Pietro Roberto Goisis e Gioia Gorla
UNO SPAZIO PER TOMMASO SENISE
2.2. Tommaso L. Senise, Per una buona formazione psicoterapeutica. *
Costituiscono requisiti necessari l'elaborazionedelle motivazioni profonde e la consapevolezza delle possibili inferenze di esse e della "weltanschauung" nella relazione psicoterapeuta - paziente.
Questi temi sono stati trattati da vari autori e tuttavia nell'iter formativo delle varie scuole psicoterapeutiche essi non sono sufficientemente insistiti e discussi.
Ho ritenuto farne oggetto di relazione in questo congresso pensando che anche un'esposizione sintetica, che contenesse spunti autobiografici del mio percorso elaborativo, avrebbe potuto stimolare negli ascoltatori una proficua riflessione personale.
Questa riflessione è importante per chiunque pratichi la psicoterapia, specie quella di adolescenti, sia per quei pochi di questi ultimi che si avventurano nel difficile compito di un'analisi che non può essere condotta se non con degli accorgimenti tecnici che mettono inevitabilmente in gioco fldentità personale dell'analista, più che nei trattamenti di adulti, sia per i molti che seguendo altri modelli psicoterapeu tiri, non possono non esporre la loro identità personale al coinvolgimento più o meno palese nella relazione e, anzi, devono spesso servirsene in funzione di quella professionale.
In ogni psicoterapia una buona e corretta relazione reale tra terapeuta e paziente è un fattore importante e a volte determinante per il buon esito dellaterapia.
L'elaborazione delle connessioni esistenti tra identità personale e identità professionale è un aspetto della formazione che solo in parte si svolge nell'ambito della propria analisi o esperienza psicoterapeutica personale; questa elaborazione deve svolgersi attraverso una riflessione che consenta di pervenire alla costruzione di un quadro globale concettualmente definito, ordinato ed integrato, non soltanto delle radici pulsionali remote delle motivazioni professionali, ma anche di quelle tematiche della Weltanschauung che concorrono a determinare la nostra posizione relazionale col paziente, sia psicoterapeutica che reale.
Terremo dunque presenti da una parte le inferenze della identità personale nella relazione psicoterapeutica, quella cioè che è determinata prevalentemente dalla teoria e dalla tecnica proprie del modello prescelto e, dall'altra, gli aspetti dell'identità personale che maggiormente possono caratterizzare, favorevolmente o meno alla terapia, la relazione reale. Questa si attua sia con continuità negli ambiti dell'alleanza di lavoro di cui, secondo Greenson, costituisce il nucleo più resistente ed affidabile, sia in modo episodico e più o meno significativo nel corso di tutta la terapia.
Penso, per esempio, alla frequenza con cui mi accade, per gli adolescenti in psicoterapia, di doverli indurre ad esami di realtà per i quali è inevitabile e spesso opportuno che le mie risposte attingano alla mia visione personale di quella realtà. Parlo di relazione reale nell'accezione di R.R. Greenson che la definisce "come un rapporto autentico e realistico, pur considerando che in tutte le relazioni di traslazione è presente qualche elemento di realtà e in tutte le relazioni reali c'è qualche elemento di traslazione e, ancora, considerando che è importante saper distinguere, nel limite del possibile, le componenti di traslazione da quelle oggettuali".
Per quanto riguarda l'elaborazione delle motivazioni profonde mi riferirò al pensiero espresso da Greenson nel 1965 nella relazione presentata al convegno annuale della società psicoanalitica americana col titolo "Questa professione impossibile". Egli sottolinea la difficoltà ad analizzare le motivazioni che stanno alla base delle capacità e dei tratti di carattere che sono necessari per praticare la psicoanalisi, in quanto alcune di queste motivazioni traggono origine dai moti pulsionali primari inconsci collegati alle forme più precoci di relazioni oggettu ali, il che le rende difficili da formulare con precisione e pressocchè impossibili da verificare. D'altronde, tanto i successivi processi maturativi, quanto i fattori esperienziali influenzano e modificano tali moti pulsionali cosicché una motivazione primitiva può essere trasformata in forme nuove di motivazione.
"L'origine di una data motivazione non è il fattore determinante per stabilime la validità. Significativo è il grado di sublimazione o neutralizzazione della carica pulsionale; ma va tenuto presente che tale sublimazione non si raggiunge mai una volta per tutte, in quanto le pressioni provenienti dall'es, dal super-io e dal mondo esterno provocano movimenti regressivi e progressivi. Pertanto è importante la misura in cui queste fantasie libidiche e aggressive siano accessibili all'io conscio e razionale dell'analista.
La consapevolezza della propria controtraslazione può mobilitare altre misure adattative che rinforzeranno la funzione di salvaguardia che la neutralizzazione non è riuscita ad espletare, giusto quanto espresso da Hartmann, Winnicott, Spitz, Khan, citati da Greenson.
La soddisfazione delle pulsioni sublimate o neutralizzate che sottendono le motivazioni professionali è necessaria per un rendimento ottimale da parte dell'analista che ha bisogno di provare una certa dose di piacere nello svolgimento dei suoi compiti per poter mantenere un vivo interesse ed un coinvolgimento negli avvenimenti dei propri pazienti".
Lo spunto autobiografico che ho scelto per esemplificare il percorso dell'elaborazione delle mie motivazioni profonde è il seguente.
Avevo circa quattro anni quando un giorno giocando ad acchiapparello con una cuginetta di un anno più piccola, questa cadde e facendosi male scoppiò a piangere; io la soccorsi e la consolai parlandole e carezzandola finché non sorrise. Il mutarsi del pianto in sorriso, segno della cessazione del dolore, mi diede un intenso piacere.
Il ricordo di questo episodio è ancora molto vivo e lo considero il mio primo atto protopsicoterapeutico. E' da esso che sono partito per individuare la natura e la storia delle pulsioni che sottendevano alla mia condotta. Ero troppo piccolo per poter oggi pensare che fossi in grado di operare identificazioni secondarie così corrette e partecipi da procurarrni un piacere intenso come quello provato. Devo allora ritenere che utilizzassi identificazioni proiettive; ma quale aspetto di me proiettavo per godere di un effetto consolatorio così intenso? Ho concluso che dovevo accettare di aver sofferto di uno stato abbandonico o di deprivazione affettiva. Ma quando, se so di aver avuto una madre sempre calda, affettuosa e presente? Devo ripercorrere la mia storia cominciando dal mio concepimento e inserire nel racconto ricostruito attraverso i vari frammenti riferitimi, i ricordi personali che, pur deformati dalle fantasmizzazioni e contaminazioni del tempo, portano il segno dei significati pulsionali e conflittuali, che nelle loro successive stratificazioni e commistioni, hanno caratterizzato il mondo interno della mia prima infanzia.
Non è possibile riferirvi qui tutta la ricostruzione, tuttavia voglio darvene alcuni elementi che non solo confermano l'esistenza di un me infantile deprivato, ma anche permettono di individuare altre radici pulsionali della motivazione psicoterapeutica profonda:
Vengo concepito nel marzo 1917, nel giugno muore una sorellina, la prima Carmela, dell'età di 16 mesi, splendida bambina mitizzata durante la mia infanzia da genitori e parenti, eternata in un ritratto ad olio che dominava in salotto dall'alto di un cavalletto e che, da un giorno del mio settimo anno, ha portato al centro della fronte un forellino, esito di un colpo di pistola a molla da me sparato col noto proiettile formato da un'asticciola di legno con in punta una ventosa di gomma da me asportata. Nell'ottobre 1919 nasce una sorellina prematura, la seconda Carmela. Le cure massicce ed esclusive che richiede danno corpo, alimentano e spostano l'informe, ma consistente gelosia che nutrivo per la prima Carmela; i miei vissuti di esclusione e di abbandono si condensano nel nucleo di deprivazione che a 4 anni determina l'identificazione proiettiva su Dora, la mia cuginetta dolente dell'acchiapparello.
Ricostruendo, una folla di antichi ricordi emerge dalla memoria e tra essi alcuni tra i più vivi sono i giochi che nel loro significato simbolico mi parlano di nostalgie simbiotiche e di attacchi primitivi sadici e curiosi al corpo e alla mente di mia madre. Come potete dedurne sono radici pulsionali dell'empatia e del desiderio di esplorare la mente altrui.
La curiosità primitiva e sadica e i vissuti di esclusione rivivono, si trasformano, si evolvono sia nel triangolo edipico che nelle modificazioni di significato che la scena primaria assume nel trascorrere del tempo. La mia curiosità per la differenza dei sessi, molto viva ed agita nella mia infanzia, certamente condensa nella sua carica pulsionale specifica anche aspetti libidici ed aggressivi propri della mia storia precedente. Non basta individuare le radici pulsionali remote delle proprie motivazioni psicoterapeutiche, occorre seguire il percorso storico di quelle pulsioni; cogliere i ricordi che segnano il loro costituirsi come elemento ed alimento per conflitti e complessi, cogliere i ricordi della seconda infanzia che testimoniano processi di sublimazione e neutralizzazione ed il graduale prevalere di identificazioni introiettive su quelle primarie, proiettive, adesive e secondarie scorrette; cogliere i ricordi dell'adolescenza che indicano la loro ricomparsa conflittuale o perversa, seguire il loro percorso evolutivo verso l'età adulta, il loro rimaneggiamento nell'analisi personale e nell'autoanalisi che si accompagna all'esercizio professionale, rendersi consapevoli delle loro inferenze ed interferenze nella nostra vita relazionale, sapendo che allo stesso modo esse tenderanno ad inferire ed interferire nelle nostre relazioni psicoterapeutiche. (1)
Spero di essere riuscito a darvi il senso dell'importanza e della complessità sia della ricerca che dell'elaborazione delle motivazioni profonde e del perchè essa è parte indispensabile della formazione psicoterapeutica; cercherò ora di fare altrettanto per quanto riguarda l'importanza di conseguire una buona consapevolezza delle possibili inferenze della propria Weltanschauung nella relazione psicoterapeutica.
Molte tematiche della propria Weltanschauung possono influenzare la relazione psicoterapeutica; cito alcune di quelle che ritengo influenti nel determinare l'assetto e la dinamica della mia posizione nella relazione: esse riguardano la mia concezione relativa a: l'amore; l'arte; l'autorità; la causalità e la casualità; la conoscenza; la dipendenza e l'indipendenza; la libertà; il passato, il presente ed il futuro;la religione;la ricchezza e la povertà;la salute;il sapere, la scienza; il senso della storia; la sessualità; il vero ed il falso; la vita e la morte; vi aggiungerei la napoletanità.
Ognuno di questi temi ha una fondazione, una storia ed un'evoluzione che s'intrecciano con la storia e l'evoluzione delle mie pulsioni, dei miei conflitti, dei miei complessi, dei miei ideali. Ricostruire questa storia con particolare attenzione a quanto è accaduto durante l'adolescenza nel nostro mondo in-temo e in quello relazionale esterno è indispensabile per la formazione di uno psicoterapeuta dell'adolescenza.
Scelgo come tema della mia Weltanschauung che ha molto contribuito a caratterizzare la mia posizione nella relazione psicoterapeutica, il tema della libertà. L'ideale della libertà è stato da me precocemente investito; considero il grado di libertà da me conseguito modesto, ma l'ideale della libertà è certamente quello da me maggiormente investito. E' ovvio che, in quanto ideale, esso comporti un amore per la libertà in assoluto e quindi che almeno debba tendere ad un investimento della mia libertà come della libertà dell'altro.
La relazione psicoanalitica ne risulta evidentemente agevolata nella sua naturalezza e spontaneità; ma ancora più la relazione psicoterapeutica con l'adolescente. Questi, se diffidente e sospettoso nei confronti di chiunque cerchi di mettere qualcosa nella sua mente, o all'opposto desideroso di far propri con l'identificazione modelli di pensiero e di comportamento altrui, ove senta il rispetto mio e l'amore per la sua libertà, nell'un caso dissiperà diffidenze e sospetto e nell'altro attraverso l'identificazione sarà indotto a scegliere lastrada della sua libertà per individuare le scelte più congeniali alla sua evoluzione e maturazione e non strutturerà nella relazione una dipendenza pericolosa.
Questo, almeno penso, dovrebbe accadere se all'amore per la libertà corrispondesse una mia raggiunta soddisfacente libertà interiore. Ma così non è;vi ho infatti già detto che considero modesto il grado di libertà da me conseguito.
Cercherò di illustrarvi quali rischi e quali vantaggi comporta la posizione in cui sono rispetto alla libertà per la relazione psicoterapeutica. Bisogna che vi dia alcuni riferimenti storici sull'origine e l'evoluzione del mio investimento.
Alla formazione del mio super-io hanno contribuito, penso alla pari, mio padre, farmacista, e suo fratello, psichiatra, mio omonimo, che ha coabitato con noi fino alla mia età di 11 anni. Erano entrambi persone di grande onestà e dirittura morale, capaci di affetti intensi che esprimevano molto poco nella relazione verbale diretta, ma efficacemente con la mimica e lo sguardo. Mio padre era di temperamento pacato, paziente, tranquillo, ma fermo e autoritario; le sue disposizioni non erano assolutamente discutibili. Mio zio era impulsivo e verbalmente violento; uomo di grande cultura ed erudizione aveva fatto di me un figlio genuinamente e narcisisticamente molto amato. E' stato per me un riferimento costante e suggestivo fino a 20 anni; la nostra separazione è stata conflittuale e dolorosa lasciando tuttavia profondi e vivi sentimenti affettuosi reciproci.
Entrambi erano antifascisti, mio padre in modo non attivo, mio zio anche attivamente. La discussioni e i commenti relativi alla politica erano molto frequenti, vivaci e caldi in casa e io mi alimentavo ed entusiasmavo ai loro ideali di libertà e democrazia.
Purtroppo ai professati ideali di libertà non corrispondeva una condotta ed un atteggiamento educativo pedagogico coerente. Al contrario mio padre esercitava un'autorità repressiva, assoluta, non discutibile di cui, il più delle volte, rifiutava anche di esplicitare la motivazione. Mio zio esprimeva una autorità articolata ed esplicita nelle motivazioni, suggestiva e convinta nel tono profondo e modulato della voce, ma assertiva e di fatto indiscutibile.
Personalmente ero un bambino sensibile e docile, facile allo sgomento di fronte all'aggressività esplicita e alla concitazione verbale. Fino all'adolescenza non ho ricordo di fantasie o pensieri o propositi di contestazione; convivevano in me, apparentemente senza conflitto, i proto-ideali di libertà ispirati da zio e padre e la professione di obbedienza all'autorità riconosciùta.
E' nell'adolescenza che esplodono il contrasto ed il conflitto con l'autorità, molto più internamente e nelle relazioni esterne al contesto familiare, che non in questo ambito. Nel mio mondo interno inizia l'attacco ad un super-io ormai strutturato sulla falsariga di un'autorità categorica ed assoluta. Inibizioni massicce, conflittualità, sensi di colpa, agiti impulsivi e trasgressivi, condotte subdole e ambigue, licenziosità assertive di una libertà che era quasi inesistente sono presenti nella mia adolescenza e testimoniano di una lotta lunga e difficile contro un super-io che non ha mai completamente ceduto il posto al codice normativo degli ideali dell'io che sono andati strutturandosi attraverso le nuove relazioni umane, le esperienze reali e concrete, le letture e gli interessi per i grandi della letteratura e della filosofia. Non ho mai smesso di elaborare contenuti e definizioni degli ideali.
Una mia adesione al P.C.I. fu certamente un felice compromesso durato dal '43 al '50 tra l'ideale della libertà e il bisogno di obbedienza; in nome della libertà e della giustizia, senza la quale non può essere esercitata la libertà, potevo soddisfare le esigenze superegoiche di una struttura rigida del potere e dell'autorità.
Ritengo che il conflitto permanente tra super-io e libertà sia stato un alimento continuo per il mio amore per la libertà. Ne sono derivati vantaggi e svantaggi per la mia professione. I vantaggi sono quelli già ipotizzati per chi sia libero ed ami la libertà, anzi penso che la vitalità dell'amore alimentata dal conflitto abbia reso più efficace la mia posizione relazionale di amore per la libertà dell'altro.
Gli svantaggi, quelli di cui sono consapevole e che ho sperimentato nell'esercizio professionale possono essere così sintetizzati:
1) Devo cercare di evitare di prendere in carico personalità di tipo fascista, salvo se appartenenti alla prima adolescenza; sono facile allo sdegno che è un sentimento troppo difficile da contenere e dissimulare.
2) Devo essere attento alle mie reazioni invidiose di fronte ad adolescenti od adulti in situazioni esistenziali che rendono più facile di quanto sia stato o sia per me l'esercizio della libertà.
3) Sarei portato ad ostacolare dipendenze eccessivamente regressive, anche quando sono necessarie a fini terapeutici, perchè sentire l'altro indifeso nella sua dipendenza mi dà un certo sgomento e la perdita di sicurezza che ne deriva influenza negativamente la relazione.
Amando la libertà, ma non sentendomi un uomo libero, devo di tanto in tanto riflettere a posteriori sui sentimenti di libertà provati negli accadimenti esperienziali sia privati che professionali. Mi sono trovato a considerare di volta in volta questi sentimenti come autentici, orgogliosi, supponenti, protervi, mortificanti o umilianti.
Ispirandomi a Greenson e ad Eduardo De Filippo dirò che in questa amata, meravigliosa e impossibile professione gli esami non finiscono mai e i più importanti non riguardano il grado di conoscenza della letteratura specifica, ma il grado di conoscenza e consapevolezza di noi stessi e del significato delle nostre relazioni.
In questi indispensabili esami in cui siamo esaminatori e esaminandi,bisogna che siamo indulgenti e comprensivi, perché altrimenti con molta disinvoltura il nostro inconscio occulterà ciò che di noi non ci è gradito conoscere.
Note:
(1) Per esempio, riferendomi all'episodio con mia cugina che ho considerato come primo atto psicoterapeutico, so di dovermi sempre chiedere se le mie reazioni controtransferali nei confronti di momenti abbandonici o di esclusione dei miei pazienti siano veramente controtransferali e non piuttosto transferali e derivanti da proiezioni di miei aspetti abbandonici e di esclusione
* Relazione presentata al Convegno sull'adolescenza, Padova, novembre 1988
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