|
|
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi |
|
La Coralità (r)
Alessandro Tenaglia La Dr.ssa A.M. Meoni, coordinatrice dell'incontro, presenta il Prof. Tenaglia che partecipa per la seconda volta ai nostri seminari. Ricorda che e' professore di musica da camera del conservatorio di Bolzano. È laureato in filosofia, pianista di formazione, concertista in forma solistica e cameristica. Come già detto nel precedente incontro, ha conoscenza e esperienza di psicoanalisi lacaniana; l'anno scorso ha avuto il primo approccio col setting gruppoanalitico e i molti tra noi che hanno formazione gruppoanalitica. Sottolinea che il nostro è un interesse pluridisciplinare che si avvale della collaborazione dei professionisti anche estranei alla psicoanalisi in senso stretto e alla psicologia, per quella tendenza a comprendere sempre di più dal punto di vista sociale che è un imprinting della gruppoanalisi la quale, a differenza della psicoanalisi, si apre al mondo sociale per comprenderne le influenze sulla psicologia individuale. Dà la parola al Prof. Tenaglia che quest'anno presenta una relazione dal titolo " La Coralità". La dr.ssa Meoni rileva come non potesse proporre tema più centrato dal punto di vista gruppale. Il Prof. Tenaglia, dopo aver ringraziato i presenti, introduce il tema facendo una presentazione dei paragrafi che andrà a toccare per indicare i titoli delle situazioni che definiscono la coralità dal punto di vista musicale e delle relazioni che sono implicate in questa pratica musicale. Il centro è la voce della persona; in secondo luogo è la voce nella collettività del coro; in terzo luogo, nella collettività del coro, i coristi sono presenti come funzione musicale. La quarta specificazione è che chiaramente i singoli coristi sono persone. Altra funzione, in opposizione polare rispetto a quella del coro, è quella del direttore che rappresenta una funzione specifica e a sua volta è una persona con relazioni che lo riguardano proprio come persona. Poi c'è un qualcosa che apparentemente unisce queste persone impegnate in un'attività che è musica da cantare insieme, che viene eseguita in performance particolari e comunque pubbliche, come concerti o situazioni di liturgia religiosa. Altra cosa assolutamente non secondaria per la coralità riguarda la convivialità che si genera nelle e dalle situazioni corali. Il Prof. Tenaglia comunica che, prima di entrare nello specifico di questi punti, farà un quadro storico di come si sia evoluta la coralità nella nostra cultura occidentale. Parte dalla Grecia antica e dal coro della tragedia che non era parlato, ma declamato e cantato, come tutto quello che avveniva nella tragedia, secondo modalità che possiamo ricostruire in modo molto teorico, perché purtroppo non solo non abbiamo documenti di registrazione (per ovvi motivi), ma anche perché la scrittura musicale greca viene ricostruita per congetture: sappiamo che è una scrittura alfabetica, però non abbiamo elementi per essere certi degli effetti musicali. Comunque tutto nasce dalla tragedia greca che definisce già una situazione sacrale: le tragedie avvenivano nelle celebrazioni religiose. Nel Medio Evo, con il Cristianesimo, la situazione sacrale del vivere la coralità diventa una definizione assoluta. Nei primi secoli del Cristianesimo, i fedeli erano abituati a cantare insieme le loro preghiere nelle riunioni di liturgia: si cantavano inni delle tradizioni locali e quindi c'è stata una enorme fioritura musicale, estremamente varia a seconda dei vari posti e tradizioni locali dove sorgevano le chiese. Agostino d'Ippona ci racconta delle sue grandi emozioni estetiche e mistiche nel periodo che ha trascorso a Milano, presso la diocesi di Ambrogio, il quale era suo maestro di teologia e maestro spirituale. Ambrogio è stato importantissimo per una specifica innologia e per una specifica pratica corale. La grande strutturazione della musica sacra e della coralità, che coincidono perfettamente, avviene nel settimo secolo con Gregorio Magno, al quale si deve grande opera riformatrice della liturgia e anche della musica liturgica. Per questa ragione le diverse tradizioni locali sono state filtrate ed è stato costituito un unico corpus di melodie, di inni sacri che davano unitarietà alla liturgia in tutte le chiese del Mediterraneo e dell'Europa. Per quanto riguarda la coralità però, questo ha voluto dire anche uno spostamento. Mentre fino a quel punto la pratica del canto corale durante la liturgia era una pratica popolare, con Gregorio Magno il fatto corale è portato ad essere un fatto sacro in senso etimologico, cioè diviso dalla vita comune e dalle persone comuni. Questo perché Gregorio Magno ha richiamato proprio quelle ricerche delle comunità monastiche che avevano elaborato tutto quello che è poi diventato il canto gregoriano ( le comunità di Solesmes, di Saint Cluny,di Sani Gallo, cioè le più antiche comunità benedettine). Il canto è diventato una prerogativa dei monaci, che non solo hanno cominciato ad elaborare una scrittura e hanno elaborato un corpus, ma sono anche diventati gli esecutori del rito e quindi gli esecutori del canto rituale e del canto corale. Quindi la grande matrice europea della coralità è una matrice sacrale. Tenaglia sottolinea l'uso del termine "sacrale" e non "religiosa", per indicare questa divisione: sacro ha nella tradizione biblica l'accezione di ciò che attiene alla tenda dell'Arca. Gli ebrei in fuga dal paese d'Egitto verso la terra promessa custodivano i rotoli delle leggi, ricevute da Mosè sul Sinai, in una specie di baule che era chiamato "Arca"; questo baule veniva portato nell'esodo e veniva costruita una tenda specifica a cui non poteva accedere nessuno; era un recinto assolutamente diviso dal resto del villaggio. La parola "Sacro" fondamentalmente vuole dire "diviso". Al recinto dell'Arca con le leggi, al recinto del Sacro, poteva accedere solamente il sacerdote. La coralità nel Medio Evo, con il canto gregoriano, diventa qualcosa di sacro inteso in questo modo. La comunità dei monaci va a posizionarsi in quello che prende proprio il nome di "Coro", cioè in quella serie di scranni che vediamo sempre nelle absidi delle chiese romaniche e gotiche. La maggior parte di questi scranni sono dietro l'altare e l'effetto di questa musica corale è che venga quasi dal nulla ad avvolgere i credenti radunati in preghiera; senza avere percezione visiva della fonte sonora l'effetto mistico, tuttora pienamente conservato nella tradizione ortodossa, è quello di un suono che pervade dappertutto, del quale non si può riconoscere un'origine fisica e quindi dà ancora di più l'impressione di un suono che scende dal cielo. Il canto gregoriano è monodico, ad una sola voce. La polifonia è il secondo stadio. A partire dal duecento i monaci della cattedrale di Notre Dame cominciano ad elaborare il canto a due voci, poi a tre voci, nasce cioè la polifonia che si espande e viene coltivata in due grandi poli: il polo franco- borgognone, cioè da Parigi alle Fiandre, e l'altro polo che è quello italiano, con due grandi capitali a Venezia e a Roma. Questi sono i luoghi in cui nasce e fiorisce la polifonia che si evolverà fino a tutto il cinquecento arrivando ad una ricchezza esorbitante. La scienza del mettere insieme le voci è una scienza matematica, la musica viene intesa, da tradizione platonica, come una scienza che permette la conoscenza dell'organizzazione del cosmo e, nell'interpretazione cristiana del platonismo, del disegno divino. I modi in cui vengono costruite le melodie, rispecchiano le proporzioni che ci sono tra gli astri e quelle nel corpo umano: tutto avviene secondo gli stessi calcoli. I modi di mettere insieme le voci sono modi che vengono calcolati secondo formule matematiche. Queste poche notizie danno la chiara nozione di quanto tutto questo fosse assolutamente dottorale se non, in certe accezioni, addirittura esoterico, quindi rimaniamo in una situazione sacrale. La polifonia, ancora più della monodia gregoriana, è destinata a gruppi corali specifici che hanno bisogno di una situazione particolare per poterla eseguire; quello che come nuovo elemento però s'inserisce è che con la polifonia, aumentando il numero delle voci, nasce l'esigenza di avere delle sonorità che sarebbero proprie della vocalità femminile e non di quella virile; però, visto che le donne non erano ammesse al canto sacro, le voci bianche dei bambini prendono il posto delle voci femminili. Chiaramente in quanto bambini non possono essere sacerdoti, prelati, quindi la prima iniezione di vita normale entra con l'assunzione dei bambini nelle corali ecclesiastiche. Dall'assunzione dei bambini nasce poi l'uso della castrazione dei migliori cantori perché, dopo una severa formazione, potessero mantenere le loro prestazioni e far perdurare l'investimento. Visto che le donne non erano ammesse al canto, ma era ammesso castrare dei bambini, si arriverà nel barocco alla grande fortuna dei castrati che, educati alla musica nelle corali ecclesiastiche, trovano nel teatro d'opera lo sbocco di una carriera assolutamente profana, diventando delle stelle di prima grandezza la cui popolarità è paragonabile a quella dei divi di Hollywood o della TV dei nostri tempi. Nel cinquecento non solo arriviamo al massimo fiorire della polifonia e, in area cattolica, alla maggiore evoluzione possibile di questa sacralità portata alle estreme conseguenze in questo distacco del fare musica corale dalla vita delle persone normali, ma abbiamo un altro versante che è quello non cattolico, quello della riforma. Con la riforma luterana la musica prende un'altra piega, il canto degli inni da parte della gente comune diventa il centro della liturgia. Con un'espressione forte, ma chiara si potrebbe dire che Lutero abbia operato una fondamentale "desacralizzazione" della religione cristiana: la traduzione della Bibbia perché fosse compresa da tutti. Così le preghiere nella lingua corrente delle persone e il canto liturgico fatto in prima persona dai fedeli riuniti per la celebrazione. Ritorna il canto monodico: i fedeli cantano delle melodie semplici, il più delle volte di origine popolare. Molte melodie vengono composte da Lutero stesso, che però poi si appoggia a persone di sua fiducia e che cominciano a costruire il grande corpus degli inni luterani, corpus che si è arricchito sempre di più nei secoli. Le persone cantano ad una voce sola, però col sostegno polifonico dell'accompagnamento dell'organo. Altra cosa fondamentale è che Lutero, nel raccomandare la preghiera nei nuclei familiari, sostanzialmente raccomanda loro il canto, perché preghiera è quasi sinonimo del canto degli inni. Quindi con la riforma luterana è nata, in area tedesco-scandinava, l'abitudine quotidiana alla preghiera in casa, cioè l'abitudine quotidiana al canto in casa. Questa è un'assoluta novità per il mondo europeo. L'altro versante della riforma protestante calvinista ha reso ancora più radicale questo orientamento. Nella tradizione calvinista, per diversi secoli, è stato accettato esclusivamente solo il canto degli inni. A Ginevra, per esempio, non era ammesso che fosse cantato qualcosa che non fosse innologia sacra. Nell' ambito luterano invece c'è stata una maggior osmosi col mondo cattolico con la cultura profana e questo ha portato alla grande fioritura del corpus delle cantate di Bach. Le cantate di Bach sono delle composizioni molto complesse che, a seconda delle singole cantate, prevedono solisti, cori, orchestra, e in genere si concludono con un grande corale a cui possono partecipare anche i fedeli. E' così che la liturgia viene in grande parte espropriata dal canto di tutti i fedeli riuniti e viene assegnata a dei professionisti (solisti e coristi), che cantano i numeri delle cantate scritte appositamente per le singole domeniche dell'anno liturgico. Comunque, a coronamento di tutto questo, l'ultimo corale è sempre eseguito dal coro, dall'orchestra e da tutti i fedeli, che intonano la melodia principale. In ambito luterano quindi, insieme all'invenzione del canto popolare liturgico e del canto nelle famiglie, si recupera anche l'aspetto professionistico creando una tradizione artistica di altissimo livello. Con il Romanticismo avviene una grande rivoluzione anche per quello che riguarda la coralità, così come è accaduto per tutta la musica e la cultura in genere. La grande rivoluzione del romanticismo è che tutto ciò che prima era attribuito univocamente alla cultura religiosa, e cioè l'anelito all'infinito e il desiderio di trascendenza attraverso l'espressione artistica come strumento per raggiungere la trascendenza in ambito religioso, diventa argomento della poetica romantica. Il poeta romantico non sente più il bisogno di rivolgersi alla religione per anelare all'infinito, ma anela all'infinito in prima persona; non ha più bisogno di definire "Dio" questo infinito, né di attribuirlo ad una tradizione religiosa. Questo, soprattutto in ambito tedesco, comporta che la coralità possa diventare qualcosa di profano. Considerando che ci sono stati tre secoli in cui la gente si è abituata, nella vita quotidiana, a pregare in famiglia cantando e a pregare in chiesa tutti insieme, questo ha creato, durante quei tre secoli, uno humus estremamente favorevole perché le società corali borghesi, che cominciano a costituirsi all'inizio dell'ottocento e comunque a partire dall'epoca romantica, possano trovare una loro fioritura dovuta alla poetica del romanticismo, che riguarda appunto il senso dell' avvicinamento all'infinito, dato dal semplice atteggiamento poetico. Altro aspetto del romanticismo è il recupero dell'identità della cultura popolare. Con il romanticismo nascono le corali che si dedicano al repertorio folcloristico, al repertorio di musica popolare. Da qui abbiamo una fioritura corale che dal mondo tedesco si allarga a tutta l'Europa. Nascono società corali dappertutto, anche in paesi di tradizione cattolica come Italia, Francia e Spagna. Nella tradizione cattolica latina, le società corali e i direttori di coro,per uscire dal repertorio sacro cattolico ( Palestrina) non disponendo di specifico patrimonio di riferimento hanno cominciato a rivolgersi al repertorio madrigalistico nel novecento. Il repertorio dei madrigali è un repertorio di musica polifonica, specificatamente italiano (ma non solo), su testi poetici che non hanno nulla a che fare con il religioso, ad esempio testi di Petrarca. L'errore estetico è che il repertorio dei madrigali nasce non per essere eseguito da cori, ma da singoli cantori: per una composizione a cinque voci ci sono cinque cantanti. Fra questi cantanti sono ammesse le donne, poiché si tratta di repertorio profano, quindi esiste il soprano, il contralto che può essere anche un uomo, ma che proviene dalle corali cattoliche e quindi è un castrato. Nel 900 le società corali di ambito mediterraneo e cattolico attingono a questo repertorio, che viene eseguito per decenni dai cori amatoriali. Ancora oggi, in qualche modo, troviamo cori che cantano Monteverdi: è un errore stilistico che ormai non viene più molto accettato, ma che ancora accade, anche se già da trenta anni gli studi filologici ci dicono che il madrigalismo non dovrebbe essere patrimonio della letteratura corale. Tale patrimonio in questi ultimi decenni si è arricchito dell'influenza della musica pop, del musical, per cui si può dire che la maggior parte dei gruppi corali canti delle vere e proprie canzoni da musical, sono arrangiate in modo polifonico: Negli ultimi anni, dieci quindici, i cori introducono anche azioni coreografiche proponendo veri e propri spettacoli e non sono più lì impalati a fare il loro concerto solo cantando. I cori sono presenti anche nell'opera lirica e esistono i cori professionistici nell'accezione comune. Coro vuol dire anche persone che fanno mille mestieri e che la sera si trovano perché hanno il piacere di cantare insieme, per poi andare a fare occasionalmente dei concerti, così come capita. Il Prof. Tenaglia conclude la veloce connotazione storica della coralità in Europa e nel mondo occidentale e comunica di voler parlare soprattutto della coralità amatoriale. Riferendosi ai titoli che ha presentato all'inizio, ribadisce che l'origine di tutto è la voce: l a voce individuale. Normalmente noi abbiamo una consapevolezza molto ridotta della nostra voce personale. Come avviene per molte delle nostre facoltà, utilizziamo la nostra voce per una piccola percentuale delle sue possibilità e anche quando ci capita di utilizzarla in percentuali più elevate, lo facciamo in modo inconsapevole. Comunque tutti, sin da piccoli, per istinto usiamo la voce non solamente per parlare. Propone di partire da un fatto empirico che tutti avranno sperimentato: nel momento in cui ci è capitato di sentire la nostra stessa voce registrata, abbiamo provato un senso di grande fastidio e ci siamo chiesti se parliamo veramente in quel modo. Questo avviene perché della nostra voce abbiamo una percezione interna: l'ascoltiamo con un orecchio interno e solo in parte con l'orecchio esterno. Prevalgono le vibrazioni che la nostra voce produce dalla parte interna della cavità cranica; quello che suona fuori è diverso. La cosa particolare è che la nostra voce è la nostra identità: sono stati fatti degli studi per cui l'impronta vocale degli individui sarebbe ancora più unica di quella digitale, dei polpastrelli. Il fatto che ci dia tanto fastidio sentire la nostra voce registrata è imputabile al fatto che ci sentiamo svelati a noi stessi; vediamo di noi un'immagine riflessa in cui non ci riconosciamo e che ci sorprende. Il fatto che il rispecchiamento della nostra stessa voce ci colga a tradimento nella nostra intimità, va riportato alla condizione aurorale della percezione della voce. Il bambino nella vita intrauterina e appena nato, nelle prime settimane, nei primi mesi di vita, ha un rapporto assolutamente simbiotico con la voce della madre. Tale simbiosi si esprime anche nel fatto che tutto ciò che è sonoro riguarda la voce della madre e l'interazione dei gemiti, dei versi e di tutte le espressioni vocali del bambino, che comunque non vanno fuori da questa simbiosi della voce della madre. Si può dire che uno dei primi momenti in cui la figura paterna acquista importanza nell'individuazione del bambino e rende possibile il primo distacco del bambino dalla madre, è l' intervento della voce familiare del padre, che entra in questo circolo simbiotico assoluto di unicità di vibrazioni tra voce della madre e voce del bambino. Entra l'abitudine per il bambino di percepire questa voce che è frequente, vicina e perciò familiare e che esce dal circolo simbiotico delle voci madre-bambino. Questo tipo di simbiosi della voce materna è qualcosa di ancestrale che ci portiamo tutti dentro. Il fatto di riconoscere la nostra voce riporta a questa situazione ancestrale: è riconoscerci in simbiosi con la madre e nello stesso tempo sentire l' intervento estraneo della prima individuazione percettiva, del fatto che c'è qualcosa al di fuori del rapporto madre-bambino. Fondamentalmente scoprire la propria voce è scoprire un patrimonio di sensazioni e di percezioni veramente profondo, seppellito nel nostro patrimonio, in qualcosa che non può nemmeno essere definito memoria. Nel momento in cui sentiamo la spinta a voler essere più consapevoli della nostra voce, quando vogliamo sperimentarla di più, ci coglie istintivamente una sorta di grande pudore. Se di fronte alla nostra voce registrata proviamo fastidio, di fronte ai nostri tentativi di cantare sentiamo un grande pudore, come se cantare fosse in qualche modo mettersi completamente a nudo, innanzitutto di fronte a noi stessi. Quello che spinge molte persone a cercare un coro per poter cantare è un modo per cercare una situazione di conforto in questo svelarsi a se stessi; come se, andando a cantare insieme ad altri che cantano, questo svelamento di noi a noi stessi potesse avvenire in modo più morbido, più filtrato. In realtà si crea un'ulteriore dinamica e cioè che, nella ricerca della fusione della propria voce con la voce degli altri della fila del coro, si va a cercare una fusione che va a pescare direttamente in quella fusione ancestrale che era la fusione della voce del bambino con la voce della madre. Quindi il cantore che va a respirare all'unisono insieme alle persone della sua fila, che va ad emettere gli stessi suoni, che va a modulare i suoni della sua voce in modo che siano completamente coesi con quelli degli altri cantori, in realtà ritrova una sensazione che non sapeva nemmeno di avere sperimentato e che è estremamente originaria nella nostra esperienza. In tutto questo c'è però la necessità di un orecchio esterno: il direttore ha questa funzione. Perché la fila del coro possa arrivare veramente ad un unisono, ad un'unica voce, è necessario che un orecchio esterno, esperto, possa modulare le richieste ai singoli cantori in modo che siano guidati ad avere questa simbiosi sonora e vocale con i compagni di fila. Il ruolo del direttore è perciò un ruolo estremamente importante. Tenaglia torna a parlare di un argomento fondamentale: l'uso della nostra voce che avviene per una piccola percentuale delle sue possibilità e che normalmente usiamo nella voce parlata. Essa è una modalità fisiologica che vede un uso della respirazione e dell'urto della colonna d'aria sulle corde vocali, che ha un certo tipo di richiesta fisiologica e un certo tipo di sforzo limitato. Nel momento in cui invece cantiamo, aumenta la richiesta di partecipazione per sostenere la pressione del fiato sulle corde vocali: a questo si risponde in vari modi. Se lo sviluppo psico-fisico della persona è stato armonico, non ci sono grandi ostacoli, però il più delle volte succede il contrario. Siccome la voce è legata a queste funzioni primarie, prima di tutto il respiro, che è qualcosa di assolutamente inconsapevole per la maggior parte di noi, se non ci facciamo attenzione, noi non sappiamo che per respirare in modo più profondo vengono implicate delle parti del nostro corpo, che normalmente stanno li a dormire o di cui non ci rendiamo conto nel gesto di respirare. Nel momento del gesto vocale invece queste parti vengono sollecitate e se ci sono o se ci sono stati dei blocchi emotivi, che in qualche modo sono andati ad influire su questo equilibrio delicato del gesto psicofisico della respirazione del canto, il canto viene fuori estremamente sorprendente. La paura che sentiamo istintiva della nostra voce cantata, per cui non abbiamo il coraggio di cantare da soli davanti a tutti, è perché veniamo messi in gioco da un punto di vista fisico profondo e andiamo a pescare in istinti inconsapevoli e quindi con l'inconscio. Le emozioni cioè vanno a trovare espressione fisica. Le collocazioni in questi gesti spontanei legati alla respirazione e alla fonazione, quando noi chiediamo col canto una prestazione maggiore rispetto al normale, evidenziano,se c'è, una tensione o un blocco: cioè se c'è qualcosa di emotivamente non risolto viene in superficie e si fa letteralmente sentire. Il Prof. Tenaglia ribadisce che di solito usiamo la voce in modo inconsapevole. Il gesto vocale, dal punto di vista fisiologico, non è altro che il prolungamento e il rendere estetico di quello che a livello fisiologico avviene nell'urlo. Nell'urlo vogliamo ottenere una comunicazione più efficace di quanto avviene nella nostra normale lingua parlata. È una comunicazione che vogliamo ottenere perché c'è una spinta emotiva per farlo e a questa spinta emotiva nell'istante, istintivamente il nostro corpo opera perché avvenga. Quindi noi non sappiamo cosa succede nel nostro urlo, però avviene quel corto circuito per cui le muscolature dell'addome e del torace lavorano in un modo diverso e danno un impulso perché il diaframma salga e spinga una maggiore quantità di aria sulle corde vocali, che vibrano ad una frequenza molto più elevata che non nella voce parlata. Questo avviene in modo istintivo; può avvenire anvhe in modo volontario, sempre utilizzando l'urlo, con una finalità consapevole. E' ad esempio quello che avviene normalmente tra le popolazioni che abitano in montagna, quando si chiamano da una sponda all'altra della valle. Loro non stanno urlando per uno scoppio d'ira, ma per comunicare consapevolmente. Quindi dallo scoppio emotivo immediato, del tutto inconsapevole, all'esigenza comunicativa, ma non estetica, dell'urlo di comunicazione, ci aggiungiamo anche che nel canto vogliamo non solo che la voce corra molto, non solo vada lontano, ma che sia anche bella. Su quello che è la voce bella si potrebbe aprire una discussione molto lunga che esula dai nostri interessi. La cosa importante è che la funzione del direttore è tirare fuori il suono bello dalla fila del coro. Il direttore ha delle grandi responsabilità perché molto spesso può creare una cattiva abitudine corale nella persona che si accosta al canto corale, e quindi alla scoperta della propria voce. La persona che è disposta ad intraprendere il viaggio in questa specie d'ignoto, che è il mondo della propria voce, si trova ad avere delle indicazioni normative che possono essere assolutamente castranti. Se uno ha una voce che, nel momento in cui viene espressa, ha una certa personalità importante, nella fila del coro questo non è un vantaggio, bensì uno svantaggio, perché nel coro, per definizione, l'importante è che venga fuori un'unica voce bella, non che si distinguano le singole voci. Se una voce si distingue troppo questo diventa uno handicap. Nella pratica è possibile trovare persone che, nella voce parlata hanno una voce anche molto forte, timbrata, presente. Poi, per abitudine corale non buona, quando cantano la loro voce ha un suono più leggero di quando parlano normalmente. Questo dipende da come il direttore guida la ricerca del suono della fila. Quindi il ruolo del direttore è molto importante: da una parte costruisce l'intimità delle voci dei coristi tra di loro, che ha molto a che fare con questi ricordi ancestrali della simbiosi della voce del bambino con la voce della madre, e dall'altra può avere un ruolo normativo. Se il direttore non è capace di ascoltare veramente e segue solo la sua idea di suono bello, in modo astratto, può avere delle implicazioni estremamente negative poiché per seguire questa idea di suono bello, astratto,perfettamente intonato, le voci dei singoli e le loro personalità vengono ad essere castrate. Chiaramente per quale motivo succede che tanti coristi, che non riescono a dare sfogo alle loro complete possibilità vocali, continuino a partecipare ai cori, a cantare, a dedicare tanto del loro tempo libero, dopo giornate di lavoro, con problemi di famiglia? Ci deve essere un vantaggio, un piacere che viene raggiunto. Secondo Tenaglia il piacere è di due tipi:l'accettazione in una situazione sociale e, ancora più profondo, il recupero inconsapevole di questa sensazione ancestrale di fusione con la voce della madre, di perdere la propria voce nella voce degli altri. Il Prof. Tenaglia si riferisce alla pratica professionistica della musica da camera e della musica sinfonica, di cui ci ha parlato nel precedente seminario (07.05.2008) al centro della quale c'è uno spartito che i professionisti debbono seguire. Nella pratica della coralità amatoriale il centro non è quello. I coristi normalmente non hanno una cultura musicale particolarmente elevata; entrano in un coro e ci restano per motivi che hanno molto poco a che fare con il repertorio che viene cantato. Quindi il centro non è la musica da eseguire,il centro è la ricerca vocale, l'unione delle voci, la ricerca di questa simbiosi.Conclude parlando della convivialità dei cori, che assume un' importanza specifica nelle situazioni corali. Se la ricerca inconsapevole, ma fondamentale della persona che vuole cantare in coro, è il recupero di quella sensazione ancestrale di fusione con la voce della madre, le situazioni conviviali del gruppo legate al cibo, hanno assolutamente un legame stretto con tutto ciò che è materno ed è assolutamente particolare che, alla fine delle cene dei cori, mentre quando la gente alza il gomito e beve un bicchierino in più, normalmente nelle situazioni di gruppo si ride e si scherza; i cori cantano. Hanno appena fatto un concerto eppure cantano, perché il primo piacere è proprio questo di trovare la fusione ancestrale. Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti: La Dr.ssa L. Taborra, alla luce di quanto esposto, si chiede quale sia la funzione del solista, in relazione a quanto detto da Tenaglia sulle voci migliori, che, paradossalmente, non devono apparire. Chiede cosa succeda nei cori quando emerge una bella voce; se avviene che si spacca il gruppo. Il Prof. Tenaglia risponde che è possibile e che dipende dal solista, ma anche da come un direttore media le cose. In genere un solista che nasce dalla fila del coro da una parte viene spinto dal coro stesso; ciascun corista spera di diventare un giorno solista e comunque i componenti del coro sono sempre orgogliosi che venga fuori. Dal coro possono emergere grandi carriere; molti cantanti teatrali hanno cominciato come solista del coro. Molto dipende dal direttore che, se capace di percepire quando una persona ha una voce speciale, cerca non di relegarlo solo al canto corale, ma lo avvia prima possibile a responsabilità solistiche. Questo se è un buon direttore. Spesso capita di sentire dei solisti che, nell'ambito dei cori cantano con una voce non espressa al massimo, questo viene dalla pratica corale volta soprattutto alla fusione, che non permette una vera ricerca della voce del singolo anche quando il singolo viene identificato e svolge molto bene il lavoro solistico. Il Dr. M. Muscarà vuole capire il punto d'incontro tra gli aspetti apparentemente contrastanti della sacralità e della coralità. ll Prof. Tenaglia si riferisce alla vita tipica di un corista che può essere commercialista, operaio, sarta, casalinga, maestra, cioè che può svolgere qualsiasi professione: ognuno ha la sua vita complicata, come tutti. Poi però due, tre sere a settimana, e sotto concerto molte di più, vanno a passare due, tre ore in questa "gabbia di matti" che è la prova dei cori: per quale motivo? Perché il corista sente un forte orgoglio nell'aderire a questa "congrega di matti" che vanno a cercare i suoni tutti quanti insieme. È in qualche modo una delle modalità di costruire circoli chiusi. Il coro è un circolo chiuso: non esiste che una persona decida di entrare in un coro e la settimana successiva possa partecipare ad un concerto, perché deve imparare ad integrarsi col gruppo, deve avere delle iniziazioni, e il fatto che ciascun corista sappia che, pur facendo dei grossi sacrifici, fa qualcosa di speciale che non fanno tutti. Qui è la sopravvivenza di questo "senso" del sacro, che in realtà appartiene ad ogni tipo di gruppo. Ogni gruppo, per quanto voglia essere accogliente, ha delle leggi interne speciali che chiunque entri deve imparare a riconoscere recepire e accettare. Il Prof. R. Pisani si complimenta e ringrazia Tenaglia. Da qualche tempo, sulla scia del Dr. Foulkes fondatore della gruppoanalisi, segue il parallelismo tra il lavoro gruppoanalitico e la musica d'orchestra. L'illustrazione del coro presentata da Tenaglia ha molto a che fare con la modalità di Bion di condurre i gruppi analitici che sono gruppi fusi. Nei loro confronti l'analista, che è esterno, ha la funzione di interprete delle caratteristiche di questa fusione che in definitiva sono: la dipendenza dal capo;mettersi insieme per combattere il nemico comune;mettersi insieme per procreare. Il gruppo è però un gruppo fuso. Ha molto a che fare con la fusione ancestrale del coro come lo ha presentato Tenaglia. Nell'ottica foulkesiana la coralità di questo tipo è una coralità iniziale; poi il direttore d'orchestra, cioè il conduttore del gruppo, struttura delle norme per tirare fuori una musica, che però non è più una musica che viene fuori dalla fusione, ma è una musica che valorizza le voci individuali che sono in continua correlazione con gli altri; è una musica diversa perché diretta ad un processo d'individuazione. Il conduttore del gruppo è un pò come il padre che fa in modo che i singoli bambini escano da questa madre fusionale arcaica. Chiede se la modalità di condurre l'orchestra di Claudio Abbado è volta a far emergere le voci singole, cioè a valorizzare il primo violino, il secondo violino, il suonatore della tromba, dell'oboe.. a fare in modo che la musica abbia a che fare con la continua interazione. Il Prof. Tenaglia sottolinea che quando parliamo di Claudio Abbado o di Riccardo Muti, parliamo di due direttori che hanno al loro servizio i migliori strumentisti del mondo, i quali non hanno bisogno di essere valorizzati. Differenzia però l'atteggiamento di R. Muti che è d'imporre le proprie richieste, da quello di un direttore come C. Abbado che coordina e si fida. Quindi più che valorizzare, sapendo di avere a disposizione i migliori strumentisti possibili, dà loro piena fiducia. Non ha bisogno di valorizzarli, semplicemente di accoglierli come sono. Evidenzia che stiamo parlando di un livello di professionismo molto specialistico, non di giovani che debbono dare prova delle proprie capacità per cui debbono essere valorizzati. Il Prof. Pisani torna al concetto di sacro concepito come il processo d'individuazione e chiede a Tenaglia di ripetere la definizione di sacro nella concezione iniziale. Il Prof.Tenaglia spiega che sacro definisce il recinto della tenda dell'Arca. In un ottica di separazione, le leggi mosaiche sono custodite nell'Arca e non debbono essere contaminate quindi debbono essere custodite da sole, per questo il recinto della tenda è inviolabile. Sottolinea che sacro vuol dire diviso. Il Dr. V. Lusetti osserva che è proprio il contrario dell'etimologia della parola religione, che significa unire. Pone poi una domanda sul legame tra linguaggio e musica. Conosce alcune ipotesi speculative sull'origine del linguaggio che lo pongono in relazione con una prosodia di tipo musicale. Certamente il linguaggio musicale è un linguaggio in cui prevalgono aspetti suggestivi, ma anche se si tratta di linguaggio matematico, è analizzabile nei termini di rapporto tra le parti in cui prevalgono aspetti comunicativo e informativi. Ci si domanda a cosa sia servito il linguaggio, quale possa essere stata all'origine la sua utilità. Per la nostra specie una delle ipotesi che sono state fatte è sulla valenza suggestiva del linguaggio che si è espressa attraverso il linguaggio cantato, cioè che lo stesso linguaggio verbale sia nato come linguaggio cantato, come prosodia musicale, tanto che la stessa poesia greca era una poesia cantata. I greci usavano il canto più che la declamazione verbale. Lusetti chiarisce che sono solo speculazioni da lui date per l'interesse manifestato dal Prof. Tenaglia sul legame tra linguaggio e musica. Il Prof. Tenaglia lo definisce un mondo di ricerca. Parte da un dato culturale. Giovanbattista Vico e poco dopo Rousseau, hanno detto la stessa cosa, cioè che il linguaggio originario degli uomini è stato il canto, dopo il canto la poesia e molto dopo è arrivata la prosa. Secondo Vico e Rousseau, che senza sapere uno dell'altro concordano in toto, i primi versi sono stati prolungamenti di suoni vocalici, che hanno presentato evoluzioni partendo da un' esigenza emotiva della comunicazione. Essi si sono connotati subito in modo simbolico, e nel momento in cui questi primi gesti vocalici hanno cominciato ad articolarsi in parole, le prime parole sono state simboliche, cioè poetiche. Chiaramente questa è una teoria che ha a che fare con l'impostazione roussoniana-illuminista dell'assoluta bontà dell'uomo e del buon selvaggio. Facendo un salto e arrivando alle teorie linguistiche del 900, vediamo che si avvicinano abbastanza a questa concezione, per cui le prime articolazioni del linguaggio non sono state parole, ma fonemi: singole vocali, singole consonanti o accoppiamenti vocale-consonante che acquistano di per sé contenuti simbolici, che poi coagulano tra di loro nei significati veri e propri delle parole. In tutto questo le ricerche sulle origini e sulla sottrazione della musica hanno seguito molti parallelismi con la parola e cioè sembrava che l'unico modo per dire che la musica avesse una vera importanza era poter dire: la musica dice con la stessa efficacia ciò che dice qualsiasi discorso poetico o prosastico; cioè con la musica possiamo dire tutto quello che diciamo con le parole. Nel periodo barocco c'è stata questa ricerca che ha portato alla formulazione di una vera e propria retorica degli affetti in musica, per cui ad ogni sentimento, che doveva essere espresso, corrispondeva un certo tipo d'intervallo, un certo movimento melodico, un certo movimento ritmico. C'è stata una catalogazione retorica della musica barocca che è saltata completamente con il romanticismo. A partire da questo fatto, è venuta fuori una lunga discendenza di riflessioni che hanno portato oggi a dei forti dubbi se dire che la musica è un linguaggio. Nel momento in cui diciamo che linguaggio è definire una modalità di comunicazione tra le persone basata sulla concordanza che certi segni hanno significati univoci, ebbene tutto questo non appartiene alla musica. Poteva appartenere alla teoria degli affetti di epoca barocca perché avevano fatto vari vocabolari di questo genere, però dal romanticismo in poi c' è stato svelato che non è così; non è assolutamente detto che una certa inflessione melodica, un certo ritmo abbiano sempre e comunque un significato univoco e riconoscibile per tutti, per cui, oggi come oggi, i teorici del linguaggio musicale tendono a dire che la musica non è un linguaggio, ma un sistema di mettere insieme dei dati percettivi, che riguardano le vibrazioni acustiche che non hanno a che fare tanto con il linguaggio quanto piuttosto con la strutturazione del tempo. Non si può perciò dire che la musica sia un linguaggio dal punto di vista della corrispondenza semantica di un gesto musicale ad un significato. Un salto logico ed emotivo avviene dal fatto di pensare che una costruzione di suoni, che in realtà accade secondo logiche specifiche siano traducibili in linguaggio verbale poetico o prosastico o tecnicistico. La costruzione logica dei suoni porta ad una costruzione del tempo che è completamente diversa dal tempo dell'orologio. La Dr.ssa M.A. Ferrante chiede se nel coro si perdono le inflessioni dialettali e se si mantengono nei cori folcloristici. Vuole sapere quando questa caratteristica personale della voce si perde e quando si conserva. Il Prof. Tenaglia, dopo aver chiarito che Ferrante si sta riferendo alle inflessioni di pronuncia, afferma che sono convenzioni, perché se si deve cantare in latino si decide per una pronuncia curiale, oppure per quella latina gotica che è più dura. Si tratta delle stesse convenzioni della buona dizione italiana, che deve essere usata quando si canta su un testo di Petrarca: sono convenzioni che devono essere rispettate dai singoli cantori. La dizione è fondamentale come aspetto tecnico che va curato, però non è una caratteristica strutturale nell'attività e nelle dinamiche del coro. La Dr.ssa L. Di Gennaro esprime le sensazioni provate durante il seminario. Ha rivissuto la propria formazione di gruppo e ha risentito la voce della sua analista, persona molto esperta, che riusciva a dare con la voce impulsi o a farli decantare. Ricorda che è stata una sensazione molto intima che ha provato meno nel gruppo di supervisione. Ribadisce l'importanza della voce del conduttore. Il Dr. S. Zipparri è stato sollecitato dalla relazione che gli ha dato molti spunti e ha ritrovato nella propria esperienza di corista in una corale parrocchiale, molte delle dinamiche presentate dal relatore. Ricorda che c'era questo grande anelito nascosto nei singoli coristi di accedere prima o poi ad una posizione solistica. Da questo punto di vista il coro gli sembra anche un' educazione alla repressione dell'individualità. Si collega al discorso di Pisani sul parallelismo con la gruppoanalisi dove c'è questa emersione dell'individualità. (Il Prof. Pisani evidenzia che si tratta di un'altra cosa). Zipparri aggiunge che nella propria esperienza è stata l'emersione di qualche solista a determinare la fine di quella corale. Reputa che i cori si rompono e si riformano per le gelosie e le invidie suscitate da chi ha il privilegio di assurgere dallo sfondo del coro. Altro aspetto riguarda il coro gospel. Fa riferimento ad Aretha Franklin, una delle più grandi soliste, che è nata in una corale battista; c'è poi la coralità moderna, come quella dei Beatles. La Dr.ssa Meoni rivela di aver fatto parte di una corale. Oggi la cosa la diverte. Non ricorda se l'invito a partecipare le fu fatto alle scuole elementari o alle medie, in ogni caso in un primo momento rifiutò essendo stonata come una campana. Il direttore del coro disse: "nessuno è stonato". Lei ne fu felicissima e quella corale è stata per lei un momento d'integrazione. Anche la Dr.ssa L.Taborra ha fatto parte di una corale, in particolare di un coro di canti di montagna i cui componenti erano bravissimi. Si è ricordata che finito di cantare si andava a cena; la cosa bella era che malgrado la stanchezza, appena seduti in attesa delle portate,si continuasse a cantare in coro. Adesso capisce sia il desiderio di ritrovarsi, sia la nota di dolore da separazione che li coglieva al momento dei saluti e che dipendeva dall'interruzione della fusione, che nessuno di loro accettava. Il Dr. Muscarà torna alla concezione del tempo riferendosi al film "L'angelo sterminatore" nel quale per un gruppo di amici s'interrompe la coralità della festa su una nota mancata. Praticamente non c'è più acqua, non c'è più vita e la ripresa della vita, dopo l'angoscia vissuta da tutti che scappano, si ha quando il clavicembalo di Corelli supera la tentazione di rifermarsi a quella nota, come era successo prima bloccando il tempo. Il gruppo si salva perché la nota successiva non si blocca. Il Prof. Tenaglia evidenzia che le persone si salvano bloccando il tempo cioè riportando il tempo della musica al tempo dell'orologio. Muscarà aggiunge che l'immagine gli è venuta proprio sulle parole di Tenaglia che hanno delineato due tipi di tempo: un tempo musicale distinto dalla quotidianità dei sentimenti di un gruppo di amici. Quello che salva il gruppo e lo porta a procedere, è proprio quella nota successiva del clavicembalo. Il Prof. Pisani, riferendosi all'intervento di Zipparri, sottolinea che la coralità gruppoanalitica foulkesiana è basata su una musica ampiamente condivisa però è una coralità che mira a far emergere e a valorizzare le singole voci. All'inizio certamente non abbiamo professori d'orchestra, ma quando li abbiamo creati, la loro abilità è quella di valorizzare le singole voci sullo sfondo di una musica, di un canto ampiamente condiviso. Questo fin dove si può seguire un parallelismo. Per Tenaglia il parallelismo si blocca sulla sincronicità. Per E.Cerignola il Prof.Pisani e il Dr. Zipparri hanno centrato il problema perché quando emerge il singolo, il gruppo si rompe, non ha più motivo d'esistere. Il Prof. Pisani evidenzia che non ha più motivo d'esistere la funzione ancestrale, cioè s'innesca il processo di separazione per cui sono musicisti che suonano in sintonia ma ognuno è separato. Tenaglia evidenzia che il problema è la sincronicità che è presente solo nella musica. Si riferisce al film "Amadeus" dove, ad un certo punto, il personaggio di Mozart dice entusiasta, parlando di una scena delle nozze di Figaro, in cui ci sono tre gruppi il gruppo delle danze campestri, il gruppo delle danze nella sala del matrimonio, in più Leporello e altri che cantano singolarmente, che tutto questo viene armonizzato sincronicamente nella musica. Mozart dice " questo può avvenire solo nella musica senza diventare caos". Il problema della sincronicità si evidenzia nel fatto che quando si è in gruppo è necessario parlare uno alla volta, mentre nella coralità non si canta uno alla volta ma tutti insieme. Quindi la ricerca del rapporto individuale è fondamentale in un gruppo parlante, come il nostro , perché è importante che tutti prendano la parola e partecipino attivamente: altrimenti s'interrompe l'energia. E' diverso da quello che avviene nel coro, dove è assolutamente importante che nessuno emerga e nessuno faccia sentire la propria opinione : cioè la propria voce individuale. Il Prof. Pisani,riferendosi al parallelismo che è relativo, reputa che le successioni degli interventi gruppoanalitici debbano essere armonizzate perché altrimenti non si fa musica; se uno è stonato esce fuori dal coro . E' una musica fatta da interventi in successione armonica. La Dr.ssa Meoni riflette che la presentazione del Prof. Tenaglia si è rivolta ad un elemento psicologico di tipo ancestrale quale è quello della fusione. Propone un confronto tra il canto degli uccelli e il canto arabo e quindi il passaggio tra l'urlo e il canto come linguaggio primitivo. In questo linguaggio primitivo fondamentalmente caotico e dominato dagli istinti, il mondo musicale potrebbe essere una misura di difesa dal caos. Questo evolversi del meccanismo di difesa da impulsi primitivi verso una maggiore differenziazione e consapevolezza di sé, può avvenire individualmente e in gruppo. Chiede se esistano corali autogestite Il Prof. Tenaglia risponde che non ha avuto tempo di parlare di un successivo momento delle evoluzioni dei cori, dopo che è partito dal modello della fusione bambino-madre, e l'intervento della voce del padre. Capita nella vita di tutti i gruppi amatoriali ad un certo punto della loro storia di sentirsi cresciuti. Certe volte ci sono scissioni, si creano gruppi indipendenti. Delle volte c'è qualcuno che ha più personalità e, mentre gli altri criticano sotto voce, lui viene a discutere col direttore, che viene mandato via. Normalmente succede che il coro, formato da questo direttore dieci anni prima tirato su amorevolmente con tutti gli sforzi, decida di costituirsi, anche dal punto di vista formativo, assumendo un altro direttore che può essere ancora cambiato se non dovesse andare bene. Ciò avviene in tutti i cori amatoriali che fanno anche un lavoro professionistico. Ovviamente ci sono problematiche perché quando cominciano ad essere veramente bravi e ad avere impegni concertistici, l'attività del coro entra in conflitto con la vita dei singoli; poi quando cominciano ad entrarci i soldi emergono altre complicazioni. Insomma le dinamiche cambiano completamente nel passaggio da un livello amatoriale ad uno professionistico. Il Dr. Lusetti si riferisce alla differenza tra la musica e il parlato, al fatto che non si possa parlare tutti insieme, mentre si può cantare insieme. Si chiedeva se sia completamente vero perché è valido per il parlato, ma non lo è per la comunicazione inconscia dei gruppi dove se si parla o si decide di non parlare si ha comunque un modo per cantare insieme e determina l'armonia del gruppo, sia che canti sia che parli. La ritmicità, la prosodia, la tempistica nell'intervenire è proprio una maniera per armonizzarsi con gli altri e' un elemento che accomuna le due esperienze. Si ricollega al suo precedente intervento sullo scopo della forma parlata e cantata che è quello di superare il caos, armonizzare le persone e stabilire un senso suggestionandole reciprocamente ed inducendole a reclutarsi a vicenda. Il Prof.Tenaglia condivide, ma se s'intende la musica corale dal punto di vista dell'improvvisazione. Se un coro vuole improvvisare abbiamo lo stesso effetto e le stesse dinamiche di una situazione di gruppo in cui i singoli parlano uno alla volta, quelli che sono in silenzio partecipano comunque all'energia che c'è e che nasce al momento. Un coro che improvvisa e un gruppo in cui si parla vicendevolmente sono simili. Invece non è simile quando un coro canta uno spartito dato, quando c'è un'oggettività esterna. La Dr.ssa G. Sgattoni riferisce alcuni degli aspetti che l'hanno colpita :la presenza del coro nel dramma; il fatto che sentire la propria la voce mette a nudo;il poter emettere un flusso libero o averlo bloccato che ha collegato ai disturbi degli inceppi. Ha pensato a come la coralità possa essere un modo di gestire l'ansia, di non esporsi ma di esserci, di appartenere per fronteggiare qualcosa che incombe. Tenaglia si riferisce a ciò che diceva all'inizio rispetto all'intuizione che si vorrebbe sapere di più della propria voce, ma si ha il pudore e quindi si fa in coro: c'è in tutto questo la propria ansia, i propri conflitti che vanno messi in gestione comune con la fila del coro.] Note di redazione: (r) registrazione della lettura presentata così come il dialogo nel dibattito a seguire la registrazione vocale degli interventi dei partecipanti a cura di Antonella Giordani e rivista dal relatore Prof. Alessandro Tenaglia. Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com |
|
|