena consapevolezza di ciò che vuole e di ciò che non vuole, delle idee su cui ama soffermarsi e dei pensieri che preferisce scacciare. L'ebbrezza della passione sembra, anzi, derivare proprio dall'impressione esaltante di poter sempre condurre il gioco, anche quando questo diviene molto rischioso.
Quando una persona avverte d'aver perso la capacità di scegliere volontariamente dove indirizzare la propria attenzione, il proprio interesse, la propria fantasia, prova il disagio terribile della perdita della libertà, della costrizione, della prigione più dura, perché libertà significa, infatti, per ogni uomo, poter agire ma, soprattutto, poter pensare ciò che più gli aggrada.
"Se l'Io non è più padrone, se non ha alcuna influenza sull'oggetto che vuol fare contenuto della propria coscienza, se piuttosto il contenuto momentaneo della coscienza persiste anche contro questa volontà - sostiene Kurt Shneider - allora l'Io si pone in lotta contro questo contenuto, che vorrebbe ma non può scacciare, ed esso acquista il carattere della coazione psichica. ... Il soggetto, invece della normale coscienza di dirigere la sequenza dei contenuti ai quali egli si rivolge, ha la coscienza coatta di non potersi sottrarre ad essi."
Ma lo psicopatologo non può limitarsi alla descrizione del fenomeno; egli deve chiedersi da chi e da dove proviene quest'imposizione, e perché.
Per accedere nell'animo delle persone fobiche e per aprire le porte simboliche dietro cui esse si barricano è necessario un lavoro da certosino, finalizzato al consolidamento del terreno comunicativo; solo così facendo si consentirà loro di vincere il terrore, comunemente evidenziabile in essi, nelle fasi iniziali della terapia, di addentrarsi nella "palude insidiosa" dell'intimità dialogica.
Per il fobico-ossessivo avvertire che il terapeuta è capace di sentire allo stesso modo in cui egli sente, non costituisce solamente motivo di rassicurazione, ma è il sine qua non della terapia. La fiducia nel terapeuta si basa in gran parte su questo sentimento dell'essere compresi, dovuto principalmente alla capacità, attribuita al terapeuta, di sentire in modo analogo al proprio e quindi di cogliere e portare dentro di sé (einfuhren), per sanarla, la profondità e la drammaticità della propria sofferenza, anzitutto accettandola e, in qualche modo, condividendola. Può essere utile, come esempio, riportare alcuni brani tratti dalle sedute del lungo percorso terapeutico di Marino che, al solo scopo di offrire una traccia espositiva ho evidenziato in sequenza numerica. 1) Il sogno del feto Nel corso di una seduta Marino racconta un sogno: "C'era una donna che mi sorrideva e mi accarezzava in modo seducente; ero molto affascinato da lei perché era proprio il tipo di donna che mi è sempre piaciuta: morbida, accogliente e carezzevole. Ad un certo momento, però, l'atmosfera cambiò e divenne molto meno piacevole: la donna si allontanò per gettare via qualcosa; mi resi conto che si trattava di un feto e realizzai, d'un tratto, che quel feto ero io stesso. Fui colto da un fortissimo senso d'angoscia e mi svegliai molto agitato". 2) Il ricordo della madre In un'altra seduta Marino descrive la madre: "Era molto bella ed io le ero molto attaccato. Ricordo che mi addolorava vederla andar via, ma questo accadeva spesso poiché, più volte durante la settimana, prendeva l'autobus per recarsi a Cagliari dove abitava mia nonna. Ritornava solo alla sera tardi ed io ricordo lucidamente, ancora oggi dopo tanti anni, con quanta trepidazione la stavo ad aspettare, preoccupato che le potesse succedere qualcosa ed allo stesso tempo offeso perché mi aveva lasciato a casa e non mi aveva portato con sé... Credo di aver provato nei suoi confronti rabbia ed anche desiderio di farle del male. Ricordo che desideravo morire, così lei avrebbe sofferto per la mia scomparsa e, solo dopo averla vista soffrire a lungo, finalmente soddisfatto, sarei resuscitato". 3) la disgrazia
All'età di 12 anni la vita di Marino fu segnata da una grave tragedia: durante un'alluvione la casa dove abitava coi genitori ed i fratelli crollò e tutta la famiglia rimase sepolta sotto le macerie; il padre e la madre con alcuni fratelli perirono; lui ed un altro fratello si salvarono miracolosamente: "Ricordo un boato e la netta sensazione di precipitare nel vuoto, poi il silenzio, il buio, il freddo, un peso opprimente sopra il mio corpo che mi impediva di muovermi; e poi le voci di qualcuno che chiamava me ed i miei fratelli, qualcuno che ci veniva in aiuto". 4) l'accoglienza e l'affetto Marino fu invece accolto nella famiglia di una zia dove trovò calore e affetto e grande dedizione: "Mi trattavano tutti con tanta cura e mi davano molto amore. Oserei dire che nella famiglia di mia zia ricevetti l'affetto che avrei voluto avere da mia madre e da mio padre: quelle carezze e quella tenerezza che avevo sempre desiderato e che mi erano sicuramente mancati, mi venivano prodigati in abbondanza da mia zia e dalle mie cugine". 5) la separazione e il lutto Quel periodo felice durò solo qualche anno. All'età di 14 anni gli zii decisero che Marino dovesse essere ospitato in un collegio per orfani a Cagliari: "Quando mio zio mi accompagnò in collegio, ricordo il mio stato d'animo. Nel salire le scale di quell'istituto mi sentivo morire, o meglio, era come se assistessi lucidamente al mio funerale! Fu allora che pensai veramente alla fine, ancor più che nei giorni della disgrazia, perché, confinato in quella prigione, avrei certamente perduto ogni cosa, il mondo intero e, con esso, tutto ciò che amavo". 6) la solitudine Il primo anno passato in collegio viene ricordato da Marino come la fase più triste e buia della sua vita: "Il tempo trascorreva all'insegna della tristezza e dello sconforto; piangevo spesso, amareggiato dalla mia solitudine, ed il ricordo dei bei giorni passati nella famiglia degli zii rendeva ancora più difficile la condizione presente". Nel collegio si sentiva come in gabbia ed i rari momenti di evasione consistevano nelle giornate di vacanza in cui gli veniva consentito di allontanarsi per recarsi dai parenti. "Fu in quel periodo - ricorda Marino - che cominciai ad avvertire delle paure che in precedenza non avevo mai provato, come, ad esempio, la paura di non trovare nessuno dei parenti ad accogliermi alla fermata dell'autobus, una volta arrivato in paese; se ciò accadeva venivo colto da un vero e proprio terrore per cui, non riuscendo a scendere dall'autobus, mi facevo riportare a Cagliari da dove ero partito". 7) La vita sessuale
"I miei primi approcci al sesso, le mie prime esperienze, le feci con una ragazza più grande di me che prestava sevizio nel collegio come assistente. Lei era amorevole e disinvolta; io impacciato ed ombroso; mi stizzivo quando la vedevo parlare con altri; mi arrabbiavo quando alle feste ballava con altri, e le tenevo il broncio per giorni e giorni. Più avanti negli anni, mantenni sempre, nei confronti dell'altro sesso, un atteggiamento diffidente e preoccupato, pur essendo molto attratto dalle donne. Era come se volessi continuamente prova, dalle ragazze che mi interessavano, della massima attenzione nei miei riguardi e della più grande dedizione. Avrei voluto essere sempre vezzeggiato e coccolato; e, se ciò non accadeva, mi incupivo col solo risultato di allontanarle ulteriormente da me; e questo mi riempiva di amarezza, non riuscendo a farmi una ragione dell'essere trattato freddamente, io che desideravo solo calore e tenerezza!" 8) L'idea della morte "L'idea della morte è sempre in agguato, da molti anni, pronta ad inquinare ogni cosa che faccio, ogni progetto, ogni incontro; so che può comparire all'improvviso in qualsiasi momento, quando lavoro, quando guido l'auto, quando sono a tavola o davanti al televisore, quando faccio l'amore, ed anche quando dormo. Di recente ho fatto un sogno in cui, insieme a mia figlia partecipavo ad un funerale; ma nel sogno sapevo che il morto ero io e rimproveravo mia figlia perché, durante il funerale, non riusciva a tenere un comportamento consono alla circostanza, non dimostrando alcun rispetto per il padre defunto". Al di là delle suggestioni interpretative che i brani, tratti dalle sedute registrate di Marino, offrono sul versante strettamente psicanalitico, per consentire alla discussione di svolgersi nel campo più specifico, e per me sicuramente più congeniale, dell'analisi fenomenologica, vorrei concisamente riprendere e sottolineare alcune problematiche che emergono nel caso che ho proposto alla vostra attenzione:
1) La problematica del conflitto e dell'angoscia. La problematica del conflitto e dell'angoscia
Partendo dal presupposto che l'angoscia affonda le sue radici nel conflitto sia esso presentato come operante tra istanze psichiche (voler essere e poter essere) o tra parti costitutive dell'Io (Es e Super-Io), va da sé che il conflitto intrapsichico non può che derivare da un conflitto relazionale introiettato, da un conflitto tra persone, tra soggetti, tra soggetti interagenti. E l'essere della persona, il suo esistere, consiste nel suo essere nel mondo, nella sua erlebniss, nel suo manifestarsi, nel declinarsi della sua presenza.
"L'angoscia, intesa sul piano antropologico, è l'angoscia della persona che si affaccia all'orrore del nulla". (Cargnello, "Alterità e alienità") La problematica del tempo in rapporto alla libertà di decidere
La prima problematica si collega implicitamente alla seconda. La presenza, come dimensione dell'essere-nel-mondo è, infatti, un temporalizzarsi, un porsi nel tempo.
E' facile comprendere, a questo punto, che il comportamento ossessivo non si esprime secondo un'obbligatorietà degli atti che esclude l'intenzionalità; il passato conflittuale, infatti, viene rimesso in gioco con l'implicita intenzione di provare a superare, nella sua riproposta, il conflitto originario, ed è solo così che, proprio grazie alla scelta intenzionale di attualizzare simbolicamente il passato, il fobico dischiude l'uscio alla speranza.
Il campo della possibilità coincide con quello della libertà in quanto una persona può considerarsi veramente libera se, mentre agisce, ha la coscienza di poter decidere liberamente, in qualsiasi momento, di agire diversamente da come sta agendo. Ma questa coscienza manca nell'ossessivo, in quanto egli ha perso il senso del poter-essere come possibilità di essere altrimenti da come è. La problematica del rivelarsi
La problematica in oggetto è legata alle due precedenti, in quanto rivelarsi significa farsi conoscere, mostrare ciò che si vale, letteralmente "togliersi il velo", scoprirsi, e quindi ritornare alla condizione primitiva.
La decisione anticipatrice, l'intenzione di essere, di svolgere la propria vita dando ad essa l'impronta del divenire, la possibilità di evolversi, tutto questo, secondo Heiddeger è il modo autentico di vivere, ma è anche quello che, in quanto svolge il filo del tempo, avvicina inesorabilmente alla fine.
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