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PSYCHOMEDIA |
Dibattiti svoltisi sulla Lista PM-PT Psicoterapia |
>Puoi inoltre consultare il libro intitolato
EMDR: desensibilizzazione e
>rielaborazione attraverso movimenti
oculari, scritto da Francine Shapiro >(creatrice
del metodo) e pubblicato dalla McGraw-Hill (2000).
Leggo con interesse di questo scambio
in lista sulla tecnica dell'EMDR. Di EMDR si è
parlato anche al recente incontro di Moiano, organizzato
dall'associazione Psicologi per i Popoli, sui "modelli
di intervento in psicologia dell'emergenza". Così
come a Moiano, mi piacerebbe che si potesse approfondire
un discorso sul tema, proprio perchè nell'ambito
della psicologia dei disturbi post-traumatici, l'EMDR
rappresenta uno dei temi più controversi e discussi
da una decina di anni a questa parte. A partire dalle
affermazioni "sconvolgenti" della Francine Shapiro,
l'ideatrice del metodo, secondo la quale la stragrande
maggioranza di forme di PTSD regredivano rapidamente con
alcune sessioni di movimenti saccadici oculari associati
all'imagery dell'evento traumatico, si è
sviluppato un grosso filone di ricerca teso a verificare
empiricamente la reale efficacia del metodo. I risultati
di questi trial clinici sono, quanto meno, ambigui. Questo
va sottolineato con forza, visto che in diverse occasioni
i ricercatori indipendenti non sono riusciti a replicare
i risultati straordinari che i didatti della EMDR Incorporated,
la società che negli Stati Uniti commercializza
l'insegnamento del metodo, hanno pubblicato.
Negli ultimi anni sono state criticate
e messe seriamente in discussione le vaghe premesse teorico-neurofisiologche
del metodo; i risultati dei trial di comparazione con
lista d'attesa, Stress Inoculation Training, Mere Exposure,
cognitive reframing; l'utilità clinica in
relazione alle dimensioni della depressione reattiva,
della colpa e del social numbing (fondamentali
in un disturbo post-traumatico). Alcuni autori hanno ipotizzato
analogie con la diffusione, due secoli fa, del mesmerismo;
altri hanno reagito alla speciosità di alcuni "distinguo"
formali sollevati dai sostenitori del metodo in relazione
alla metodologia dei trial clinici implementata dai ricercatori
indipendenti, e così via.
Secondo Yule e coll. (Post-Traumatic
Stress Disorder, New York: Wiley, 1999), tutte le
spiegazioni sulla presunta base "neurofisiologica"
del processo terapeutico nell'EMDR sono in realtà
fuorvianti: secondo il gruppo inglese, l'EMDR altro non
è che una semplice procedura di esposizione immaginativa
allo stimolo traumatico, facilitata da un "distrattore"
(i movimenti oculari). Questa "mere exposure"
permette un'estinzione comportamentale dell'iperattivazione
neurovegetativa e dei pensieri intrusivi. Nulla a che
fare con strani processi che "restaurano l'equilibrio
neuronale perché migliora la comunicazione dei
due emisferi cerebrali, modificando la patologia della
rete neuronale" (dal sito http://www.emdritalia.it). Cosa significhi
poi, a livello neurofisiologico, il generico "miglioramento
della comunicazione interemisferica" (o perché
questa sia facilitata dal movimento saccadico), od il
concetto di trauma intrappolato nella "rete neuronale"
(concetto tratto dall'Intelligenza Artificiale [IA] connessionista,
e che privo di riferimenti neuroanatomici precisi lascia
il tempo che trova), non è dato di sapere.
Insomma, l'EMDR allo stato attuale della
ricerca scientifica (fate un controllo diretto su Psych-Lit
o Medline) è una tecnica quanto meno controversa.
Se ha risultati clinici soddisfacenti è il caso
di approfondirla con attenzione e rigore, ma la corsa
all'accreditamento deve basarsi su un terreno solido.
Se risulterà averlo, meglio così. Per adesso,
in tempi di Evidence-Based Medicine (EBM), credo
che sia consigliabile essere più prudenti. Mi riprometto
di inviare rapidamente in lista i riferimenti bibliografici
precisi cui ho fatto riferimento. Saluti.
Luca, condivido il tuo invito alla prudenza e all'approfondimento
della ricerca riguardo l'efficacia e l'utilizzo dell'EMDR. Tu hai
mostrato chiaramente come i vari ricercatori riportano risultati incredibilmente
contraddittori. I paladini della tecnica la esaltano, i detrattori
la ritengono del tutto inefficace. La sensazione è che ancora
una volta siano in gioco *anche* notevoli interessi economici e le
rigidita' ideologiche degli appartenenti alle varie scuole di psicoterapia.Cercherò
di chiarire quale e' la mia posizione attuale sull'argomento.
Ho conosciuto l'EMDR leggendo i libri della Shapiro
e ho deciso di partecipare a un corso di formazione tenuto dal Dr.
Roger Solomon a Milano. Ho avuto perciò occasione di provare
ad utilizzare la tecnica sia sui pazienti sia su me stesso. Dopo queste
esperienze ti confesso che non mi e' stato per niente facile liquidare
la faccenda ritenendola il frutto dell'ennesima invenzione miracolosa
in campo psicoterapeutico. Quanto ho osservato sino ad ora mi permette
di affermare che quella dei movimenti oculari (MO) è una tecnica
molto interessante che tengo in grande considerazione nel mio lavoro
psicoterapeutico. Durante le sedute in cui ho utilizzato i MO ne ho
apprezzato l'efficacia nel facilitare i processi associativi del paziente
e nel favorire un suo distanziamento da pensieri ed emozioni disturbanti.
Anche grazie a una frequente sensazione di benessere fisico chiaramente
percepita dal paziente e facilmente obbiettivabile dal clinico (modificazioni
dell'espressione del volto, rilassamento corporeo), viene favorita
l'elaborazione e integrazione del materiale psichico patologico.
Certo concordo con te: le metafore usate per descrivere
i processi neurofisiologici che sarebbero coinvolti in questo processo
elaborativo non sono particolarmente raffinate e sono ben lontane
dallo spiegare come la tecnica realmente funziona. Ma in questo la
Shapiro e collaboratori sono molto onesti. Solomon diceva chiaramente:
"Non si sa come funziona, ma funziona". Del resto, se avessimo
atteso di conoscere l'esatto meccanismo di funzionamento degli antidepressivi
prima di iniziare ad utilizzarli, avremmo di sicuro perso l'opportunità
di curare molti pazienti.
Leggendo un recente articolo di Giovanni Liotti (Psicoterapia,
2000) sui possibili meccanismi di azione dei farmaci SSRI e delle
tecniche cognitivo-comportamentali nella cura del Disturbo Ossessivo-Compulsivo,
ho elaborato a mia volta un'ipotesi sul processo che verrebbe favorito
dall'utilizzo dei MO. Liotti ipotizza che sia gli SSRI che la psicoterapia
possano essere utili "grazie allo stesso meccanismo di base:
l'implementazione delle funzioni della memoria operativa". Utilizzando
i MO, ho avuto spesso la sensazione che il paziente sperimenti un
miglior funzionamento della memoria operativa, cioè di quella
"capacità di tenere a mente informazioni diverse e opzioni
decisionali alternative... e di operare mentalmente su tale informazione"
(Liotti). Credo in sostanza che la tecnica sia un attivatore e facilitatore
del processo di risanamento in cui il paziente percepisce "che
gli impulsi emotivi arrivano più lenti" "che ansia
e tristezza montano meno veloci" quasi come se ci fosse "più
spazio nella mente per tenerci pensieri diversi". (Ho utilizzato
le parole dei pazienti descritti da Liotti).
Certo non penso che questa capacità di processare
le informazioni si attui nei tempi ultrarapidi descritti da Shapiro
e coll., anche se ritengo che ci sia una velocizzazione. Proprio a
proposito dei tempi delle terapie ricordo di aver esposto le mie perplessità
a Solomon (che nei tre giorni di corso ho tempestato di domande).
Mi ha risposto con la consueta franchezza: "Non pensare di curare
il tuo più grave borderline in tre sedute. Anche con l'EMDR
se tutto andrà bene ci vorranno anni". Grazie per l'attenzione.
Detto questo, in alcuni studi è emersa una
leggera superiorità dell'EMDR rispetto alla lista di attesa
ed ai gruppi di controllo (si veda la mia mail precedente per alcuni
riferimenti). Quale meccanismo è allora in gioco ? Il gruppo
di Yule sostiene che si tratti di una forma di mere exposure
con distrattore motorio; altri discutono del ruolo importante che
può avere la "suggestione". Se la scuola dell'EMDR
sostiene che i meccanismi di funzionamento sono di tipo neurofisologico
("migliore comunicazione interemisferica"), deve dimostrarlo
producendo evidenze in grado di supportare questa affermazione un
po' particolare. E' vero che non si è saputo per anni perché
alcune classi di antidepressivi funzionassero, ma comunque ipotesi
plausibili sulla loro azione neurochimica ce ne erano. Invece, mancano
ipotesi neurofisiologiche precise ed articolate sui processi dell'EMDR.
O meglio, le ipotesi sul preteso meccanismo di funzionamento dell'EMDR
non si integrano quasi per nulla con le conoscenze che già
si possiedono sulla neurobiologia del PTSD (effetti del cortisolo
sul potenziamento a lungo termine dei neuroni ippocampali, coinvolgimento
sistema ippocampo-amigdala con riduzione delle dimensioni dell'ippocampo
stesso, effetti neuroendocrini sull'asse ipotalamo-ipofisi-surrenali
ecc.). Una terapia che si sostiene "agire direttamente ad un
livello neurofisiologico" non può esimersi dal dimostrarsi
integrabile nei modelli neuropsicologici e neurofisiologici attualmente
condivisi... oppure li deve rivoluzionare: ma in questo secondo caso
deve fornire un'enorme quantità di dimostrazioni empiriche
(che dubito la EMDR Inc. possa dare).
Ma arriviamo alle ipotesi di funzionamento tramite
Working Memory. La spiegazione di Luca Panseri, a questo livello
cognitivo, mi sembra abbastanza stimolante e parzialmente plausibile.
Ci sono però un paio di punti poco chiari. Se utilizziamo il
concetto di Working Memory di Baddeley come analogo di "luogo
della pensabilità", ovvero come spazio cognitivo per l'elaborazione
cosciente ed attiva dei contenuti tratti dinamicamente dalle strutture
di conoscenza e memoria autobiografica del soggetto, allora possiamo
tentare di ritradurre in chiave cognitivista le affermazioni della
Shapiro. Ricordo che secondo Baddeley, la Working Memory è
composta da un esecutore centrale, da un loop fonologico-articolatorio
(che processa serialmente il materiale verbale) e dal Visuospatial
sketchpad (un magazzino-processo deputato alla conservazione delle
immagini mentali - tipo Kosslyn, e della cognizione spaziale). La
Working Memory svolge un ruolo centrale nella gestione dei
moduli specialistici di memoria ed elaborazione delle informazioni.
Allora, mi viene il sospetto che l'EMDR potrebbe funzionare così:
si rievoca il contenuto traumatico dalla memoria autobiografica. Il
ricordo è così pervasivo (si parla di "flashbulb
memory") che attiva automaticamente (forse anche per un processo
di "specificità di codifica" alla Tulving) i moduli
emotivi del sistema neurocognitivo (sistema limbico), i quali hanno
una precedenza di attivazione rispetto ai moduli di elaborazione corticale.
Così, tutte le risorse elaborative vengono riallocate ai moduli
emotivi, che saturano rapidamente le capacità di lavoro della
Working Memory. In particolare, la Working Memory non
è più in grado di rappresentarsi dei Modelli Mentali
(à la Johnson-Laird) articolati e complessi, riducendo così
notevolmente la sua capacità di processazione dell'informazione.
I movimenti saccadici, che vengono introdotti artificiosamente in
questo momento di impasse, hanno semplicemente il compito di riallocare
risorse cognitive in direzione dei moduli di programmazione motoria
volontaria (processi di Reason), e, conseguentemente, dei moduli
cognitivi di alto livello che possono così riprendere la propria
priorità operativa rispetto ai moduli emotivi. Con questo escamotage
diviene quindi possibile ridurre la saturazione della Working Memory,
e permettere a questa di riprendere ad elaborare il materiale presente
nel suo Visuospatial sketchpad in maniera più efficace
(sembra plausibile che la maggior parte delle flashbulb memories siano
infatti processate da questa struttura della Working Memory).
Ma allora, servono veramente i movimenti saccadici? Come alcuni studi
hanno dimostrato (vedi la mia mail precedente), sembra che i movimenti
oculari siano superflui per ottenere gli effetti clinici dell'EMDR.
E' possibile utilizzare, diceva anche la Fernandez a Moiano, anche
una stimolazione ritmica delle mani, o simili. Allora, alla luce di
quanto sopra, è forse possibile ipotizzare che sia sufficiente
un qualunque distrattore che, durante la rievocazione di un evento
traumatico, permetta alla Working Memory la riallocazione di
risorse cognitive dai moduli emotivi saturanti verso moduli cognitivi
meno "invalidanti".
In conclusione, se queste ipotesi che ho buttato giù
"alla carlona", fossero corrette, l'EMDR sarebbe non una
forma specifica di psicoterapia, ma una "prassi" applicativa
del ruolo dei distrattori cognitivi e senso-motori durante la rievocazione
di materiale mnestico "invasivo" ed emotivamente saliente.
Potrebbe rivelarsi un comodo ma utile escamotage integrabile,
per quella che può essere la sua utilità, in altre forme,
più specifiche, di intervento clinico.
Una ulteriore dimostrazione della sua mancanza di
specificità è il fatto che recentemente si proponga
l'EMDR per altri tipi di problematiche cliniche: attacchi di panico,
fobie, addirittura disturbi di asse II (citava Panseri i riferimenti
al disturbo di personalità borderline). Allora si tratta di
una panacea per l'intero spettro psicopatologico? Dall'idea che me
ne sto facendo, mi sembra più utile concettualizzarlo come
un "low-level trick" utilizzabile, quando è
il caso, per brevi momenti, in contesti psicoterapeutici più
ampi... così come, in un altro senso, durante una psicoterapia
cognitiva è possibile inserire momenti di rilassamento muscolare
progressivo o simili. Non il rilassamento ad essere direttamente "psicoterapeutico",
ma magari può essere utilizzato "funzionalmente"
per facilitare l'approccio a certi argomenti "difficili"
od ansiogeni. Saluti
Mi interesserebbe davvero poterli studiare. E' possibile
avere i riferimenti bibliografici precisi ?
Non essendo un neurologo, vorrei capire come sia possibile
utilizzare una tecnica di neuroimaging, strutturale o funzionale
che sia, per capire se un soggetto "discrimina meglio i pericoli
veri da quelli non veri".
Questo è l'elenco delle riviste che hanno pubblicato,
in generale, studi sull'EMDR, compresi quelli estremamente critici...
ad esempio, sul Journal of Anxiety Disorders e Behaviour
Therapy sono stati pubblicati soprattutto articoli "dubbiosi".
Temo che sia troppo presto per dare per scontato "che
funzioni". Allo stato attuale della ricerca clinica, il focus
deve proprio essere "se è efficace o meno". Investire
nel "come e perché funziona" è importante...
ma solo dopo che vi sia un accordo sul fatto che funzioni! Cordiali
saluti
Luca, anch'io penso che la tecnica dei movimenti oculari
non sia una forma specifica di terapia, ma appunto, una tecnica. E'
noto che la Shapiro ha scoperto CASUALMENTE gli effetti dei movimenti
oculari. Mentre passeggiava in un parco si accorse che, pensieri e
ricordi disturbanti che l'affliggevano, sparivano o perdevano la loro
carica emotiva quando eseguiva dei movimenti oculari. Intuendo i potenziali
benefici che potevano derivare dall'applicazione deliberata di questo
procedimento, inizio' con un gruppo di amici, colleghi e volontari
la sua ricerca. Da allora sviluppò procedure sempre più
elaborate che costituiscono l'attuale sistema terapeutico denominato
EMDR.
E' anche interessante ricordare che l'utilizzo dei
MO è un'antica tecnica yoga (Parnell, 1996) che e' sempre stata
utilizzata allo scopo di migliorare l'equilibrio psicofisico in culture
diverse da quella occidentale. La Shapiro ha quindi genialmente riscoperto
e riproposto questa antica tecnica modificandola e adattandola ai
procedimenti terapeutici propri della cultura occidentale. Uno dei
suoi ultimi lavori si intitola: "Self-healing aspects of EMDR:
the therapeutic change process and perspectives of integrated psychotherapies"
comparso sul Vol. 10, n. 2, del 2000, del Journal of Psychotherapy
Integration (organo della Society
for the Exploration of Psychotherapy Integration [SEPI]).
Questo lavoro e' stato inserito non a caso nella rivista di psicoterapia
integrata. La tecnica dei MO può infatti essere integrata all'interno
del lavoro di terapeuti di formazioni differenti: psicodinamica, cognitiva,
esperienziale (per citare i filoni più importanti). Il manuale
della Shapiro (1995) rappresenta l'esempio di questa integrazione.
L'applicazione dei MO viene infatti attuata all'interno di un procedimento
terapeutico in cui e' evidente l'integrazione di un modello psicodinamico,
cognitivista ed umanistico-esperienziale.
E' vero che l'insegnamento e la diffusione dell'EMDR
è effettuato in modo un po' schematico e "protocollare",
e forse anche questo contribuisce all'equivoco di scambiare una tecnica
per una specifica forma di psicoterapia. A mio parere si tratta invece
di una tecnica che PUO' essere inserita all'interno di qualsiasi terapia.
Né più né meno di un farmaco o di qualsiasi altro
strumento terapeutico. Di fatto, anche in questo Solomon mi e' piaciuto
molto. Diceva infatti di non stravolgere il nostro stile e metodo
di lavoro, ma semplicemente di applicare con intelligenza ciò
che avevamo imparato al corso, inserendolo in modo armonico nelle
nostra consueta prassi terapeutica. Quindi se la forma e l'insegnamento
dell'EMDR appaiono un po' schematici, di fatto, come spesso succede,
i terapeuti esperti (e Solomon lo è sicuramente) sono invece
molto più sciolti e capaci di evitare le rigidità tecnicistiche.
Ritengo perciò che sia fondamentale, nell'ambito del nostro
tentativo di ricerca, tenere ben presenti i molteplici effetti, non
solo biochimici e neurofisiologici, che l'utilizzo dei MO possono
avere all'interno della relazione terapeutica. Se la base di ogni
terapia è l'attenta e costante "analisi della relazione"
(Migone), allora anche gli effetti relazionali della "somministrazione"
dei MO diventeranno oggetto delle nostre valutazioni. Si eviterà
cosi' di assumere una posizione riduzionista tesa solo a verificare
gli effetti neurofisiologici o biochimici di un intervento terapeutico
svincolandolo arbitrariamente dal contesto relazionale in cui esso
e' inserito.
Un'ultima considerazione. Tu hai scritto:
<< una ulteriore dimostrazione della
sua mancanza di specificità è il fatto che recentemente
si proponga l'EMDR per altri tipi di problematiche cliniche: attacchi
di panico, fobie, addirittura disturbi di asse II (citava Panseri
i riferimenti al disturbo di personalità borderline). Allora
si tratta di una panacea per l'intero spettro psicopatologico ? >>
Ricordando che l' aspecificità di un intervento
non ne esclude l'efficacia, torno a riprendere l'esempio degli antidepressivi.
La stessa categoria di farmaci (SSRI) viene attualmente utilizzata
nella depressione maggiore, nel disturbo di panico, nei disturbi alimentari,
nel disturbo ossessivo compulsivo, nel disturbo d'ansia generalizzata,
nella fobia sociale...(mi fermo per brevità!). Credo che concorderai
con me che e' difficile sostenere che TUTTI questi disturbi sono accomunati
dalle medesime alterazioni biochimiche, neuroanatomiche e neurofisiologiche.
Eppure si somministra la medesima sostanza. Sei forse eccessivamente
generoso nei confronti della ricerca farmacologica quando sostieni
che <<e' vero che non si è saputo per anni perché
alcune classi di antidepressivi funzionassero, ma comunque ipotesi
plausibili sulla loro azione neurochimica ce ne erano>>. In
realtà sappiamo ancora poco sul funzionamento cerebrale, e
la plausibilità di queste ipotesi mi sembrano ancora decisamente
scarse.
Nell'attualità, penso sia quindi fondamentale dirigere la nostra attenzione sull'osservazione degli effetti clinici e delle variabili relazionali prodotte dall'applicazione di questa tecnica, pur tenendo sempre d'occhio i risultati che ci verranno forniti dalle neuroscienze. Alla prossima. 3 Dec. 2000, From: Tullio
Carere:
Un paio di osservazioni in margine al dibattito sull'EMDR.
Luca Pezzullo ha osservato che
Questo è un fatto del tutto regolare negli
studi sull'efficacia della psicoterapia. I sostenitori di un dato
metodo dichiarano di ottenere risultati strabilianti, ricercatori
indipendenti ridimensionano a "leggera superiorità rispetto
alla lista di attesa".
C'è probabilmente un po' di confusione. L'EMDR,
a rigore, è un metodo in otto fasi, che comprende oltre ai
movimenti oculari una serie di altre procedure, e che può essere
applicato solo da chi ha frequentato il corso della scuola di Francine
Shapiro. E' la stessa cosa che per le diverse forme di psicoanalisi,
ognuna definita da un insieme di presupposti teorici e procedure tecniche
che si imparano nel corso di e grazie a un iter formativo di cui sono
depositarie le diverse scuole. Il fenomeno è sempre lo stesso:
l'EMDR o questa o quella psicoanalisi sono quasi oggetti di culto
per i rispettivi adepti, e brutalmente ridimensionati o liquidati
come privi di validità empiricamente fondata dalle "ricerche
indipendenti".
Per uscire da questa logica parrocchiale, e per tornare
alla questione dell'EMDR, è utile tener presente, come ha opportunamente
ricordato Luca Panseri, che Francine Shapiro ha fatto due cose diverse.
Primo, ha serendipicamente scoperto l'utilità dei movimenti
oculari per diminuire l'intensità dei ricordi disturbanti.
Secondo, ha sviluppato un metodo, l'EMDR, che integra l'uso dei movimenti
oculari con diverse altre tecniche di diversa provenienza. Se un terapeuta
che ha già un suo metodo di lavoro frequenta il corso EMDR,
per qualche tempo, dopo il corso, tiene presente la metodologia standard
e per quanto possibile cerca di applicarla. Ma col passare del tempo
fa quello che normalmente fanno tutti i terapeuti in tutto l'arco
della loro carriera. Cioè assimila alcune parti del nuovo metodo
nel suo impianto precedente, che per accogliere la novità deve
anche poco o tanto modificarsi.
La cosa che rimane può ancora essere chiamata
EMDR? Non lo so. Per mia esperienza personale, e per l'esperienza
di altri terapeuti che conosco e come me hanno frequentato il corso
e poi hanno integrato la pratica dei movimenti oculari nel loro metodo,
del metodo originario in otto fasi della Shapiro non rimane molto.
Quello che rimane, in sostanza, è precisamente la pratica dei
movimenti oculari, inserita non più nella cornice del metodo
EMDR, ma in quella del metodo preesistente del terapeuta. Probabilmente
può diventare un vero terapeuta EMDR solo qualcuno che non
aveva ancora un proprio orientamento, oppure ce l'aveva, ma ne era
molto insoddisfatto. Dico questo perché non credo che abbia
molto senso parlare di "ricerca indipendente" sull'EMDR,
come non ne ha per quanto riguarda la psicoanalisi. La ricerca sull'EMDR,
come quella sulla psicoanalisi, può essere fatta solo dai terapeuti
EMDR e dagli psicoanalisti, rispettivamente, e quindi il suo valore
è praticamente irrilevante al di fuori di quelle cerchie.
Mi diceva recentemente Salvatore Freni, che oltre a essere psicoanalista è anche uno dei massimi esperti italiani di ricerca sulle psicoterapie: Tutti i metodi funzionano nelle mani di chi li ha inventati e dei loro seguaci; il difficile è mettere a punto una metodica standard replicabile da parte di operatori indipendenti e verificabile da parte di osservatori indipendenti. Ora, la mia impressione personale coincide con quella di Luca Panseri: la tecnica dei movimenti oculari, anche estratta dal contesto del metodo originale EMDR, funziona, sia nel senso di facilitare l'accesso a una quantità di materiale rilevante (allo stesso modo della tecnica psicoanalitica delle libere associazioni, ma a mio parere la tecnica dei movimenti oculari è più potente), sia nel senso di favorirne l'elaborazione spontanea (cioè non dipendente da interpretazioni o altri interventi cognitivi del terapeuta). Il problema è: come verificare questa impressione, che io e altri terapeuti che non praticano una EMDR ortodossa abbiamo? La difficoltà, credo, sta nel fatto che una tecnica come quella dei movimenti oculari, o qualsiasi altra, non è somministrata nel vuoto, ma è sempre inserita in un contesto, che può essere l'EMDR ortodossa o il metodo preesistente del terapeuta. E, come hanno osservato Safran e Messer in un lavoro che sarà pubblicato tra breve su PSYCHOMEDIA nell'area sull'Integrazione, non si può pensare di prendere un pezzo di un metodo, trapiantarlo in un altro metodo e pensare che sia la stessa cosa, perché il contesto modifica inevitabilmente il senso di qualsiasi cosa vi si metta dentro. In conclusione provvisoria, allo stato attuale è molto difficile fare delle affermazioni empiricamente fondate sulla tecnica dei movimenti oculari, come su qualsiasi altra tecnica psicoterapeutica. Per il momento non credo si possa fare molto di più che offrire testimonianze personali, che saranno ritenute più o meno credibili, del fatto che sì, la Shapiro ha ragione: la tecnica dei movimenti oculari può essere importata all'interno di metodiche differenti, arricchendole in modo significativo. 3 Dec. 2000, From: Gabriele
Melli:
Inoltro il messaggio della dr.ssa Fernandez che si
inserisce sulla discussione sull'EMDR che si sta svolgendo in parallelo
su questa lista e su quella IPSICO. Invito inoltre i colleghi interessati
ad iscriversi alla lista IPSICO, visitando il sito http://www.ipsico.org, dato che il dibattito
sull'argomento EMDR si è recentemente acceso su di essa. Un
saluto.
EFFICACY OF EMDR
EMDR has had more published case reports and controlled
outcome research to support it than any other method used in the treatment
of post traumatic stress disorder. Over 30,000 clinicians have been
trained world-wide, which is considered mandatory for appropriate
use.
In 1995 the APA Division 12 (Clinical Psychology)
initiated a project to determine the degree to which extant therapeutic
methods were supported by solid empirical evidence. Independent reviewers
(Chambless
et al., 1998) recently placed EMDR on a list of empirically
validated treatments, as "probably efficacious for civilian PTSD."
At the same time, exposure therapy (e.g., flooding) and stress inoculation
therapy (SIT) were described as "probably efficacious for PTSD,"
while no other therapies were judged to be empirically supported by
controlled research for any posttraumatic stress disorder (PTSD) population.
A meta-analysis of all psychological and drug treatments for PTSD
reported: "The results of the present study suggest that EMDR
is effective for PTSD, and that it is more efficient than other treatments."
(Van Etten & Taylor, 1998; see also Allen, Keller & Console,
1999; Feske, 1998; Lipke, 1999; Spector & Read, in press). See
Shapiro (1995) for procedures, protocols, theories, and discussion
of clinically valid research criteria . See Shapiro & Forrest
(1997) for a comprehensive narrative of cases, and in-session transcripts,
and "EMDR for Trauma" in the APA Psychotherapy Videotape
series.
Since the initial efficacy study (Shapiro, 1989a),
positive therapeutic results with EMDR have been reported with a wide
range of populations including the following:
1. Combat veterans from Desert Storm, the Vietnam
War, the Korean War, and World War II who were formerly treatment
resistant and who no longer experience flashbacks, nightmares, and
other PTSD sequelae (Blore, 1997b; Carlson, Chemtob, Rusnak, &
Hedlund, 1996; Daniels, Lipke, Richardson, & Silver,1992; Lipke
& Botkin, 1992; Thomas & Gafner, 1993; White, 1998; Young,
1995).
2. Persons with phobias and panic disorder who revealed
a rapid reduction of fear and symptomatology (Doctor, 1994; de Jongh
& ten Broeke, 1998; de Jongh, ten Broeke & Renssen, in press;
Feske & Goldstein, 1997; Goldstein, 1992; Goldstein & Feske,
1994; Kleinknecht, 1993; Nadler, 1996; O'Brien, 1993)
3. Crime victims and police officers who are no longer
disturbed by the aftereffects of violent assaults (Baker & McBride,
1991; Kleinknecht & Morgan, 1992; Page & Crino, 1993; Shapiro
& Solomon, 1995; Solomon, 1995, in press).
4. People relieved of excessive grief due to the loss
of a loved one or to line-of-duty deaths, such as engineers no longer
devastated with guilt because their train unavoidably killed pedestrians
(Puk, 1991a; Solomon, 1994, 1995, in press; Shapiro & Solomon,
1995).
5. Children healed of the symptoms caused by the trauma
of assault or natural disaster (Chemtob, Nakashima, Hamada & Carlson,
1996; Cocco & Sharpe, 1993; Datta and Wallace, 1994, 1996; Greenwald,
1994, 1999; Lovett, 1999; Pellicer, 1993; Puffer, Greenwald &
Elrod, in press; Shapiro, 1991; Tinker & Wilson, 1999).
6. Sexual assault victims who are now able to lead
normal lives and have intimate relationships (Hyer, 1995; Parnell,
1994, 1999; Puk, 1991a; Shapiro,1989b, 1991, 1994; Wolpe & Abrams,
1991).
7. Accident, surgery, and burn victims who were once
emotionally or physically debilitated and who are now able to resume
productive lives (Blore, 1997a; Hassard, 1993; McCann, 1992; Puk,
1992; Solomon & Kaufman, 1994).
8. Victims of sexual dysfunction who are now able
to maintain healthy sexual relationships (Levin, 1993; Wernik, 1993).
9. Clients at all stages of chemical dependency, and
pathological gamblers, who now show stable recovery and a decreased
tendency to relapse (Henry, 1996 ; Shapiro, Vogelmann-Sine, &
Sine, 1994).
10. People with dissociative disorders who progress
at a rate more rapid than that achieved by traditional treatment (Fine,
1994; Lazrove, 1994; Lazrove & Fine, in press; Marquis & Puk,
1994; Paulsen, 1995; Rouanzoin, 1994; Young, 1994).
11. People engaged in business, performing arts, and
sport who have benefited from EMDR as a tool to help enhance performance
(Crabbe, 1996; Foster & Lendl, 1995, 1996).
12. Clients with a wide variety of PTSD and other
diagnoses who experience substantial benefit from EMDR (Allen &
Lewis, 1996; Brown, McGoldrick, & Buchanan, 1997; Cohn, 1993;
Fensterheim, 1996; Forbes, Creamer, & Rycroft, 1994; Manfield,
1998; Marquis, 1991; Parnell, 1996; 1997; Puk,1991b; Shapiro &
Forrest, 1997; Spates & Burnette, 1995; Spector & Huthwaite,
1993; Vaughan, Wiese, Gold, & Tarrier, 1994; Wolpe & Abrams,
1991). There are more controlled studies on EMDR than on any other
method used in the treatment of PTSD (Shapiro, 1995a,b, 1996, in press;
Spector & Read, in press; Van Etten & Taylor, 1998). A literature
review indicated only 6 other controlled clinical outcome studies
(excluding drugs) in the entire field of PTSD (Solomon, Gerrity, and
Muff, 1992).
The following controlled EMDR studies have been completed: Civilian Studies:
1. Chemtob, Nakashima, Hamada and Carlson (1997) evaluated
the effects of three sessions of EMDR using a lagged-groups design
with children suffering the aftereffects of Hurricane Iniki. Thirty-two
children who had not responded to previous treatments and met the
criteria for the classification of PTSD were assigned to treatment
and delayed treatment conditions. The children had shown no improvement
3.5 years after the hurricane and a year after the most recent attempts
at treatment. Clinical improvements were reported in both groups as
measured on the Children's Reaction Inventory, Revised Children's
Manifest Anxiety Scale, and Children's Depression Inventory. and these
changes remained stable at a six-month follow-up. In addition to the
substantial reduction of PTSD symptomatology, a marked reduction in
visits to the school nurse in the year following the EMDR treatment
as compared to previous years was reported.
2. Freund, Ironson & Williams (1998). A controlled
study compared EMDR and prolonged imaginal exposure therapy. Both
therapies showed positive effects. The drop-out rate was less in the
EMDR group. Further, EMDR proved more efficient: 7 out of 9 clients
were successfully treated in the 3 active sessions of EMDR versus
2 out of 7 for prolonged exposure (i.e., 78% of EMDR vs. 29% of prolonged
exposure successfully completed treatment in three sessions).
3. Lee & Gavriel (1998). The effectiveness of
EMDR was compared with a combination of stress inoculation therapy
and prolonged exposure. The 22 subjects each met DSM-IIIR criteria
for PTSD and were randomly assigned to one of the treatment conditions.
Each subject was also their own wait list control. Outcome measures
included the IES, MMPI PTSD scale, BDI, and Davidson's Structured
Interview for PTSD. Both EMDR and SITPE produced clinically significant
improvement post-treatment and these gains were maintained at 3 months
follow-up. EMDR was found to be more efficient than SITE.
4. Marcus et al. (1997) evaluated sixty seven individuals
diagnosed with PTSD in a controlled study funded by Kaiser Permanente
Hospital. EMDR was found superior to standard Kaiser Care which consisted
of a combination of individual therapy plus combinations of group
therapy, and medication. An independent evaluator assessed participants
on the basis of the Symptom Checklist-90, Beck Depression Inventory,
Impact of Event Scale, Modified PTSD Scale, Spielberger State-Trait
Anxiety Inventory, and SUD. Fidelity was previously judged as high
and results indicated twice the effect sizes for EMDR as compared
to the control group in half the number of overall sessions.
5. Renfrey and Spates (1994). A controlled component
study of 23 PTSD subjects compared EMDR with eye movements initiated
by tracking a clinician's finger, EMDR with eye movements engendered
by tracking a light bar, and EMDR using fixed visual attention. All
three conditions produced positive changes on the CAPS, SCL-90-R,
Impact of Event Scale, and SUD and VOC scales. However, the eye movement
conditions were termed "more efficient." This study is hampered
by a small number subjects (6-7 in each posttest cell) making statistical
significance improbable for a component analysis of this kind. No
fidelity checks were reported.
6. Rothbaum (1997) the controlled study of rape victims
found that, after three EMDR treatment sessions, 90% of the participants
no longer met full criteria for PTSD. Results were evaluated on the
PTSD Symptom Scale, Impact of Event Scale, Beck Depression Inventory,
and Dissociative Experience Scale by an independent assessor. High
fidelity to treatment was reported by an external assessor.
7. Scheck et al. (1998) Sixty females ages 16-25 screened
for high-risk behavior and traumatic history were randomly assigned
to two session of either EMDR or active listening. There was substantially
greater improvement for EMDR as independently assessed on the Beck
Depression Inventory, State-Trait Anxiety Inventory, Penn Inventory
for Post-Traumatic Stress Disorder, Impact of Event Scale, and Tennessee
Self-Concept Scale. Although the treatment was comparatively brief,
the EMDR treated participants came within the first standard deviation
compared to non-patient norm groups for all five measures. Fidelity
to treatment was previously assessed for some of the clinicians in
the study.
8. Shapiro (1989a). The initial controlled study of
22 rape, molestation, and combat victims compared EMDR and a modified
flooding procedure that was used as a placebo to control for exposure
to the memory and to the attention of the researcher. Positive treatment
effects were obtained for the treatment and delayed treatment conditions
on SUDs and behavioral indicators, which were independently corroborated
at 1- and 3-month follow-up sessions. This study is hampered by the
lack of standardized measures.
9. Vaughan, Armstrong, et al. (1994). In a controlled
comparative study, 36 subjects with PTSD were randomly assigned to
treatments of (1) imaginal exposure, (2) applied muscle relaxation,
and (3) EMDR. Treatment consisted of four sessions, with 60 and 40
minutes of additional daily homework over a 2- to 3-week period for
the image exposure and muscle relaxation groups, respectively, and
no additional homework for the EMDR group. All treatments led to significant
decreases in PTSD symptoms for subjects in the treatment groups as
compared to those on a waiting list, with a greater reduction in the
EMDR group, particularly with respect to intrusive symptoms. No fidelity
checks were reported
10. D. Wilson, Covi, Foster, and Silver (1996). In a controlled study, 18 subjects suffering from PTSD were randomly assigned to eye movement, hand tap, and exposure-only groups. Significant differences were found using physiological measures (including galvanic skin response, skin temperature, and heart rate) and the SUD Scale. The results revealed, with the eye movement condition only, a one-session desensitization of subject distress and an automatically elicited and seemingly compelled relaxation response, which arose during the eye movement sets. High fidelity to treatment had been previously assessed 11. S. Wilson, Becker, and Tinker (1995, 1997). A controlled study randomly assigned 80 trauma subjects (37 diagnosed with PTSD) to treatment or delayed-treatment EMDR conditions and to one of five trained clinicians. Substantial results were found at 30 and 90 days and 15 months post treatment on the State-Trait Anxiety Inventory, PTSD-Interview, Impact of Event Scale, SCL-90-R, and the SUD and VOC scales. Effects were equally large whether or not the subject was diagnosed with PTSD. High fidelity to treatment had been previously assessed for many of the participating clinicians. Combat Studies:
1. Boudewyns, Stwertka, Hyer, Albrecht, and Sperr
(1993). A pilot study randomly assigned 20 chronic inpatient veterans
to EMDR, exposure, and group therapy conditions and found significant
positive results from EMDR for self-reported distress levels and therapist
assessment. No changes were found in standardized and physiological
measures, a result attributed by the authors to insufficient treatment
time considering the secondary gains of the subjects who were receiving
compensation. Results were considered positive enough to warrant further
extensive study, which has been funded by the VA. No fidelity check
reported for the study.
2. Boudewyns & Hyer (1996) Preliminary reports
of the data indicate that EMDR is superior to a group therapy control
on some standard psychometrics and physiological measures. Both studies
are hampered by the insufficient treatment time afforded which allowed
for treating only 1-2 memories in this multiply-traumatized population.
In this second study, fidelity to treatment was reported as variable
by an external assessor.
3. Carlson, et al. (1998) tested the effect of EMDR
on chronic combat veterans suffering from PTSD since the Vietnam War.
Within 12 session subjects showed substantial clinical improvement,
with a number becoming symptom-free. EMDR proved superior to a biofeedback
relaxation control group and to a group receiving routine VA clinical
care. Results were independently evaluated on CAPS-1, Mississippi
Scale for PTSD, IES, PTSD Symptom Scale, Beck Depression Inventory,
and STAI. Positive clinical fidelity to treatment was externally assessed
and the drop-out rate was @ 3%. This is the only study of combat veterans
to achieve acceptable fidelity and to use the number of EMDR sessions
suggested for this population (see Shapiro, 1995).
4. Devilly, Spence & Rapee (1998) tested the effect
of EMDR on fifty-one Vietnam combat veterans comparing EMDR, an analogue
treatment without eye movement and a support control condition. Only
one outcome measure showed significant differences at posttest. This
study is hampered by having afforded only two sessions of treatment
to this multiply-traumatized population and fidelity to treatment
was questionable based upon the described procedures. A 30% drop-out
rate was reported.
5. Jensen (1994). A controlled study of the EMDR treatment
of 25 Vietnam combat veterans suffering from PTSD, as compared to
a non-treatment control group, found small but statistically significant
differences after two sessions for in-session distress levels, as
measured on the SUD Scale, but no differences on global measures such
as the Structured Interview for Post-traumatic Stress Disorder. The
intern-researchers reported low fidelity checks of adherence to the
EMDR protocol and skill of application, which indicated their inability
to make effective use of the method to resolve the therapeutic issues
of their subjects. The study is also hampered by an insufficient amount
of treatment time for these multiply-traumatized veterans.
6. Pitman et al. (1996). In a controlled component
analysis study of 17 chronic outpatient veterans, using a crossover
design, subjects were randomly divided into two EMDR groups, one using
eye movement and a control group that used a combination of forced
eye fixation, hand taps, and hand waving. Six sessions were administered
for a single memory in each condition. Both groups showed significant
decreases in self-reported distress, intrusion, and avoidance symptoms.
Fidelity was judged as variable by an external assessor. The study
is further hampered by the small sample and treating only 1-2 memories
in this multiply-traumatized population.
7. Rogers et al. (in press) Two groups of combat veterans received a single session of exposure or EMDR focusing on the most disturbing event. Both groups showed improvement on the Impact of Event scale, however, the EMDR treatment resulted in greater positive changes in the level of in-session distress and self-monitored intrusive recollections. This study was designed as primarily a process report to compare both methods. High fidelity to treatment was established. Non-randomized studies involving PTSD symptomatology
include:
1. An analysis of an inpatient veterans' PTSD program
(n = 100) compared EMDR, biofeedback, and relaxation training and
found EMDR to be vastly superior to the other methods on seven of
eight measures (Silver, Brooks, & Obenchain, 1995).
2. A study of Hurricane Andrew survivors found significant
differences on the Impact of Event Scale and SUD scales in a comparison
of EMDR and non-treatment conditions (Grainger, Levin, Allen-Byrd,
Doctor & Lee, 1997).
3. A study of 60 railroad personnel, suffering from
high-impact critical incidents, compared a peer counseling debriefing
session alone to a debriefing session that included approximately
20 minutes of EMDR (Solomon & Kaufman, 1994). The addition of
EMDR produced substantially better scores on the Impact of Event Scale
at 2- and 10-month follow-ups.
4. Research at Yale Psychiatric Clinic conducted by
Lazrove et al. (in press) indicated that all symptoms of PTSD were
relieved within three sessions for single-trauma victims as independently
assessed on standard psychometrics.
5. Of 445 respondents to a survey of trained clinicians who had treated over 10,000 clients, 76% reported greater positive effects with EMDR than with other methods they had used. Only 4% found fewer positive effects with EMDR (Lipke, 1994). Recent EMDR Studies:
Controlled studies with civilian trauma victims indicate
that after three sessions 84-90% of the subjects not longer meet the
criteria for PTSD.
Controlled outcome studies with civilian trauma victims
indicate that after three EMDR sessions 84-90% of the subjects no
longer meet the criteria for PTSD. The Rothbaum (1997) study found
that after three EMDR sessions 90% of the rape victims no longer met
full criteria for PTSD. In a test of subjects whose responses to EMDR
were reported by Wilson, Becker & Tinker (1995), it was found
that 84% of the participants initially diagnosed with PTSD still failed
to meet criteria at 15 month follow-up (Wilson, Becker & Tinker,
1997). Similar data (90-100% elimination of diagnoses for single trauma
victims) were reported by Marcus, Marquis, & Sakai (1997) in a
controlled study and by Lazrove et al. (in press) in a recent systematically
evaluated case series. While one subject dropped out very early in
the study, of the seven subjects who completed treatment (including
mothers who had lost their children to drunken drivers), none met
PTSD criteria at follow-up. In a study of traumatized adolescent women
(Scheck, Schaeffer & Gillette, 1998) after only two sessions of
EMDR approximately 77% no longer had PTSD.
Studies with combat veterans are hampered by insufficient treatment time and fidelity to treatment. The only study using the 12 session suggested minimum treatment (see Shapiro, 1995) indicated that 75% of the Vietnam veterans no longer had PTSD after the 12 sessions (Carlson et al., 1998). References
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Longo:
Eseguo un nuovo forward sull'argomento EMDR,
annunciando che presto compariranno su PSYCHOMEDIA degli
articoli sull'argomento sia di Isabel Fernandez (con la quale sono
in contatto da tempo) che di altri autori, oltre che la raccolta degli
interventi provenienti dalla rete
>(in realtà è la terminologia dello
studio che l'American Psychological
>Association ha fatto sulle terapie
per ogni disturbo diagnostico). Penso
>che per efficacia dobbiamo intendere
durata del trattamento, remissione dei
>sintomi e recupero della funzionalità
del paziente...., soprattutto perché
>sono questi gli aspetti
che affrontiamo ogni giorno nella nostra
pratica
>clinica. In questo
senso, l'EMDR può essere molto
utile se inserito in una
>psicoterapia
con l'obiettivo preciso di rielaborare
i ricordi di esperienze
>traumatiche
che sono clinicamente
legate al disturbo che
presenta il
>paziente
(fobie, attacchi
di panico, disturbo
ossessivo compulsivo,
ecc.).
>Queste
esperienze
devono essere
individuate
nella fase
iniziale di
anamnesi
>e
di raccolta
di informazioni,
che
regolarmente
ogni
terapeuta
fa nei
primi
>colloqui
con
un
paziente.
Lavorare
con
l'EMDR
su
questi
ricordi
aiuta
a
>raggiungere
gli
obiettivi
terapeutici,
dato
che
l'EMDR
provoca
una
>desensibilizzazione
e
rielaborazione
di
informazioni
mantenute
nella
>memoria
in
una
modalità
disfunzionale.
Vorrei
sottolineare
soprattutto
>questo
aspetto,
e
cioè
che
apparentemente
l'EMDR
riguarda
i
meccanismi
>innati
di
elaborazione
dell'informazione
del
cervello.
Negli
studi
SPECT
>scan
condotti
finora
si
vedono
nitidamente
le
aree
del
cervello
che
si
>attivano
durante
una
seduta
di
EMDR.
Vorrei
tra
l'altro
chiarire
che
in
>quest'ottica
l'accostamento
che
fa
Tullio
Carere
dell'EMDR
con
la
>psicoanalisi,
addirittura
ritenendola
una
forma
di
psicoanalisi
non
è
>corretta.
Anzi,
la
maggior
parte
dei
35.000
terapeuti
formati
non
sono
>psicoanalisti,
ma
di
diversi
approcci
terapeutici.
Un'altissima
percentuale
>sono
di
formazione
cognitivo
comportamentale,
soprattutto
tra
i
250
>italiani.
Dato
che
stiamo
parlando
di
psicoterapia,
di
ricerca
scientifica,
>di
un
enorme
sforzo
fatto
da
persone
preparate
e
con
un'ottima
formazione
>clinica,
vorrei
che
si
evitassero
termini
come
"logica
parrocchiale",
>"seguaci",
ecc.,
altrimenti
non
è
più
un
confronto
professionale.
La
>ricerca
continua,
soprattutto
a
livello
neurofisiologico,
credo
che
uno
dei
>contributi
dell'EMDR
alla
ricerca
sia
stato
quello
di
stimolare
la
>curiosità
di
vedere
che
cosa
succede
nel
cervello
dopo
un
intervento
>terapeutico.
Attualmente,
in
Italia
stiamo
iniziando
dei
progetti
di
>ricerca,
di
cui
vi
terremo
senz'altro
informati.
Cordialmente.
5 Dec. 2000, From: Luca
Pezzullo:
Salve a tutti. Mi aggancio alle interessanti osservazioni
che sono emerse in relazione alla discussione sull'EMDR. Mi scuso
per la lunghezza della mail, ma ho ritenuto opportuno analizzare in
maniera un po' approfondita alcune delle osservazioni fatte. Innanzitutto,
devo dire che ho apprezzato il fatto che si sia iniziato a discuterne
in maniera piuttosto ampia. Uno dei rischi principali, quando si parla
di "power therapies", è quello di limitarsi
a citarne successi o fallimenti, ma senza andare un po' più
a fondo. In lista, invece, sembra che si stia formando questa occasione.
Vorrei fare quindi alcune osservazioni e chiedere un paio di chiarimenti.
In primo luogo, vorrei sottolineare una cosa. Come
nota giustamente Tullio, i sostenitori di un metodo lo esaltano, i
ricercatori indipendenti hanno difficoltà a replicarne i risultati.
Questa problematica accompagna fin dalle sue origini il dibattito
sull'efficacia e sull'efficacia differenziale delle varie forme di
psicoterapia. Questo, ovviamente, non implica che non sia necessario
sforzarsi per verificare empiricamente i risultati delle varie forme
di intervento, pur con tutte le prudenze ed i "però"
del caso. Allo stesso modo, la definizione dei criteri generali della
verifica non può essere riservata solo ai sostenitori di un
metodo. Anche perché, proprio intorno al problema della verifica
empirica in psicoanalisi se da un lato si sono versati i classici
fiumi di inchiostro, al contempo si sono aperte strade, si sono integrati
approcci, sono stati svolti studi originali (ad es., il metodo percettogenetico
di Lund) e rigorosi (per quanto necessariamente "riduttivi":
Luborsky, Thoma e Kachele...); così, a maggior ragione, si
deve pretendere una maggiore "oggettività" negli
studi sull'efficacia di metodi quali l'EMDR.
In questo senso, dovresti chiarire meglio come sono
integrabili concetti come:
con quello che scrivi nell'ultima mail:
Allora, questa benedetta ricerca, la possono fare
solo i "parrocchiani" o, non esistendo parrocchie, la può/deve
fare chiunque? Oppure ci si deve limitare ad una valutazione soggettiva
ed aneddotica da parte del clinico ("Per il momento non credo
si possa fare molto di più che offrire testimonianze personali,
che saranno ritenute più o meno credibili")? Infatti,
dicendo così, o apri la strada ad una "incommensurabilità
strutturale" ai differenti sforzi epistemologici in psicoterapia
o, più semplicemente, sostieni che le reciproche "narrazioni"
della psicoterapia non possono trovare punti di contatto tra appartenenti
a scuole diverse. Cosa che mi stupisce, proprio perché so quanto
invece sei lucido nell'argomentare sul tema dell'integrazione psicoterapeutica.
Secondo me, invece, il valore della ricerca sulla psicoanalisi ha
tanto valore per gli psicoanalisti quanto per i non psicoanalisti;
ed anzi, ha forse più valore per gli psicoanalisti quanto più
ciò li obbliga a confrontare ed integrare la loro "narrazione"
della psicoterapia con chi psicoanalista non è.
Allo stesso modo, la ricerca sull'EMDR può
avere valore per gli EMDResi quanto per i non EMDResi chiamati a confrontarsi
su questo tema. Anzi, il paragone è forse distorto, perché
a mio parere sono chiamati in causa due diversi livelli. Nella verifica
empirica in psicoanalisi sono in gioco diversi aspetti: l'efficacia
della tecnica, i fondamenti della teoria della tecnica, le basi strutturali
della metapsicologia psicoanalitica. Questo è quindi un terreno
minato, ricco di opportunità di confusione.
Quello della verifica empirica dell'EMDR è
invece un altro paio di maniche: qui, al massimo, possiamo verificare
l'efficacia della tecnica. In questo senso, considero decisamente
errato accostare continuamente psicoanalisi ed EMDR: non per i contenuti,
ma proprio perché si tratta di due diverse dimensioni di concettualizzazione.
La psicoanalisi è un sistema teorico più o meno (più
meno che più) definito, che può integrare, nella prassi,
elementi di diversa provenienza. L'EMDR è una techné,
un processo tecnico che basa i propri assunti su concettualizzazioni
teoriche molto vaghe e poco definite... Non è una teoresi od
un "sistema di pensiero" (nel senso di sistema che aiuti
la pensabilità critica dei fatti clinici). Dunque, mi sembra
che non sia possibile liquidare il problema della verificabilità
di una tecnica come l'EMDR con questioni di quel tipo.
Più in specifico, laddove si riesca a strutturare
un'analisi di una prassi terapeutica dai risvolti teorici complessi
e fortemente intrisi di "semanticità" da decodificare,
a maggior ragione si può e si deve pretendere la stessa cosa
per metodi che non sono "paradigmi declinati nella prassi"
ma semplici "tecniche", applicazioni pragmatiche di processi
cognitivi elementari. Il punto di base mi pare infatti questo, e mi
sembra che nella mail di Tullio sia stato eccessivamente ridotto.
Ovvero, in diversi punti della mail sostieni che la tecnica dell'EMDR
non è esportabile "tout-court" da un contesto
all'altro, perché ogni sistema influisce ed è influenzato
da ogni elemento che in esso si integra (e fin qui siamo più
che d'accordo). In altri punti, però, mi sembra che contraddici
quanto appena detto, dichiarando che
Allora, questa tecnica dei movimenti oculari, a cui
tu stesso dici che si può sostanzialmente ridurre l'EMDR, può
essere esportata senza problemi, oppure no ? I movimenti oculari sono
un "trick" pragmatico che viene fuori da un vuoto
teorico, e come tali sono integrabili in qualunque sistema terapeutico?
Oppure hanno una teoresi alla base, che però tu scegli di ignorare,
e di riadattarli (come pura techné, distaccata dal suo
alveo originario) all'interno di un altro contesto di significato?
Ammetto che non mi sembra molto chiaro quando nello stesso paragrafo
scrivi che:
e poi aggiungi che:
per poi invece concludere che:
e nella tua ultima mail aggiungere ancora:
Cioè, sembri quasi alternare le due visioni
dei movimenti oculari come "tecnica ab-soluta da referenti teorici,
e dunque estraibile ed inseribile alla bisogna ovunque serva, come
un pezzo del Lego" versus "tecnica intrisa di semanticità,
e da riadattare ad ogni contesto in cui la si vuole esportare".
Ora, due riflessioni più pratiche. Osservare che con i movimenti
oculari sia possibile
è un enunciato "facilmente" verificabile,
in maniera anche molto più diretta e semplice della verifica
dell'efficacia di una psicoterapia: basta quantificare il numero di
libere associazioni o di "reasoning blocks" prodotti
da soggetti durante sedute condotte con l'ausilio di questa tecnica,
e senza. Ci sono ovviamente una serie di altri problemi, ma un'osservazione
del genere dovrebbe essere una delle più "semplici"
ed intersoggettive di tutte. Non posso condividere quindi affermazioni
quali:
Già una verifica del genere sarebbe un buon
esempio di verifica empirica dell'EMDR, ed avrebbe la sua importanza.
Se l'EMDR od il metodo dei movimento oculari è una tecnica
"indipendente dal contesto", allora è più
che possibile applicarvi una "ricerca indipendente". Sul
fatto che poi i movimenti oculari siano correlati con un'intensa elaborazione,
già la PNL notava che certi tipi di movimento oculare (guardare
a destra, a sinistra, in alto, in basso, ecc.) sono legati a particolari
tipi di processi cognitivi (rievocare un evento, pianificare un progetto,
esperire un mood depressivo...). Con i movimenti oculari si
forzerebbe un processo cognitivo elementare già ben conosciuto;
in questo non ci vedo niente di eccezionale, ma al massimo una piccola
ed ingegnosa tecnica, un "trick", un trucchetto pratico
che, come già si diceva, può essere utile in particolari
momenti di un contesto psicoterapeutico più ampio, ma che non
può andarlo a sostituire. Da qui a farci una forma di psicoterapia
sopra...
C'e' però da notare un'ulteriore cosa: molti
studi sono critici proprio in relazione alla reale utilità
dei movimenti oculari, che tu proponi di oggettivizzare e distinguere
dal resto del retroterra "teorico" dell'EMDR (per una review,
vedi J.M. Lohr, S. Lilienfeld, D. Tolin, J.D. Herbert, "Eye Movement
Desensitization and Reprocessing: An analysis of specific versus nonspecific
treatment factors", Journal of Anxiety Disorders, 1999,
Vol 13 (1-2): 185-207). Per molti, i movimenti oculari in sè
sono un'aggiunta di scarso rilievo, che non influisce direttamente
sull'efficacia del metodo. Ed allora, chiedo, che cosa può
rimanere?
Un fattore da non dimenticare è che, soprattutto
negli USA, l'EMDR è diffuso ed insegnato anche tra counsellors,
social workers e simili... e come già si diceva, inizia
a capitare di vedere sulla scena di un disastro più consulenti
che vittime... La diffusione quasi "pubblicitaria" di eccezionali
statistiche di successo non mi sembra mirante ad un approfondimento
critico del discorso scientifico, ma solo ad una maggiore diffusione
del metodo, con tutto quello che ne può conseguire.
Una nota relativa alle segnalazioni della Dr.ssa Fernandez.
Per quanto riguarda la sua poderosa comunicazione bibliografica, girata
dalla lista IPSICO, ringraziandola
per quanto riguarda il materiale indicato, che nei prossimi giorni
avremo tutti sicuramente la possibilità di analizzare con più
calma, vorrei esprimere due osservazioni: ad occhio, noto che nella
bibliografia sono stati inseriti anche articoli che in realtà
sono relativi a ricerche che non hanno ottenuto risultati positivi;
in secondo luogo, mi stupisce che scriva che "nella traduzione
italiana dello Yule non sia stato aggiornato il capitolo relativo
all'EMDR": il testo originario risale infatti appena al 1999,
e mi sembrerebbe molto strano che Yule, dopo avere espresso i suoi
forti dubbi sul metodo l'anno scorso, quest'anno avesse così
repentinamente cambiato idea da dover scrivere una seconda versione
di quel capitolo. Ovviamente è possibile; per adesso mi limito
ad appuntarmi il fatto che lo stesso Yule il mese scorso avrebbe dichiarato
di usarlo regolarmente con i bambini.
In relazione alla sua ultima mail:
Mentre è opportuno segnalare che un'affermazione
del genere (84%-100% di successi in 3 sedute) è di portata
enorme, vorrei far notare che di studi che pubblichino tali percentuali
ce ne sono molto pochi; in particolare credo che la Dr.ssa Fernandez
si riferisca a quelli citati nella sua penultima mail:
Generalizzare ed utilizzare in maniera così
poco prudente i risultati di studi su una manciata di soggetti (e
dunque dotati di scarsa validità esterna) mi sembra rischioso,
vista l'abbondante letteratura che invece non è riuscita a
replicare questi lavori. In questo senso, i risultati positivi ottenuti
in questi lavori dovrebbero essere considerate più uno stimolo
per ulteriori ricerche sui meccanismi di funzionamento ed i fattori
correlati al successo terapeutico, che "prove ab-solute"
di efficacia. In questo senso, siamo ben lontani dal poter "liquidare"
il discorso sull'efficacia con affermazioni di principio:
Proprio data l'ambiguità di questi dati è
necessario tenere aperto questo campo di confronto.
Un'ultima nota. La Dr.ssa Fernandez scrive:
Lo studio SPECT condotto finora, ed a cui la Dr.ssa
Fernandez faceva riferimento anche l'ultima volta (quello che aveva
sollevato le mie perplessità sulla "evidenziabilità
tramite neuroimaging della diminuzione di ricerche di minacce
immaginarie nell'ambiente") è quello di Levin, Lazrove
e van der Kolk (1999), di cui riporto l'interessante abstract:
Come si vede:
1) Non è certo dalla SPECT che si evidenzia
una "migliore differenziazione tra minacce reali ed immaginarie";
2) I risultati della SPECT non convalidano affatto
quanto sostenuto dalla teoria dell'EMDR: non vi è maggiore
"attivazione" dei due emisferi; a livello di sistema limbico
non vi sono riduzioni di attivazione; viene iperattivato il lobo frontale
sinistro, coinvolto probabilmente nell'elaborazione cognitiva "superiore".
Mentre condivido in pieno l'utilità di:
In sintesi, credo che il terreno della definizione
di cosa sia l'EMDR, di come funzioni e di cosa faccia realmente e
di "se funzioni" sia, di fatto, molto aperto. Grazie per
gli stimoli ricevuti finora, e saluti a tutti.
e poi suggerisco che
Intendo dire che la tecnica dei movimenti oculari,
estratta dal contesto in cui la Shapiro l'ha inserita, a mio parere
non si può legittimamente chiamare EMDR. Io per esempio applico
quella tecnica abbastanza spesso nel mio lavoro, ma non dico che pratico
EMDR. Perché? Perché se lo dicessi, e poi dichiarassi
di ottenere in tal modo dei risultati significativi, questo potrebbe
essere preso come una affermazione di validità dell'EMDR, mentre
se dichiarassi di non ottenerli, mi si obietterebbe ovviamente che
non pratico una "vera" EMDR. E' una cosa che ho sentito
dire più volte da terapeuti EMDR: "questa critica all'EMDR
non è accettabile, perché si riferisce a trattamenti
che non sono stati eseguiti secondo il metodo insegnato nella nostra
scuola". Quindi una cosa non è EMDR (o psicoanalisi o
quello che vuoi) o perché è fatta da persona che non
ha ricevuto una formazione autorizzata dalla scuola ufficiale, o perché
comporta modificazioni rispetto al metodo standard che la scuola non
riconosce. Già trent'anni fa era normale trovare colleghi nei
gruppi di supervisione che storcevano il naso e dicevano "questa
non la chiamerei psicoanalisi". Oggi il clima è cambiato.
Ci sono centinaia di modi diversi di intendere la parola "psicoanalisi",
ma ormai c'è un gentlemen's agreement per cui si può
fare. Ognuno usa la parola a modo suo, e sono tutti contenti. Se l'EMDR
esisterà ancora fra un secolo, sarà probabilmente lo
stesso.
In ogni modo, non darei troppa importanza alla questione.
Per me, isolare un elemento dall'EMDR (o dalla psicoanalisi, o da
quello che vuoi), non significa fare ricerca "sull'EMDR".
Significa fare ricerca su quell'elemento, che è stato particolarmente
valorizzato dall'EMDR, ma che esisteva anche prima e che può
avere un valore molto diverso se estratto da quel contesto particolare
per essere inserito in un contesto diverso. Se però qualcuno
preferisce pensare che questa sia "ricerca sull'EMDR" (o
su quello che vuoi), non ho obiezioni: per me sono quisquilie.
Vediamo l'altra obiezione:
Dov'è il problema? Qualsiasi tecnica, non solo
quella dei movimenti oculari, acquista significati diversi a seconda
del contesto in cui è inserita. Per esempio io ho notato che
questa tecnica può essere usata come uno strumento esplorativo
in certi momenti, e come modalità di "holding"
in altri; inoltre può essere intesa e utilizzata dal paziente
in un dato modo quando il terapeuta intendeva usarla in un altro (come
regolarmente avviene con qualsiasi tipo di intervento). Non esiste
una tecnica o un'azione neutra: qualsiasi cosa si faccia o non si
faccia acquista significati diversissimi a seconda della situazione
particolare in cui l'azione o la non azione avviene. Questo vale anche
per la somministrazione di un farmaco. Somministri un antidepressivo,
e puoi ottenere gli effetti più diversi, in dipendenza di una
quantità di fattori. Questo non significa che a quella molecola
non si possa attribuire un'azione "media": quella che si
può ragionevolmente attendere se somministrata in un certo
dosaggio a una persona che soffre di un certo disturbo. Lo stesso
vale per una tecnica comportamentale come quella consistente nel guidare
lo sguardo di un paziente da una parte all'altra del campo visivo.
Osservavo che <<allo stato attuale è molto difficile
fare delle affermazioni empiricamente fondate sulla tecnica dei movimenti
oculari, come su qualsiasi altra tecnica psicoterapeutica>>:
ma non ho mai detto che uno studio empirico su questa o qualsiasi
altra tecnica non si possa fare. Sono studi a mio parere abbastanza
complessi, perché devono tener conto di molte variabili, ma
che si possono e direi anche si debbono fare. Secondo te
A me non sembra così facile. Per esempio prova a chiedere a una dozzina di psicoanalisti una definizione operativa di "libere associazioni", e vedi che cosa viene fuori. Certo non è difficile pensare a delle ricerche di laboratorio in condizioni standardizzate. E' difficile invece studiare l'effetto di una tecnica nelle sedute reali (audio o video registrate), in cui le variabili sono numerosissime, oppure applicare dati ottenuti in laboratorio alla terapia reale. Non dico che queste cose non si possano fare. Dico solo che è difficile. Non per niente tutto quello che la ricerca in psicoterapia ha prodotto fino a oggi è il verdetto di Dodo, o poco più. 6 Dec. 2000, From: Luca
Pezzullo:
Caro Tullio, ti ringrazio della tua risposta, che
effettivamente mi chiarisce alcune di quelle che mi sembravano ambiguità
delle tue due ultime mail. Diciamo che forse esistono due ordini di
problemi: uno conoscitivo, ed è quello che affronti tu. Poi,
come per ogni forma di psicoterapia, ci possono essere interessi di
altro tipo: di affermazione, di prestigio, di riconoscimento/accreditamento
ecc... in questo senso, è ovvio che i sostenitori di un metodo,
qualunque esso sia, premeranno perché le "ricerche sul
metodo" vengano svolte, possibilmente, con una metodologia che
favorisca l'emergere di risultati positivi. Ovviamente una validazione
dovrebbe essere riferita in primo luogo alla psicoterapia "as
a whole".
Ed in questo senso, venendo all'altra obiezione (quella
della "contestualizzazione di una tecnica all'interno di un metodo,
il fatto che un pezzo di un metodo non può essere trapiantato
in un altro metodo e pensare che sia la stessa cosa" ecc.), ti
vorrei chiedere: per te, le "psicoterapie" sono solo un
aggregato di tecniche giustapposte, o sono contesti di strutturazione
per una serie di prassi, comunque preorientate dalla metateoria sottostante
? Perché nel primo caso è allora possibile "estrarre"
una parte del sistema e riapplicarlo senza troppi problemi in un altro
contesto; nel secondo, questa operazione diviene problematica, perché
non puoi veramente dire che una tecnica nata e sviluppatasi in un
preciso ambito possa poi facilmente divenirne avulsa e riapplicata
all'esterno. Indirettamente, valutando una "techné"
valuti anche l'alveo che l'ha generata. Penso ad esempio all'utilizzo
delle griglie di repertorio kellyane fuori dall'ambito costruttivista
(ad esempio, negli studi di Knowledge Management): certo, è
possibilissimo... però applicandole in quel modo si perde la
dimensione fondamentale per cui erano state sviluppate (lo studio
delle dimensioni semantiche soggettive).
Uno psicoanalista kleiniano può anche usare
l'MMPI nella sua prassi quotidiana... ma quale senso può avere
un'azione del genere, provenendo l'MMPI dal contesto storico-epistemologico
della psicologia dei tratti, e l'approccio kleiniano dalla psicoanalisi?
Certo, poi è possibile "adattare" una tecnica ad
un altro sistema teorico... ma l'operazione preliminare è quella
del riconoscere a partire da quale "struttura teorica-epistemica
latente" la tecnica è emersa e si è sviluppata;
altrimenti, a mio modo di vedere, si fa solo "confusione"
e "giustapposizione" di mele con pere (anche se so benissimo
che mele e pere sono costituite dagli elementi base simili... le cellule
di una sono simili a quelle dell'altra... ma forse quello è
un livello "troppo" di base !).
Sulle difficoltà della verificabilità sono d'accordo... anche se il tema della "pragmatica della verifica" e di tutte le influenze dirette ed indirette dei fattori coinvolti in essa rimane a mio avviso centralissimo... :-). Ciao. 9 Dec. 2000, From: Tullio
Carere:
Caro Luca (Pezzullo), rispondo alla tua domanda:
Le psicoterapie non sono mai semplici aggregati di
tecniche, nemmeno quando il terapeuta dichiara di praticare l'eclettismo
"ateoretico". Per esempio Alberti [Alberti, G.G., Il futuro
delle psicoterapie come processo integrativo. Riv. Sper. Freniatria,
1997, 121, 456-477], studiando una serie di casi di presunto eclettismo
tecnico o ateoretico, è giunto alla conclusione che "l'eclettismo
tecnico non è una pura combinatoria di tecniche eterogenee,
ma è sempre un modo di curare in cui una certa particolare
visione di patogenesi e terapia incorpora tecniche di diversa provenienza
reinterpretandole nei propri termini teorici e finalizzandole al proprio
obiettivo". Tutt'al più può accadere che il terapeuta
non sia consapevole della teoria che è operante nella sua mente
in un dato momento, nel qual caso la sua condizione è del tutto
sovrapponibile a quella del paziente.
Di conseguenza, una tecnica teoreticamente neutra,
e come tale esportabile in contesti diversi da quello in cui è
nata mantenendo lo stesso significato e valore, semplicemente non
esiste. Come ho detto in precedenza, una tecnica non mantiene costante
il proprio significato nemmeno nel contesto in cui è nata,
nemmeno se è applicata da un terapeuta fermamente intenzionato
ad applicarla nel modo più ortodosso, perché il più
ortodosso dei terapeuti non può impedire al suo paziente di
attribuire alla tecnica in questione i suoi significati personali,
che possono essere molto diversi da, e anche opposti a, quelli intesi
dal terapeuta. Non solo: il più ortodosso dei terapeuti non
può impedire nemmeno al suo stesso inconscio di interferire
nell'azione coscientemente deliberata, con un'attribuzione di significati
anche in questo caso divergenti da quelli coscientemente intesi.
A causa di considerazioni come quelle sopra svolte,
il concetto di neutralità terapeutica o analitica è
caduto in largo discredito. Sin troppo largo, a mio parere. Perché
se è verissimo che il concetto tradizionale di neutralità
è ingenuo e illusorio, non si può dire lo stesso del
concetto di *neutralizzazione*, che è invece basilare in qualsiasi
operazione che voglia essere terapeutica. Intendo dire che va bene
prendere atto del fatto che ogni nostra esperienza è intrisa
di teoria; ma se da questo poi si passasse ad affermare che nessuno
può uscire dalla "gabbia" teorica in cui le circostanze
lo hanno, o lui stesso si è, cacciato, e tutto ciò che
onestamente si può fare è dichiarare in quale gabbia
uno ha stabilito la propria residenza (vedi dibattito sul tema su
PM-PT), tanto varrebbe smettere subito di parlare, perché da
una tale visione non potrebbe discendere alcuna vera "comunicazione"
(nel senso di ritrovarsi in uno spazio comune), o alcun vero "dialogo"
(nel senso di un parlare in cui l'ego dei parlanti si ritrae perché
possa parlare il logos). E se non c'è comunicazione
o dialogo, come potrà mai esserci terapia?
Si esce da questa impasse, per quanto ne so, solo
con un processo continuo di neutralizzazione, cioè di presa
(a) di coscienza dei, e (b) di distanza dai, propri presupposti teorici.
Questo vale non solo per la terapia, ma a maggior ragione per la ricerca.
Come giustamente affermi,
Appunto, una ricerca attendibile non può essere
una ricerca di scuola (che per definizione non ha preso adeguata distanza
dai propri presupposti, ma al contrario se ne identifica saldamente
e cerca di dimostrarne la bontà). Dobbiamo cominciare a pensare
alla psicoterapia "as a whole", come dici tu, o "tout
court", o "senza aggettivi", come dicono altri.
E' un'impresa a mio parere necessaria ma tutt'altro che semplice,
dal momento che andiamo incontro a problemi epistemologici formidabili.
Già il fatto che se ne parli è comunque un buonissimo
segno, insperato fino a qualche anno fa.
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