1 - Riassunto
L'emozione non è una carica energetica che si lega alla rappresentazione,
non è un'entità psichica, ma è un processo psichico
complesso, costituito da molte componenti, fra cui quelle: cognitive, conative
e motivazionali, espressive, performative, elicitative, di consonanza,
strutturanti il Sé e l'identità (personale, di coppia, di
gruppo). Ed è un processo così rapido, che spesso è
stato colto come un tutto unico non articolato, e le sue componenti sono
state spesso tra loro confuse. Spingendo all'azione, le emozioni devono
essere gestite. La capacità di gestione delle emozioni si struttura
nei processi relazionali a partire dalle relazioni fondanti di base. L'invidia
è quella particolare forma di dolore mentale che è connessa
alla percezione della differenza con proprio svantaggio. La questione dell'invidia
risiede principalmente nella gestione del dolore mentale invidioso. Molti
sono i modi attraverso cui si può cercar di annullare, prevenire
o lenire tale dolore, fra cui uno, il più appariscente, il più
dannoso (e il più studiato), è quello di distruggere o danneggiare
la cosa o la persona che lo suscita. Bambini e adulti che siano stati esposti
in modo ripetitivo, rigido e traumatico al dolore mentale invidioso possono
strutturare un particolare assetto mentale (quasi) permanente - l'assetto
mentale invidioso - che ha la paradossale caratteristica di essere finalizzato
a prevenire e combattere ogni situazione che potrebbe esporre al dolore
mentale invidioso, ma che, di fatto, fa vivere il soggetto perennemente
immerso nei sistemi intrapsichici e relazionali dell'invidia.
2 - Premessa
Questo lavoro si compone di otto parti. Nella prima richiamerò
succintamente la teoria psicoanalitica classica delle emozioni in generale
e dell'invidia in particolare. Nella seconda presenterò sinteticamente
i concetti fondamentali della moderna teoria integrata delle emozioni,
alla luce della quale, dopo la brevissima terza parte in cui dirò
qualcosa sui differenti tipi di dolore mentale, nella quarta parte illustrerò
una nuova concezione dell'invidia intesa, appunto, come uno specifico dolore
mentale. In entrambi i capitoli secondo e quarto cercherò di evidenziare
sia l'importanza della gestione delle emozioni in generale e dell'invidia
in particolare sia l'importanza, teorica ma anche pratica, di tenere concettualmente
distinte le emozioni dalla gestione di esse. Nella quinta parte accennerò
ai più rilevanti modi di gestione dell'invidia. Nella sesta introdurrò
brevemente il concetto di "assetto mentale" in generale, per poi trattare
brevemente nella settima parte lo specifico assetto mentale invidioso.
Nell'ottava e ultima parte farò brevissimi accenni alle possibilità
di terapia.
In questo lavoro non esaminerò né le specificità
del declinarsi dell'invidia nei differenti tipi di relazione, né
le differenti teorie sull'invidia nella storia del pensiero occidentale,
né tratterò gli interessanti temi dei rapporti fra gelosia
e invidia, fra invidia e narcisismo, fra invidia e colpa, fra invidia e
desiderio, fra invidia e relazioni amorose, fra invidia e depressione,
e neppure potrò accennare alle rilevanze dell'invidia nelle relazioni
fra le generazioni e nella trasmissione transgenerazionale della patologia
mentale, né dell'invidia in rapporto alla gestione dei doni, né
dell'invidia nei gruppi, nelle organizzazioni, nelle associazioni e nelle
comunità, ivi compresa quella particolarissima comunità che
è la famiglia. Mi riservo di completare e integrare questo ampio
percorso in altra più estesa e più documentata opera.
In un lavoro di queste limitate dimensioni, è inevitabile che
la trattazione sia estremamente sintetica. Per questo motivo l'esposizione
sarà prevalentemente di tipo assertivo, anche se cercherò
di non mimetizzare i problemi e di essere sufficientemente discorsivo e
chiaro. Mi auguro che l'inevitabile schematicità nulla tolga alla
percezione della complessità e della problematicità del tema,
o alla chiarezza e all'articolazione della trattazione.
3 - Cenni sulla teoria psicoanalitica classica delle emozioni
e dell'invidia
Nella teoria psicoanalitica classica dell'invidia, "invidia" e "distruttività"
sono pressoché sinonimi, dato che l'invidia è ritenuta espressione
della pulsione di morte. L'invidia è così concepita, in ultima
analisi, come insensata, ereditaria, biologicamente fondata, sostanzialmente
immodificabile (se non nel lunghissimo periodo) e solo parzialmente integrabile.
Come ogni emozione, nella teoria psicoanalitica classica l'invidia
è riducibile ad un "quantum" di energia psichica, che acquista specificità
e sensatezza dall'essere, o meno, legata a particolari rappresentazioni.
La teoria psicoanalitica classica delle emozioni si fonda sulla prospettiva
"economica", che a propria volta è basata sulla teoria energetica
della mente. La mente sarebbe mossa e sostenuta nella sua attività
dalla spinta pulsionale, cioè dal bisogno di scaricare l'energia
psichica prodotta e accumulata dall'organismo psicobiologico. Schematicamente,
gli istinti sarebbero biologicamente determinati, speciespecifici, strutturati
nella filogenesi ed acquisiti dal singolo soggetto per via ereditaria.
Freud fu sempre vicino più al Lamarkismo che non al Darwinismo per
quel che riguarda le sue concezioni sull'ereditarietà e sull'evoluzione
della specie. Per lui, cioè, l'ereditarietà dei caratteri
acquisiti era pensata come un fatto, e non come un'ipotesi. Gli istinti,
allora, venivano da lui concepiti come quasi fissi, ma modificabili, anche
se limitatamente e con estrema difficoltà, sia nell'individuo sia,
attraverso di esso, nell'intera specie.
Le pulsioni, sempre per la psicoanalisi classica, sarebbero i rappresentanti
psichici degli istinti, dove gli istinti sarebbero spinte biologiche e
le pulsioni spinte psichiche.
L'emozione per Freud era, dunque, una carica energetica. A volte sembrerebbe
che egli concepisse l'esistenza di cariche energetiche differenti fra di
loro per spiegare i differenti tipi di emozione; mentre altre volte sembrerebbe
che le differenze nella percezione delle differenti emozioni fosse per
lui sostenuta essenzialmente dai legami che le singole cariche energetiche
strutturavano con le rappresentazioni.
Comunque sia, per Freud e per la psicoanalisi classica l'emozione è
una carica energetica di "energia psichica", prodotta e sostenuta direttamente
dall'istinto, attiva nella mente attraverso la pulsione, che inesorabilmente
fa pressione per arrivare alla scarica, e che si lega in vari modi con
specifiche rappresentazioni psichiche.
Le questioni fondamentali riguardanti l'emozione, allora, erano quelle
della possibilità di scarica energetica, della eventualità
di inibizione della scarica, e della necessità di sospensione e
di rinvio della scarica. Per questo erano importanti le possibilità
di deviazione dalla scarica diretta, attraverso la creazione di vie collaterali,
più o meno tortuose, nella creazione delle quali si trovavano in
primo piano le vicissitudini dei legami che l'emozione poteva stabilire
con le rappresentazioni psichiche.
Forse vale la pena ricordare per inciso che tutto ciò vale per
il Freud teorico metapsicologico, perché per il Freud clinico le
emozioni sono i vissuti personali e relazionali di esperienze concrete.
Ma anche nei momenti di maggiore aderenza all'esperienza relazionale della
clinica, Freud osservava i vissuti emotivi in filigrana, cercando di cogliere
in essi le vicissitudini delle pulsioni. In fondo, per lui la terapia consisteva,
sostanzialmente, nel riconoscimento delle specifiche basi pulsionali dei
disturbi psichici e nella ricerca di vie adeguate per realizzare l'auspicato
deflusso della cariche energetiche che erano rimaste intrappolate, "ingorgate"
nella mente.
L'invidia non sembra avere per Freud un proprio particolare statuto
autonomo. È il complesso ideoaffettivo dell'invidia del pene che
per lui diventa rilevante, non già l'invidia di per se stessa.
È con Melanie Klein e la sua scuola che l'invidia assurge a
pilastro della vita psichica, vero primo (o tutt'al più secondo)
motore della mente. L'invidia venne concepita come diretta espressione
della pulsione di morte, quando non come suo esatto sinonimo.
L'invidia sarebbe allora fondamentalmente distruttiva, quantitativamente
e qualitativamente immutabile, acquisita dal soggetto per via ereditaria,
differentemente posseduta dai differenti soggetti come una delle caratteristiche
psicobiologiche di base. Essa può anche essere messa al servizio
dell'Io e della pulsione libidica non solo perché, attraverso il
senso di colpa per la distruzione fantasmatica dell'oggetto d'amore, può
far maturare la posizione depressiva e il correlato senso di responsabilità
e di amore maturo, ma anche perché può consentire di utilizzare
la forza per l'esplicazione di sé nell'esistenza.
Per la teoria psicoanalitica classica kleiniana, la questione fondamentale
relativa all'invidia è quella di poterne riconoscere la non onnipotenza,
così da rendere sopportabile l'angoscia da essa generata e da poter
integrare i costrutti su di essa basati con i costrutti basati sulla pulsione
libidica. E la terapia consiste essenzialmente nel riconoscimento della
pulsionalità distruttiva quale base dei disturbi psichici, i quali
in definitiva sarebbero l'espressione dei tentativi della mente di farvi
fronte.
4 - Cenni su una teoria integrata delle emozioni
Conviene dire subito che l'energia psichica non esiste. Non è
possibile, per esempio, né misurarla, né cogliere elementi
biochimici o fisici che la producano, la conservino o la trasformino. Ne'
le vicende riguardanti la produzione, il trasporto e il catabolismo dei
mediatori chimici nel sistema nervoso centrale, periferico o autonomo hanno
qualcosa a che fare con una "energia psichica".
Si tratta soltanto di una metafora, e come tale può piacere
o non piacere, può essere ritenuta più, oppure meno, dotata
di valore euristico, ma non può in alcun modo essere presa come
un'entità realmente esistente. Non fa parte dell'arredo del mondo,
direbbero alcuni filosofi contemporanei. Trattandosi di una metafora, può
essere facilmente abbandonata non appena se ne avvertano i limiti e le
pastoie sul piano euristico. È doveroso, peraltro, riconoscere che
molto spesso coloro che utilizzavano (o continuano a utilizzare) il concetto
di "energia psichica" hanno operato una vera e propria reificazione della
metafora.
Credo, dunque, che si possa dire con chiarezza e con sufficiente tranquillità
che la teoria psicoanalitica classica, che intendeva le emozioni come un
quantum energetico di cui era possibile rinvenire origine e vicissitudini
(origine pulsionale, legami con rappresentazioni, ingorghi, deflusso, scarica,
spostamento, ecc.), al giorno d'oggi ha soltanto un valore storico.
Possiamo dire, invece, che l'emozione, lungi dall'essere un'entità,
è un processo psichico assai complesso, di cui possono essere individuati
molti aspetti e molte componenti (v., per esempio: Roccato, 1991). (1)
La teoria energetica delle emozioni (che sembrerebbe più adeguata
a descrivere sistemi idraulici o elettrici che non quelli psichici e relazionali)
comporta inevitabilmente un'estrema farraginosità nelle teorizzazioni
ad essa subordinate, particolarmente in quelle necessarie per cogliere
gli accadimenti relazionali all'interno degli aggregati umani, dalla minima
alla massima estensione.
Ma, soprattutto, essa non spiega in modo soddisfacente né i
portati cognitivi delle esperienze emotive, né le dinamiche interazionali
degli accadimenti emozionali, né tanto meno il divenire e lo sviluppo
delle emozioni e del sistema emotivo, riducendolo, in definitiva, alle
vicissitudini delle connessioni fra emozione e rappresentazione.
Oltre tutto, se l'emozione fosse semplicemente una carica energetica,
sarebbe assai difficile spiegare come le differenti emozioni si vengono
a caratterizzare, differenziandosi specificamente tra di loro nell'ampia
tavolozza piena di sfumature di cui disponiamo nelle esperienze reali di
vita. È pur vero che come l'energia della Fisica si presenta differenziata
in tipi caratteristici (energia elettrica, dinamica, nucleare, chimica...),
si potrebbe ipotizzare un analogo differenziarsi delle emozioni in differenti
forme di "energia psichica" (gioia, gratitudine, dolore depressivo, invidia,
nostalgia, furore, ...); ma bisognerebbe ipotizzare delle differenziazioni
nelle fonti di energia psichica, e poi spiegare le trasformazioni dell'una
forma di energia nell'altra. Anche se geniale, sembra insufficiente la
spiegazione che ricorre semplicemente ai legami con differenti rappresentazioni.
Invero, gli accadimenti emotivi sembrano avere una propria autonoma
dignità e dei propri autonomi significati funzionali. È necessaria
una teoria differente, meno improbabile, più esplicativa e che possa
comprendere l'insieme dei fenomeni reali, soprattutto relazionali, esperibili
e osservabili nel corso delle esperienze reali di vita.
L'emozione, dunque, non è "un'entità" psichica, non è
"una cosa" all'interno della mente, non è "una carica energetica",
ma è un processo psichico. Un processo psichico molto complesso
ed estremamente rapido nel suo esplicarsi e realizzarsi, tanto da essere
stato inteso molto spesso come un tutto unico misconosciuto nelle sue componenti,
nelle sue molteplici rilevanze e nel suo divenire.
Ogni volta che si attiva un'emozione, si attivano, tra loro strettissimamente
interconnessi, dei processi fra loro distinguibili che, nel loro insieme,
costituiscono l'emozione stessa. Possiamo considerare tali sub-processi
costituenti l'emozione come aspetti dell'emozione. Una prima grande suddivisione
è fra gli aspetti somatici, quelli intrapsichici e quelli relazionali.
I principali di essi sono:
a - Aspetti somatici delle emozioni. Interessano soprattutto
la sfera immuno-neuro-endocrina dell'organismo, e consistono principalmente
in quelle che venivano chiamate "reazioni neurovegetative" del sistema
nervoso autonomo. Forse non è il caso di illustrarli in dettaglio,
in questo breve lavoro (fenomeni cardiocircolatori, dell'apparato pilifero
e sudoriparo, della pupilla, della conducibilità elettrica della
pelle, del respiro, gastroenterici, endocrini, ecc.). Si tratta, comunque,
di fenomeni quasi sempre poco o addirittura a-specifici rispetto alle differenti
emozioni.
Fra gli aspetti somatici rientrano anche quelli mimici (caratterizzati
da una maggiore specificità rispetto alle differenti emozioni),
alcuni dei quali sono specie specifici geneticamente determinati (vengono
presentati anche dai ciechi), altri sono strutturati e trasmessi su base
culturale. Gli aspetti mimici, però, appartengono anche a quelli
relazionali ed espressivi, come è del resto, sia pure ad altri livelli
di comunicazione, per la produzione di feromoni.
Può appartenere a un interesse storico ricordare che vi fu chi
(James, per esempio), nell'intento di fondare un approccio scientifico
empiricamente controllabile, ridusse l'emozione soltanto ai suoi aspetti
somatici.
b - Aspetti cognitivi (conoscitivi) delle emozioni. L'emozione,
attraverso un sistema di circuiti neurologici primitivi, ci fa conoscere
- immediatamente e direttamente - il significato vitale che una certa realtà,
una certa situazione o una certa esperienza hanno per noi stessi: se si
tratta di qualcosa di penoso, di piacevole, di desiderabile, di pericoloso,
di temibile, e così via.
Vorrei sottolineare che l'emozione non segnala soltanto il valore edonico
(di piacere o di dispiacere), ma designa anche il significato vitale (quanto
si tratta di realizzazione e quanto di non realizzazione di aspetti di
sé, per esempio) cosa che è assai più che non il puro
e semplice piacere/dispiacere. È pure importante sottolineare che
la cognizione che ci deriva dalle emozioni non riguarda mai la cosa, ma
sempre la relazione della cosa con il soggetto e del soggetto con la cosa.
Non la realtà di per se stessa, ma il rapporto che la realtà
può strutturare con noi e che noi possiamo strutturare con la realtà
in quel dato momento.
Per esempio: io cammino su un sentiero in montagna, e, a un certo punto,
faccio un salto per aria e poi, soltanto dopo, mi accorgo che una vipera
mi ha attraversato la strada. Cosa è successo? "È accaduto
che mi sono spaventato", si potrebbe dire. E questo è vero. Ma è
accaduto molto di più. Si è attivato in me un insieme di
processi, che posso, almeno a posteriori, riconoscere e distinguere. Ho
realizzato una prima cognizione immediata, che potremmo chiamare "cognizione
emotiva", attraverso un sistema primitivo e rapidissimo (corrispondente
ai sistemi neurologici sottocorticali archipalliali), che mi ha fatto cogliere
il significato per me di quella realtà in cui mi ero imbattuto,
mi ha fatto cogliere la relazione fra quella realtà e me, che in
questo caso era "Attenzione! Pericolo!". E mi ha immediatamente portato
ad un'azione, che non è un'azione purchessia, ma che è conseguente
e adeguata alla cognizione stessa. Questi processi non sono collaterali,
ma fanno parte di un tutt'uno. Non si presentano mai isolatamente, ma sempre
tra di loro interconnessi. Sono sub-processi che fanno parte del processo
globale dell'emozione in atto. In questo caso: dell'emozione "spavento".
Solo in un secondo tempo, attraverso un altro, più evoluto sistema
cognitivo, ho potuto strutturare un altro tipo di cognizione, più
inerente alla cosa e alla situazione di per se stesse, considerate anche
al di fuori del rapporto vivo con me: ho potuto conoscere che quella cosa,
quella realtà per me potenzialmente pericolosa era una vipera. Solo
a partire da questo punto mi diventa possibile integrare le due cognizioni,
migliorando le possibilità di far fronte a quella specifica realtà
con cui mi sono trovato in relazione. E poi, in tempi successivi, per conoscere
ancora meglio come è fatta una vipera, per conoscerne, poniamo,
anatomia fisiologia etologia ecc., sono questi ultimi i sistemi cognitivi
che ho da utilizzare: i sistemi cognitivi connessi ai circuiti neurologici
corticali neopalliali.
Il sistema cognitivo delle emozioni, dunque, ci fa conoscere della
realtà soltanto ciò che è in relazione alla soggettività
del soggetto. Esso è il sistema attraverso cui conosciamo le relazioni,
soprattutto quelle interpersonali, per quel che di soggettivo per noi è
in esse rilevante.
Il sistema cognitivo delle emozioni è la via regia per la conoscenza
di sé e degli altri in quanto impegnati in interazioni e in relazioni.
È il sistema che continuativamente, in modo incessante, conscio-preconscio
ma soprattutto preconscio-inconscio, monitorizza la relazione in corso
fra noi e l'ambiente, soprattutto umano, in cui ci troviamo inseriti e
impegnati momento per momento.
c - Aspetti conativi (motivazionali) dell'emozione. Come
abbiamo visto nell'esempio dello spavento, l'emozione spinge immediatamente
all'azione. Ma la spinta all'azione è talmente immediata e talmente
cointessuta con gli aspetti cognitivi dell'emozione stessa, che talvolta
le emozioni sono state viste in termini riduttivi come fossero pure e semplici
spinte all'azione. Credo che nel misconoscimento di queste differenti componenti
dell'emozione risieda una delle radici che hanno indotto Freud e i pionieri
della psicoanalisi a intendere l'emozione come fosse una carica energetica
da scaricare. Vale la pena ricordare che la spinta all'azione non è
solo quella immediata: sono principalmente le emozioni quelle che spingono
ad assumere un comportamento anche complesso, o a strutturare e a mantenere
un progetto anche articolato. Vedremo come questo aspetto del processo
emotivo esiga che le emozioni siano gestite. Anticipo questo concetto perché
è fondamentale per lo sviluppo del mio pensiero in questo lavoro.
d - Aspetti comunicativi dell'emozione. L'emozione, col
suo realizzarsi e manifestarsi psicocorporeo, comunica immediatamente agli
astanti non solo l'emozione stessa, ma anche l'essenza dei dati cognitivi
e conativi in essa contenuti. Un'emozione la si vive. E, mentre la si vive,
la si esprime. Ed esprimendola, la si comunica.
Prendiamo i cavalli, per esempio. I cavalli osservati liberi nella
prateria sono molto interessanti, in quanto animali sociali molto emotivi.
Hanno una vista molto particolare, dovuta al fatto che il loro cristallino
è un grandangolo che dà loro la capacità di mettere
a fuoco dal filo d'erba che è davanti al loro muso fino all'orizzonte
estremo. E hanno le orecchie che si muovono. La testa può restare
ferma e possono muovere le orecchie, non solo insieme, ma anche un orecchio
solo per volta, cosi' come possono muovere un solo occhio. Quando sono
in branco, a un osservatore superficiale sembrano ognuno per i fatti propri,
o tutt'al più in relazioni ristrette secondo una certa prossemicità:
qualcuno si struscia, qualcuno si annusa, si soffiano sul muso in segno
di riconoscimento e di affetto, e così via. Ma tra di loro, fra
tutti loro, anche fra i più lontani, è sempre attivo, momento
per momento, il sistema di comunicazione emotiva. Se ad un certo momento
si presenta, poniamo, un rumore improvviso, o il vento muove un pezzo di
carta per terra, il cavallo che lo nota ha una reazione emotiva. Se l'impatto
emotivo è piccolo, muove un orecchio solo in direzione dello stimolo
che ha suscitato la risposta emotiva. E gli altri cavalli, pur continuando
apparentemente a far la stessa cosa che stavano facendo, girano anch'essi
un orecchio in quella stessa direzione. E magari guardano anche in quella
direzione, muovendo anche solo un occhio. Questo girare l'orecchio o l'occhio
è un tentativo di arricchire la percezione emotiva con altri tipi
di cognizione. È una "ricognizione" per ottenere una "ri-cognizione"
(una ulteriore cognizione) degli accadimenti attraverso l'impiego dei sistemi
cognitivi neopalliali. Se invece l'impatto emotivo dell'evento è
grande, il primo cavallo girerà entrambe le orecchie, e non solo
un occhio, ma tutto il muso, e magari alzerà la testa e si disporrà
alla fuga o all'attacco, e potrà fare una sgroppata o anche potrà
partire al galoppo, con gesti accentuati e bene evidenti. Gli altri cavalli,
indipendentemente dal fatto di aver potuto percepire direttamente lo stimolo
che ha suscitato nel primo la risposta emotiva, avranno una manifestazione
emotiva e una risposta comportamentale analoghe.
Fenomeni simili si vedono con grande evidenza nelle interazioni fra
bambino e madre, per esempio, o nei gruppi, o nella folla. Ma sono presenti
sempre, in ogni interazione umana.
Ognuno di noi ha sempre vigile e attivo il proprio apparato per il
monitoraggio emotivo della relazione (monitoraggio soprattutto inconscio
e preconscio, ma anche del tutto consapevole), per cui ogni emozione esperita
dall'uno trova canali già pronti negli altri che con lui sono in
relazione, così da garantire immediate consonanze, risonanze e complementarità
emotive. Questa osservazione ci introduce agli ultimi quattro aspetti del
processo emotivo che qui voglio ricordare.
È certamente più facile che questi processi emotivi interattivi
si realizzino per le emozioni fondamentali semplici, quali, per esempio,
la paura, il dolore mentale depressivo, l'angoscia, la rabbia, l'ilarità;
e con maggiore difficoltà per le emozioni complesse e sfumate, quale
potrebbe essere, tanto per fare un esempio, una nostalgia venata di sottile
speranza, con timore e apprensione per l'incertezza del futuro. Perché
la comunicazione si realizzi pienamente in questi casi, bisogna che i partner
interazionali siano molto più in contatto nella relazione.
e - Aspetti espressivi dell'emozione. Sono gli aspetti
dei processi emotivi che manifestano agli astanti il vissuto in atto in
chi sta vivendo quella data emozione. Possono bastare pochi accenni.
Già Darwin fece uno studio comparato sull'espressione delle
emozioni nell'uomo e negli animali, divenuto un classico. I modi e le vie
dell'espressione delle emozioni possono essere sia consapevoli e controllabili
sia inconsapevoli e incontrollabili. Intervengono sia le modificazioni
somatiche, grossolane, fini e finissime che vanno dalla mimica alle manifestazioni
neurovegetative fino al livello biochimico dei feromoni; sia le gestualità
culturali, anch'esse dalle più grossolanamente evidenti (come potrebbe
essere, per esempio, il pianto rituale) alle più fini e quasi impercettibili
(quali un lieve ammiccare o la velocità o la fissità di uno
sguardo).
Fra le modalità attraverso cui si realizzano gli aspetti espressivi
dei processi emotivi rientrano le componenti non verbali e paraverbali
della comunicazione, oltre, ovviamente, alle componenti verbali. Alcuni
aspetti dell'espressione delle emozioni sono innati e specie specifici,
altri sono appresi, consolidati e trasmessi culturalmente nelle interazioni
reali.
f - Aspetti elicitativi dell'emozione. Sono gli aspetti
comunicativi che suscitano negli astanti emozioni e risposte emotive, corrispondenti,
complementari o simmetriche. Un bambino che piange, per esempio, tende
a suscitare, di solito, compassione e tenera sollecitudine.
g - Aspetti performativi dell'emozione. Sono gli aspetti
comunicativi che suscitano negli astanti, risposte comportamentali o, comunque,
delle azioni. Anche queste possono essere corrispondenti, complementari
o simmetriche rispetto all'input relazionale emotivo. Un bambino che piange,
per esempio, tende a suscitare, di solito, interventi di soccorso, di aiuto,
di rassicurazione e di consolazione. Qualche infame geniale ingegnere ha
utilizzato questo fatto, delicato e fondamentale nelle interazioni di aiuto
fra umani, per congegnare un antifurto diabolico, che emette il suono corrispondente
al pianto di un bambino disperato, per suscitare allarme, attivo interesse
e immediato soccorso, anziché la solita sirena, che suscita fastidio
e tutt'al più allarme guardingo per un pericolo che potrebbe colpire
lo stesso soggetto percepente.
h - Aspetti "di consonanza" dell'emozione, strutturanti
l'identità (personale, di coppia, di gruppo, di genere, di comunità,
di popolo, di nazione, di specie, di vivente) attraverso la costituzione
di un comune sentire, che ha a che fare col "senso comune", base fondamentale
del costituirsi, strutturarsi, consolidarsi e propagarsi fra le generazioni
e fra i coevi di ogni cultura antropologicamente intesa. Questi aspetti
sono fondamentali per la strutturazione del Sé, per la trasmissione
della vita psichica e della patologia mentale fra le generazioni e per
l'istituirsi e il dipanarsi di ogni tipo di psicoterapia, compresa la psicoanalisi.
Tutti questi aspetti dei processi emotivi sono importanti, ma,
per il tema che qui voglio trattare, il più importante di tutti
forse è che l'emozione spinge all'azione. Il che comporta, ovviamente,
che le emozioni devono essere gestite. La gestione delle emozioni viene
continuamente appresa attraverso la sperimentazione di sé nel corso
delle interazioni relazionali, a partire dalle relazioni fondanti di base,
via via nel corso di tutta la propria esistenza.
5 - Due parole sul dolore mentale
È sensato che esistano le psicoterapie solo per il fatto che:
- esiste il dolore mentale;
- esistono più modi di gestire il dolore mentale, alcuni più
vantaggiosi, altri meno, altri che si rivelano ancora più dannosi
del dolore mentale stesso;
- è possibile conoscere le basi psichiche e relazionali che
sottendono l'adozione o la non adozione di determinati modi di gestire
le emozioni;
- è possibile apprendere nuovi, differenti, più adeguati
modi di gestire il dolore mentale ed è possibile integrare fra loro
i differenti modi appresi.
È chiaro che il primo passo per apprendere dei modi di gestire
il dolore mentale è quello di riconoscerlo di volta in volta, in
ogni singola esperienza concreta di vita, nella sua specificità,
nel suo significato, nella sua sensatezza, nei suoi antecedenti, nelle
sue funzioni, nel suo divenire.
Come per tutte le emozioni, il riconoscimento originario di ogni specifico
dolore mentale, cui ogni successivo riconoscimento farà necessariamente
riferimento, può avvenire solo nel contesto interazionale di relazioni
interpersonali, e avrà un'importanza fondamentale nella strutturazione
del Sé del soggetto. Io chiamo relazioni fondanti di base le relazioni
originarie in cui si realizzano questi processi strutturanti.
In una prospettiva psicoanalitica che superi il paradigma individualistico-pulsionale
(secondo il quale la mente sarebbe attivata dalla endògena spinta
pulsionale) e che si fondi su un paradigma adattativo-cognitivistico-relazionale
(secondo il quale la mente si attiva per cercar di realizzare il massimo
di benessere e il minimo di malessere all'interno delle relazioni reali
con l'ambiente, umano e non, in cui il soggetto si trova a vivere), il
dolore mentale può essere visto come un'emozione spiacevole che
realizza la conoscenza emotiva di una realtà o comunque di una situazione
(soprattutto relazionale) che ha danneggiato (nel passato), sta danneggiando
(nel presente) o può danneggiare (nel futuro) il soggetto.
Vi sono molti tipi di dolore mentale, ciascuno dei quali ha caratteristiche
proprie. Si tratta di particolari emozioni strutturanti la cognizione emotiva
di specifiche esperienze vissute. Per fare alcuni esempi, tanto per chiarire
cosa intendo dire partendo da questa prospettiva integrata adattativo-cognitivistico-relazionale,
possiamo riconoscere e distinguere:
- Il dolore mentale depressivo, che è la specifica emozione
corrispondente all'esperienza di perdita di qualche cosa di buono. Può
trattarsi di una cosa materiale, di una persona cara, di una relazione,
di una propria qualità o abilità, di uno status sociale,
di una fantasia: di una qualunque realtà, sia interna sia esterna
alla mente, sentita come buona. Quello che conta è che si tratti
di qualche cosa che soggettivamente è sentito come perduto e che
soggettivamente sia sentito come buono (o come anche buono). Non conta
nulla quello che altri potrebbero ritenere sulla bontà o meno di
ciò che viene perduto, o sulla realtà o meno della perdita
effettiva: come per tutto ciò che riguarda il mondo delle emozioni,
contano soltanto gli aspetti soggettivi e gli aspetti relazionali.
Quando si tratta di aspetti di sé perduti, l'emozione adeguata
è quella del dolore depressivo narcisistico, che, fra tutti, è
forse il più terribile; mentre quando ciò che è stato
perduto è qualche cosa d'altro rispetto al Sé con cui si
era in rapporto, l'emozione adeguata è quella del dolore depressivo
relazionale (od oggettuale, se si vuole utilizzare questo tipo di espressione
ormai entrata nell'uso, che però, in questo contesto di pensiero,
potrebbe risultare fuorviante, dato che fa riferimento alle teorizzazioni
pulsionali della mente e della relazione). Quasi mai quest'ultimo dolore
mentale (quello depressivo relazionale) si presenta allo stato puro, giacché
con la cosa perduta (poniamo: un amore) si percepiscono perduti anche quegli
aspetti del Sé che erano in rapporto con quella cosa (poniamo: il
se stesso innamorato).
- L'umiliazione, che è lo specifico dolore mentale connesso
al percepirsi o all'essere percepito come privo di valore, spregevole,
soprattutto per incapacità, ipotetica o reale. Si tratta di un'emozione
che è molto connessa all'invidia, come avremo modo di vedere.
- La vergogna, che è lo specifico dolore mentale connesso
alla percezione di non corrispondere alle aspettative, proprie o altrui.
- La colpa, che è lo specifico dolore mentale corrispondente
alla percezione di proprie responsabilità nell'aver procurato un
danno a sé o ad altri, o di aver trasgredito a un ordine.
- La paura, che è lo specifico dolore mentale corrispondente
alla percezione di un pericolo.
- L'ansia, che è lo specifico dolore mentale connesso
alla percezione di un pericolo non individuato o di un pericolo che non
si sa come affrontare.
- L'angoscia, che è lo specifico dolore mentale corrispondente
alla percezione di non avere via d'uscita da una situazione comunque dolorosa
o pericolosa.
- La B, che è lo specifico dolore mentale connesso alla percezione
della perdita della speranza, in una prospettiva temporale inversa rispetto
a quella, per esempio, della colpa: proiettata dal presente verso il futuro
la disperazione, dal passato verso il presente (e poi, per estensione,
verso il futuro) la colpa.
- e così via, per molti altri tipi di dolore mentale.
Detto fra parentesi, nella Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo viene
considerata come diritto inalienabile anche la libertà da alcuni
tipi di dolore mentale, quali la libertà dalla paura. E questa è
una grande cosa nel processo di civilizzazione dell'umanità.
Ogni specifico tipo di dolore mentale ha una specifica funzione, che
è legata alla necessità che sia segnalato all'organismo psicobiologico
che qualche cosa di dannoso è, in quel dato momento, rilevante.
La spiacevolezza e la caratteristica del funzionamento del processo emotivo
di spingere all'azione garantiscono che la realtà (o la situazione
relazionale) dannosa non sia trascurata. Questo modo di funzionare della
nostra mente ha un grande valore adattativo.
I vari, differenti tipi di dolore mentale, inoltre, nelle loro specifiche
forme, impressi in modo indelebile nella memoria emotiva, funzioneranno
da segnale allorché l'organismo psicobiologico percepisce il profilarsi
di un'esperienza analoga a quella che in quelle specifiche occasioni ha
suscitato quello specifico dolore mentale. Anche qui il valore adattativo
di questo funzionamento della mente è chiaro: il soggetto può
disporre di modi preventivi, oltre che successivi, di gestione delle emozioni
dolorose. Forse è il caso di sottolineare che, in questa concezione,
non solo l'angoscia (come ben colto da Freud), ma ogni tipo di emozione
può assumere funzioni di segnale.
La nostra mente, bisogna aggiungere, è "fabbricata" così:
allorché un'esperienza (per essere più rigorosi: un episodio
di vita) contiene contemporaneamente aspetti dolorosi e aspetti piacevoli,
noi percepiamo prima quelli dolorosi o comunque spiacevoli, e poi, dopo,
eventualmente, anche quelli piacevoli. Se la minestra scotta, prima sentiamo
che scotta, e solo in seguito, eventualmente, sentiamo se è buona.
Il valore adattativo di questo fondamentale modo di funzionare della nostra
mente appare subito evidente, ed è quello di proteggerci dai possibili
danni cui la pura e semplice ricerca del piacere potrebbe esporci.
Tuttavia, è proprio su questi medesimi fondamentali modi di
funzionare che possono strutturarsi anche modi eccessivi o eccessivamente
rigidi di proteggersi dal dolore mentale, o di cercare di prevenirlo, magari
a scapito della realizzazione e dell'espansione di aspetti vitali del Sé.
Tutta la patologia mentale non organica può essere vista anche come
strutturata su non adeguate declinazioni e articolazioni di questi ambiti
del funzionamento della mente, connessi con la gestione delle emozioni
in generale e del dolore mentale in particolare.
Di ogni esperienza di dolore mentale, come del resto di ogni esperienza
emotiva anche non dolorosa, è possibile cogliere (e per una sufficiente
sanità mentale è necessario saper cogliere) l'intonazione
emotiva dell'esperienza in atto, il contenuto cognitivo che la percezione
emotiva apporta, la struttura relazionale che comporta quella specifica
esperienza emotiva, le specifiche modalità di gestione messe in
atto, nonché le possibili più vantaggiose modalità
di gestione che sono a disposizione per essere usate o in alternativa a
quelle adottate o con esse integrate.
Tutto ciò conduce a cogliere la sensatezza del vissuto reale
momento per momento; a valorizzarne i significati adattativi (che, ricordiamolo,
sono anche e soprattutto creativi); a cercare e a trovare, se necessario
e se possibile, modi più adeguati di affrontare l'esperienza reale
nel vivo della propria esistenza: a percepire e a realizzare sé
nel miglior modo possibile, o, il che è lo stesso, nel meno peggior
modo possibile.
Io ritengo che in questi processi di apprendimento della gestione delle
emozioni consista il nocciolo degli accadimenti terapeutici in ogni tipo
di psicoterapia (compresa la psicoanalisi), qualunque sia ciò che
lo psicoterapeuta (o lo psicoanalista) ritenga di fare, qualunque sia la
teoria cui ritiene di aderire e qualunque sia la teoria della tecnica cui
ritiene di fare riferimento e qualunque sia la tecnica che ritiene di stare
adottando.
Forse vale la pena notare, di passaggio, che questo modo di vedere
può dar ragione anche del fatto che psicoterapie differentissime,
basate su teorie della mente (e su conseguenti teorie della tecnica) fra
loro assolutamente incomparabili, possono dare analoghi buoni risultati.
Se le cose stanno così come a me sembra che stiano, tutto, allora,
dipenderà dai modi di gestione delle emozioni che il terapeuta ha
strutturato nella propria mente nel corso della propria esistenza e che
quindi ha a disposizione e che, di fatto, in modo inconsapevole, rende
disponibili al paziente per il suo apprendimento relazionale conscio preconscio
e inconscio attraverso il modularsi delle interazioni relazionali (oltre,
beninteso, che dalle sue capacità di sintonia con le emozioni del
paziente, da quella che potremmo chiamare la sua "intonatura emozionale").
6 - L'invidia come specifico dolore mentale
L'invidia è la "bestia nera" degli psicoanalisti (e degli analizzandi
e di noi esseri umani tutti, del resto). È un elemento importante
dell'esistenza che può seriamente ostacolare il benessere personale
e relazionale degli individui, delle coppie, dei gruppi e di ogni aggregazione
umana. Le teorizzazioni correnti sull'invidia, però, appaiono molto
farraginose e poco convincenti.
Se noi pensiamo l'invidia come una particolare forma di dolore mentale,
tutto si chiarisce, senza bisogno di teorizzare improbabili diavolerie
inaccettabili in quanto infalsificabili. Possiamo, così, formulare
la seguente definizione.
L'invidia è lo specifico dolore mentale, la specifica emozione
dolorosa che è adeguato alla percezione che noi non siamo o non
abbiamo qualche cosa di buono, ammirato, desiderabile o desiderato che
altre persone sono o hanno.
L'invidia è il dolore della percezione
delle differenze con proprio svantaggio.
Se questo, come sembra, è vero, la questione dell'invidia
risiede allora nella gestione di essa.
Questa definizione di invidia e questa distinzione fra invidia e gestione
dell'invidia sono il centro del mio pensiero in materia.
Sono state equivocate molte cose sull'invidia, perché si è
confusa l'invidia con la gestione dell'invidia, con i tentativi, cioè,
di annullare, attutire o evitare questo specifico dolore mentale. Sono
le caratteristiche del processo emotivo, che presenta aspetti tra loro
così interconnessi, così "appiccicati" da apparire all'osservazione
immediata indistinguibili, quelle che hanno favorito questa confusione.
Si tratta di un dolore mentale atroce, come si può desumere
non solo dall'esperienza personale diretta, ma anche dalla constatazione
di quanto potenti e sistematici siano i modi di gestione che vengono generalmente
attivati nel tentativo di annullarlo o di prevenirlo.
Ma perché è così atroce il dolore mentale "invidia"?
A me pare che si possano individuare due ordini di spiegazione, non
tra di loro in alternativa, ma che possono coesistere: l'uno, speciespecifico,
che riguarda tutti noi esseri umani e che venne selezionato dai processi
filogenetici nell'evoluzione della specie, e di cui possiamo forse solo
fantasticare, non essendo possibile una verifica ma, eventualmente, solo
una smentita; l'altro, ben verificabile in osservazioni longitudinali non
solo retrospettive ma anche prospettive, che riguarda soltanto alcuni individui
che, nelle relazioni fondanti di base, si sono trovati costretti a vivere
in modo traumatico ripetitivamente e rigidamente delle esperienze interazionali
specifiche di dolore invidioso e di umiliazione terribilmente angoscianti
che segnarono indelebilmente i processi ontogenetici della strutturazione
del loro Sé. Cercherò di chiarirli entrambi.
In ogni caso, l'entità del dolore mentale è connessa
all'entità del danno o del rischio colti attraverso il sistema cognitivo
emotivo: un dolore atroce ci segnala l'avvenuta percezione di qualche cosa
di estremamente dannoso e pericoloso, che non può in nessun modo
venire trascurato.
Come per ogni cosa fondamentale della mente, per comprendere appieno
quello che è in gioco conviene rifarsi alla situazione evolutiva
infantile.
Il cucciolo dell'uomo è un essere incompiuto: lasciato solo,
inesorabilmente muore, perché non ha sufficienti risorse per la
propria sopravvivenza, pur presentando molteplici competenze, fra cui quelle
di riuscire a suscitare, nelle interazioni con l'ambiente umano circostante,
atteggiamenti che producono e gli forniscono quelle che per lui diventano
risorse esterne a disposizione. Nell'essere umano - che è, quindi,
un essere radicalmente relazionale - si sono selezionati, nel corso dell'evoluzione
biologica, dei sistemi neurologici, mentali, relazionali, sociali e culturali
che tendono a proteggerlo dal trovarsi del tutto alla deriva nell'esistenza
fino a morire. Uno di questi sistemi, (uno: ce ne sono molti, anche più
attivi, anche più belli, anche più piacevoli), uno di questi
sistemi è quello che attiva il processo emotivo "invidia".
In una situazione di limitatezza delle risorse qual è quella
del paleolitico-neolitico cui la selezione naturale della specie ci ha
adattati (dal neolitico in poi, infatti, la selezione naturale non ha avuto
modo di incidere gran che, trattandosi di 120 - 160 generazioni soltanto),
bisogna essere ben in grado di accaparrarsi le risorse disponibili, riuscendo
a non avere la peggio nella competizione. Un bambino reale, se non riesce
ad acquisire e a strutturare risorse, non sopravvive: letteralmente muore.
Ed è appropriato il suo sentirsi impotente e incapace. Non può
correre il rischio di rimanere privo di risorse proprie (quello che è),
né privo di risorse umane o materiali nell'ambiente intorno a sé
(quello che ha). Se io bambino percepisco che io non ho quello che altri
hanno, o che io non sono quello che altri sono, percepisco me come sull'orlo
di un baratro, come su un piano inclinato che mi precipita inesorabilmente
nella desolazione. Se gli altri hanno risorse, possono andare avanti; ma
se io non ho risorse, rischio di rimanere indietro e dunque di non poter
sopravvivere. Se gli altri sono in grado di procurarsi le risorse disponibili
e io no, io rischio di rimanerne in breve tempo del tutto privo. Non posso
permettermi il lusso di tollerare una condizione di svantaggio così
pericolosa. Devo poter accorgermi di ogni situazione di svantaggio e devo
poter provvedere in tutti i modi: ne va della mia sopravvivenza.
Il segnale emotivo che mi spinge a provvedere urgentemente di fronte
al profilarsi di tanto pericolo deve essere, quindi, forte e chiaro; e
il disturbo (il dolore) che tale segnale deve dare alla quiete della mia
mente deve essere tanto grande e tenace da impedirmi di correre il rischio
di trascurarlo. È difficile, infatti, che uno svantaggio mi dia
dei guai seri immediatamente. È più frequente che i guai
si determinino in tempi successivi. Proprio perché si tratta di
un rischio che può essere subdolo, immediatamente inapparente nei
suoi effetti dannosi successivi, il segnale deve essere molto accentuato.
Se trascuro la percezione dello svantaggio, rischio di trovarmi piano piano,
impercettibilmente, quasi senza accorgermene, ad avere accumulato tanto
svantaggio da non avere più la possibilità di sopravvivere
o di reggere la competizione. È per questi motivi che nel corso
della selezione naturale la capacità di produrre questo segnale
è stata "premiata" rispetto all'incapacità o alla scarsa
capacità.
Potremmo dire le stesse cose in modo forse più rigoroso, affermando
che la funzione di questo specifico dolore mentale è quella di segnalare
che si è realizzata o che si va profilando una situazione di svantaggio,
che, se trascurata, può condurre alla desolazione e alla non sopravvivenza
(viene alla mente l'espressione poetica del Vangelo, quando parla dell'"abominio
della desolazione").
L'altra radice dell'atrocità del dolore mentale invidioso è
quella legata alla storia personale del soggetto, e riguarda bambini ed
ex-bambini che, senza riconoscimento e senza risonanze emotive, hanno dovuto
patire l'umiliazione di percepire se stessi del tutto impotenti di fronte
al sottrarsi beffardo di una persona che per loro costituiva l'oggetto
d'amore non solo bramato, ma soprattutto ammirato. Bambini che non furono
riconosciuti in questa loro specifica sofferenza, ma che spesso, anzi,
vennero crudelmente derisi per essa, e che quindi non poterono renderla
pensabile. Ed è la non pensabilità quella che rende traumatica
un'esperienza.
Forse è possibile distinguere un dolore invidioso narcisistico
quando sono in gioco qualità, risorse e caratteristiche del Sé,
e un dolore invidioso relazionale quando in gioco sono cose, persone, situazioni,
relazioni possedute. Ma la distinzione sembra avere scarsa rilevanza, dato
che sempre il dolore invidioso relazionale riguarda anche il Sé,
perché se si invidia la differenza con svantaggio sulla cosa, si
invidia contemporaneamente, e forse più, la differenza con svantaggio
sulla persona che ha la capacità o la possibilità o il privilegio
o, comunque, la ventura di possederla.
7 - Differenti modi di gestire il dolore mentale invidioso
La trattazione esauriente di questo argomento richiederebbe molto più
spazio di quel che qui non sia sensato. Per quanto riguarda il dolore mentale
invidioso, in effetti, tutto si gioca nei differenti modi in cui si cerca
di gestirlo.
Vi sono molti modi per gestire il dolore dell'invidia, fra cui i più
rilevanti sembrano essere raggruppabili nei seguenti quattro insiemi.
a - Modi miranti ad annullare il dolore mentale invidioso.
Fra essi, il più evidente e il più riconosciuto è
distruggere la cosa buona o chi a quella tende o quella ottiene.
Un esempio potrebbe essere dato dalla Strega che cerca di uccidere
Biancaneve al fine di annullare, appunto, il dolore per la differenza (di
bellezza) con svantaggio per lei stessa.
"Specchio, specchio delle mie brame,
chi è la più bella del reame?".
"O mia regina, tu sei bella, ma in mia fe',
al di là dei monti e dei piani
presso i Sette Nani,
Biancaneve è più bella di te".
Il dolore per la constatazione del confronto con proprio svantaggio è
così grande che la Strega non può tollerarlo, tanto che,
per cercare di annullarlo, cerca addirittura di uccidere la rivale, nel
tentativo di eliminarne la fonte. Sembra chiaro che in questa storia la
cosa che fa scattare sia il dolore per il confronto con svantaggio sia
modalità di gestione così estreme è ben più
rilevante che non la pura e semplice bellezza: la Strega, la sua sofferenza
e i suoi modi di gestirla qui simbolizzano l'invidia delle madri verso
la prorompente sessualità delle figlie.
Un metodo sostanzialmente analogo è quello che mira a danneggiare
la cosa o la persona che suscita il dolore mentale invidioso. Il danneggiamento
può essere diretto sulle qualità della cosa o della persona
invidiate, o indiretto, su altre qualità. In questo caso il soggetto
cerca di realizzare una sorta di riequilibrazione fra vantaggi e svantaggi
agendo sui beni posseduti, cercando di diminuirne nel rivale, anziché
di acquisirne lui. L'ho collocato a questo punto della mia trattazione
perché è sempre un metodo distruttivo, anche se dovrebbe
essere posto nell'insieme dei modi volti ad attenuare, anziché ad
annullare, il dolore mentale invidioso.
Vale la pena sottolineare che, in questa concezione, non si tratta
di una distruttività primaria, endogena, di origine pulsionale;
ma neppure di una distruttività reattiva da frustrazione o da carenza.
Si tratta, in effetti, di uno dei modi a disposizione del soggetto per
cercare di annullare la fonte di uno specifico dolore mentale.
E così la rabbia e il furore, anche al di fuori del contesto
della gestione del dolore invidioso, sono modi tesi a cercare di annullare
qualche cosa che viene percepito come dannoso, doloroso o pericoloso. Si
tratta di risorse a disposizione del soggetto. Risorse spesso non innocue
per il soggetto medesimo, ma pericolose anche per lui, dato che talvolta
possono arrecargli più danno che beneficio.
In effetti, quattro sono i modi fondamentali a disposizione dell'individuo
psicobiologico per affrontare una minaccia (cioè una possibile fonte
di distruzione o di dolore): aggredire, cercando di distruggere la fonte
della minaccia; scappare, cercando di sfuggire alla minaccia; immobilizzarsi,
nel tentativo di passare inosservato attraverso il mimetismo o la non sollecitazione
della curiosità e della attività della fonte della minaccia;
venire a patti con la fonte della minaccia, creando parziali alleanze,
parziali reciproche minacce e parziali reciproci controlli.
Come già accennato, questo particolare modo (distruttivo) di
gestire l'invidia è stato scambiato per l'invidia stessa, misconoscendone
così la sensatezza e il valore adattativo. Distruttività
e invidia, invece, non sono la stessa cosa, ma la prima è subordinata
alla seconda, essendone uno dei molti modi di gestione.
Una variazione - più mentale e meno agita nel mondo esterno
- di gestione dell'invidia al fine di annullarla è quella di disprezzare
(cioè togliere valore a) la cosa buona o chi ad essa tende o quella
ottiene. Si tratta anche in questo caso di un modo distruttivo, che può
molto danneggiare anche lo stesso soggetto, togliendo alimento alle necessarie
tensioni mentali verso le aspirazioni cui egli potrebbe mirare per la realizzazione
e l'espansione di sé.
Ma vi sono altri modi che tendono ad annullare il dolore invidioso,
quali il cercare di acquisire la cosa buona, la qualità, lo status,
o il cercare di divenire la cosa buona. In questo ambito si situa l'emulazione,
col suo misto di imitazione e di competizione, che molti Autori, a partire
da Aristotele (Retorica, II, 11), collegano con l'invidia, o per includervela
o per differenziarla.
Questi sono modi costruttivi, anziché distruttivi, di cercar
di annullare il dolore mentale invidioso, che si distinguono talmente dai
precedenti da indurre molti a ipotizzare l'esistenza di due tipi di invidia,
l'una "maligna" e l'altra "benigna", già a partire dal grande Esiodo,
che, nella notte dei tempi, ebbe a dire: "Ci sono due invidie: un'invidia
buona, che è posta alle radici della terra, e spinge il contadino
ozioso ad arare bene e a ben seminare il campo e a costruirsi una buona
casa per avere lo stesso benessere che il vicino si è procurato,
e spinge il vasaio a gareggiare col vasaio, e l'artigiano con l'artigiano,
e il mendicante a gareggiare col mendicante, e il poeta con il poeta. E
un'invidia cattiva che fa prosperare la guerra funesta e la lotta, la sciagurata"
(Le opere e i giorni, 11-26).
Questi modi costruttivi tendono a strutturare un adattamento molto
più realizzativo e molto più creativo di quelli distruttivi,
giacché tendono a realizzare esattamente e compiutamente le specifiche
finalità adattative cui il processo emotivo "invidia" tende, che
sono quelle di evitare o di trovarsi senza risorse o di soccombere nella
competizione per procurarsele. Non si limitano, cioè, a un puro
e semplice tentativo di annullare il dolore mentale attraverso delle scorciatoie,
ma lo fanno nel modo più adeguato, attraverso acquisizioni costruttive,
rispondendo così alle specifiche motivazioni dell'attivazione del
dolore medesimo.
Nel caso della Strega di Biancaneve, le cose sarebbero andate diversamente
se, invece di cercar di uccidere la rivale, si fosse iscritta, poniamo,
a un corso di fitness o si fosse fatta fare il lifting in un istituto di
bellezza.
Fra i tentativi di acquisire la cosa buona, ve n'è uno particolarmente
scaltro, che consiste nel derubare il rivale, prendendo addirittura tre
piccioni con una fava: acquisire la cosa buona, toglierla a lui, e vendicarsi
del dolore patito, ribaltando immediatamente la situazione. È, però,
difficile da integrare con le esigenze sociali che tendono a far instaurare
relazioni di reciprocità: se tutti rubano a tutti, non si va molto
lontano.
Non molto differente è attribuirsi il merito del bene altrui:
del successo dei figli, per esempio, o degli allievi, o dei propri pazienti...
b - Modi miranti ad attenuare il dolore mentale invidioso.
Questi modi hanno un grande valore adattativo, giacché non si
prefiggono scopi sovente irraggiungibili quali quello di annullare completamente
il dolore mentale, ma mirano a mete possibili. Il soggetto accetta di patire
una certa quota ineliminabile di dolore mentale, pur cercando di attenuarla
o di compensarla.
Tra questi, importanti sono tutti i tentativi di consolarsi, riconoscendo,
per esempio, quella differenza con nostro svantaggio che ci fa soffrire,
ma cercando di controbilanciarla, ricordando anche altre differenze con
nostro vantaggio. Là dove non posso fare gran che per migliorarmi
o per migliorare la mia condizione, accetto di soffrire il dolore del confronto
con svantaggio; ma là dove, invece, posso acquisire o potenziare
o far valere i miei vantaggi, cerco di pervenire alle realizzazioni possibili,
traendone, oltre che specifici vantaggi, anche consolazione per quegli
ambiti dell'esistenza in cui mi è inevitabile dovermi rassegnare.
Altri modi tesi ad attenuare il dolore mentale invidioso sono quelli
che mirano a minimizzare l'impatto, dando meno importanza alla cosa (che
è ben differente dal disprezzo e dalla svalutazione), o distraendosi,
o - modalità particolarmente pericolosa e altamente dannosa - strutturando
una maniacalità. A dire il vero, la maniacalità e l'eccitazione
maniacale aspirerebbero ad annullare il dolore mentale invidioso, rendendo
il soggetto sordo e cieco ad esso attraverso lo stordimento eccitatorio.
L'ho collocata qui perché non interviene né nella distruzione
delle risorse altrui né nell'acquisizione di risorse per se stesso:
lascia le cose come stanno, compreso il dolore invidioso, e se ne scappa
via nell'illusione onnipotente del carnevale.
Vale la pena sottolineare che, in questa teorizzazione, la maniacalità
non è soltanto un modo per cercare di attutire o annullare il dolore
mentale depressivo (il dolore, cioè, per la perdita di qualcosa
di buono), ma lo è anche per cercar di annullare o attutire il dolore
mentale invidioso (il dolore, cioè, per la differenza con svantaggio).
Voglio dire che, in questa concezione, "mania" non è antinomico
solo di "depressione", ma lo è anche di "invidia".
c - Modi miranti a prevenire il dolore mentale invidioso.
La memoria emotiva è fortissima, ed è utilizzata anche
a scopi preventivi, allorché si tratti di evitare le situazioni
che potrebbero suscitare uno specifico dolore mentale già conosciuto
in esperienze precedenti.
Una delle radici della coazione a ripetere sta qui, in questa utilizzazione
della memoria emotiva a scopi preventivi, e non in una pretesa "pulsione
di morte". I processi emotivi, in effetti, tendono ad essere molto sbrigativi
e radicali nel loro versante di spinta all'azione. E la memoria emotiva
tende ad essere memoria "da elefante", pressoché indelebile.
Lo evitare, dunque, è il principale dei modi preventivi. Evitare
situazioni che esporrebbero al rischio di vivere quello specifico dolore
mentale. Evitamento, quindi, di incontri e di esperienze, soprattutto relazionali;
ma anche inibizione di proprie capacità, ed evitamento di acquisire
proprie abilità o posti o ruoli di prestigio.
Sono metodi altamente danneggianti il soggetto, perché di fatto
tendono ad impoverire l'esistenza, a "potare" massicciamente, per così
dire, il Sé, fino a farne una sorta di grottesco disarmonico bonsai.
Molti pazienti dall'esistenza flebile, misera, depauperata che vengono
presi per depressi cronici, e che vengono curati in terapie senza fine
magari anche con psicofarmaci antidepressivi, a ben guardare sono persone
che hanno trovato in questo evitare situazioni vitali il modo prevalente
di prevenire il dolore mentale invidioso. Perché possano uscire
dalla loro miserevole situazione, prima di tutto devono riconoscere che
il loro problema centrale è l'invidia, per poi trovare altri modi
per gestirla, che siano almeno altrettanto efficaci, ma molto meno danneggianti.
La depressione che pur è riscontrabile in loro è conseguenza
e non causa dell'impoverimento antiinvidioso della loro esistenza.
Ma altri modi preventivi possono essere strutturati, quali l'indifferenza
del cinico: tolgo valore a tutto, magari accampando motivazioni filosofiche
etiche o estetiche, ma sostanzialmente per togliere valore a ciò
che mi fa soffrire. Questo atteggiamento è parente (anche se formalmente
ne è l'opposto) del "colpirne uno per educarne cento" delle Brigate
Rosse di infausta memoria: ne colpisco cento per esser sicuro di colpirne
uno. Forse non serve ricordare che basta lasciare sufficiente spazio, perché
la pretesa "indifferenza" si sveli ben presto di tutt'altra natura, più
una coperta che cela passioni violente che non un effettivo disinteresse.
Simile a questo, ma ancora più danneggiante, è l'anestesia
emotiva, l'apatia: non sento niente per non sentire quello che mi farebbe
troppo soffrire. Anche qui non ci vuole poi molto perché il marchingegno
mostri la corda.
Per recuperare la vitalità a partire da questa "indifferenza"
e da questa "anestesia emotiva" i pazienti devono percepire in modo particolarmente
chiaro e rassicurante una genuina pìetas verso l'atrocità
del loro dolore negli atteggiamenti empatici del terapeuta, e un genuino
riconoscimento della sensatezza di quel dolore. Soltanto in tempi successivi
potranno disporsi ad esplorare la possibilità di adottare differenti,
più adeguati modi di gestione dell'invidia. Ogni forzatura, di qualunque
tipo, comprese quelle legate ad interpretazioni dure intorno all'istinto
di morte, con estrema facilità favorirà la strutturazione
di un Falso-Sé, almeno per quelle aree intorno alle quali si è
andata strutturando quella interazione pseudo-terapeutica. Il paziente,
come quel bambino incompreso che egli fu proprio su questo specifico tema,
non potrà fare altro che (nuovamente) aderire al diniego che gli
viene imposto (allora dai genitori, ora dal terapeuta), adottando per imitazione
i medesimi atteggiamenti (pseudo)adulti alienanti.
Vi sono poi atteggiamenti preventivi nei confronti dell'invidia che
possono rimanere episodici oppure divenire tratti caratteriali molto strutturati,
quali l'avarizia, secondo la quale "Quello che ho non lo mollo", e l'ingordigia,
per cui cerco di avere il massimo a qualunque costo, perché posso
rimanere privo da un momento all'altro. In Veneto esiste un ammiccante
proverbio che dice: "Fin che ce n'è, viva Noè. Quando non
ce n'è più, viva Gesù", ossia: fin tanto che c'è
abbondanza, godiamocela, fino a ubriacarcene. Quando l'abbondanza è
finita e c'è ristrettezza di risorse, diamoci alla penitenza e alla
religione.
Paperon de' Paperoni cerca di prevenire non la povertà direttamente,
ma il dolore mentale dell'invidia. La cosa che più lo mette in crisi,
in effetti, è la possibilità che il suo rivale Rockerduck
possa sopravanzarlo nella ricchezza e nel successo. E la stessa Banda Bassotti
cerca di derubarlo non per arricchirsi, ma per mettersi a fare come lui
i tuffi nelle monete d'oro e ad essere come lui. Si tratta di universi
invidiosi.
Conviene sottolineare che l'ingordigia per le teorie psicoanalitiche
classiche era figlia diretta della pulsione di morte, mentre in questa
teorizzazione non è un tentativo di distruggere l'oggetto buono,
di svuotare, danneggiandolo, il seno; ma è, né più
né meno, che uno dei molti modi per cercare di prevenire l'affacciarsi
del dolore mentale invidioso, prendendo più che si può. Questa,
almeno, è una delle molte possibili radici dell'ingordigia (fra
le quali ricordiamo, a titolo di esempio, il bisogno di consolarsi, nonché
quello di rappresentare, di "mettere in scena" il conflitto fra dipendenza
ed emancipazione).
Un modo talvolta più costruttivo di prevenire il dolore mentale
invidioso è quello di eccellere in modo assoluto in una cosa o in
alcune poche cose, come l'adolescente che va male a scuola, viene sgridato
da tutti, non ha la ragazza, non ha una lira, non sa come prospettarsi
il futuro, ma ha fatto il record al gioco elettronico. In questo contesto
sovente si collocano le idee prevalenti, gli hobbies, o le super specializzazioni
("Non me ne va bene una, ma in roccia vado sul 'sei più' da primo
di cordata"). Questo modo, mentre cerca di prevenire l'invidia, consente
ad un tempo un certo grado di consolazione e di realizzazione di sé.
Particolarmente danneggianti, invece, sono i modi preventivi che tendono
al "tanto peggio, tanto meglio", quale quello di eccellere nella sfiga:
"Non riesco in nulla, ma sfigato perso come me non c'è nessuno.
Sono irrecuperabile, e metto in scacco chiunque si accosti per aiutarmi",
o anche: "Sfigato perso come sono, non ho neanche più nulla cui
aspirare, per cui non soffrirò più di invidia in nessuna
situazione"). Si tratta del recupero di una pretesa onnipotenza al negativo,
in qualche modo rassicurante. Parimenti dannoso è il disprezzare
tutto e tutti ("Nulla mi potrà far soffrire, perché nulla
ha valore") o, peggio, il distruggere tutto e tutti, magari diventando
leader di una banda di teppisti o di un gruppo militarizzato ("Se distruggo
tutto ciò che di buono esiste, sarò assolutamente e definitivamente
protetto dal dolore mentale dell'invidia").
Vi sono, inoltre, modi preventivi parziali, che non tendono tanto,
come i precedenti, a evitare nel modo più assoluto e totale l'impatto
con il dolore mentale invidioso, ma che cercano di prefigurare situazioni
in cui tale impatto sia attutito. Generalmente sono meno dannosi per il
soggetto, perché lasciano qualche spiraglio alle esperienze vitali
e alle realizzazioni di sé.
Fra questi ricordiamo il preventivo controbilanciare il dolore, valorizzando
sistematicamente ciò che si ha o che si è. A questo scopo,
spesso viene utilizzata l'esibizione indifferenziata nelle relazioni. Persone
che vengono definite "narcisiste" sovente stanno adottando questi tipi
di gestione preventiva del dolore mentale invidioso, e come tali dovranno
essere riconosciute e trattate nella psicoterapia. Il danno che avranno,
di solito, è quello di risultare terribilmente noiose proprio in
quel loro voler essere a tutti i costi interessanti.
Vi è, inoltre, la possibilità di cercar di attutire (anziché
annullare) la percezione dello specifico dolore mentale, magari attraverso
una specie di ottundimento, per cui la mente "gira" al minimo, senza infamia
e senza lode, senza gioia e senza dolore, in una specie di grigiore emotivo.
L'uso di droghe inibenti può avere anche questa come finalità,
mentre quello di droghe eccitanti tende ad instaurare varie forme di maniacalità.
Importanti conseguenze relazionali hanno i modi che strutturano una
relazione adesiva con la persona ammirata, fonte altrimenti di dolore invidioso.
"Nulla avrò da invidiare, se siamo un tutt'uno, se costituiamo un
unico ovale perfetto". La relazione adesiva può essere realizzata
o nella concretezza della vita quotidiana (come può avvenire, per
esempio, nelle relazioni d'amore narcisistico, particolarmente frequenti
fra omosessuali, o nelle relazioni fra maestro e discepolo improntate al
narcisismo), oppure anche solo nel mondo fantasmatico, attraverso l'identificazione
adesiva, che è una forma particolarmente tenace di identificazione.
Una delle molte forme di follia a due ha questo tipo di psicodinamica
e di dinamica interazionale: entrambi i partner sono Sole e Pianeta l'uno
per l'altro, entrambi cercano di evitare il rischio di accedere al dolore
invidioso suscitato dal confronto col partner. Nessuno dei due deve realizzare
sé indipendentemente dall'altro, emancipandosene. Tutto, al di là
d'ogni apparenza, deve rimanere immobile. I movimenti devono essere simultanei,
cioè inavvertibili all'interno della relazione.
La mistica dell'orgasmo simultaneo, così fuorviante e un tempo
così diffusa, secondo cui la maturità sessuale della relazione
si realizzerebbe solo allorché i partner hanno l'orgasmo nel medesimo
istante, ha come principale scopo non la realizzazione del piacere, ma
quella di prevenire sentimenti di invidia.
È la staticità sostanziale perseguita da questi modi
preventivi di proteggersi dal dolore invidioso quella che dà all'esperienza
un senso di morte, non già una pretesa "pulsione di morte" che ne
stia alla radice. A questi modi fanno prevalentemente ricorso i membri
di molte famiglie psicotiche, nelle quali la relazionalità è
cristallizzata intorno a un tema unico o prevalente, quale, per fare un
esempio estremamente frequente, un'interminabile non-elaborazione di lutto:
nessuno può accedere di nuovo alla vita non solo perché tutti
devono rimanere legati e pietrificati, come il gruppo marmoreo del Laocoonte,
a formare un unico immutabile monumento funebre, ma soprattutto perché
al dolore depressivo per la perdita s'aggiungerebbe l'ulteriore dolore
mentale invidioso per il confronto. "Che nessuno osi!".
Da ultimo, fra tutti i modi di prevenire l'invidia, è da ricordare
anche l'affaccendarsi, l'occuparsi compulsivo di qualche cosa o di ogni
cosa, l'occupare sé senza sosta, nel tentativo di non far posto
a niente altro. Tenere la mente perennemente impegnata, così da,
per così dire, distrarla preventivamente dall'eventuale impatto
col dolore mentale invidioso.
Questi modi preventivi introducono al tema dell'assetto mentale invidioso.
Ma prima conviene ricordare un altro insieme di modi per gestire il dolore
mentale dell'invidia, fra tutti forse il più importante e, purtroppo,
spesso il più misconosciuto perfino da numerosi psicoterapeuti.
Con gravi danni per i loro pazienti.
d - Modi consistenti, semplicemente, nel riconoscere e vivere
il dolore mentale invidioso.
Al di là di tutti questi modi più, o meno, clamorosi,
vi è un modo sommesso, consapevole, totalmente mentale di gestire
il dolore invidioso, che è quello di - semplicemente - viverselo.
Riconoscere che, in quella situazione lì che si sta vivendo, si
hanno tutte le buone ragioni per essere invidiosi; e tenersi l'invidia,
senza necessariamente fare sfracelli nel tentativo di annullarla e senza
darsi ad azioni frenetiche per attenuarla.
Questi modi si collocano nell'insieme più vasto del riconoscere
e accettare le modulazioni dei vari aspetti del Sé, tollerandone
le espressioni e i vissuti. Comportano una pìetas verso se stessi,
un riconoscimento amorevole, un accoglimento del Sé sofferente e
un riconoscimento delle ragioni dell'emozione dolorosa in atto. Un riconoscimento,
cioè, del fatto che si ha proprio ragione a vivere quell'emozione
lì in quel momento. A me piace un'immagine che mi ha portato una
volta un paziente: è come un prendersi in braccio, un "auto-prendersi
in braccio". Ci vorrebbe la genialità di Picasso per disegnare questa
immagine...
Si tratta di un insieme di modi di gestire il dolore particolarmente
maturo, che esige a monte un grande lavorio di integrazione, e che si colloca
in prospettive mentali di saggezza, favorendo, a propria volta, successive
integrazioni. In tutte le culture, infatti, la saggezza è connessa
alla capacità di riconoscere e tollerare il dolore (mentale e non)
inevitabile, al fine di realizzare il massimo del piacere possibile con
il minimo di interferenze.
Conviene sottolineare bene che questi modi derivano da una buona strutturazione
e integrazione del Sé, ma a propria volta promuovono strutturazione
e integrazione del Sé.
Vale la pena segnalare che questi modi possono, sì, presentarsi,
ma senza essere genuini. Possono, cioè, mascherare (e svelare ad
un tempo) una pseudosaggezza, allorché sono imitativi e non derivanti
da reale maturazione e da reali integrazioni. In tal caso farebbero parte
dei modi che tendono ad attutire il dolore mentale attraverso una sua mistificazione
o attraverso un far finta di niente.
8 - Gli assetti mentali
Se un marziano si trovasse improvvisamente paracadutato in un maneggio,
e osservasse la posizione di un cavaliere in sella, probabilmente potrebbe
pensare di trovarsi di fronte a un'inspiegabile bizzarria. Gli ci vorrebbero
molta paziente osservazione e l'acquisizione di molta conoscenza sul funzionamento
psicobiologico del cavallo e di quello del cavaliere, per riuscire a cogliere
la sensatezza di quei modi di stare e di muoversi, all'apparenza così
innaturali. Sarà solo dopo aver colto la sensatezza di ogni elemento
in gioco in relazione alle motivazioni e agli scopi che egli potrà
concludere di trovarsi di fronte ad un particolare assetto, che potremmo
definire assetto equestre.
Per comprendere la struttura, la dinamica, le funzioni e quindi gli
scopi dell'assetto equestre, per coglierne, cioè, la sensatezza,
è necessario immaginare il cavallo come fosse dentro un corridoio
largo quanto il suo corpo. Se il corridoio gira a destra, il cavallo girerà
a destra, e viceversa se gira a sinistra; se il corridoio scende, il cavallo
scenderà, e se il corridoio sale, il cavallo si appresterà
a salire o si fermerà. Il cavaliere, allora, dovrà porsi
ben in arcione, con il cavallo ben inserito in tutta l'inforcatura delle
gambe e con le gambe ben aderenti al costato del cavallo, i piedi bene
in appoggio sulle staffe, i talloni bassi e le ginocchia morbide lievemente
discoste, il proprio baricentro in asse col baricentro del quadrupede,
le spalle ben larghe ma non rigide, la schiena eretta ma flessibile, il
capo dritto e mobile, lo sguardo avanti ben oltre la testa del cavallo,
basse le mani quasi a sfiorare il pelo, morbide le braccia, soprattutto
al polso, chiuse le mani sulle briglie ma non serrate, calmo il respiro,
rilassata la muscolatura. In questa posizione, ogni variazione anche appena
percettibile nella posizione del baricentro del cavaliere verrà
avvertita in modo chiaro e univoco dal cavallo.
Se il cavaliere, per esempio, sposta anche appena il busto in avanti,
il cavallo tenderà a ristabilire il proprio equilibrio, e comincerà
ad avanzare. E basterà che il cavaliere, mantenendo rigorosamente
l'assetto equestre, sposti un po' in dietro il busto con entrambe le spalle
ben larghe, perché il cavallo si fermi. E se, una volta partito,
il cavaliere porrà, ben aderente al costato del cavallo, la gamba
sinistra, poniamo, un po' più avanti e quella destra, sempre ben
aderente al costato, un po' più indietro, e girerà il capo
a destra, il cavallo girerà a destra, senza bisogno di venire strapazzato
con strattoni delle briglie o con calciate degli speroni. Se il cavallo
è particolarmente sensibile e il cavaliere sufficientemente esperto,
spesso può bastare che questi giri anche solo lo sguardo dal lato
verso cui intende girare: se l'assetto equestre è corretto, sono
sufficienti quei minimi irrigidimenti e rilassamenti muscolari laterali
e controlaterali indotti dal volgere lo sguardo perché il cavallo
risponda, cercando di realizzare uno stato di equilibrio. Per aiutare il
movimento, il cavaliere potrà, mantenendo sempre ben aperte le spalle
e morbide le braccia, stringere appena un poco il pugno destro, lasciando
inalterata la presa del sinistro, così da trasmettere quel minimo
di irrigidimento del braccio che favorirà il volgere del capo del
cavallo da quella stessa parte.
Bisogna che sia ben chiaro che ogni minimo dettaglio morfologico e
funzionale dell'assetto equestre ha un senso in quanto è legato
alla specifica anatomia e allo specifico funzionamento psicobiologico del
cavallo e del cavaliere, ed è finalizzato ad un preciso, specifico
scopo.
Durante l'apprendimento, sia il cavaliere sia il cavallo dovranno porre
un'attenzione molto esplicita e consapevole all'assunzione e al mantenimento
dell'assetto equestre, ma verrà per entrambi il momento in cui l'assetto
verrà assunto e mantenuto in un modo che potrebbe apparire automatico,
"ovvio" e quasi inconsapevole.
Si potrebbero dire cose analoghe per l'assetto violinistico, o per
l'assetto sciatorio, o per l'assetto arrampicatorio, o per quello natatorio,
tanto per fare qualche esempio.
Ogni assetto è caratterizzato da una particolare specifica struttura
morfologica e da un particolare specifico insieme di funzioni tra loro
appositamente coordinate e integrate per il conseguimento di uno scopo
specifico e determinato. Struttura, funzioni e scopo non sono casuali,
ma sono intimamente connessi all'anatomia, alla fisiologia e alla psicologia
dei soggetti psicobiologici impegnati in quel particolare assetto.
Lo stesso vale anche per gli assetti mentali. La mente piò organizzarsi
in certi modi per uno scopo.
Può organizzarsi nell'assetto mentale psicoanalitico, per esempio,
che è fondato sull'"attenzione ugualmente sospesa" di Freud (di
solito inadeguatamente tradotta con "attenzione fluttuante") o (per coloro
cui piace questa espressione, fra i quali io non mi annovero) sul porsi
"senza memoria e senza desiderio" di Bion, per quanto riguarda il versante
dell'analista; e sulle "libere associazioni" per quello del paziente. Scopo
dell'assetto mentale psicoanalitico è favorire l'emergere, all'interno
della relazione, dei molteplici aspetti del Sé del paziente; entrare
in sintonia con le espressioni emotive, con le esperienze, col vissuto
di essi, al fine di una loro migliore conoscenza e integrazione.
8/A - Nuvole, oggetti interni, molteplici aspetti del Sé
e assetti mentali
Prima di procedere, conviene ricordare l'esperienza della nuvola.
Mi trovavo con degli amici su un sentiero, magnificamente panoramico,
nel gruppo delle Aiguilles Rouges (le Guglie Rosse), in Francia, nella
valle di Chamonix, dall'altra parte rispetto al massiccio del Monte Bianco.
Si vedevano in sequenza i glaciali Monte Bianco, Mont Maudit (Monte Maledetto),
Mont Blanc de Tacul, le granitiche Guglie di Chamonix... Uno spettacolo.
Arrivati a un certo punto, proprio di fronte allo sbocco della Mer de Glace
(Mare di ghiaccio: una vallata ghiacciata a forma di "esse", contornata
da massicce montagne, magnifiche guglie e incredibili pinnacoli), avrebbe
dovuto comparire in lontananza la caratteristica guglia del Dente del Gigante,
ma una nuvola ci ostruiva la visuale. Come mi piace fare, ai miei amici
indicavo tutte le cime e cimette visibili, che ben conosco e amo. Per vedere
il Dente del Gigante nascosto dalla nuvola dissi loro che sarebbe bastato
aspettare un momentino: la nuvola correva velocissima da destra verso sinistra
sospinta dal vento intenso, e ben presto se ne sarebbe andata. Ci sedemmo
un po', mangiammo e bevemmo qualcosina, chiacchierando. Dopo un quarto
d'ora, e dopo quasi mezz'ora, la nuvola era ancora lì, e andava
velocissima da destra verso sinistra. Prima di ripartire, guardai nuovamente
verso il Dente del Gigante, ma la nuvola era ancora lì. Continuava
a correre velocissima come prima da destra verso sinistra, ma era sempre
lì, sempre ferma a intralciare la visuale. Guardai meglio, e notai
che la nuvola si andava continuamente formando a destra, veniva spinta
dal vento velocissimo verso sinistra, dove ad un certo punto si scioglieva
nell'aria azzurrina.
Si trattava dell'espressione locale di certe condizioni di pressione,
umidità e temperatura.
Allora si pone un problema: c'era quella nuvola? Per certi versi, sì.
Era anche visibile. La nuvola c'era, effettivamente, ad un'osservazione
superficiale. Ma per certi altri versi, no, non c'era, essendo solo l'espressione
di un insieme di funzioni. E si muoveva quella nuvola? Per certi versi,
sì, si muoveva velocissima da destra verso sinistra; ma per altri
versi, no: stava sempre lì a impedire la visuale.
A un'osservazione più attenta, si poteva constatare che quella
nuvola non era un'entità, ma era - semplicemente - uno stato dell'aria.
Era la risultante della combinazione locale di ben determinate funzioni
meteorologiche (funzione temperatura, funzione pressione, funzione umidità)
in un dato momento e in un dato luogo. Così poteva apparire (ed
essere) contemporaneamente in pieno movimento ed essere (e apparire) del
tutto ferma. Quello che variava nel tempo e nello spazio era il rapporto,
era la combinazione fra differenti specifiche funzioni.
La stessa cosa accade nella mente.
Detto en passant, io credo che in modo analogo siano da pensare gli
"oggetti interni" : la mamma invidiosa, la mamma cattiva, la mamma padrona,
la mamma affettuosa, il padre severo, il padre crudele, il padre incoraggiante...
E così anche le "strutture" della mente: il Super-Io, l'Es... ci
sono o non ci sono? Come la nuvola: sono degli stati funzionali della mente,
stati "locali" della mente, determinati dalla risultante, dal rapporto
di certe specifiche funzioni in un determinato momento e in una determinata
area dell'esperienza. Funzioni attivate e coordinate per un preciso scopo.
Sono motivazioni pratiche riassuntive quelle che ce li fanno nominare
come fossero "personaggi" che popolano la mente, tanto quanto è
pratico riassuntivo parlare di "nuvola". Ma se il discorso vuol farsi più
rigoroso e se la conoscenza e la prassi vogliono limitare certe possibilità
di errore, allora si deve abbandonare il pensiero immaginifico, per quanto
pratico e riassuntivo, per strutturare un pensiero funzionale, magari meno
suggestivo ma certamente più corretto.
Lo stesso dicasi per i vari, differenti aspetti del Sé di un
soggetto: al pari degli "oggetti interni", essi sono stati strutturati
dalla mente sulla base di precise esperienze reali, soprattutto relazionali
e soprattutto (ma non soltanto) nelle relazioni fondanti di base, e rimangono,
per così dire, più facilmente "suscitabili" di altre nuove
combinazioni funzionali, e si presenteranno e si ripresenteranno nelle
differenti specifiche situazioni concrete di vita che avranno analogie
con quelle in cui vennero un tempo strutturati. è questa la base
del transfert e della coazione a ripetere.
Bisogna sottolineare, però, che la praticità delle metafore
immaginifiche dei "personaggi interni" per indicare gli "oggetti interni"
e i differenti aspetti del Sé può indurre in grossolani errori
allorché ci si occupa della trasmissione della vita psichica in
generale e della patologia mentale in particolare fra le generazioni. Potrebbe
venire da pensare, infatti, che i "personaggi interni" possano essere,
per così dire, quasi travasati dentro la mente del soggetto da parte
delle persone che con lui furono in rapporto, secondo una concezione passiva
della mente e della strutturazione del Sé. Nulla di più falso:
il Sé, in tutti i suoi molteplici e contraddittori aspetti, è
tutto strutturato attivamente dal soggetto, pur sulla base degli spazi
interazionali che si vengono strutturando nelle relazioni reali, a partire
dalle relazioni fondanti di base. Ma questo discorso ci porterebbe lontano,
e dobbiamo lasciarlo, anche se è affascinante e importante. Potrà
essere oggetto di un altro lavoro.
La morfologia ha senso se rapportata alla funzione. La morfologia senza
funzione è cieca e stupida. Per comprendere gli accadimenti vitali,
soprattutto nel loro divenire storico, è indispensabile raccordare
morfologia e funzione.
Come gli "oggetti interni" della mente non sono entità, non
sono cose, ma sono stati funzionali della mente, così, ad un altro
livello, le emozioni non sono cariche energetiche, non sono entità,
non sono cose. Sono processi, che determinano stati funzionali della mente.
Specifici processi tendono a strutturare specifici stati funzionali della
mente. Specifiche emozioni tendono a strutturare specifici assetti mentali.
I quali assetti mentali non sono morfologie vuote, non sono cose: sono
insiemi funzionali integrati, sono il risultato delle varie funzioni della
mente, concordanti tra di loro per il raggiungimento di uno scopo.
Per farla breve: per ogni emozione fondamentale (e qui parliamo delle
emozioni dolorose, ma si potrebbe allo stesso titolo parlare di ogni emozione,
anche di quelle piacevoli) per ogni emozione c'è la possibilità
che si strutturi un corrispondente assetto mentale particolare. Possiamo,
così, individuare, per esempio, un assetto mentale depressivo, un
assetto mentale invidioso, un assetto mentale di allarme, e così
via. Ognuno di questi assetti mentali è determinato dalla specifica
integrazione delle funzioni della mente che vengono a coordinarsi allo
scopo di gestire quella specifica emozione.
Ogni assetto mentale, allora, può essere descritto e studiato
sia in termini, per così dire, "morfologici" sia in termini "funzionali",
ma ancora più vantaggiosamente nei termini integrati "morfologico-funzionali".
La descrizione puramente morfologica rischia, infatti, come per la nuvola,
di vedere un'antinomia (la nuvola che si muove velocissima ma che sta sempre
ferma) là dove lo studio funzionale chiarisce invece la sensatezza
degli accadimenti apparentemente "impossibili". Ma lo studio puramente
funzionale, a propria volta, rischia di far perdere di vista gli aspetti
vitali dell'esperienza in atto (non importava nulla quale valore avessero
pressione, temperatura e umidità: quello che era rilevante in quella
situazione concreta di vita era il fatto che una nuvola impediva di vedere
il panorama). Se io colgo nuvola, temperatura, pressione e umidità
in un tutt'uno integrato, posso averne una visione sufficientemente precisa,
sensata, articolata e viva.
9 - L'assetto mentale invidioso.
Bambini traumatizzati da esperienze che hanno comportato una data emozione
possono strutturare dei modi sistematici per prevenirla. È come
se si dicessero: "Mai più. Mai più. A qualunque costo, mai
più". La loro mente strutturerà un assetto mentale di base
specifico. Si tratterà di un'organizzazione mentale prevalente,
che verrà attivata immediatamente ad ogni comparire di situazioni
che possono far prevedere la possibilità del profilarsi di esperienze
analogamente dolorose e traumatizzanti.
Vale la pena ricordare che traumatica è un'esperienza che è,
sì, vissuta, ma, per qualunque motivo, è non pensabile. La
strutturazione dell'assetto mentale specifico per le emozioni connesse
ad esperienze traumatiche, allora, non potrà realizzarsi se non
in modo quasi del tutto inconsapevole. Come sempre, anche per la traumaticità
di un'esperienza, quello che conta è che sia soggettivamente traumatica,
soggettivamente non pensabile in quel preciso episodio di vita e negli
episodi di vita storicamente susseguenti.
L'assetto mentale specifico, atto cioè a gestire una specifica
emozione, si struttura di volta in volta, all'occorrenza. Usualmente si
tratta di una struttura mobile, che si forma nel momento in cui viene attivato
il processo emotivo in questione e che si dissolve non appena è
terminata la situazione che ne aveva resa necessaria la strutturazione.
Solo in casi particolari, nei quali si verificarono esperienze particolarmente
rilevanti e particolarmente traumatiche, un particolare assetto mentale
si stabilizza come stato (quasi) permanente della mente, diventando una
delle componenti morfologicofunzionali specifiche della struttura caratteriale.
L'assetto mentale invidioso nella sua versione (quasi) permanente può
essere incontrato quando un bambino ha patito in modo terribilmente traumatico
situazioni che hanno suscitato in lui il dolore mentale dell'invidia senza
che fosse disponibile qualcuno che lo aiutasse a strutturare dei modi adeguati
di riconoscerlo, di gestirlo e di viverselo. Sarà un bambino sensibilizzato
all'invidia. Può succedere per qualunque altra emozione dolorosa
o per qualunque altra situazione esperienziale dolorosa. Sarà sensibilizzato,
e cercherà di reagire violentemente al presentarsi del dolore mentale
invidioso, e cercherà di prevenire a tutti i costi il suo insorgere
per qualunque motivo e in qualsiasi situazione. E allora sarà molto
probabile che quel bambino lì, e poi, dopo, quell'ex-bambino lì,
una volta cresciuto, sia particolarmente attento e vigilante a cogliere
ogni elemento della propria esperienza o del mondo intorno a sé
che gli segnala l'avvicinarsi di una situazione che potrebbe esporlo a
quell'atroce dolore mentale.
Sarà un bambino tormentato dal confronto, sarà sempre
lì a confrontarsi: "Lui sì, e io no. Non è giusto!".
Sarà sempre tutto preso a misurasi, a cogliere anche le minime sfumature
di svantaggio in ogni possibile confronto. E di ogni esperienza di vita
vivrà, prima di ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa, gli aspetti
di confronto e di vantaggio/svantaggio presenti in essa, fino a non vedere
che quelli. E così in ogni situazione vedrà immancabilmente
quello che manca piuttosto che quello che c'è. Sarà un bambino,
e poi un ex-bambino, un adulto, che, paradossalmente, vivrà sempre,
perennemente, ogni momento, immerso nell'invidia, costretto, per così
dire, a nuotare dentro l'invidia, per poterla prevenire.
Questo è il paradosso dell'assetto mentale (quasi) permanente,
che, strutturato proprio per poter proteggere il soggetto dall'emozione
dolorosa, di fatto lo costringe a viverci costantemente dentro e a selezionare
e a "privilegiare" di ogni esperienza gli aspetti che possono suscitare
quel temuto specifico dolore mentale.
E questa è la principale rilevanza intrapsichica dell'assetto
mentale (quasi) permanente in generale e di quello invidioso in particolare.
Ma vi sono evidenti implicanze relazionali che qui citeremo soltanto: rilevanze
nella coppia, per esempio, nella quale ogni possibilità di godere,
anche sessualmente, è sistematicamente danneggiata dalla competitività
e dalla rivendicatività; nei gruppi e nelle comunità, nei
quali il perseguimento del fine è sistematicamente ostacolato dai
confronti, dalla competitività e dalla competizione.
Un tema rilevante è quello dei rapporti fra invidia e gelosia.
Qui basti ricordare che quasi sempre chi si sente, si dichiara o è
percepito come "geloso" è, soprattutto, invidioso del partner: non
può tollerare che se la goda, mentre lui no. Ma la questione è
molto più complessa e merita specifici approfondimenti.
10 - Terapia.
Esiste una terapia per l'invidia?
Si può guarire dalle emozioni? No. Come non si può guarire
dal colore. Io apro gli occhi e vedo giallo, rosso, marroncino e verde...
Posso guarire dal verde? Sarebbe insensato proporsi di far guarire uno
dal verde. E così è insensato vagheggiare di guarire qualcuno
dall'invidia.
Posso acquisire maggiori capacità di cogliere i colori, di cogliere
le emozioni che realmente vivo. Posso acquisire maggiori capacità
di gestirle, per viverle, non mai per annullarle o disfarmene. Né
in me, né negli altri. Posso favorire integrazioni, posso riconoscere
le differenze fra la situazione attuale e quelle più o meno antiche
in cui sono stato traumatizzato. Posso apprendere più modi, differenziati,
flessibili di gestire quell'emozione. Ma non posso annullare o prevenire
nessuna emozione. Questa è precisamente l'illusione perseguita da
chi struttura un assetto mentale (quasi) permanente.
E da un assetto mentale invidioso si può guarire? E come? Si
può guarire da una nuvola? Basta il vento? Cioè: basta che
intervenga qualcosa di esterno? No, non basta. Chi è in assetto
mentale invidioso coglie dell'intervento esterno solo gli aspetti che possono
suscitare invidia o che con l'invidia possono risuonare. È sordo
e cieco ad ogni altro aspetto. L'intervento esterno rischia di far aumentare,
anziché lenire, il dolore mentale invidioso.
Una nuvola può dissolversi se si modifica l'equilibrio fra le
varie funzioni che ne hanno determinato la formazione. E solo dopo che
si è dissolta diventa possibile vedere il panorama che sta al di
là di essa. Perché ciò avvenga, è necessaria
la strutturazione di differenti integrazioni, cosa che accade usualmente
per ogni assetto mentale transitoriamente strutturato.
Ma come si può uscire da un assetto mentale (quasi) permanente,
irrigidito, quale può essere con estrema facilità quello
invidioso? Quali sono i modi attraverso cui diventa possibile, per così
dire, "cambiare musica" all'interno della mente e della relazione?
Prima di tutto l'assetto mentale deve essere riconosciuto come tale
dal soggetto e - possibilmente prima - dal terapeuta.
Le persone cui si dice, spesso in tono di rimprovero con rabbia e con
disprezzo: "Tu sei invidioso!" sono dei poveracci che - invano - fanno
di tutto per cercar di evitare l'invidia, ma vengono continuamente misconosciuti
circa il significato dei loro sforzi e del loro dolore. Hanno bisogno,
prima di tutto, di sentirsi riconosciuti nel significato (attuale e storico)
dei loro sforzi disperati, cosa che non accade quasi mai, e che perfino
l'analista, soprattutto se kleiniano, potrà non essere in grado
di fare. Hanno assoluto bisogno di sentirsi dire, prima o poi, qualcosa
del tipo: "Tu sei uno che non sa tollerare l'invidia, e che cerca di evitarla
a tutti i costi e in ogni occasione, perché sei stato traumatizzato
da esperienze per te allora insostenibili di invidia. Per questo ne sei
ossessionato. Devi imparare a vivere la tua invidia, a riconoscerla come
umana, come sensata, come legittima, come realmente dolorosa, ma anche
come vivibile. Devi poter accorgerti di essere attrezzato per vivere la
tua vita, che comporta anche questo tipo di dolore mentale". Ma per poter
sensatamente sentirsi dire, o per potersi dire per proprio conto una cosa
simile in un modo che non rimanga posticcio, spesso i pazienti hanno bisogno
del lavorio di lunghi anni di analisi.
Per uscire da un assetto mentale invidioso, soprattutto se (quasi)
permanente, dunque, credo che le vie siano poche: una, la prima, la più
importante è riconoscere le emozioni e i sentimenti. Si tratta di
favorire il cogliere, il capire, il conoscere l'emozione che si sta vivendo:
"È invidia, la riconosco". Poi vi è il poter sperimentare
esperienze di invidia in impatti non troppo terribili, non troppo allaganti,
ma sopportabili, come infinite volte può accadere nel corso dell'analisi,
con le vacanze e i successi e gli insuccessi del terapeuta e del paziente.
Queste possono essere preziose occasioni anche per poter sperimentare un
sentimento di invidia riconosciuto, condiviso, pensabile e pensato, compiendo
così quell'opera assidua di bonifica che era mancata all'epoca delle
esperienze traumatizzanti (cioè: non pensate, perché allora
erano non pensabili). Poter constatare che si può provare invidia,
la si può riconoscere, la si può pensare, se ne può
parlare e che (alla lettera) nessuno ne muore può essere un'esperienza
realmente rifondante.
Quindi: percezione dell'invidia, esposizione all'invidia in modo graduale
e protetto, riconoscimento dell'invidia come specifico dolore mentale e
condivisione di tale riconoscimento, riconoscimento dell'assetto mentale
invidioso, riconoscimento della sensatezza di esso e degli eventuali legami
con esperienze traumatizzanti, accettazione dell'invidia come una delle
possibili esperienze della vita, e apprendimento di molteplici, differenziate
modalità di gestione dell'invidia, a partire dalla consapevolizzazione
dei modi che sono già stati appresi e che di fatto vengono adottati
momento per momento.
Guai se si assume un atteggiamento di favorire (o di invitare, o di
imporre) al paziente, agli altri o a sé di evitare l'invidia: è
proprio quello l'atteggiamento di base che tende a far strutturare l'assetto
mentale invidioso (quasi) permanente.
Un'ultima parola per ricordare che anche essere oggetto di invidia,
suscitatori di quello specifico dolore mentale negli altri, può
essere un'esperienza insostenibile e traumatizzante.
È proprio per cercare di far fronte all'insostenibilità
del fatto di essere oggetto di invidia che Biancaneve si rifugia presso
i Sette Nani (presso dei bambini, cioè, che - tragicamente - sono
divenuti vecchi senza passare attraverso la pubertà, l'adolescenza
e l'età adulta e che hanno, quindi, escluso dal loro mondo la sessualità
se non nella forma invidiosa, molto regredita, poco piacevole e per nulla
feconda, di appropriazione dei tesori racchiusi nelle viscere della madre
terra) e poi sviene, e rimane - autistica - come morta, con l'Io paralizzato
e i vari aspetti del Sé (i Sette Nani, appunto) disperati e del
tutto impotenti. Dopo tanto sfacelo, non ci sarebbe poi molto da stupirsi
se Biancaneve sviluppasse un assetto mentale invidioso (quasi) permanente
per poter proteggersi in modo assoluto dalla comparsa all'orizzonte anche
della pur minima sfumatura di invidia, propria o altrui. E sarebbe grave
l'errore dello psicoterapeuta o dell'analista che glie lo interpretasse
solo come proiezione dell'invidia sulla madre-matrigna, senza riconoscere
il senso degli specifici accadimenti relazionali fondanti: il dolore mentale
invidioso della madre-matrigna e i suoi terribili tentativi di annullarlo
eliminando la vitalità e la vita stessa della figliastra-figlia.
Ma questo discorso introduce alle intricate questioni del ruolo dell'invidia
nella trasmissione della patologia mentale fra le generazioni, e noi, invece,
dobbiamo fermarci qui.
1 Roccato P., "Aspetti cognitivi e relazionali dell'emozione",
in Gli affetti nella psicoanalisi, a cura di G. Hautmann e A. Vergine,
Borla, Roma 1991, pagg. 187-190.
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