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A. M. P.
SEMINARI 19999 - 2000
A cura di: Antonella Giordani e Rocco A. Pisani

"Teoria e prassi delle psicoterapie psicoanalitiche"

Discussione plenaria con interventi di Mirella Baldassarre, Loriana Bianchi , Cristina Bonucci, Alessandro Bruni, Maria Antonia Ferrante, Luigi Frighi , Mario Giampa', Lucrezia Giordanelli, Annamaria Meoni, Matteo Musacchio, Luciano Palagi, Giancarlo Petacchi, Rocco Pisani, Giuseppe Puliafito, Gianfranco Tedeschi


ROCCO PISANI - Mi prenderò una quindicina di minuti per fare la sintesi di quello che è stato detto nei seminari precedenti. Quest'anno abbiamo deciso di fare dei seminari sulla teoria e la prassi delle psicoterapie psicoanalitiche e abbiamo voluto sentire il parere di esperti dei vari indirizzi ad uno scopo ben preciso: quello d'integrare almeno un po' i vari pensieri, almeno fin dove sia possibile o perlomeno di avviare un dialogo interattivo tra i rappresentanti delle varie scuole.
La stessa psicoanalisi, nella misura in cui la usiamo come terapia, è una psicoterapia. E' inutile che ci si venga a dire "L'analisi è un'altra cosa, la psicoanalisi è un'altra cosa". Se la usiamo come terapia è una psicoterapia; possiamo dire una terapia più approfondita, più regressiva, ma sempre una psicoterapia.


GIANCARLO PETACCHI ha parlato dell'approccio freudiano fondato sull'inconscio personale; ha puntualizzato alcuni aspetti salienti come: il contenimento sotto forma di réverie, l'attenzione fluttuante e l'empatia; la situazione edipica, le proiezioni ed il narcisismo.
Ha presentato un caso clinico centrato sull'angoscia di castrazione e di morte e sull'angoscia di fine analisi.

GIANFRANCO TEDESCHI, all'inconscio personale ha aggiunto l'inconscio collettivo con gli archetipi. I genitori concreti sono proiezioni dell'archetipo della madre e del padre. La psicoterapia consiste nel processo d'individuazione che è un processo archetipico basato sull'archetipo del Sé e della totalità; il fine della terapia è la realizzazione del Sé.

MARIO GIAMPA' ha sviluppato il pensiero della Klein.
Per la Klein la vita psichica è organizzata in base al rapporto con l'oggetto, al contrario di Freud che la fonda sulla dinamica pulsionale. La pulsione è alla ricerca dell'oggetto.
Il primo oggetto è la madre. Gli istinti di vita e di morte sono collegati agli oggetti.
La Klein ha sviluppato l'analisi dei bambini e ha scoperto, attraverso il gioco, il transfert anche nei bambini; il gioco ha un significato simbolico che deve essere interpretato. L'Edipo è molto precoce, in coincidenza con lo svezzamento.
Un Io rudimentale è presente sin dalla nascita, così come il Super-io che non coincide con i genitori. La reintroduzione dell'oggetto buono e di quello persecutorio sta alla base del Super-io.
L' angoscia primaria si basa sulla minaccia interna di annientamento da parte dell'istinto di morte; in base ad essa si strutturano meccanismi di scissione tra l'oggetto buono e quello cattivo, di proiezione e d' identificazione proiettiva.
La gratitudine è legata al rapporto con l'oggetto buono, l'invidia con l'oggetto cattivo.
Sulla base di questi concetti ha descritto la posizione schizo-paranoidea e depressiva.

CRISTINA BONUCCI si è occupata di Kohut.
Al paradigma della pulsione, Kohut oppone quello della realizzazione del Sé: la costituzione di un Sé coeso è alla base delle motivazioni umane.
Il concetto di Sé è strettamente legato a quello di narcisismo. Il narcisismo segue una linea indipendente; evolve da forme arcaiche a forme più mature, passando attraverso due tappe intermedie fondamentali: il Sé grandioso esibizionistico e l'oggetto-Sé idealizzato.
Le relazioni empatiche sono essenziali per la sopravvivenza dell'individuo. Il Sé infantile ha bisogno degli altri che gli danno il senso di coesione. Gli oggetti-Sé sono necessari per tutta la vita. Il Sé, che non ha potuto raggiungere la coesione, per mancanza di figure empatiche, presenterà una dipendenza dagli oggetti-Sé che utilizzerà come sostituti di strutture psichiche che non possiede.
L' analisi si basa sulle configurazioni narcisistiche inconsce. Nell'analisi l'analista non è neutrale; il cambiamento non avviene attraverso l'interpretazione, ma attraverso l'internalizzazione delle funzioni dell'analista come oggetto-Sé.
Kohut ha descritto i transfert d'oggetto-Sé che non sono soltanto delle ripetizioni, ma sono anche espressione di un bisogno di riprendere lo sviluppo deviato o arrestato.
I transfert per Kohut sono tre:
-il transfert speculare, che corrisponde al bisogno di essere confermati e rispecchiati;
-il transfert idealizzante, che si basa su una maggiore differenziazione: il genitore è oggetto d'idealizzazione;
-il transfer gemellare, una differenziazione tra il sé e l'oggetto; l'analista è percepito come simile a sé e su questo transfert si basa l'appartenenza ai simili, potremmo dire la socializzazione.
L' analisi delle rotture e delle ricostruzioni dei legami d'oggetto-Sé, è il lavoro centrale. L'empatia è il mezzo fondamentale di cura; l'obiettivo è il Sé coeso.

MIRELLA BALDASSARRE si è occupata delle psicoterapie psicoanalitiche brevi.
Queste cominciano con Ferenczi e la sua tecnica attiva che consiste nello stimolare il paziente ad affrontare attivamente le paure e rinunciare alle soddisfazioni nevrotiche. Successivamente si sono sviluppate psicoterapie brevi, in base al concetto di focalizzazione, la scelta cioè di un problema centrale d'analizzare. Per Sifneos sono i conflitti edipici; per Davanloo le strutture di personalità; per Malan conflitti chiaramente circoscritti.
Baldassarre si rifà alla tecnica di Gillièron che si basa molto sulla diagnosi di personalità e sulle motivazioni inconsce del paziente. La fase iniziale, che è definita
" tecnica dei quattro colloqui", permette una diagnostica. L'interpretazione dei motivi inconsci può portare sollievo e la terapia può fermarsi qui. La fase successiva d'elaborazione, che comunque è a breve termine, dipende dall'organizzazione di personalità: di tipo psicotico, borderline o nevrotico.

LORENZO CIANCIUSI ci ha presentato il dilemma dell'uso complementare dei farmaci in psicoterapia analitica. In America si è capovolta la situazione: non si parla più di psicodinamica della farmacoterapia, ma di "psicoterapie ad orientamento psicofarmacologico"...!

ALESSANDRO BRUNI ha sviluppato l'analisi di gruppo secondo Bion.
L'analisi di gruppo secondo Bion, si basa essenzialmente sugli assunti di base.
Il gruppo è organizzato secondo l'assunto di dipendenza, di lotta e fuga e di accoppiamento. Il gruppo non è la somma dei singoli, ma l'espressione di attività transpersonali.
Le relazioni tra i membri sono multiple e simultanee; il gruppo si evolve attraverso polarizzazioni schizo-paranoidee e depressive.
Il compito è quello di dipanare gli assunti di base. La tecnica si basa sulla funzione analitica autonoma del gruppo. Il terapeuta non è l'unico depositario del sapere ma, a pari degli altri, è oggetto d'indagine. Il numero ottimale dei pazienti è di sette - dodici, a conduzione unica.

LEONARDO ANCONA ha sviluppato i concetti di Foulkes, relativi alla gruppo analisi. Ci ha raccontato come Foulkes, di fatto, rappresenta l'incontro tra la psicoanalisi, la neurologia (il concetto di sistema di neuroni di Goldstein) e la sociologia secondo Elias.
Il gruppo, secondo Foulkes, viene prima dell'individuo: la mente individuale è espressione della matrice gruppale.
A questo punto aggiungo qualcosa anch'io come gruppoanalista foulkesiano.
Per Foulkes una matrice gruppale è una rete di relazioni e di comunicazioni. Gli individui rappresentano i punti nodali di questa rete.
Le comunicazioni avvengono a più livelli, ovviamente continuamente interagenti; noi li separiamo, ricorrendo all'astrazione, soltanto per capire a quale livello la comunicazione si svolge di più, in un determinato momento.
Il livello di superficie è quello della comunità: il gruppo rappresenta la comunità, la società, l'opinione pubblica. Ha a che fare con problematiche di realtà.
Ad un livello più profondo troviamo il livello del transfert: è il transfert in senso freudiano, cioè le relazioni con gli oggetti interi. A questo livello il gruppo rappresenta la famiglia: il padre, la madre, i fratelli, le sorelle e così via.
Ad un livello più profondo gli altri membri rappresentano una parte del Sé o una parte del corpo. e' il livello proiettivo: il gruppo rappresenta le relazioni con gli oggetti interni.
Il livello ancora più profondo, è quello primordiale degli archetipi dell'inconscio collettivo.
Questa rete, questa matrice gruppale, ha il pregio di collegare vari aspetti, per esempio l'aspetto di realtà, quello freudiano, kleiniano e junghiano.
Si discuteva se la gruppoanalisi abbia a che fare con la psicoanalisi o meno.
Certamente che ha a che fare con la psicoanalisi. La gruppoanalisi è nata come sviluppo della psicoanalisi; Foulkes ha sempre detto che la gruppoanalisi e la psicoanalisi sono complementari, così come lo sono l'individuo e il gruppo.
Quando noi parliamo di psicoterapie psicoanalitiche, dobbiamo premettere che i disturbi dei nostri pazienti hanno a che fare con problemi inconsci.
Nell'inconscio, a livello individuale, ci sono certamente le pulsioni istintuali, c'è tutto quello che è stato rimosso nel corso della vita, ci sono i meccanismi di difesa; ma nell'inconscio ci sono anche tutti gli archetipi dell'inconscio collettivo.
L'inconscio collettivo e quello individuale sono continuamente interagenti.
L'analisi che cos'è? E' tutto il lavoro che viene fatto per rendere conscio, l'inconscio: non è tanto un lavoro intellettuale, ma essenzialmente emozionale che implica il cambiamento.
La psicoanalisi su che cosa si basa? Su una relazione duale costituita da transfert, controtransfert, secondo le vecchie impostazioni, oppure dall'identificazione proiettiva e dalla controidentificazione proiettiva o se preferite dalla relazione duale.
La gruppoanalisi, il piccolo gruppo di Foulkes, è una relazione multipersonale in cui la terapia (T) ha a che fare con due aspetti: un aspetto verticale personale che implica la storia personale genetica e quindi implica il transfert (t), ed orizzontale, cioè il livello sociale, dell'hic et nunc (x). L'hic et nunc è costituito dal rispecchiamento, dalla risonanza, dall'esperienza emotiva correttiva e dall'addestramento dell'Io in azione. (Fattori terapeutici specifici della gruppoanalisi di Foulkes).
In definitiva la gruppoanalisi è un' analisi fatta da tutto il gruppo compreso il conduttore; lo strumento fondamentale è la comunicazione e la traduzione del significato della comunicazione. Questo lavoro di traduzione e d'acquisizione del significato, porta ad una maturazione del gruppo il quale trascina nel processo maturativo i singoli individui che, a loro volta, danno un ulteriore contributo alla maturazione gruppale in un continuum dinamico e circolare. Questa è l'analisi di gruppo secondo Foulkes.


A questo punto apro la discussione. Gradirei interventi brevi sia da parte dei partecipanti che da parte dei relatori. La discussione non è soltanto tra partecipanti e relatori, ma anche tra relatori. Se preferite è una tavola rotonda allargata a tutti noi.


GIANCARLO PETACCHI - Qualche settimana fa, al mattino, ho trovato nella segreteria telefonica, a studio, delle telefonate. Una era di un collega internista che mi preannunciava l'arrivo di una paziente. Nella successiva telefonata c'era una voce che esprimeva molto bisogno d'aiuto e che chiedeva di potermi parlare.
Quando ho chiamato al numero che mi avevano lasciato, mi risponde una voce di donna che mi dice essere la madre della paziente che sta sempre chiusa in casa, non vuole uscire, che l'aveva convinta ad andare a scuola. Questo andare a scuola mi ha lasciato un pò perplesso e allora ho chiesto quanti anni avesse la figlia: mi ha detto quarantatre! E mi ha spiegato che la figlia è segretaria di un istituto magistrale.
Ho dato l'appuntamento nella stessa giornata, anche se c'è qualcuno che ritiene che non esista l'urgenza in psicoanalisi e che sia meglio differire l'appuntamento di qualche giorno. Avevo un' ora libera, quel pomeriggio, come ultima ora della giornata di lavoro, quindi sapevo che non avrei avuto il limite preciso dei tre quarti d'ora fissi.
Mi trovo di fronte una donna che mi dice che ai primi di novembre, mentre era in macchina con la madre, con la quale io avevo parlato al telefono, si era sentita male, all'improvviso, in un modo tremendo: si era sentita un vuoto allo stomaco, un essere risucchiata dentro, uno stare per morire.
Si era dovuta fermare; poi ad un secondo episodio, sempre in macchina con la madre, avevano deciso di andare al pronto soccorso di un ospedale del quartiere dove vivono. E' un ospedale del centro dove, al pronto soccorso lavora il fratello del medico di base della paziente. Le avevano dato dei tranquillanti e le avevano detto che quella era un'angoscia con la quale doveva imparare a convivere.
Dopo venticinque-trenta minuti in cui mi aveva raccontato di quell'episodio e di altri, si poneva il problema se intervenire e come intervenire; se sul punto di maggiore angoscia oppure no.
Allora vi propongo, così ci confrontiamo anche un po', perchè tutti possiamo essere aiutati l'uno dall'altro, di pensare qual è secondo voi, per quelle poche cose che ho detto, il punto di maggiore angoscia su cui poter intervenire.
Intanto proseguo io per dire che il punto di maggiore angoscia fosse il fatto che l'attacco d'angoscia le era venuto mentre era in macchina con la madre, quindi avrei potuto dare un'interpretazione centrata su questa situazione qui. Interpretare l'angoscia in relazione al trovarsi fuori con la madre, poteva essere un modo per affrontare l'aspetto più intenso dell'angoscia. Ho preferito rinunciare a questo e ho fatto un intervento a livello del punto di minor angoscia, cioè le ho chiesto se aveva avuto in passato altri episodi e come. Invitarla a parlare di quello di cui mi aveva parlato sino ad allora, era il modo per lasciarla più tranquilla.
A quattordici anni, dopo i primi cicli mestruali, aveva avuto un attacco d'angoscia simile a quello che vi ho accennato ed un altro a venticinque anni. A vent'anni era rimasta incinta e si era convinta, parlando con la madre e non col padre, di portare avanti la gravidanza. Se è vero quello che è stato riferito, un medico, siccome stava prendendo non ricordo quali antibiotici, l'aveva sconsigliata di portare avanti la gravidanza e quindi aveva abortito. Dopo qualche anno si era separata dal ragazzo dal quale era rimasta incinta, che la faceva molto soffrire e a venticinque anni, età in cui era sopravvenuta la seconda crisi d'angoscia, si era sposata. Dopo sposata aveva rincontrato il primo ragazzo e si era rimessa con lui, portando avanti una doppia relazione coniugale ed extraconiugale.
Ai primi di novembre, quando era insorto quell'attacco di panico che l'aveva portata alla visita, era stata lasciata da questo primo ragazzo e successivo amante, che le aveva detto che fra loro era finita. Siccome lei parlava di angoscia di morire, diceva che si sentiva morire, io gliel'ho interpretata come angoscia di morte e, a questo punto, dopo cinquanta, cinquantacinque minuti, ho dato una interpretazione sul punto di maggiore angoscia. Le ho detto che se qualcuno ha paura di morire, vuol dire che vuole ammazzare qualcuno: molto semplice e molto drastico.
Lei non ha risposto subito, ma dopo cinque , dieci minuti, rievocando vari momenti di quest'ultimo periodo ha detto "Ma io gli posso sparare, prendo una pistola e gli sparo", riferendosi a quest'uomo. E' venuto fuori l'impulso ad uccidere dietro l'angoscia di morte. Fine della seduta.
Cosa ci si poteva aspettare per l'incontro successivo?
Da una parte che l'angoscia fosse aumentata o diminuita e magari anche un mutamento dello stato dell'umore che poteva essere più depresso oppure meno.
Certo se avesse telefonato, se ci fossero state richieste di farmaci, sarebbe stato indicativo dell'aumento dell'angoscia. Non l'ho sentita fino alla visita successiva, dopo una settimana: mi ha detto che aveva avuto sollievo, che aveva telefonato al medico di famiglia che l'aveva mandata da me e si è avviata nella descrizione di una quantità di sintomi che erano: punture alla testa, nevralgie alla spalla destra e al braccio che le facevano temere la possibilità di disturbi al cuore, angina o infarto; poi un vuoto allo stomaco e sentiva che le gambe non la reggevano in piedi.
Dopo circa una mezz'ora che l' avevo lasciata dire in modo più chiaro possibile questi disturbi, si poneva il problema di cosa fare, che svolta dare a questa seconda seduta.
Io le ho detto che lei lasciava da parte tutta la sua vita, che mi parlava solo di questi disturbi, come uno spicchio,una falce di luna illuminata; tutto il resto era al buio.
Le ho chiesto come trattasse se stessa, come trattasse i suoi pensieri e come trattasse la sua sofferenza. Le ho suggerito che la trattava tenendola separata dalla sua vita di cui non mi stava dicendo niente e che questo mi sembrava una forma di crudeltà.
Quindi la prima seduta le ho detto che lei doveva aver voglia di ammazzare qualcuno e la seconda le ho parlato di crudeltà, cioè di lei che era crudele con se stessa.
Attraverso una gran quantità di pianti, di conferme, che in effetti lei sentiva che era quella che si aiutava il meno possibile e si trattava male, la seduta è finita. E' finita con questa consapevolezza di essere un po' carnefice di se stessa.
Ho voluto fare questi brevi cenni, per dirvi che mi è sembrato che interpretare il punto di maggiore angoscia sia fondamentale, ma appena arriviamo ad avere la possibilità di entrare in contatto con la condizione mentale di una persona; che sia sufficientemente lucida e convinta di essersi affidata bene e con la quale ci possa essere un dialogo. Vorrei sapere se gli altri sono d'accordo oppure no.

ANNAMARIA MEONI - Nella mia esperienza, che è l'esperienza di una psichiatra con formazione analitica, spesso ho fatto, con molto timore, questi interventi e devo dire la verità che avevo proprio la sensazione, interpretando, di non sapere dove andavo a parare e mi domandavo se questo fosse giusto.
Devo dire che l'esperienza mi ha confortato e non so dove ho letto, adesso non ricordo, che non bisogna avere timore, perché l'interpretazione sbagliata non fa male al paziente e casomai, adesso non ricordo chi l'abbia detto, può seguire l'interpretazione giusta.
Non sono molto convinta di questo, credo piuttosto che sia importante l'animo con cui interpreti: se il paziente sente che è un tentativo di aiutarlo, allora non patisce gli effetti negativi di una interpretazione sbagliata.
Sicuramente nella pratica clinica dell'emergenza e dell'urgenza, interpretazioni precocissime, diciamo in una seduta di pronto soccorso, ne ho fatte a migliaia. Presentano alcuni aspetti positivi, sicuramente non risolutivi nell'immediato perché non si ha la bacchetta magica; l'importante è poi raccoglierli in un percorso che però non credo che sempre possa essere psicoanalitico. Dare una chance al paziente di essere stato capito o che almeno esista una possibilità.
Questa era una cosa che volevo dire per scambiare le esperienze e un' altra è che, mentre il Dr. Petacchi parlava ho avuto una prima sensazione d'inadeguatezza. "Come faccio io a seguire questo caso"? Però ha evocato in me qualcosa, quindi alla domanda "Qual è il punto di maggiore angoscia"? non ho fatto in tempo a rispondere, però avrei risposto "E' legato alla morte". Poi il seguito mi ha confortato.
Quello che ho sentito è che il problema dell'angoscia relativa alla morte, come dice Searls, sorge ogni qual volta, a radici profonde, spunta l' incapacità di controllarla. Perché la morte è una delle cose della vita che è assolutamente incontrollabile, a meno che non si prendano in considerazione le due eventualità di darla e di darsela. Quindi è questo che avrei risposto prima .

LUCIANO PALAGI - Scusate io vorrei reintervenire dall'inizio. M'ha suggerito l'idea Petacchi quando ha detto "M'ha telefonato un'internista" e la domanda mia s'avvicina a questo. Io ho sentito delle teorie e prassi delle terapie psicoanalitiche di vario tipo: ho ascoltato la freudiana, la junghiana, la kleiniana, la bioniana, la foulkesiana della gruppoanalisi, la psicoterapia breve e ed è tutto sempre nell'ambito della psicoterapia analitica. La domanda mia è: come fa il generico a capire a chi tra le varie teorie, tra i vari analisti, dovrebbe mandare il suo cliente con un disagio che si suppone psichico?
Lo suppongo perché il disagio è generico; è difficile parlare di disagio psichico perché io, essendo medico, il disagio l'ho sempre vissuto come disagio globale: fisico, psichico e sociale.
Come faccio io medico generico a capire che il disagio del mio paziente è un disagio tale per cui io lo devo mandare, faccio per dire, nomi e cognomi: da Petacchi o da Giampà o da Tedeschi o da Pisani a fare la gruppoanalisi?
Io ho parlato qualche volta con Pisani, a dir la verità e Pisani m'ha sempre dato una risposta. Vorrei però risentire il criterio in base al quale io, medico generico, debbo concludere che tizio ha un disagio di caratteristiche tali per cui potrebbe giovarsi del trattamento o della terapia analitica di tipo kleiniano, di tipo freudiano, di tipo foulkesiano, di tipo.... quello che volete voi.
Poi ho sentito parlare dalla Baldassarre, di necessità di diagnosi.
Ora la diagnosi è vicina a quello che stavo dicendo: se io riesco a capire che cosa seppure indicativamente può avere il mio paziente, allora lo indirizzo a Tizio, Caio e Sempronio. Pero' capire e' necessario. Ma come faccio a capire io, medico generico, sia pure di vecchia esperienza, se quello ha bisogno di Giampa' o di Petacchi o di chicchessia. Allora vorrei si arrivasse alla necessita' di una diagnosi. Lascio a voi.....

ROCCO PISANI - Chi vuole rispondere?

GIANCARLO PETACCHI - La diagnosi che ho fatto io della mia paziente era: isterismo d'angoscia, secondo una terminologia non tra le più attuali, e che è qualcosa di diverso da una semplice isteria.

LUCIANO PALAGI - Quindi per mandarlo dall'analista freudiano...

GIANCARLO PETACCHI - No, con questo non voglio dire... era solo per....

CRISTINA BONUCCI - Ci sono dei centri di consultazione che cercano di divulgare la loro presenza con depliant, con un tipo di pubblicità fatta ad hoc. Probabilmente ancora non hanno raggiunto tutti i centri, i medici, gli ambienti che potrebbero rispondere.
Ad esempio la Società di Psicoanalisi di via Panama ha due centri di consultazione, dove l'analista non necessariamente decide di mandare il paziente da uno psicoanalista freudiano classico, piuttosto che kleiniano: potrebbe anche pensare che quel paziente abbia bisogno o si possa giovare di una terapia di coppia o di gruppo e inviarlo in questo senso. Ci vorrebbe una figura come il medico generico, uno psicologo o uno psicoanalista generico.
Il centro di consultazione ha questa funzione: accoglie il paziente e l'invia.

LUCIANO PALAGI - Volevo questa risposta, ma in realtà volevo sapere se l'invio deve essere fatto da un generico. Nell'ambito del medico generico si aprono infinite specialità: l'internista, il cardiologo, il chirurgo.
Devo mandare come orientamento ad uno che ha delle caratteristiche psicologiche, che ne so: lo psichiatra?

ROCCO PISANI - Mi pare che la tua domanda sia centrale: hai colto il senso.

LUCREZIA GIORDANELLI - Io dico che la prima psicoterapia è quella che fa il medico generico e conta la sua scelta personale, della persona di cui ha fiducia. Dovrebbe avere uno psicoanalista, uno psicoterapeuta, di cui ha fiducia a cui affidare il proprio paziente. Questo mi sembra fondamentale: c'è un rapporto con il paziente, c'è la fiducia nello psicoterapeuta e quindi è giusto che sia inviato.

ROCCO PISANI - Riguardo quest'aspetto posso dire che come gruppoanalista foulkesiano i pazienti mi arrivano in questa maniera. Certamente faccio una diagnosi clinica nosografica, ma è una diagnosi che ha poco ha che fare col DSM terzo, quarto, eccetera.
Mi regolo in questa maniera: stabilisco se uno è nevrotico, se è psicotico, borderline o è caratteriale. Così mi hanno insegnato i miei maestri in psichiatria.
Dopo che ho fatto una diagnosi mi chiedo "Questa persona è in grado di fare una psicoterapia che serve a chiarire il significato dei sintomi? Cioè è in grado di fare un'analisi"?
Prima di tutto è importante stabilire se il paziente è intelligente e ha capacità d'insight. Dopo mi chiedo se ha sufficienti motivazioni a voler fare l'analisi.
La motivazione a far l'analisi è una cosa difficilissima, non di comune riscontro.
Se un paziente presenta queste due capacità: la capacità d'insight e la motivazione, allora è in grado di fare l'analisi.
Il nostro criterio è che, laddove c'è l'indicazione a far l'analisi in base a questi due punti, l'analisi può essere di gruppo oppure individuale.
Essendo gruppoanalista io comincio con il gruppo. Può succedere che nel corso della terapia un determinato paziente o determinati pazienti necessitino di un maggiore approfondimento; come dire, non basta il microscopio ottico, ma serve il microscopio elettronico. A quel punto s'impone il trasferimento, per continuare un'analisi a livello individuale.
Quando per esempio è più necessario ricorrere allo strumento del transfert, allora s'impone il trasferimento ad un trattamento individuale. La meta finale sarebbe comunque che, fatto un ulteriore percorso nella terapia individuale, questo paziente tornasse a completare nel gruppo la sua analisi, perché il concetto gruppoanalitico è: se quello ha una nevrosi personale e individuale (il caso ad esempio che ha portato Petacchi), non è soltanto un problema suo personale, ma il problema ha a che fare con il contesto relazionale in cui vive, che è la famiglia e il contesto sociale che è dietro la famiglia.
Allora il gruppo è il rappresentante di questo contesto sociale. Laddove c'è la "nevrosi infantile" individuale, dietro c'è la "nevrosi infantile" gruppale, cioè c'è la nevrosi sociale. Non so se ti ho risposto.

LUCIANO PALAGI - Mi hai risposto bene, ma queste cose le ho già sentite da te. Le volevo sentire dagli altri, come medico generico. Tante volte ho avuto occasione di rivolgermi per malati specifici a Pisani il quale m'ha detto ad esempio: "Questo paziente non è adatto alla psicoanalisi di gruppo, oppure si".
Piuttosto avrei voluto saper prima, senza mandarlo a lui, su che cosa mi potevo regolare io medico generico, oppure, come ho sempre fatto, se lo debbo mandare da Pisani perché è uno specialista a caratteri generali.

ROCCO PISANI - Io vorrei aggiungere anche un'altra cosa. Dal mio punto di vista l'ottica foulkesiana non è assolutamente in contrapposizione con l'ottica bioniana. Tu mi potresti dire "Da chi mando il paziente, da Bion o da Foulkes"? Non c'è, a mio avviso, contrapposizione. I due capostipiti si sono ignorati fra di loro, per fatti loro, ma ognuno dei due ha avuto delle profonde intuizioni relative al gruppo che sarebbe ora venissero integrate. Gli assunti di base, che Bion ha scoperto, fanno parte in pieno del contesto relazionale della matrice gruppale. Alessandro Bruni l'altra volta parlava del transpersonale, concetto ampiamente condiviso dai due. Gli assunti di base noi li vediamo continuamente in azione ogni volta che cominciamo un gruppo. La ricerca di un leader onnipotente e onnisciente che ci salvi dalla distruttività e dalla morte è all'ordine del giorno. Così la proiezione di parti persecutorie, di parti aggressive sugli altri (ad esempio gli italiani del nord contro gli italiani del sud e viceversa, i tedeschi contro gli ebrei e viceversa, ecc.) è all'ordine del giorno; così come la fantasia dell'accoppiamento: in questo gruppo c'incontriamo e finalmente troviamo qualcuno che ci salvi.
Li troviamo costantemente. Ogni volta, per esempio, che il gruppo fa una regressione. Fa la regressione utilizzando gli assunti di base.
Caso mai la domanda che potresti fare è "Ma perché non vi mettete d'accordo, ad esempio, tra bioniani e foulkesiani e vedete d'impostare un qualcosa." ?...

LUCIANO PALAGI - Scusa Pisani, hai risposto benissimo, però il quesito è come faccio io generico a scegliere...

ROCCO PISANI - Lo mandi da uno psichiatra di formazione psicodinamica.....

MIRELLA BALDASSARRE - Allora, i termini generali della psicoterapia analitica breve li ho già dati, vorrei aggiungere qualche notizia, perché potrebbe essermi sfuggita.
E' fondamentale l'invio, il modo in cui il paziente arriva alla richiesta della consultazione psicologica.
Lei (Dr. Petacchi) ha ricevuto prima un avvertimento molto educato da parte dell'internista, dopo di che telefona la madre. Io ho vissuto una confusione, non so voi, quando ha detto che la figlia era a scuola; ho fatto la fantasia che si trattasse di una bambina.
Dopo di che viene all'appuntamento e arriva una paziente che invece ha più di quarant' anni. Già questo mi avrebbe fatto riflettere; parlo per me, per il mio modo di lavorare, non è una critica al suo operato.
Questo mi avrebbe fatto riflettere perché mi trovo davanti ad una paziente di più di quarant' anni che mi confonde facendomi pensare ad una bambina, fa muovere la madre e il medico, ed è molto strano che la madre telefoni per prendere l'appuntamento per una figlia di quarant' anni. Mi sarei posta questi quesiti.
Quando poi arriva la paziente con i suoi attacchi di panico, mi dice che l'attacco ce l'ha avuto prima in macchina con la madre; poi nella storia di questa paziente io mi sarei chiesta perché mi è venuta a consultare proprio adesso. Viene fuori che c'è stata la rottura di questo legame affettivo che ha, se ho capito bene, sia con il marito che nella relazione extraconiugale.
Mi sarei chiesta: che rapporto ha questa donna con l'angoscia di separazione? Perché non regge le separazioni?
Allora, a vent' anni già è incinta: ne parla solo con la madre e non con il padre; la madre le dice: "Va bene è successo, puoi tenertelo".
Questo mi avrebbe fatto riflettere molto sul tipo di rapporto che c'è tra una madre e una figlia: chiaramente non avrei pensato ad un funzionamento isterico e quindi non ad un funzionamento di carattere nevrotico.
Due: il fatto che incontra l'altra persona e immediatamente ricomincia la relazione, mentre è sposata. Quindi è una donna che non riesce ad affrontare il fatto di essere da sola. Questa angoscia non è un'angoscia nevrotica, ma è un'angoscia di separazione che, secondo me, poi sentiamo il parere di tutti, mi avrebbe orientata più verso una personalità di livello inferiore, un funzionamento relativo agli stati limite.
Poi avrei visto nel colloquio, dopo le quattro sedute, quello che emergeva.
Quando arriva un paziente, noi cominciamo dalla telefonata: perché è arrivata in questo momento se gli attacchi di panico ce li aveva già prima? A vent' anni è rimasta incinta; perché telefona la madre? E' una paziente che fa muovere, fa agire altre persone: è un funzionamento che mi orienta verso la scala della diagnosi.

MARIA ANTONIA FERRANTE - La collega dice "Il medico generico manda il paziente da uno psicoanalista, psicoterapeuta di fiducia". Secondo me questo è importante perché credo che, al di là della specializzazione, il problema è che si parla eccessivamente di kouthiano, bioniano, foulkesiano. Un po' come avviene in medicina dove ad esempio l'otorino non sa vedere niente dell'altro. Allora io immagino che un buon terapeuta di qualsiasi scuola debba essere capace di un sano eclettismo.
Quello che fa bene al paziente è anche la capacità, l'intelligenza, la formazione, la maturazione del terapeuta che non è solo, ad esempio bioniano, ma all'occorrenza sa fare anche la terapia d'appoggio, sa capire e sa intervenire.
Questo, altrimenti ci perdiamo.

ALESSANDRO BRUNI - Mi sembra che la questione che tu ponevi sia molto importante e secondo me è molto difficile rispondere, perché tutto il problema delle indicazioni differenziali è molto complicato.
Adesso pensavo ad un problema di cui Bion si è preoccupato più di trent'anni fa.
Bion era molto preoccupato della proliferazione delle teorie psicoanalitiche e in effetti ha previsto quello che poi, in qualche modo, è accaduto.
Io credo che non abbiamo ancora un' idea che sarebbe utile pensare, come nelle altre scienze, ad una teoria di campo unificato della psiche.
In realtà il fatto che ci siano tantissime teorie e tantissimi approcci diversi, secondo me, riflette il fatto che ci sono tante personalità diverse e che ognuno sceglie quell'aspetto locale della teoria del campo unificato della psiche che è più congeniale al proprio modo di essere.
Se dovessi dare una risposta alla tua domanda, che mi sembra molto pregnante, io consiglierei di basarti sul tuo intuito di medico di base, che penso sia molto grande, nel vedere una persona; di avere certo un'idea dei tuoi colleghi psichiatri o psicoanalisti, di che tipo di pazienti si occupano, perché non tutti si occupano dello stesso tipo di pazienti e immaginare nella mente come stiano insieme.
Questo paziente con chi potrebbe trovarsi meglio?
Questo metodo ha il vantaggio che utilizza l'intuito della tua esperienza, più che le teorie, perché se ci affidiamo alle teorie!...
Per esempio nella teoria di Bion, se si legge bene "Esperienze nei gruppi", c'è un punto in cui praticamente si deduce che non è possibile fare la diagnosi differenziale precisa tra lavoro individuale e lavoro di gruppo, che è un altro enorme problema.
Ad un certo punto Bion dice che lo stato protomentale, sarebbe questo stato primitivo della mente, non visibile nell'individuo, ma visibile pienamente solo nell'individuo posto in gruppo.
Allora una cosa del genere già ha come corollario che se noi vediamo una persona in un contesto diadico, e questo succede molto spesso, non possiamo prevedere bene come questa persona si potrà comportare in un gruppo, quindi personalmente io mi arrangio. Io penso a quel paziente e penso ai gruppi che ho. Questo paziente può funzionare in questo gruppo? Questo gruppo può funzionare con questo paziente?

GIANFRANCO TEDESCHI - E' encomiabile che lei si ponga questo problema, torna ad onore della classe medica e rivela che, dopo tutto, noi siamo stati pionieri di un certo ruolo di fusione di una situazione dove la realtà della psiche umana, con le sue ferite, è recepita oggi dalla classe medica.
Ha ragione. Dice: "Da chi lo mando"? Si presume già che lei voglia mandarlo in psicoterapia. Un tempo una simile situazione sarebbe stata blasfema, non dico da espulsione dalla classe medica, ma circa...
L'ossessione di Jung è che non esistono regole.
Lei dice "Come faccio a sapere"? Innanzitutto lei nella sua esperienza avrà sentito parlare di pazienti curati da altri medici e può essersi formato una sua fiducia personale. Il collega diceva: "Si basi sull'intuito" e, in linea di massima, questo è giusto.
Se volessimo cercare una regola, ma esistono eccezioni, diciamo che un paziente come sosteneva Jung, proprio a partire dai quarant'anni (Freud dice dopo i quarant'anni non è più indicato un trattamento psicoanalitico), inizia la sua psicologia e tutto quello che questo implica. Questo è già un criterio.
Se lei dovesse recepire che, al di là dei sintomi, in un paziente ci sia la preoccupazione di realizzare alcune problematiche spirituali, culturali, e questo è più importante, in tal caso è più indicato l'approccio junghiano che non freudiano.
Stasera ho rivisto Frighi. Molti anni fa il professor Fazio mi diede l'incarico d'organizzare una serie di seminari, volli che ad aprire fosse Lacan. Lascio stare tutto quello che comportò far venire Lacan a Roma. Lacan cominciò la sera, in un'aula strapiena, facendo una domanda " Chi mi vuol fare una domanda"?
Domandò il professor Nicola Perrotti "Che differenza c'è tra la psicoanalisi e la psicoterapia"? Lacan attaccò a discutere, erano le dieci di sera e continuò fino a mezza notte; quando chiese: "Mi fate altre domande"? Frighi, che era seduto accanto a me, disse: "Andiamocene a casa rapidamente, altrimenti stiamo tutta la notte qua"!
Lacan però diede una risposta iniziale che posso accettare anche come junghiano. Disse: " La psicoterapia è fatta per riuscire, la psicoanalisi per fallire".
Questo non vuol dire, e qui riprendo adesso in chiave junghiana, che la psicologia junghiana non sia tanto interessata, lo è anche, alla cura dei sintomi, su cui tutte le altre scuole sono impegnate. Lo dice chiaramente il fatto che la nevrosi può avere radici biologico - genetiche. La psicoterapia per riuscire, deve essere una psicoterapia dell'anima, deve aiutare il paziente ad accettare se stesso, a sviluppare se stesso. Questo è il grande problema dell'uomo moderno.
Se lei, parlando col suo paziente, si accorge che, oltre l'interesse per "come mi cura, che medicine mi dà, che sintomi ho", ha interesse a risolvere certi problemi spirituali, culturali, nel senso lato della parola, è più indicato uno psicoterapeuta junghiano. Se è dominato solamente dai sintomi, è meglio un orientamento freudiano.
A Jung non interessa niente della diagnosi. Lui dice nel suo lavoro su 'Psicoterapia e medicina': "A me non interessa niente se il paziente è depresso, nevrotico o isterico eccetera, a me interessa sapere se è un figlio di papà, un figlio di mamma con cui posso lavorare".
Jung, all'inizio mandava ogni paziente che andava da lui, da un pastore, da un sacerdote cattolico, per fare una confessione: se non riusciva allora cominciava.
Il suo problema era realizzare un profondo anelito spirituale che nell'uomo moderno è la realizzazione di se stesso, cioè il processo d'individuazione.
Non abbia paura di sbagliare, perché chi sceglierà veramente l'analista sarà il paziente.
Quando lei manda il paziente dall'analista, dopo cinque, sei sedute il paziente sente se c'è una certa atmosfera o non c'è. Se questa atmosfera c'è, l'ha guidato da uno junghiano mettiamo, continua; se sente che questo mondo manca, è più orientato ad un freudiano.
Lei ha fatto il suo dovere, anche sbagliando, se ha indirizzato il suo paziente, al di là dei farmaci, verso la psicoterapia. E' pregevole, la ringrazio.

LORIANA BIANCHI - Io sono una specializzanda in psichiatria. Lei professore ha detto: "Un medico internista come fa a decidere l'invio"? Secondo me questo internista dovrebbe avere conoscenza dei vari approcci psicologici, almeno psicoterapeutici, altrimenti io penso che forse è il caso d'inviarlo da uno psichiatra.
E' quello che faccio io: se mi arriva una persona che un'internista mi dice che ha un problema psicologico o d'origine psichica, io faccio un colloquio e vedo se questa persona ha necessità di una psicoterapia.
Anche se io sto facendo un'analisi personale di tipo junghiano, cercherò comunque di mirare le domande dal punto di vista dello sviluppo individuale, per poterlo indirizzare anche verso un altro tipo di analisi e di psicoterapia.
Cercherò comunque di capire le esigenze del paziente. Ad esempio se il paziente ha necessità di una terapia farmacologica, io ho la possibilità di dargliela, per poi inviarlo ad uno psicoanalista; oppure, conoscendo un po' gli approcci, ci sono delle persone che necessitano di un approccio di altro tipo.
Quindi uno psichiatra, anche uno psichiatra clinico può comprendere, forse ha più il ventaglio d'opportunità.

ROCCO PISANI - Certo, se è uno psichiatra d'orientamento dinamico, il che al giorno d'oggi è molto difficile. E' molto più pratico dare qualche pillola!

MARIO GIAMPA' - Nel momento in cui ti sei posto questo problema, ti sei condannato ad una lunga serie di frustrazioni perché potrei dirti così: se hai scelto l'otoiatra, il dermatologo, l' oculista, loro ti possono dare una risposta in breve tempo; una diagnosi: t'accorgi se sbagliano o no. Se però hai la malaugurata idea di mandarlo da uno psicoanalista, devi aspettare tre, quattro, cinque, sei, sette anni. Dipende dall'angoscia che ha.
Ora, a chi lo debbo mandare ? Le scuole varie di psicoterapia pare che siano più di cento, centocinquanta, non credo che ti basterebbero i prossimi cinquant'anni per decidere...!

GIANCARLO PETACCHI - Sono cinque, seicento; erano trecento agli inizi degli anni sessanta.

MARIO GIAMPA' - Ora, diceva il professor Pisani: "Sarebbe ora che ci si mettesse d'accordo", in generale.
Io venendo qui mi ero ricordato di una cosa che avevo letto di Paolo Roazen, non so di che nazionalità sia, che è uno studioso, uno storico della psicoanalisi....prego?

LUIGI FRIGHI - E' ungherese.

MARIO GIAMPA' - Pensavo fosse inglese, americano, francese, va bè.
Ora, quello che lui dice come situazione nel campo della psicoanalisi, la potrei dire nel campo delle psicoterapie. Dice: "Sono tante e tante le pubblicazioni che gli analisti praticanti fanno, ma questi analisti praticanti non hanno né la facilità, né la formazione necessaria per compiere una buona ricerca accademica". Quindi come si fa una ricerca per stabilire quale psicoterapia è valida, quali sono i modelli? Impossibile! Non so chi la possa fare.
Dice: "Non è neppure nel loro interesse promuovere una cultura imparziale; in conseguenza di ciò abbiamo tutta una serie di riviste che hanno come funzione essenziale quella di difendere qualche orticello privato. Quindi nel momento in cui ci proponiamo qui di decidere che fare o non fare, dobbiamo tener conto di questa natura umana: ognuno ha da difendere i suoi orticelli privati" E fin qua non sarebbe male.
Continua "Un tipo di ricerca indipendente, che tenti in qualche modo di esplorare terreni poco conosciuti, può soltanto trasformarsi in una minaccia rispetto al modo in cui gli analisti praticanti" e qui direi tutti gli psicoterapeuti "e i loro pazienti hanno già organizzato ideologicamente il loro pensiero e può addirittura diventare un pericolo per il loro stesso modo fondamentale di essere".
Terzo punto "Non intendo sottostimare il fatto poi che tutto ciò potrebbe divenire rischioso anche per le possibilità di sopravvivenza economica del sistema" .
Se questa sera dovesse uscire una risposta di quello che è giusto o sbagliato, uno se ne potrebbe andare a casa tranquillamente. Gli altri che fine faranno? Io non ho altro da dire.

GIANFRANCO TEDESCHI - Esiste una diabolica proliferazione delle scuole di psicoterapia. Purtroppo sono tutte guidate da un tema comune: fare presto.
Un trattamento psicoterapico vero e proprio, che voglia tener conto dell'inconscio, dei suoi sviluppi non è breve; se è breve è destinato, come diceva Lacan, a "échouer".
Lei chiedeva all'inizio "Quanto può durare un trattamento"? Questo è un grande mistero, ma le racconto un piccolo aneddoto indiano. Un individuo va da un guru e chiede fra quante vite avrà l'illuminazione: tra tre vite. Troppo, non ci vado.
Va da un altro. Quante vite? Cinque vite. Troppo.
Infine va da un terzo. Chiede quante vite. Il guru gli risponde "Tra centouno" e l'allievo dice " Solamente centouno"? In quel momento ha avuto l'illuminazione.
Ci vogliono nove mesi per partorire: quando un paziente chiede e lo chiede da tanti punti di vista: "Quanto può durare"? "Molto". " Non posso impegnarmi".
Però io racconto sempre questo aneddoto indiano. Se il fine di tante terapie è fare presto, fare presto, sono destinate a "échouer" in senso negativo.

ROCCO PISANI - Volevo chiedere alla Bonucci se può dire qualche cosa di più a proposito della coesione del Sé. Io mi chiedo, pur capendo che c'è una bella differenza, quanto possa esserci in comune con il processo d'individuazione.

CRISTINA BONUCCI - La domanda è impegnativa per me, tra l'altro non me l'aspettavo, tuttavia credo ci siano molti punti in comune.
Non saprei dire chi si è occupato, ma sicuramente qualcuno si è occupato di questo parallelismo tra il pensiero kohutiano e quello junghiano. Probabilmente non Kohut.
La psicologia del Sé, si occupa dello sviluppo del Sé nucleare, quindi ha a che fare con un processo d'individuazione.

ROCCO PISANI - Ha a che fare con l'archetipo del Sé il Sé nucleare kohutiano?

CRISTINA BONUCCI - Io non credo si tratti di questo, credo si tratti di dare la possibilità all'individuo, a questo il professor Tedeschi potrebbe rispondere meglio di me per vedere se ciò che sto dicendo aderisce alla teoria junghiana, di realizzare fondamentalmente ciò che egli può essere e nient'altro; né più né meno.
Per questo la volta scorsa dicevo che la psicoterapia kohutiana non vuole come finalità ottenere la felicità dell'individuo; poi se per felicità s'intende la realizzazione o l'individuazione del Sé, allora sì.
E' un concetto che va sviluppato, questo della felicità.
Dato che io ho il microfono vorrei approfittare per agganciarmi a quello che ha detto il professor Tedeschi riguardo alla scelta da parte del paziente del proprio analista.
Io sono molto d'accordo sul fatto che non bisogna avere paura di sbagliare, perché la vita è piena comunque di fallimenti; la vita procede come può procedere e il modo in cui si svolge è il modo dato, però non sono d'accordo sul fatto che il paziente possa scegliere sempre l'analista.
Dei pazienti arrivano in uno stato talmente confusionale, di tale bisogno, di tale frammentazione, di tale angoscia , che pensare che al primo impatto siano in grado di decidere se quell'analista va bene per loro, mi sembra piuttosto irreale.
Io ho visto pazienti frantumarsi durante gli incontri e questo non è dovuto al fatto che quell'analista non era in grado di svolgere il suo lavoro; magari non era in grado di sintonizzarsi con i bisogni di quel paziente, perché nessun analista ha compiuto in sé tutto il percorso di ogni essere umano che gli si avvicina. Freud diceva che l'analista può aiutare il paziente fino al punto in cui il suo inconscio è arrivato e non oltre e quindi non sempre è il caso che l'analista si assuma il compito di farsi carico di un paziente se non gli risuona in qualche modo.
Non sempre gli analisti dicono ai pazienti, quando sentono di non essere in grado di aiutarli, "Guardi lei ha bisogno di andare da qualcun altro". Spesso per motivi personali più o meno consapevoli, li trattengono; anche per bisogno di lavoro, per collegarmi a Mario Giampà, di cui non sono completamente consci.
Oppure prendiamo l'esempio di un'analisi didattica. Gli analisti freudiani, per formarsi, debbono prendere i pazienti a quattro sedute.
E se arriva un paziente ignaro del fatto che l'analista si sta formando e ha bisogno di prendere un paziente a quattro sedute? Chi l'ha detto che quel paziente abbia bisogno effettivamente di quattro sedute? Ma l'analista ha bisogno che il paziente ci vada quattro sedute, altrimenti non fa il training! Non c'è qua uno scollamento tra bisogno del paziente e bisogno dell'analista? Questa è una cosa su cui si discute! Allora secondo me questo è un problema da prendere in seria considerazione.

GIANFRANCO TEDESCHI - Ma lei ha perfettamente ragione. Adesso io non voglio fare critiche a nessuno, anche perché tutto sta cambiando molto. Sarebbe però un criterio un po' meschino "Se tu puoi pagare vai da uno che ti piglia quattro volte alla settimana, se non puoi pagare vai da uno che ti vede una volta alla settimana".
Ammettiamo che uno dica "Vai da Jung". Jung faceva due sedute alla settimana e molti fanno due sedute alla settimana. I freudiani non fanno più cinque ore, ma tre, quattro. Questo è un problema da non prendere scherzando.
Guardi, io le ho detto che il paziente sceglie. La maggior parte dei miei pazienti mi sono stati mandati da altri colleghi. Erano pazienti che volevano cambiare. Nove su dieci li ho rimandati dallo stesso analista: questa è una resistenza, stasera non ne possiamo parlare. Io ho detto alcuni aspetti.
Io non conosco Kohut, ma da come lei me lo presenta sembrerebbe parallelo, cioè il Sé per noi è un'istanza endopsichica che guida la realizzazione della propria totalità, della propria completezza e in questo della propria peculiarità, cioè dell'individuazione.
C'è una sola differenza, piccola, ma grande: Jung direbbe "Il Sé è un'istanza psichica trascendente che apre un mondo molto misterioso in armonia del quale noi dobbiamo vivere per la nostra salute".
Lui fa un parallelo nella psiche umana, tra la psiche del laico e la psiche del religioso. Il religioso è un individuo il quale vive in armonia con un entità trascendente che molti chiamano Dio. Jung chiama questo il Sé, lui non lo chiama solo archetipo della totalità, ma anche archetipo di Dio: vuole dire che c'è un'impronta.
La stessa cosa se lei prende l'etica biblica: dice delle cose che sono state dette da Hamurabi, da tanta altra gente, non è un'originalità. Però nella bibbia è sempre specificato "Non disprezzare lo straniero": così dice il Signore. C'è sempre questa integrazione con la dimensione religiosa. In Jung c'è questa. Se in Kohut c'è....secondo me partiamo da uno stesso presupposto con un'interpretazione differente: lei è un tipo psicologico, io un altro.

LUCREZIA GIORDANELLI - Io ho sentito parlare di individuazione e di realizzazione e volevo dire che questo è un obiettivo precipuo dell'analisi freudiana.
Noi l'abbiamo sempre saputo, sin da quando eravamo allievi, che non s'aggredisce mai il sintomo. Poi abbiamo fatto addirittura un congresso, la società psicoanalitica su "Psicanalisi: terapia o conoscenza"?
Cioè praticamente, esiste il messaggio della terapia e il messaggio della conoscenza che rappresenta la realizzazione di sé; l'individuazione è fondamentale perché l'individuo per realizzarsi deve individuarsi. Quindi questo è l'obiettivo precipuo dell'analisi.
Per quanto riguarda poi il discorso che si faceva della scelta, esistono anche cattivi analisti, per carità, non è che siamo tutti buoni, però voglio dire, di solito non quaglia, se non c'è...
Sono due cerchi che s'intersecano: è la relazione. Se questo non si può verificare, il rapporto non si fa e se dura, dura poco e poi finisce, perché non c'è niente da fare: non quaglia, non quaglia; c'è poco da fare!

GIANFRANCO TEDESCHI - Ma non è vero, scusi, che il punto centrale dell'analisi sia l'individuazione! Il fondo della psicologia freudiana è senz'altro molto valido e dobbiamo collaborare. Io ho scritto un libro molti anni fa "Jung, Freud: un dilemma inattuale".
Ci credo anche perché, quando io ho studiato in Svizzera, durante la guerra, sono stato gli ultimi due anni d'analisi con l'ultimo allievo di Freud, per cui... sono rimasto molto legato.
Il punto centrale di Freud è: il superare certi ostacoli dei legami infantili, permette al paziente d'adattarsi alla realtà. Se il paziente può vivere e realizzare, agire i suoi desideri infantili e la realtà glielo permette, lo faccia pure perché un po' di felicità l'uomo la merita, ma se non può l'uomo deve controllarli. Per adattarsi alla realtà l'assioma centrale freudiano, nella sua epoca, per cui aveva perfettamente ragione, è l'adattamento alla realtà.
Il problema junghiano è che direbbe "Ma quale realtà"? La realtà della società, della sua famiglia, la realtà di una sociologia. Quale realtà? Ogni individuo ha una sua realtà.
L'individuazione implica tutto uno spostamento di valori. In Freud non c'è questo problema. In Freud il problema è superare certi legami che impediscono lo sblocco degli istinti e dare a questi una sistemazione e un esaurimento nell'ambito della realtà: è sempre il grande principio della realtà.

LUCREZIA GIORDANELLI - Bè, però se io voglio seguire i miei istinti e dare un pugno a qualcuno, chiaramente poi m'arrestano. E' chiaro che devo tener conto della realtà. In questo senso è la realtà, in modo che l'istinto non vada a colludere con una realtà che...insomma......perché l'aggressività non ritorni indietro a boomerang.

GIANFRANCO TEDESCHI - Individuazione, dice Jung, è unire tra di loro delle realtà collettive aventi una loro etica, nell'ambito di una soluzione unica ed irripetibile.
Accettare l'individuazione non vuol dire accettare tutto quello che io voglio. Neanche Freud si è sognato di dire che la liberazione degli istinti vuol dire saltare addosso a uno per strada: questo non lo dicono né Freud né Jung, altrimenti sarebbero stati all'ospedale psichiatrico da tempo.
Lui dice individuazione: vuol dire riconoscere i nostri limiti, solo nell'ambito dei quali siamo autentici; solo chi ha certi limiti sarà capace di amare il prossimo.
E' un problema di realtà? Gli spostamenti che avvengono in un paziente durante l'analisi freudiana, possono esser frutto di un travaglio, di un cambiamento totale dell'equilibrio della personalità; le crisi d'angoscia denotano che questi pazienti stanno distruggendo la loro strada; è la ricerca del senso dell'esistenza.
Questo problema Freud non se lo pone, ma non lo disprezza. Io qui già l'ho detto, ma lo ripeto. Quando Binswanger incontrò Freud e gli disse: "Cosa ne pensa lei dei processi religiosi e spirituali"? Freud rispose: "E' una cosa molto importante, ma io non mi sono occupato dello spirito, mi sono occupato della maturazione degli istinti."
Non è vero che Freud abbia rinnegato i valori della religione. Lo sostengo, l'ho sostenuto a Zurigo nelle scuole junghiane. E' uscito un libro tempo fa, che io ho comprato nella casa di Freud, a Vienna, dove Freud è stato definito un religioso senza Dio. Lui era profondamente conscio della sua ebraicità; quando lui va a Parigi da Charcot e incontra un medico francese che gli dice: "Tu sei tedesco, io sono francese", Freud risponde, siamo nel 1850, "Non è vero, siamo tutte e due membri dello stesso popolo, il popolo d'Israele".,
Il suo libro principale sui sogni l'ha mandato in prima visione, l'ha dedicato a Hels, fondatore del sionismo. Freud era profondamente consapevole d'appartenere ad un mondo particolare, negava però la divinità che per lui non era altro che la proiezione dei sentimenti dell'impotenza infantile dei genitori. E' un'illusione.
Mi è capitato tempo fa di vedere un paziente il quale era stato da un freudiano di grandissimo valore. Aveva fatto un sogno: andava in un albergo con cucina ebraica, con la cucina secondo il rito ebraico ed aveva una grande felicità. Questo collega gli ha detto: "Guardi, si prepari ad un periodo.... lei ha trovato una strada per la felicità, però le debbo dire, purtroppo è religiosa"; come per dire siamo ancora lontani dalla realtà.
Questo è un esempio, ma ad uno junghiano non sarebbe venuto in mente niente di tutto ciò: avrebbe visto che la sua felicità era proprio nell'elaborare il suo mangiare temporale, nell'elaborare il suo pensiero religioso. E' molto differente.
Tutti quelli che hanno cercato di collegare Freud a Jung, liberandoci dalle stupide rivalità dei pronipoti di Jung e di Freud: sapere se mio nonno era meglio del tuo. I tentativi sono stati fatti a lungo. A Londra, per esempio tra la Klein e Friedman hanno cercato di trovare dei collegamenti tra gli archetipi e questi oggetti parziali, eccetera.
La signora ha parlato di Kohut che riconosce il Sé, però ripeto manca sempre qualcosa che per ora specifica Jung rispetto ad altri trattamenti. Con questo non voglio dire che sia il meglio! Dipende dalla problematica personale, non solo del paziente, ma del medico; esiste un limite nelle possibilità che possiamo dare noi. E vero. Jung dice che fare lo psicoanalista vuol dire occuparsi dei pazienti, dei suoi problemi e curare se stessi nel curare i pazienti; perché, e con ciò mi dò la patente di nevrotico, se l'analista avesse superato i suoi problemi, non farebbe più l'analista. Io lo faccio perché sono nevrotico.

ROCCO PISANI - Credo che anche Bion e Foulkes dicano la stessa cosa, che l'analista sta dentro al gruppo.

MATTEO MUSACCHIO - Debbo dire che nel corso di questi seminari ed anche questa sera, sono stati proposti vari modelli, ma è rimasta una zona d'ombra che è la seguente: resta in ombra quale sia l'oggetto della psicologia. Per il pittore è la tela e per il medico è il corpo umano; qual'è l'equivalente per lo psicologo? In assenza di questa chiarificazione, diciamo, quello che viene fuori è o la sofferenza, e perciò bisogna intervenire per lenire la sofferenza, per scioglierla, oppure la prospettiva medica: in fondo la psicanalisi è nata nello studio di uno psichiatra, nello studio di un neurologo, insomma.
Personalmente ho da dire delle cose: condivido quello che dice Tedeschi sull'essenza religiosa della psiche, ma non penso sia un optional, penso sia l'essenza.
Mi piacerebbe sentire, ma ormai è tardi e ne parleremo un'altra volta, secondo i vari indirizzi e le varie scuole, qual'è l'idea di questo oggetto: la psiche.

ROCCO PISANI - Chi può rispondere telegraficamente?

GIANCARLO PETACCHI - Io dico così che l'oggetto del medico non è il corpo umano, ma è l'essere umano e avrei una casistica di frasi incredibilmente penetranti e sorprendenti che medici internisti hanno detto ai loro pazienti. Io ne ho raccolto un certo numero; se vi dicessi che invece di un medico l'ha detto uno psicoanalista o uno psicologo, passerebbe tranquillamente.

GIUSEPPE PULIAFITO - In medicina organica ci sono delle metodiche di valutazione ginecologica che danno una descrizione dell'affidabilità di un ginecologo. In medicina psichiatrica che metodiche ci sono? Quali mezzi per selezionare quello che è affidabile, che ha un indice di produzione, di miglioramento del paziente, quali invece vanno verso la magia, verso chissà cosa?

ROCCO PISANI - Chi dà una risposta telegrafica?

ANNA MARIA MEONI - Nessuno, perché il problema nelle psicoterapie, sta proprio nel suffisso "terapie". Il paziente che va a fare una psicoterapia, e ne devono essere consapevoli tutti, va a fare una psicoricerca, perché non c'è mezzo di validazione, non c'è certezza delle ipotesi scientifiche di base. E' doveroso comunque lavorare in un campo di ricerca con molta etica, triplo di quella che sarebbe necessaria.

ROCCO PISANI - Io non sarei così catastrofico, comunque ne riparleremo.
Un ultima richiesta: siccome abbiamo registrato la discussione e abbiamo in programma di pubblicarla anche su internet, siete tutti d'accordo di pubblicare i vostri nomi ed i relativi interventi?

GRUPPO - Non c'è problema.


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