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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2007 - 2008

L’ambiguo transito dal tempo dell’Io al tempo del Noi

Bruno Callieri
Coordinatore Prof.Rocco Antonio Pisani
(t) testo di relazione fornita dal relatore (r) elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani



Il Prof. R.A.Pisani introduce il Prof. Callieri sottolineando che egli in questo contesto è ampiamente conosciuto in quanto ospite d’onore dei seminari fin dall’anno accademico 1989/1990. Tutti gli anni ha portato un suo contributoe spesso ha partecipato ai seminari di altri relatori. Ricorda lo splendido seminario tenuto da Pierfrancesco Galli, sulla “Psicoterapia della schizofrenia”, alla presenza di Callieri, di Tedeschi e di Frighi. Fu uno splendido seminario e un’occasione d’incontro di questi nostri maestri.Reputa arduo, nonchè superfluo, presentare Bruno Callieri, uno dei più validi psichiatri italiani che ben ci rappresenta a livello internazionale, parlando bene francese, tedesco e inglese.
Questa sera terrà un seminario il titolo del quale è stato a lungo meditato dal relatore.
Il Prof. Callieri chiarisce che non è un argomento proprio sconosciuto perché ne abbiamo sempre discusso; però questa mattina, facendo lezione alla Neuro, gli è venuto in mente di modificare la tematica che avremmo dovuto discutere qui: la tematica dell’identità egoica, dell’Ego, appunto , che in questi ultimi decenni è sempre più in crisi. Un’ identità egoica che va dal tempo dell’Io, l’Ego, al tempo del Noi, e in questo senso tende ad appoggiarsi all’impostazione prevalentemente heideggeriana. Questa identità del Noi, gli ha fatto riflettere che sarebbe stato bene impostare la nostra conversazione su una tematica legata al problema dell’incontro, inteso questo non semplicemente come un’ occasione, sia pure tra tante, che si perde nel flusso della vita, ma come qualcosa di peculiare che consente al medico, all’operatore della salute mentale, a colui che ha interesse per l’altro (che non sia un altro troppo diverso, ma che tenda a diventare sempre meno alieno e sempre più alter), di giustificare il passaggio dialettico da una psichiatria fatta di cataloghi, di descrizioni, di cristallizzazioni apparentemente inamovibili, ad una psicopatologia più vicina all’ambito che favorisce l’accesso psicoterapico: a qualunque tipo di accesso psicoterapico. Mette però tra parentesi l’accesso skinneriano, che sembra radicalmente tagliato fuori da questo tipo di problematiche: tutto si risolve, si esaurisce e s’inquadra nello stimolo e risposta; tutto quello che accade dentro, dietro, sopra, sotto, non interessa. Ottima impostazione pratica, quella skinneriana, che però egli reputa del tutto insufficiente per noi. A questo proposito, segnala un libro pubblicato recentemente in Italia, donatogli da una sua cara amica: Mirella D’Ippolito, rogersiana convinta; il volume riferisce i dialoghi o, meglio, le gentili continue contrapposizioni, tra Rogers, centrato sulla persona, e Skinner, che cerca di spuntare sistematicamente tutte le armi di apertura alla persona, considerando solo i meccanismi che regolano domanda e risposta e disinteressandosi di quello che c’è dentro o dietro. E’ un’impostazione molto diffusa. Qui in Italia, per molti anni, Callieri ha fatto lezione di psichiatria anche alla scuola skinneriana. Si è trovato a proprio agio a parlare con i singoli di argomenti ben al di fuori del loro tessuto concettuale.
Richiama la necessità di portare il problema umanistico dall’ambito rigorosamente clinico della psichiatria istituzionale, che nasce dal manicomio, nell’ambito della follia vera cioè del delirio, della paranoia, della parafrenia, della schizofrenia, portarlo ad un discorso che sia più “alter egoico”, più volto al rapporto con l’altro. Si riferisce all’alienista del Secondo ottocento, chiarendo che era diverso dallo psichiatra e dal medico attuale. Ricorda quando ne parlava con Cargnello che, con una punta di sarcasmo, diceva “Io sono un povero alienista”, cioè: “Mi occupo degli alienati”. La Rivista Sperimentale di Feniatria era allora la rivista per antonomasia delle alienazioni mentali.
Oggi il termine “alienazione”non ci fa più rabbrividire, ma ci dà fastidio. Cargnello molti anni fa scrisse, per Feltrinelli,“Dall’ alienità all’alterità”, cercando di riportare allora, il passaggio da una persona consegnata alla categoria di un irrecuperabile, alla persona recuperabile al dialogo interpersonale. Abbiamo tanti nomi di alienisti italiani, tra cui Lombroso, il primo Morselli (1880), il più importante psichiatra italiano di quell’epoca, Tanzi, Lugaro, etc. L’alienista del Secondo Ottocento era determinato, in modo quasi univoco, da quello che si chiamava “sano naturalismo positivista”. Alieno da ogni ideologia, alieno da ogni romanticume, da ogni cosa che considerasse la sofferenza dell’altro; era invece un medico che guardava neutralmente l’altro, come l’anatomopatologo guarda il cadavere che sta sezionando. Solo in questo modo era possibile entrare nell’ottica medica del naturalismo psichiatrico, allora radicalmente imperante non solo in Italia, in Francia, in Germania, ma ovunque arrivasse il verbo della psicologia. Questo medico si esauriva tutto nell’atto dell’obiettivazione.
Che cosa significa obiettivare? Soltanto fare l’esame obiettivo?
A suo modo di vedere significa reificare l’altro, cosificare l’altro, alla stregua di un oggetto da studiare. Si viene a studiare l’altro nei suoi modi di porsi, allo stesso modo di come si studia un fegato o un cervello: come oggetto d’indagine per la mia curiositas e brama di sapere, classificando. L’alienista della fine del Secondo Ottocento, in fondo, è paragonabile ad un bravo entomologo. L’entomologo studia gli insetti, le farfalle: li classifica e li mette in ordine, per poterli poi esaminare attentamente nelle loro minuzie e nei particolari che distinguono un tipo dall’altro, una specie dall’altra, una sottovarità dall’altra, in una operazione infinita di oggettivazioni successive. Reificare l’altro significa risucchiare un Alter Ego, cioè una persona come noi, un altro io, in un anonimato di categorie eziopatogenetiche. Numerosi, qui, i percorsi.
Callieri ricorda quando a Napoli, 50 anni fa, ebbe a seguire alcune lezioni di Vito Maria Buscaino, l’illustre Maestro il quale riteneva che quasi tutte le malattie del cervello dipendessero dal cattivo funzionamento del fegato e, naturalmente, le curava con la dieta per gli epatopazienti. Altri avevano altre idee analoghe che sono affiorate ad ondate successive: dal secolo scorso ad adesso, c’è stata tutta una serie di teoresi categorizzanti, che ambivano ad arrivare ad una spiegazione precisa, univoca, determinata del cosiddetto disturbo mentale.
Ma cosa è la mente? E’ un’astrazione, come è un’astrazione il soma. Il soma vivo, non è certo la salma. Ma il soma vivo esiste? Esiste solo se è psiche- soma, se non è un cadavere vivo. Nello stesso tempo, come possiamo pensare che quello sia l’altro, non solo nella sua natura neuronale, ma anche nella sua storicità, nel suo farsi storico? Intanto abbiamo di fronte un alter ego, un altro io come me, in quanto quello è carico non soltanto della sua naturalità, delle funzioni del suo cervello, del suo fegato, della sua milza, ma è carico di una storia individuale, diversa fin dalla nascita da tutti gli altri sei miliardi di storie di individui che ora sono nati e vivono in questo mondo. Quando diciamo “storia dell’altro”, è perché l’uomo non è solo natura, ma anche storia; anzi, in una visione storica spinta, si potrebbe azzardare di dire che il concetto di natura, nasce in un momento della storia del singolo uomo che si va facendo, nelle varie culture. Il concetto di natura non esiste in molte culture: sembra essere un concetto tipico della nostra cultura occidentale.
Callieri intende dire che le malattie mentali non sono riducibili, “eo ipso”, a malattie del cervello. Griesinger nel 1863 diceva “Le malattie mentali sono malattie del cervello” : questo aspetto di assolutizzazione totale è un errore epistemologico bell’ e buono. Griesinger, di cui Callieri ha approfondito la documentata storia, ragionava più o meno come noi; ma in quel momento l’andazzo di moda gli imponeva di ragionare e fare lezioni in quella maniera, altrimenti non sarebbe mai arrivato ad insegnare psichiatria in quel tipo di università nel 1860 (come reazione al romanticismo fino ad allora imperante) quindi in un’ ottica di medicalizzazione radicale dell’uomo sofferente, disturbato psichicamente e/o nel comportamento.
Qui ci troviamo di fronte ad una tematica complessa: come possiamo comporre lo psichico e il comportamentale?
Il comportamento è completamente riconducibile allo psichico oppure è qualcosa che è filtrato, legato, impastato di valori culturali, di riti e miti, direbbe il quasi centenario Gillo Dorfles, riti e miti di altri tempi? Questa dimensione, il comportamento, come possiamo situarla psichicamente? Ha veramente ragione Skinner a considerarlo meramente esauribile nell’angusta cornice reflessologica o dobbiamo ritenere che sia mosso e guidato da correnti sotterranee? Correnti che ne costituiscono non solo lo spessore e la densità d’urto con altri modi comportamentali, ma che ne costituiscono anche la sua fenomenologia, cioè il suo apparire?
E’ un quesito al quale noi psichiatri e psicologi, non del tutto sprovvisti dal punto epistemologico ed ermeneutico, dobbiamo dare una risposta, per non muoverci come piccoli impiegati, burocrati della psiche.
Callieri sottolinea l’importanza dei rapporti tra neurofarmacologia e modelli comportamentali; vanno sempre presi in considerazione, ma “cum grano salis”: cioè non tutto si esaurisce nel rapporto tra disturbo ed effetto di un farmaco, come se si trattasse di un bilancino che li determina, tanto da arrivare persino a quelle assurdità delle dosi “a scalare, a seconda”. Va sempre ricordato che chi ci sta di fronte e al quale si prescrive, è un individuo che non ha un tipo di sofferenza uniformemente graduabile; una sofferenza, che viene sollecitata, costruita e soffocata nel giro di poche ore o di poche settimane da mille fattori imprevedibili.
Parlando da vecchio medico psichiatra, Callieri afferma che, in un certo modo, questo è il bello della nostra professione perchè altrimenti questa sarebbe esangue e noiosa: registrare i sintomi; scartabellare i manuali prontuari e prescrivere il farmaco con un atto automatico che pian piano soffoca il rapporto interpersonale, quel rapporto che invece dovrebbe essere sempre alla base della relazione medico-paziente.
E allora, come la mettiamo con la psichiatria? Possiamo chiamarla scienza del cervello? Non sarebbe meglio parlare di questa psichiatria, chiamandola semplicemente scienza umana?
Human science, studio dell’uomo in generale, di un’esistenza che non è solo natura, ma che è anche soprattutto cultura e storia, cioè che è anche e soprattutto “persona”. L’altro come persona, non l’altro come psiche, come soma, come artificiosa unità psicosomatica, che è l’unità di due concetti astratti. Piuttosto l’altro come persona, contemporaneamente irriducibile a tutte le altre e nello stesso tempo anche “persona” latina, cioè maschera che ciascuno assume sopra, sotto e davanti ad un’altra maschera, in questo infinito proporsi in modi diversi, a seconda delle diverse situazioni, dove il nucleo profondo sfugge ad una determinazione radicale che lo esaurisca nel nostro modo di esprimerci.
La persona infatti è inesauribile, soprattutto nei suoi retrò, nei suoi silenzi. L’eloquenza di certi silenzi! Lo psichiatra, l’antropologo attento, non sempre riesce a cogliere, non nelle parole che dice, ma nei silenzi in cui non dice, oppure in certi sguardi sfuggenti, cioè in tutto quello che non è formulabile in termini razionali, precisi, matematici, definiti.
Ogni psicoterapeuta deve assolutamente tenerne conto.
Quindi la psichiatria come scienza dell’uomo. Ma come facciamo a dire che la psichiatria è scienza dell’uomo?
Callieri crede che lo si possa dire soltanto se, con un atto di fede, assumiamo il termine “coscienza” nel suo pieno significato.
Cosa significa: “io sono cosciente di” ?
Certo non stiamo a parlarne adesso, ma bisognerebbe farla una sessione triplice sulle varie impostazioni ed interpretazioni della coscienza. Ricorda un caro amico scomparso, il prof. Giannetto Cerquetelli, con il quale, nel lontano 1954, fece una “trilogia” sulla coscienza: la coscienza come bios, la coscienza dell’io, la coscienza dell’altro, che sollevò le perplessità del prof. Vittorio Challiol , del prof. Lucio Bini e naturalmente del prof. Cerletti. L’intenzionalità della coscienza. La coscienza non è mai una “coscienza” e basta. Callieri si rivolge ai presenti che, nel preciso momento in cui egli sta parlando, sono coscienti di qualcosa: “Tu sei attento, segui con tensione quello che sto dicendo qui e ciò per un là e per quello che lo riceve, e nello stesso tempo mi prepara e lo preparo ad un incontro che può anche essere scontro”.
Questa intenzionalità che anima la coscienza è quindi di un significato radicale per il mondo della vita, la Lebenswelt. Ad esempio: entri in una stanza dove trovi un trenino, due, tre bambole, costruzioni di meccano, e senti che là c’è stata o c’è in atto o ci sarà la presenza di un bimbo, non astratto ma concreto. Ha messo sottosopra i suoi giochetti. Quindi è lì, anche dal suo “mondo della vita”, come ha indicato Husserl, dal suo modo di oggettuarsi nelle cose, di manipolare il mondo; anche da lì possiamo cercare di capire che cosa anima quella presenza che pur in quel momento non c’è in quanto presenza-assente. Allora si apre un altro orizzonte che c’impegna, ci turba e fa tremare le vene ai polsi degli psichiatri: la donazione di senso.
Cosa significa dare un senso, donare un senso?
In questa riunione qui, ora, ognuno ha il suo interesse, ognuno ha le sue motivazioni per trovarsi qui, motivazioni antiche, recenti, motivazioni che sollecitano o che annoiano. Quindi c’è tutto un intreccio motivante, dal quale non possiamo prescindere; quindi la coscienza è sempre intenzionale, ed è coscienza che dà sempre un senso a quello che facciamo, tant’è che delle volte, anziché dire un folle, diciamo un insensato, cioè uno che ha perduto il senso del fare.
Callieri richiama l’attenzione sulla differenza tra senso e significato, che è netta. Un conto è parlare di significato, un conto è scorgere il senso: che significa, che senso ha la mia vita?
Nel sacrificio di un padre per un figlio leucemico morente, ha senso tutto quello che egli fa: un senso che non è un significato da decifrare dal punto di vista epistemologico, ma è qualcosa che investe la vita di quel l’uomo, che la scuote dalle fondamenta.
La donazione di senso si gioca nella compagine corporea, dove il corpo non è semplicemente un accrocco mirabile di miliardi di neuroni o di cellule che funzionano perfettamente, ma ha un suo senso come comunicazione con l’altro corpo. Il mio corpo, così ben governato da miliardi di cellule, significa qualche cosa in quanto mi permette di comunicare con l’altro corpo, di vibrare insieme ad esso, in uno scambio di modi di vedere il mondo e di viverli. Allora ecco che il corpo non è mai, come diceva Merlot Pontì , solo il corpo per sé, ma come anche sosteneva Sartre, sessanta anni fa, è il corpo del ”inter”, del tramite, del tra: tra me e te. E’ il corpo dell’intermediarità (termine oggi in voga).
Il corpo che io ho e che tu hai è l’intermedio per permetterci di comunicare: l’ Ego e un altro Ego. Anche se poi noi sentiamo che siamo radicalmente questo corpo, ciò non ci basta, perché io ho questo corpo in quanto tendo ad aprirmi all’altro. Sto qui per il là in cui sei tu, altrimenti se io stessi solo qui, se non ci fosse un là e io fossi racchiuso solo nel mio qui, sarei messo nella mia bara invisibile, ma pur sempre una bara, cioè un qualcosa che non mi permette la com-unione, l’unione con. Comunicare, comunione, esserci-con, non è mai solo qui: è un esserci-con-per, verso (at-the-world being). C’è questa direzionalità per cui, se ci mettiamo uno accanto all’altro, di fronte ad una via in salita, sappiamo che la percorriamo insieme: ecco i percorsi di vita. A lui è stato insegnato da tanti antropologi e psichiatri, tra cui evoca il nome di Eugène Minkowski, il grande psichiatra, polacco-francese, che egli conobbe personalmente. Ricorda il grande significato della psichiatria minkowskiana: il tempo vissuto, lo spazio vissuto. Reputa tuttavia inutile parlare in particolare di Minkowski, in quanto tale. E’ un nome che resta nel suo encounter, nel suo incontro; e la nostra vita è fatta di tanti incontri anche come questo: l’incontro con l’uomo che ho amato e poi si è involato e poi è tornato, e mi ha reso perplesso per la vita; e altrettanto dicasi per l’altro, per tutte le spinte aggressive e del tutto contraddittorie che a volte ci animano; dell’incontro con l’altro che avviene tramite i corpi, lo sguardo, la carezza, tramite l’intercorporeità.
La nostra attività quotidiana col sofferente, rischia di coinvolgerci in un modo complesso e non facilmente subito decifrabile, contenibile, dominabile e programmabile. Dall’altra parte, però, si rischia anche l’appiattimento dal quotidiano al giornaliero, dal medico che partecipa alla sofferenza dell’altro al medico burocrate che vede solo il paziente, l’utente, scrive la ricetta, liquidandone la presenza in pochi minuti, perché non ha tempo: deve stilare in un ora dieci di queste ricette. Ciò naturalmente sta ad indicare la possibilità che lentamente, in questa apertura di uomo che pur ci sarebbe verso l’altro, pian piano la bara della chiusura viene a chiudere i suoi tasselli e lo rimette nel suo mutismo, radicale e durevole.
La parola non è solo la verbalizzazione del nostro pensiero, la parola è sempre anche dialogo interiore.
Callieri spiega che quello che lui sta dicendo adesso, non corrisponde a quello che aveva scritto e che avrebbe voluto dire perché, vedendo le persone, sentendo la tensione di chi ha di fronte, è stato sollecitato nell’animo ad una lettura diversa, più piena. Così quando egli incontra un paziente, non sa mai come andrà a finire: resta un mistero. E’ il mistero esaltante o rischioso che tesse continuamente la nostra vita, intrecciandole l’irrepetibile ordito. Se vogliamo essere autenticamente alter-egoici, cioè con-l’altro, noi dobbiamo scommetterci dentro: non possiamo star lì ad osservarlo, come con una specie di cannocchiale. Un uomo autentico deve partecipare con l’altro, pronto a rischiare lo scacco, come già cento anni fa diceva Jaspers, e pronto a scommetterci la propria validità interiore. Qui c’è il problema che ci ricollega a quel grande teologo, tedesco, protestante, Paul Tillich, in quel libro meraviglioso “ The courage to be”, “Il coraggio di esserci”, cioè il coraggio di esistere, il coraggio di giocarsi con l’altro. Il coraggio di poter uscire-con il malato, l’autista chiuso nel suo mondo irreale, uscirci a braccetto e scambiarsi una barzelletta che possa far ridere entrambi. (Sarebbe una grande vittoria!) Callieri parla del coraggio di vincere quello stato d’animo, che rischia di essere castrante, che egli definisce come “perplessità”; il restare perplesso, così come lo vediamo noi psichiatri, là dove la persona sofferente ti sta davanti e si guarda e si riguarda le mani: non sa cosa farne più delle mani, perché le mani servono per manipolare, per fare, ma lui è sospeso e le mani a che gli servono? Le guarda come se fossero una cosa strana, perché la mano non ha più quel significato di prolungamento del proprio essere- nel- mondo in quanto afferra, coglie, colpisce e accarezza. Ecco il problema che oggi ha ripreso la psicologia e l’antropologia, Jean Luc Nancy, Marion “Caresser, se caresser”.
Queste persone ci hanno fornito validi strumenti linguistici per nuovi orizzonti: la lingua francese è ricca di sfumature linguistiche, per modulare meglio il nostro modo di proporci all’altro e di risvegliare quelle parti dormienti dell’altro, che forse non sono state mai sollecitate da un atto d’amore o forse solo con disattenta noncuranza o annoiata presenza.
Callieri evidenzia che la poesia italiana recente ci dà molto in questo senso. Egli vi ha trovato molto di più che nei trattati di psicopatologia, nella lettura palpitata, attenta, convissuta di certi poeti: Luciano Erba, Giovanni Giudice, senza dimenticare Montale, Ungaretti, Cardarelli. Dobbiamo avere la capacità di cogliere in quello che ci offre il poeta gli stessi suggerimenti, a volte assurdi, che ci dà il cosiddetto folle. In fondo tra follia e poesia c’è un certo contatto; è lo stesso contatto sconvolgente che accade quando noi accediamo ad un Altro Mistero, alla selva misteriosa che chiamiamo il “Sacro”. Il sacro è qualcosa che Rudolf Otto, grande filosofo della religione, diceva “sacrum et tremendum”, cioè che fa tremare. Qui ci riallacciamo a Kierkegaard “cum timore et tremore”.
Ecco quindi delinearsi questa donazione di senso, questa corporeità nell’incontro con l’alter-ego, questo mondificarsi che consente, anche al caso clinico più destituito di alterità, al catatonico confinato da mesi nel suo letto, quel moto improvviso, quel guizzo di ripresa che ci fa vedere che c’è un mistero sottostante, una vita che noi non eravamo fino ad allora riusciti minimamente a cogliere.
Callieri ci invita ad offrire, nella discussione, ulteriori stimoli di contrapposizione o di arricchimento d’incontri. Considera che venti anni addietro avrebbe detto di casi, di casistica. Oggi gli rincresce, quasi, di parlare di casistica, di “casi”: tu sei uno dei miei casi più difficili! Mah! Tu sei un Tu, sei un Alter-Ego; come posso pensare di classificarti, d’includerti in una categoria rigida, insieme ad altri casi consimili? Lui l’ha fatto per tanti anni, in buona fede, ed oggi se ne rincresce.
Il rapporto dell’uomo con l’altro uomo è un rapporto sempre aperto, è sempre pieno; un interrogativo risolto ne fa sorgere un altro; è un rapporto sempre denso di angolature diverse, che ti consente un arricchimento continuo di scambi. Tu con l’altro, l’altro che diventa della tua carne, tu che cerchi da un lato di abbracciarlo, di possederlo, dall’altro invece di eliminarlo perché diventa ingombrante, in un continuo movimento dialettico. L’altro spesso è scomodo; l’altro a volte è qualcosa che suscita antipatia, avversione, ostilità,”odio”. L’odio verso l’altro, l’odio per l’intruso. Ecco la famosa espressione sartriana, per “l’Autre” . Nella “Nausea” “L’autre c’est l’enfer” , l’altro è l’inferno. Non davvero il mio alter-ego, compagno di via. E’ soltanto quello che si è venuto a metter seduto di fronte a me, e mi ha rovinato tutto con la sola presenza: mi opprime, lo ucciderei. E’ l’opposto dell’altro come compagno di strada; è l’altro come uno che debbo eliminare, odiare, soffocare, buttar via. Qui, oltre questa tensione dialettica tra natura e storia, tra corpo che ho e corpo che sono, tra intercorporeità mia e tua, tra spiegazione e comprensione, c’è un tertium. C’è sempre un tertium nelle cose, non siamo mai una moneta a due facce sole; c’è sempre nella moneta a due facce, una terza faccia che ci sfugge, che non vediamo, ma c’è. Qual è questa faccia?
Per noi psichiatri che ci siamo abbastanza aperti all’altro, anche al gruppo-altro, è “l’interpretazione”.
Perché io ti spiego quando, come neurologo, so i neuroni, le vie che mi consentono di dire, di quel riflesso o di quel disturbo la causa, l’origine; invece ti comprendo, nella tua e nella mia simpatia e antipatia, per una data azione compiuta o da compiere, con una presa di contatto immediata. Accanto alla spiegazione e alla comprensione ,troviamo un tertium: l’interpretazione. Che senso gli do? Come l’interpreto? Non è solo l’interpretazione di un sogno che, se siamo junghiani, avviene in un certo modo; se siamo neo- freudiani in altro modo; se siamo vetero- freudiani, in un altro ancora: ce ne abbiamo tante di possibilità d’interpretazione. Non è solo un’ interpretazione sic et simpliciter, ma un’interpretazione costruttiva, cioè che aggiunge qualcosa al detto, al sentito, al consaputo, al taciuto, al sottolineato, all’omesso. E quante cose omettiamo che pure sono radicalmente significative, proprio perché le abbiamo omesse mentre, se le avessimo dette, sarebbe stato tutto molto più semplice! Ecco l’interpretazione costruttiva; ecco quel relativismo individualizzante, così ricco e pieno di sfumature.
Davvero dobbiamo riconoscere che l’interpretazione costruttiva non va apposta solo ad una presenza della metapsicologia freudiana, ma apposta anche a quello spirito acuto e inquieto, a volte anche un po’ bizzarro, che fu Jung. L’interpretazione costruttiva è per lui l’interpretazione basata sull’idea dell’archetipo: non solo dell’archetipo mio, ma dell’archetipo comune, collettivo. E che cosa significa archetipo collettivo? Qui entra di prepotenza l’incontro con la gruppalità: l’esserci, come esserci gruppalmente. E’ qualcosa di ben diverso dal mettersi in gruppo. C’è un trovarsi in gruppo, un interagire, certamente, ma c’è una gruppalità che, come ci dice la Von Franz, noi portiamo dentro: noi siamo internamente già gruppo.
Il Prof. Callieri non sa se la gruppalità si fondi solo sull’archetipo, ma vorrebbe aprire la discussione, dichiarando apertamente la propria inquietudine e ignoranza su questo aspetto.


Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti:

Il prof Pisani apre la discussione, dopo aver espresso il piacere e l’onore della presenza del prof. Callieri che ci ha parlato dell’Incontro, in maniera brillante e ricca di conoscenza fenomenologica. Sottolinea che lo spirito di questi seminari si basa proprio sulla gruppalità e sull’incontro con gli altri e che punto fondamentale ne è la discussione. Riguardo la coscienza, evidenzia che l’etimologia deriva dal latino “cum scio”: so con gli altri. Se non ci sono gli altri, se non c’è dialogo interpersonale e transpersonale, non c’è coscienza, non c’è l’opportunità di condividere.

Il dr. Lusetti fa presente che, a fronte del discorso del Prof.Callieri, così ricco di stimoli, di spunti, di tematiche, farà un intervento che scaturisce da una risonanza personale. Egli è uno psichiatra di lungo corso ed anche per lui è un’epoca di bilanci. Una delle cose su cui anche lui si sta interrogando è questa tendenza della psichiatria ad oggettivare il malato, tendenza non solo della psichiatria, ma di tutta la medicina. (per Callieri è la tendenza a medicalizzare ad oltranza). Lusetti osserva che però la psichiatria si trova ad avere a che fare con un oggetto particolare che è la mente umana, e soprattutto con un soggetto particolare che è il malato di mente che, secondo la sua esperienza di 34 anni, ha la caratteristica di ribellarsi profondamente a questo processo di oggettivazione. Il malato di mente non si fa oggettivare; reagisce in mille modi, tant’è che il manicomio è stata una delle risposte che non solo la psichiatria, ma anche la società hanno inventato per costringere il malato a farsi oggettivare, perché il malato di mente è inquietante per tanti aspetti. In questo momento di bilanci suoi, ragionava e voleva un’opinione di Callieri, su quello che è cambiato nell’assistenza psichiatrica in Italia, rispetto a questo specifico problema dell’oggettivazione del malato di mente, del suo ridurlo ad oggetto. Ad un certo livello, egli ritiene che sia vero che è stato liberato dall’atroce condizione manicomiale, ma la sua pratica quotidiana sia in ospedale psichiatrico, sia in spdc, sia sul territorio, è che in realtà ci sono tante forme di oggettivazione del malato di mente che si evidenziano sempre di più via via che il malato di mente viene inserito, “integrato” nella società. Per certi versi, infatti, uno psichiatra che rompeva lo schema manicomiale, aveva più facilità di arrivare alla persona; adesso si ha a che fare con tutta una serie di istanze che sono dietro e sopra il malato di mente con le quali lo psichiatra è costretto ad interagire: le famiglie, la pressione dell’opinione pubblica, la produttività delle aziende, la necessità di organizzare le équipes in un certo modo. Sembra che l’oggettivazione, che appariva superata per un verso, si sia per l’altro riproposta.

Il prof. Callieri non solo si dichiara completamente d’accordo con questa analisi, ma provenendo nella sua memoria, il giovane psichiatra del periodo basagliano, col quale aveva legami, polemici ma sempre molto vivaci, si sente pieno di tristezza. Gli pare che tutto sommato “nous sommes toujours là”, torniamo sempre al punto di partenza; come se ci fosse una specie di destino che trasporta l’uomo nel suo desiderio e tentativo di liberare l’altro uomo e di riportarlo autenticamente al tu; ma poi si rivela come un destino che invece ti mette proprio nella condizione di ricosificarlo: lentamente, dolcemente, insidiosamente, reificarlo. Sottolinea che fin dall’inizio della sua relazione, egli ha espresso questo timore, questo cruccio della reificazione. Ha 85 anni, per cui si appresta ad imbarcarsi per l’ultimo volo. Ma gli piace richiamare la nostra attenzione affinché non vengano viste lucciole per lanterne. Forse perché anziano, è alquanto pessimista sulla possibilità di liberarsi da questo rischio che lentamente, dopo gli anni ‘70, è venuto riaprendosi, perché ci si è troppo ingolfati nell’ordinamento burocratico: la burocrazia è quella che distrugge la libertà dell’altro.

La dr.ssa Valacca è contenta di trovarsi nel gruppo, dopo un periodo non proprio buono. Ringrazia Callieri per questa sua lezione dove i punti essenziali ruotano intorno ad alcuni concetti che in genere difficilmente riusciamo a mettere insieme, come egli ha cercato di proporre: l’Ego, l’Io, l’Altro e il concetto di gruppalità. Questi tre concetti sono difficili da mettere insieme dal punto di vista della classifica, oltre che del senso. L ’Io infatti di per sé non esiste: è un’ entità astratta che vive attorno con una gruppalità illimitata. L’Altro può essere definito come un termine di confronto versus o contra, a seconda della spinta d’amore o di odio. Ora il problema può essere quello dell’oggettività, altro concetto che è stato ripreso e portato avanti cercando di approfondirlo, anche con un senso critico riduttivo, come posto in essere dal positivismo prevalentemente ottocentesco. Evidenzia che oggi, rispetto all’oggettività, si parla sostanzialmente di un’oggettività debole. Il concetto di oggettività non regge più nemmeno per un ricercatore che quando indaga, condiziona ciò che indaga. Le scienze empiriche, le scienze della natura e quindi anche la psicologia sperimentale, che lei ben conosce, sono le prime a dirlo. Il concetto di oggettività, pur ridimensionato, in qualche modo può essere di garanzia per l’individuo in quanto classificando, con tutto il rischio delle classificazioni, l’individuo cerca di fare ordine che, ad un certo livello, gli permette di posizionarsi in un certo modo. Sottolinea quindi che la questione dell’Ego oggi ripropone tante difficoltà, perché uno non si riconosce mai: ha tanti aspetti. La moneta non ha due facce, ne ha un’altra e un’altra ancora, rispetto all’interpretazione. La questione dell’oggettività servirebbe per comprendere questo atteggiamento non solo del ricercatore, ma anche del profano, e per garantire l’Ego, l’Io, in quanto di fronte all’altro, in un rapporto dinamico, si può anche perdere. Accenna alla tensione interna, dovuta alla molteplicità delle figure del teatro mentale, come gruppalità. Sembrerebbe che questa oggettività, come concetto e come ricerca, serva per garantire una certa definizione del contorno dell’Ego. Chiede il parere di Callieri su questa sua considerazione.

Il prof. Callieri dice che questo suo intervento è ricco e coinvolgente perché tocca tutti i problemi della critica dell’egologia. L’intervento ha sollecitato in lui l’associazione che quando diciamo Ego, diciamo sì egoità, ma diciamo anche ipseità. Si chiede se allora l’Ego è l’Ipse o l’Ego è semplicemente una funzione emergente rispetto all’inconscio, in una dialettica col Super-Ego, secondo la metapsicologia freudiana, oppure l’ Ego sia un’istanza mutevole; un’istanza che si adatta, una specie di proteo che tu prendi e ti sfugge di mano, lo riprendi, pare che hai preso quest’Ego e invece sta lì, da una parte e sogghigna perché ti ha fatto fesso un’altra volta. Quest’Ego nostro che ci illudiamo di capire, di cogliere, d’immedesimarci nelle sue parvenze, ed è invece inafferrabile. Crede che questa sia la giustificazione del perché Agostino diceva “ et inquietum est cor meum donec requiescat in te”, cioè questa inquietudine interna è legata proprio al nostro essere io, che regge e non regge, perché non siamo mai fondati stabilmente in qualche cosa: siamo un continuo muoversi, una specie, come si dice oggi, di liquidità.
Ringrazia la dr.ssa Valacca per questa sollecitazione e le esprime la sua gioia nell’averla rivista qui.

Il dr. Zipparri osserva come ancora una volta il Prof. Callieri sia riuscito a presentare in maniera esemplare un pezzo di storia della psichiatria italiana e della sua evoluzione, che coglie aspetti su cui non dovremmo mai smettere di riflettere. Ad esempio, è stato colpito dal discorso della matrice positivista della psichiatria ottocentesca: “le malattie mentali sono malattie del cervello”, che poi si ritrova in maniera anche prosaica nello skinnerismo.
Quindi questo legare la psichiatria e la psicopatologia alla matrice positivista che era imperante, ma anche al recupero del tanto vituperato romanticismo, nella storia della psichiatria. Persino un pensatore come Freud, che è stato accostato dai neo-freudiani al marxismo, e quindi lontano dall’idealismo e dal romanticismo, invece oggi si può leggere in una chiave vicina al romanticismo tedesco. Chiede il parere di Callieri.

Il prof. Callieri lo ringrazia perché ha toccato un tema che considera l’asse portante per capire la storia attuale della psichiatria. Ha parlato di vecchio romanticismo, quindi della psichiatria che esce dall’impostazione illuministica (“L’antropologia pragmatica” di Kant è del 1797), e si apre improvvisamente attraverso Ficthe, Schelling e Schopenhauer, alla psichiatria romantica. Si riferisce ad un suo libro sulla “Paranoia” uscito pochi giorni fa per Anicia, una piccola casa editrice. In questa sua ultima fatica, ultima in senso letterale, ha chiamato il suo amico Filippo Ferro a scrivere il capitolo sulla psichiatria romantica. La paranoia prima di Kraepelin, che la vedeva come qualcosa di strutturato in senso positivista, è la paranoia legata ai problemi della colpa e del destino, ed è tutta romantica. E’ un tipo di psichiatria reattiva a quella dell’illuminismo, troppo reattiva tant’è che prepara la reazione univoca di Griesinger e di tutto il gruppo che viene dopo. In Francia sollecita Auguste Comte che, preso o come un immane faro luminoso o come colui che ha distrutto tante cose, è stato fondamentale: lo spartiacque dell’800 va visto in Auguste Comte. Egli non è nè di lingua inglese nè di lingua tedesca: egli riesce a spezzare i vincoli della psichiatria romantica e a riproporre l’impostazione positivista. Callieri evidenzia come, con la sollecitazione del Dr. Zipparri può riempire un vuoto: l’importanza, per questo tipo di problemi dell’identità, dell’incontro, della dialettica tra psichiatria e psicoterapie, l’importanza della psichiatria che precede l’impostazione della classica psichiatria della fine del secolo, che poi è la psichiatria di Comte, di Lombroso, del vecchio Morselli (congresso di Parigi del 1893). E’ una psichiatria che irretisce il pensiero italiano fino e oltre l’invasione dell’idealismo crociano e gentiliano.
Fa presente che per il suo libro sulla paranoia, di cui viene chiesta la data della presentazione, a parte il collaboratore Carlo Maci, che gli è stato molto accanto, deve ringraziare oltre Filippo Ferro, anche Laura Faranda che ha scritto un importante capitolo sulla paranoia nel mondo antico: che cosa significa paranoia nel mondo greco, nel mondo di Eraclito, nel mondo della Stoà, nel mondo di Sesto Empirico, nel mondo di Lucrezio (il “De rerum natura”). Ha scritto un capitolo bellissimo. Dice anche di aver incaricato Salvo Inglese, un collega catanzarese che si occupa di psichiatria transculturale, di curare la paranoia nei suoi aspetti più aggressivi e culturalmente più negativi: Inglese ha scritto un capitoletto dal titolo “Anche Hitler carezzava i bambini”, per dire che anche nelle persone che sembrano incarnare l’aspetto più massacrante dell’aggressività del paranoico invadente, resta, in alcuni di essi, questa possibilità di dare una carezza, che sembrerebbe invece in lui radicalmente tramontata. Per noi psichiatri questo è il problema della dialettica, ben detto dalla dr.ssa Valacca: dobbiamo imparare che la nostra moneta non è a due facce, ci sono almeno tre facce.

Il prof. Pisani torna alla storia della coscienza, l’etimologia della quale è “cum scio”, cioè conosco l’uomo insieme agli altri: non esiste coscienza se non c’è questa condivisione. Gli viene in mente che nell’ambito della Group Analytic Society, la scuola gruppo-analitica, ha come fondamentale il concetto di “meeting of minds”, cioè l’incontro delle menti. Se non c’è l’incontro delle menti non potremmo capire mai di cosa stiamo parlando, dare il senso ed anche il significato. E’ dall’incontro delle menti, dal dialogo tra le menti, che nasce la verità. E’ interessato, dal punto di vista della vecchia scuola psichiatrica romana di Cerletti, di cui si considera uno degli ultimi residui, a cosa sia emerso nel ‘54 dall’incontro tra Bini, Cerletti, Challiol e Cerquetelli, a cui lui non era presente.

Il prof.Callieri è stimolato però dal “meeting of minds”. Propone per un altro incontro, una tematica che non è neppure sua, sulla “réciprocité des consciences ” , la reciprocità delle coscienze. Intanto possiamo parlare di coscienza in quanto siamo reciproci: la reciprocità d’incastro.
Della reciprocità delle coscienze parlò in una tesi mirabile uno psicologo, francese, Maurice Nédoncelle che, nel lontano 1942, discusse alla Sorbonne questa tesi sulla reciprocità delle coscienze, proprio quando i cannoni dell’esercito nazista si avvicinavano a Parigi. Egli ebbe il coraggio di parlare di reciprocità europea delle coscienze, sotto l’ombra affrontante dei nazisti. Tesi della Sorbonne, ripresa sei anni dopo da un altro grande coraggioso francese, Jerphagnon.
Questa Francia, anche sotto il tallone nazista, parla di reciprocità delle coscienze. Osserva che Pisani ha toccato un punto che per lui va sviluppato.

Il prof. Pisani si permette di chiedergli se il prossimo anno potrà fare il seminario d’apertura, sulla reciprocità delle coscienze, invito che il prof. Callieri accetta.

Il prof. Pisani chiede se qualcuna delle giovanissime menti che sono entrate a far parte della gruppalità, possa porre qualche domanda. Rivolge l’ invito a Federica Manieri, che presenta brevemente come allieva della dr.ssa Meoni. Si è laureata con una tesi sul significato del mosaico costruito dai pazienti della Meoni, dandogli un’ impronta essenzialmente junghiana.

La dr.ssa Manieri dice di aver ascoltato piacevolmente e di aver imparato molte cose. Callieri osserva che il mezzo secolo che li separa, ha un significato di densità storica: la voce di un sopravvissuto e la voce di chi nasce adesso. Un marzo e un dicembre assieme: è bello vederli.

Il prof Pisani si rivolge poi alla Dr.ssa Palumbieri e si dice curioso della sua aria piena d’interrogativi.

La dr.ssa Palumbieri si presenta. E’ regista Rai e partecipa al gruppo in quanto moglie del Dr. S. Zipparri.

Il prof.Callieri trova interessante sentire una voce del coro.

La dr.ssa Palumbieri ha trovato molto stimolante l’intervento di Callieri di cui elogia la capacità di grande sintesi. Avvicinarsi a tanti argomenti, contemplarli tutti, legarli tutti come quando. Nel suo campo, se si deve fare ad esempio un racconto di 100 anni di giornalismo e si deve mettere insieme quello che ha mosso il giornalismo: la notizia, i giornalisti, le testate. E’ una capacità di sintesi che rende il relatore stimolante e intrigante, perché è unita alla capacità di raccontare, di collegare, di mettere insieme varie trame e alla fine, come se fosse in un giallo e non abbiamo scoperto il colpevole.

Il prof. Callieri le risponde con una frase suggeritagli da Giorgio Manganelli: “Colpevoli sono sempre le parole dette a scapito di quelle non dette”. Nella sua lunga carriera ha incontrato di tutti i tipi: da artisti della penna ad artisti del colore, da musicisti a poeti, da teologi ad accaniti razionalisti e naturalisti, per cui tutto questo mondo d’intelligenze, e quasi sempre d’intelligenze sofferenti, l’ha sempre coinvolto. Crede che la cosa più difficile per tutti noi psichiatri e psicologi sia vincere le difese che internamente abbiamo per non lasciarci troppo coinvolgere dalla sofferenza dell’altro. Fino ad un certo punto devi capire che è necessario, ma soffrire tanto insieme non va bene: bisogna darsi una regolata. Come è accaduto ad un carissimo collega freudiano: andando male un’analisi, anche lui, come il suo paziente, ha messo fine alla sua vita. Di fronte a questi atti resti molto, molto perplesso. Ricorda che per settimane rimuginava dentro questa avventura sventurata e crede che, se anche adesso gli è tornata alla mente, vuol dire che dentro di sé la ferita ancora c’è, altrimenti non ne avrebbe parlato.

La dr.ssa Di Gennaro assimila la relazione ad un diamante che ha una molteplicità di facce, ma un unico bagliore molto accattivante. Ha una perplessità sulla sofferenza. Soffrire col paziente è inevitabile; sicuramente non possiamo allontanarci da questa cosa, però lasciarci prendere dalla sofferenza non è utile né per il paziente né per noi. Considera che, se abbiamo fatto una buona scuola, siamo capaci di dividere il nostro, da quello che è del paziente.

Il prof. Callieri commenta che è difficile. Non basta la buona scuola perché si sta sempre su filo del rasoio. Platone, quando parla della Metexi, cioè della partecipazione, fa dire a Socrate “state attenti a non partecipare troppo”. E’ il problema del limite.


Note di redazione:
(r) la lettura presentata così come il dialogo nel dibattito a seguire la registrazione vocale degli interventi dei partecipanti rivista dal relatore.
Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com


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