- Dibattito su "Farmaci e psicoterapia"
- avvenuto nella lista "Psicoterapia"
- di PSYCHOMEDIA (PM-PT)
-
nel marzo-aprile 1999
-
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del Dibattito, avvenuto nell'aprile-maggio 2000
- 25 Marzo 1999, Piero Porcelli:
- Il 24/03/1999 Gennaro Esposito ha scritto:
- >Questa e-mail propone problematiche che potrei definire opposte a quella
- >sollevata a proposito di "psicologi e farmacoterapia". Attendo commenti.
- >Il mio è: se lo psichiatra fa "un'analisi" che bisogno c'è di
- >prescrivere anche un farmaco?
-
- Le mie 100 lire di commento:
- Non penso che farmaci e psicoanalisi siano antitetici: il farmaco viene
prescritto e assunto dal
-
paziente all'interno di una relazione terapeutica, e
quindi ha forti connotazioni transferali.
-
Analizzare la relazione, e tutti i suoi
contenuti, è ciò che gli analisti fanno di mestiere.
-
Quindi ritengo che il
problema non sia "che" il paziente prenda i farmaci ma "come" viene
-
gestita
la terapia farmacologica all'interno della relazione terapeutica
-
- Riguardo alla affermazione:
- >A meno che non sia cognitivista... mah?!:
-
- Se la situazione è clinicamente definita, che differenza fa se il terapeuta
è analista o cognitivista?
-
Voglio dire, se il paziente ha, mettiamo, un
disturbo depressivo maggiore per cui si pone
-
indicazione clinica al
trattamento antidepressivo, quale può essere la differenza fra una
formazione
-
cognitivista ed una analitica da parte dello psicoterapeuta?
-
- 25 Marzo 1999, Gennaro Esposito:
- Premetto che non sono analista, ma gli analisti che ho conosciuto hanno
- sempre affermato che dare i farmaci equivaleva a rompere il setting, o
- qualcosa del genere...
- Personalmente sono d'accordo con te, tutto dipende dalla relazione e non
- dall'orientamento... giusto!
- In conclusione: l'"analista-medico" deve richiedere una consulenza
- psichiatrica tout court solo perché è analista, o non è ammissibile
- porre delle regole a proposito, cioè tutto dipende dalla relazione
- terapeutica nella quale si va ad inserire una proposta/richiesta di
- terapia farmacologica?
- da buon cognitivista non ho problemi a riguardo: associo le due strategie.
- E gli analisti? Che farebbero o fanno?
- Grazie Piero. Passo...
-
- 26 Marzo 1999, Paolo Roccato:
- Essendo fra i chiamati in causa, cerco di rispondere.
- Non è affatto detto che l'uso di psicofarmaci sia antitetico al trattamento
- psicoterapico o psicoanalitico, a meno che non si abbiano concezioni
- feticistiche della psicoterapia o degli psicofarmaci.
- Che sia lo stesso operatore, invece, che faccia lo psicoterapeuta e
- contemporaneamente il prescrittore di psicofarmaci con lo stesso paziente è
- cosa, io credo, da evitare, se ciò è possibile, altrimenti c'è il rischio
- che nelle sedute di psicoterapia si parli di milligrammi anziché di esperienze.
- O che si riduca l'interesse per le esperienze al solo decidere i milligrammi.
- Per questo motivo è utile, se possibile, che lo psicoterapeuta, o lo
- psicoanalista, invii ad un collega per l'eventuale cura farmacologica, e che
- lo psichiatra che sta prescrivendo farmaci invii ad un collega per
- l'eventuale psicoterapia. Si tratta di livelli differenti che possono
- collassare se si passa dall'uno all'altro, confondendoli. E la tendenza
- umana a proteggersi dall'angoscia può spingere il terapeuta a passare
- dall'un livello all'altro senza accorgersene, favorendo l'uso di difese
- della serie dell'evitamento, che comprometterebbero il lavoro psicoterapico.
- Io, pertanto, invio ad altri per la terapia farmacologica i miei pazienti in
- analisi o in psicoterapia. So che l'inconscio c'è anche in me, e che
- spesso, anche in me, può far di tutto pur di non entrare in risonanza col
- dolore e con l'angoscia, senza che me ne accorga, se non, magari, dopo.
- Cordiali saluti.
-
- 26 Marzo 1999, Emilio Vercillo:
- Vorrei chiedere a Roccato se fa rientrare nell'evitamento il passare dal
- piano dell'interpretazione a quello dei "milligrammi" (che potrebbe essere
- però anche quello dei sintomi e della psicopatologia), o considera anche
- il passaggio inverso un evitamento, dato che la sua frase sembrerebbe
- intendere questo.
- Per il resto: preferisco anch'io dividere le funzioni, inviare a un collega
- psicofarmacologo (possibilmente non psicoanalista, data la difficile
- compresenza delle due competenze), un paziente nei cui confronti io mi
- assuma il ruolo del psicoterapeuta. Lo faccio perché non mi ritengo sicuro
- personalmente di riuscire a gestire con intelligenza e abilità i due
- momenti, quello analitico e quello farmacologico: si tratta in fondo di due
- modi di far funzionare la propria mente, assolutamente non antitetici,
- ritengo, ma comunque differenti.
- Non penso ci sia una controindicazione assoluta nell'assommare le due
- funzioni nella stessa persona, e conosco persone, con maggiore esperienza
- e abilità delle mie, farlo con profitto dei pazienti. Si tratta di
- psichiatri psicoanalisti che non soffrono dei peccati originari della
- anelasticità e dell'integralismo. Cari saluti
-
- 27 Marzo 1999, Paolo Migone:
- Il 25/03/99 Gennaro Esposito ha scritto:
- >premetto che non sono analista, ma gli analisti che ho conosciuto hanno
- >sempre affermato che dare i farmaci equivaleva a rompere il setting, o
qualcosa del genere...
- >Personalmente sono d'accordo con te [Piero Porcelli], tutto dipende
- >dalla relazione e non dall'orientamento... giusto!
-
- A mio parere la questione dei farmaci + psicoterapia è interessante solo
- perché rivela la cultura, la teoria psicoterapeutica, a monte di chi solleva
- il problema (per una trattazione più dettagliata
- di questo argomento, vedi il lavoro, che è anche su
Internet,
- "L'associazione tra psicoterapia e farmaci: perché discuterne
ancora?").
- Chi si chiede se e come è possibile combinare farmaci e
- psicoterapia già tradisce il fatto che, sempre a mio parere, utilizza una
- teoria che io definirei "antipsicoanalitica". Il farmaco è un input
- nell'organismo che, come ogni altro input, ha ogni tipo di effetti, sia
- "biologici" che "psicologici" (placebo, non placebo, ecc.). Dovremmo
forse
- rifiutare di prendere in analisi un paziente che ha il brutto vizio di
- prendere un caffè al mattino? Il caffè è un farmaco con effetti specifici.
- Dovremmo interpretare quella stimolazione psichica da lui ricevuta dal caffè
- come dovuta al transfert? Solo al transfert? In parte al transfert e in
- parte al farmaco-caffè? Solo al caffè? Ma non sono questi i problemi
- quotidiani dello psicoanalista? E che dire della donna in tensione
- premestruale e quindi depressa e tesa? E' influenzata (solo) dal transfert?
- Essendo affetta da una condizione "organica", dovremmo allora interrompere
- subito l'analisi e inviarla ad un medico? E così via.
- Subito si obietterà che certi input li fornisce l'analista e che quindi
- sono diversi da quelli forniti da altri (vedi la questione della "divisione
- del lavoro" tra analista e farmacologo: inviare il proprio paziente a uno
- psicofarmacologo per fare un lavoro "pulito"). Anche questo ragionamento a
- mio parere rivela la concezione "antipsicoanalitica" sottostante, che è
- sempre la stessa: non usare l'interpretazione, ritenere che l'intepretazione
- sia già data, già implicita nei dati da interpretare, sia cioè iscritta nel
- dato comportamentale, come appunto nella psicologia "comportamentistica".
- E' una psicologia di tutto rispetto, ma non è psiconanalitica, rientra in una
- sorta di "teoria delle etichette". Perché mai l'effetto di un farmaco dato
- da un altro sarebbe, o non sarebbe, interpretabile (avrebbe un
- significato dato a priori?), o sarebbe necessariamente diverso dall'effetto
- dello stesso farmaco dato da me, senza contare che sono stato io a
- consigliare al paziente di rivolgersi a quello psicofarmacologo? Sicuramente
- sarà diverso, perché l'effetto placebo può essere diverso, a seconda di come
- viene somministrato (ma anche a seconda di chi invia al somministratore, del
- modo con cui avviene l'invio, e delle giustificazioni date per l'invio,
- ecc.). Perché uno o più di questi aspetti deve essere eliminato dal campo
- interpretativo? Perché non potrebbe essere arricchente anche analizzare gli
- effetti (placebo e non placebo, transferali e non, ecc.) di un farmaco dato
- da me? (così pure come analizzare la reazione ai farmaci dati da altri).
E così via.
- Inviare il proprio paziente a uno psicofarmacologo per i farmaci secondo me
- sarebbe giustificato solo dal fatto che il terapeuta non può dare farmaci o
- si ritiene non abbastanza aggiornato. Vi è chi argomenta che fare tutte e
- due le cose insieme è "più difficile": questo a prima vista sembrerebbe un
- ragionamento convincente, ma rivela solo la illusione che la "analisi
- normale" sia "facile", "pulita", tratta dati "psicologici
puri" (vedi
- l'antico mito della "analisi classica", dove si rispetterebbe il setting).
- Anche dietro a questa posizione vi è una concezione antipsicoanalitica: il
- dato psicologico (o somatico) non viene così scoperto o interpretato, ma è
- conosciuto a priori, tramite un pregiudizio, e l'analisi è solo una
- razionalizzazione delle idee preconcette dell'analista o della sua malcelata
- cultura behavioristica di appartenenza (o forse anche di una cultura
- filosofica basata sul dualismo corpo-mente). (perdonate le mie
- estremizzazioni, lo faccio per trasmettere meglio l'idea di quello che
voglio dire).
- Per riassumere: non si capisce come mai il farmaco in quanto tale dovrebbe
- appartenere ad una categoria logica diversa da quella di qualunque altro
- intervento o evento sia dentro che fuori al setting (stringere la mano al
- paziente, tossire, ridere, essere depressi o felici, NON DARE UN FARMACO invece
- di
darlo, avere una poltrona comoda o scomoda, avere il mal di testa per il fumo del
sigaro
- dell'analista, o invece amare quel fumo, ecc.). Il fatto che una certa tradizione
psicoanalitica
- abbia teorizzato nel modo
sopra citato da Esposito non sorprende affatto, esistono molte
-
"tradizioni
psicoanalitiche", alcune opposte alle altre, ed è sempre meglio non seguire
- pedissequamente quello che dicono altri (magari ricorrendo all'uso della
- citazione), ma usare la propria testa, la propria logica, motivando fino in
- fondo i ragionamenti che stanno dietro alla teoria della tecnica.
-
- 27 Marzo 1999, Giobatta Guasto:
- Caro Paolo, dalle righe che ho riportato, chi non sia abituato a leggerti, potrebbe
essere indotto
- a pensare che tu usi un tono di supponenza nei confronti di teorie
psicoanalitiche che consideri sbagliate
- o "antipsicoanalitiche",
(concetto questo, che mi fa sentire vicino al tuo modo di pensare, anche se
- é indubbiamente molto difficile distinguere ciò che é psicoanalitico da ciò
che non lo é,
-
in salutare lontananza da qualsiasi Chiesa che pretenda di
amministrare il Verbo),
- Il fatto che "una certa tradizione psicoanalitica" sostenga cose
- contestabili, rivedibili, o rifiutabili in toto, non può e non deve
- sorprendere, perché é del tutto normale. Ciò che non ci piace può
- (anzi deve) essere rifiutato, ma non é detto che non sia fondato su ragioni
- più che rispettabili (quasi sempre storicamente determinate).
- Tu hai posto il problema della (presunta?) incompatibilità tra psicoanalisi
- e cura farmacologica. Essa non é fondata soltanto, a mio avviso, sugli
- aspetti di inanalizzabilità ai quali ti riferisci (e con i quali concordo:
- riteniamo non analizzabile tutto ciò che non comprendiamo, e fino a che non
- l'abbiamo compreso, a cominciare dal Freud che non riteneva analizzabili
- gli psicotici e i bambini).
- Mi pare che dalla tue osservazioni manchi l'aspetto dell'agito e del
- contro-agito, che in caso di contemporanea somministrazione farmacologica
- diventa particolarmente difficile da gestire.
- Di solito noi terapeuti affidiamo ai farmaci parti dei contenuti mentali
- che non raggiungono al nostro interno un sufficiente grado di
- rappresentazione: il ricorso a questi degnissimi strumenti terapeutici é
- spesso lo specchio del nostro grado di comprensione di quanto sta
- avvenendo all'interno del paziente.
- D'altra parte, anche i pazienti ci sollecitano a questa scelta: tutti noi
- abbiamo esperienza di persone che ci chiedono prescrizioni o ricorrono a
- farmaci, per tentare inutilmente di evitare l'angoscia della tensione
- relazionale, per mettersi dentro qualcosa che non parli, per addormentare
- la loro voce interiore, per tenerci in tasca, per portarci via per il fine
- settimana, per tenerci sul comodino e richiamarci a loro piacimento, ecc.
- So di dire cose banali e scontate, ma il livello della discussione sulla
- rete varia molto, e ogni tanto é utile per tutti tornare ai concetti di base.
- Uno di questi riguarda certamente l'accumularsi della tensione nel
- terapeuta, e la conseguente prescrizione del farmaco per fuggire da una
- situazione di grave imbarazzo, connotata dal non sapere che cosa dire o
- fare. Non avere il farmaco a disposizione impedisce al terapeuta questa via
- di fuga: non é meglio così? Saluti
-
- 27 Marzo 1999, Paolo Migone:
- Vedo che tu innanzitutto poni la questione non in termini netti (si può fare
- - non si può fare), ma nella categoria del "difficile-facile". Nella mia
- mail io contestavo anche questo, nel senso che così si rischia di dare per
- scontato che il "difficile-facile" riguardi solo gli agiti delle
- prescrizioni farmacologiche e non i mille altri agiti, che invece sarebbero
- ingenuamente ritenuti "facili" da analizzare. Io ritengo che non vi sia
- alcuna differenza tra agiti, tutti sono difficili o facili, a seconda di
- vari fattori ([contro]transferali, ecc.). Ad esempio, prendiamo, tra i
- tanti, due tipi di agiti: 1) quella che possiamo chiamare "razionalizzazione
- psicofarmacologica", cioè il parlare di farmaci per evitare altre cose (come
- tu giustamente sottolinei); 2) quella che possiamo chiamare
- "razionalizzazione psicoanalitica", cioè una serie di elucubrazioni
- metapsicologiche (edipi vari ecc.) campate per aria, totalmente frutto della
- mente dell'analista per calmare la sua ansia e per far deviare
- difensivamente il paziente su altri temi. Sono questi agiti quelli di gran
- lunga più frequenti, soprattutto perché molti pensano (difensivamente) che
- gli agiti sono altri, quelli farmacologici. Se non fosse così, non si
- porrebbe mai il problema della combinazione farmaci+psicoterapia, ma si
- parlerebbe solo della questione degli agiti in quanto tale, come concetto.
- Non a caso molti continuano a parlare (secondo me in modo imbarazzante
- perché senza accorgersene tradiscono il loro retroterra teorico) dei
- problemi posti dalla combinazione farmaci+psicoterapia, tema che in quanto
- tale è privo di senso.
- Riguardo poi alla questione, che tu poni, secondo cui i farmaci impedirebbero
- al terapeuta una via di fuga, per cui sarebbe meglio non averli a disposizione,
- ritengo che se deve esserci una via di fuga essa ci sarà sempre,
- l'analista per primo la utilizzerà, perché ha mille opportunità per farlo,
- nei modi a cui ho accennato prima e in tanti altri modi. Il punto
- fondamentale che volevo sottolineare è che è un ragionamento
- "antipsicoanalitico" attribuire a priori una determinata valenza (es.
- difensiva) a una via di fuga e non a un'altra. E' questo modo di trattare i
- dati (interpretandoli prima di conoscerli, tramite uno stereotipo culturale)
- quello che è squisitamente non psicoanalitico. Per farti capire meglio: se
- quello che io dico non fosse vero, nessuno parlerebbe mai del problema
- della combinazione farmaci+psicoterapia, perché non esisterebbe in quanto
- tale (in altre parole, i farmaci in quanto tali possono essere o non essere un agito,
-
così come qualunque altra cosa, per cui non si parlerebbe di quelli,
- se non per fare un esempio - se lo è - di un qualunque agito).
- (vorrei ricordare che il termine "antipsicoanalitico", anche se lo ritengo
- logicamente corretto, viene da me qui usato volutamente in modo
- provocatorio, per mostrare meglio la contraddizione interna di certi discorsi).
- Grazie del tuo commento
-
- 27 Marzo 1999, Giobatta Guasto:
- Hai ragione. Io, però, dal mio canto, ho imparato da alcuni maestri ad
- eliminare tutto quanto può essere d'intralcio, e non ho ancora, se non in
- misura molto limitata, trovato utile rinunciare a quelle opzioni. E' una
- presa d'atto dei propri limiti. Altrimenti la psicoanalisi, come il
- digestivo Antonetto "si potrebbe prendere anche in tram" (il che é
- teoricamente possibile, ma molto, molto difficile).
-
- Quando poi dici:
- >Il punto fondamentale che volevo sottolineare è che è un ragionamento
- >"antipsicoanalitico" attribuire a priori una determinata valenza (es.
- >difensiva) a una via di fuga e non a un'altra. E' questo modo di trattare i
- >dati (interpretandoli prima di conoscerli, tramite uno stereotipo culturale)
- >quello che è squisitamente non psicoanalitico.
-
- sono completamente d'accordo. Per farti capire meglio: se
- >quello che io dico non fosse vero, nessuno parlerebbe mai del problema
- >della combinazione farmaci+psicoterapia, perché non esisterebbe in quanto
- >tale (in altre parole, i farmaci in quanto tali possono essere o non essere un
agito,
-
- é vero, ma una volta che hai iniziato a prescriverli, devi continuare
- secondo il "loro" paradigma, e non secondo le necessità interpretative.
- Riguardo al tuo commento:
- >(vorrei ricordare che il termine "antipsicoanalitico", anche se lo ritengo
- >logicamente corretto, viene da me qui usato volutamente in modo
- >provocatorio, per mostrare meglio la contraddizione interna di certi discorsi).
-
- é molto chiaro, ed é un concetto utile.
-
- 28 Marzo 1999, Gennaro Esposito:
- Scusate, cari Colleghi, se riporto in questa interessante discussione su
- "farmaci e psicanalisi" la replica dell'utente che mi ha contattato la
- prima volta il 24 marzo, e che mi disse che "aveva iniziato un'analisi"
- ma lo psichiatra "le aveva prescritto una terapia farmacologica già al
- primo incontro", sollevando le sue perplessità su questa proposta e i
- nostri dubbi/ipotesi sul termine "analisi", su "chi la conducesse",
- sull'eticità (possiamo dire così?) di proporre il farmaco insieme
- all'analisi. Ecco svelati i dubbi: la stessa utente mi ricontatta e racconta:
- (messaggio tratto da "Psicoterapeuta on the web" -
- sito di counseling on-line - 27 marzo 1999). Maria, 33 anni:
- >"Le avevo scritto il 24/3 per fugare alcuni dubbi sulla terapia
- >prescrittami dallo psichiatra. La ringrazio per la celerità con cui mi
- >ha risposto e per i suoi chiarimenti. Ora sono più serena per quanto
- >riguarda il mio approccio coi farmaci. Relativamente alla sua domanda se
- >lo psichiatra mi ha proposto una psicanalisi o una psicoterapia, posso
- >dirle (da profana) che mi ha consigliato di incontrare regolarmente uno
- >psicologo che mi aiuti a tirar fuori tutto quello che ho tenuto dentro
- >in questi anni (ho avuto una vita familiare molto difficile), perché
- >lui purtroppo non è abilitato a farlo".
-
- Davvero interessante, non credete?
- Lo psichiatra invia la sua paziente dallo "psicologo" (sarà analista?
psicoterapeuta?)
- perché dice "...non è abilitato a farlo..." (so che gli psichiatri
- sono stati tutti inseriti "d'ufficio" - anche se a domanda - negli albi
- degli psicoterapeuti), quindi è uno psichiatra "biologico" (termine
- provocatorio, come quello di Migone "antipsicanalitico"), che non se la
- sente di accogliere ciò che "la paziente ha tenuto dentro tutti questi
anni...".
- Quindi lo sconcerto della paziente è stato causato:
- a) dalla prescrizione ex-abrupto del farmaco al primo colloquio? (non si
- fida del farmaco o dello psichiatra?) oppure...
- b) dall'invio allo psicologo (psicoterapeuta?), vissuto dalla paziente come
- "ti scarico a qualcun altro"?
- Io chiederò all'utente come si è vissuto l'invio allo psicologo e cosa
- le è passato per la mente in quel momento.
- Questa domanda (e l'eventuale risposta di conferma dell'ipotesi
- invio=rifiuto) potrebbero chiarire meglio il rapporto che esiste tra chi
- chiede aiuto (paziente) e chi accoglie la domanda d'aiuto (psy-), a
- prescindere (in questo caso) se chi accoglie la domanda d'aiuto utilizzi
- o meno i farmaci associati al trattamento psicoterapico o sia o meno
- psicoterapeuta "legittimato".
- Ciò che conta, a parer mio, è accogliere in maniera globale la
- richiesta d'aiuto, magari evitando di proporre già nel primo incontro
- strategie terapeutiche combinate (come l'invio ad altro collega), senza
- prima aver favorito l'empatia paziente-terapeuta e strutturato una relazione
- "positiva" e "fruttuosa" per entrambi.
- Che ne pensate? Passo...
-
- 28 Marzo 1999, Piero Porcelli:
- Il 27/03/1999 Paolo Migone ha scritto:
- >Per riassumere: non si capisce come mai il farmaco in quanto tale dovrebbe
- >appartenere ad una categoria logica diversa da quella di qualunque altro
- >intervento o evento sia dentro che fuori al setting (stringere la mano al
- >paziente, tossire, ridere, essere depressi o felici, NON DARE UN
FARMACO
- >invece
di darlo, avere una poltrona comoda o scomoda, avere
- >il mal di testa per il fumo del sigaro dell'analista, o invece amare quel fumo,
ecc.).
-
- Concordo con Paolo sul farmaco come elemento di realtà, ma non so se
- possa essere considerato alla stregua di qualsiasi altro elemento o evento dentro o
-
fuori dal setting. Come su tante altre cose in questo mestiere, non
- ho idee chiarissime al riguardo e trovo molto istruttive le varie posizioni espresse.
- Durante la mia formazione analitica "di base", mi è stato continuamente
- ripetuto che bisogna separare chi dà i farmaci da chi fa l'analisi. Solo
- che, a questo livello, per me il problema non si è mai posto in questi
- termini perché sono uno psicologo e non do ovviamente farmaci. Ma il
- problema non è solo a questo livello, mi pare. Ed io, anche in questo caso,
- come già altre volte, non riesco a scindere il problema teorico da quello
- prettamente clinico.
- Nella mia esperienza gran parte dei miei pazienti prendevano e prendono
- farmaci. E nella stragrande maggioranza di questi, i pazienti tendono a
- includere nella stessa categoria logica le due esperienze nel campo psy ed i
- due terapeuti. Non sono la stessa cosa, ma appartengono allo stesso genere.
- Ciò, fra le altre cose, potrebbe significare che i due terapeuti abbiano
- funzioni diverse all'interno di un unico campo terapeutico, che è diverso
- da altri campi terapeutici come ad esempio il paziente che è seguito da un
- oculista (almeno a grandi linee, poiché il problema dei farmaci e della
- malattia organica si ripropone negli stessi termini nel campo "unico" della
- clinica psicosomatica). Il problema che mi si è sempre posto, visto da
- questa angolazione di "due funzioni in un unico campo", è: chi e come
- gestisce queste due funzioni?
- Mi sembra che la gestione del problema dipenda da due principi sovraordinati
- di integrazione versus scissione o dispersione. Faccio riferimento a questioni
- cliniche perché non riesco a discutere del problema senza aggancio alla clinica.
- Ho una paziente con un grave disturbo depressivo che non risponde ai farmaci
- e che dura da anni, rendendola progressivamente invalida a tutte le funzioni
- psicosociali normalmente svolte prima dell'insorgenza del disturbo. Ha
- cambiato molti psichiatri ed effettuato molte terapie farmacologiche, senza
- grandi risultati, ed ha anche effettuato altri due tentativi
- psicoterapeutici, di cui uno di tipo analitico "classico" (lettino, 3-4
- sedute settimanali, analista-mummia che non parla, ecc.) ed uno di tipo
- cognitivista. Indipendentemente dal problema depressivo, alla mia
- osservazione (ed ai test che le ho somministrato, MMPI-2 e Rorschach) la
- paziente ha un severo tratto narcisistico che si manifesta in maniera molto
- subdola con la sua fantasia inconscia di manipolare l'attenzione degli altri
- mantenendosi il più passiva possibile. Questo atteggiamento viene
- manifestato con tutti (famiglia, me, psichiatra) e si evidenzia in un
- sabotaggio sistematico di tutto ciò che la possa aiutare. Tanto per fare un
- esempio, ogni seduta inizia con un ostinato silenzio e la paziente che dice
- "allora, di cosa vuole che parliamo oggi? scelga lei, tanto è tutto uguale
- (nel senso che tutto fa schifo)". Poiché, come si può comprendere, gli
- "attacchi al setting" sono all'ordine del giorno, il mio primo problema è
- stato quello di "delimitare il setting", cosa che piano piano sta avvenendo.
- Lo psichiatra che la tratta vive in un'altra città ed appartiene ad un
- notissimo gruppo universitario. Fa controlli grosso modo mensili, ma
- puntualmente la paziente telefona per dire che sta malissimo per questo o
- quel sintomo (ansia, ideazione suicidaria, insonnia, ipersonnolenza,
- irrequietezza, ecc.) e parte per 1-2 settimane ogni 1-2 mesi per farsi
- osservare e tentare complicati (per me, ma solo per me?) cocktail di farmaci
- (assume circa 15 compresse al giorno di vario tipo). Lo psichiatra non
- condivide il fatto che la paziente venga da me, non perché ha qualcosa di
- personale contro di me ma perché ritiene più valida la terapia
- cognitivo-comportamentale mentre la psicoanalisi amplificherebbe la sua
- tendenza ossessivo-compulsiva. A me pare evidente che il gioco manipolatorio
- abbia campo libero con lo psichiatra, rimproverando me (più o meno
- velatamente) che non le credo abbastanza sul fatto che sta davvero male:
- infatti, il medico la invita subito ad andare da lui quando gli telefona, la
- riceve in ambulatorio tutti i giorni e le dà tanti farmaci. Quale sarebbe
- la strategia terapeutica migliore qui? Credo che andrebbe integrata a
- livello dei terapeuti la gestione clinica e invece scissi gli ambiti
- specifici delle due funzioni psy. Al contrario, è la paziente a tenere le
- fila, a scindere le persone dei terapeuti ma ad unificare confusivamente le
- due funzioni psy. In questa situazione, l'assenza dell'integrazione
- terapeutica e della differenziazione delle funzioni va in direzione di una
- cattiva gestione terapeutica di un serio problema psicopatologico. Il mio
- problema adesso è come trovare il modo per offrire alla paziente una
- funzione integrativa all'interno del nostro rapporto (ci stiamo muovendo in
- questa direzione, il come è troppo lungo spiegarlo ed anche meno
- interessante per il discorso che stiamo facendo). Ciò che vorrei
- sottolineare è che, pur non avendo io a priori alcuna competenza di
- intervento farmacologico, mi trovo in ogni caso ad affrontare la questione.
- Situazione opposta sull'altro polo del problema. Negli anni scorsi, i
- pazienti con disturbi funzionali gastrointestinali (colon irritabile,
- dispepsia funzionale, ecc.) venivano regolarmente visti in ambulatorio
- nell'ospedale dove lavoro da vari gastroenterologici ed alcuni li inviavano a me.
- Si tratta di pazienti che in genere hanno pacchi di esami e terapie in
- passato. La loro tendenza è quella di scindere le funzioni terapeutiche ed
- i rispettivi campi, per cui si va dallo psicologo se si hanno problemi di
- testa, e non di pancia o di stomaco. La situazione, classica, era quella del
- gastroenterologo che dava la terapia farmacologica appropriata ed io che
- tentavo di fare in qualche modo il mio lavoro. Risultati: generalmente
- scarsi. Finché non abbiamo deciso di riflettere e di cambiare metodo.
- Insieme ad un collega gastroenterologo con cui ho una particolare sintonia,
- abbiamo messo su un ambulatorio in cui in prima battuta questi pazienti
- vengono visti da entrambi. Poi si decide se continuare a vederli insieme
- (gestione: prescrizione di farmaci e discussione dei vari problemi
- psicologici legati ai sintomi, controlli periodici con visite "lunghe" di
- circa mezz'ora), se si dividono i pazienti o si dividono solo le competenze
- con gli stessi pazienti. I risultati sono ottimi, anche utilizzando farmaci
- che in passato non hanno sortito effetti benefici. Qui il punto è l'opposto
- del caso precedente: sono i pazienti che difensivamente scindono le funzioni
- terapeutiche e l'obiettivo è quello di trovare il miglior modo per offrire
- loro una funzione integrativa. Anche in questo caso, ciò che voglio
- sottolineare è che, pur non avendo ancora una volta alcuna competenza
- farmacologica, la gestione della funzione di integrazione versus dispersione
- rientra nel mio campo analitico di relazione paziente-terapeuta, sia che
- avvenga in ambito "privato" psicoanalitico sia che avvenga in ambito
- "pubblico" ospedaliero.
- La mia domanda è quindi: è possibile che il problema non sia sulle persone
- ma sulle funzioni e sulla loro gestione all'interno di un rapporto
- psicoterapeutico?
-
- 28 Marzo 1999, Carlo Pasino:
- Concordo pienamente con Piero Porcelli, la mia esperienza, seppur
- diversa, ha portato alle stesse conclusioni. Piero Porcelli ha detto:
- >Nella mia esperienza gran parte dei miei pazienti prendevano e prendono
- >farmaci. E nella stragrande maggioranza di questi, i pazienti tendono a
- >includere nella stessa categoria logica le due esperienze nel campo psy ed i
- >due terapeuti. Non sono la stessa cosa, ma appartengono allo stesso genere.
-
- Quale sarebbe la strategia terapeutica migliore qui? Credo che andrebbe integrata.
- A
livello dei terapeuti la gestione clinica e invece scissi gli ambiti
- specifici delle due funzioni psy. Al contrario, è la paziente a tenere le
- fila, a scindere le persone dei terapeuti ma ad unificare confusivamente
- le due funzioni psy. In questa situazione, l'assenza dell'integrazione
- terapeutica e della differenziazione delle funzioni va in direzione di una
- cattiva gestione terapeutica di un serio problema psicopatologico. Il mio
- problema adesso è come trovare il modo per offrire alla paziente una
- funzione integrativa all'interno del nostro rapporto
- Non sempre è possibile ma diventa necessario parlare dei farmaci in
- seduta, entrano nel setting come un ospite che di diritto ha una sua
- importanza nel vissuto della psicoterapia e in quella giornaliera del paziente
- Quante volte abbiamo cercato insieme, paziente e psicoterapeuta, la ragione
- inconsapevole del dimenticarsi regolarmente di assumere i soliti farmaci.
- Ma siamo su un piano di fantasie perché il paziente mi vive come chi non ha
- voce in capitolo sulla sua prescrizione farmacologica.
- Attualmente seguo una signora con un grave diabete che si scompensa
- regolarmente, con alti e bassi della glicemia. L'insulina e i regolari
- autocontrolli dei livelli di glicemia nel sangue occupano spesso le
- nostre sedute, dove la signora ha potuto proiettare liberamente e
- trasferalmente le sue fantasie di morte e di rabbia per una madre
- sentita come troppo fragile per sopportare tali emozioni. Se fossi stato
- io, invece del diabetologo, a doverla inseguire sulle sue montagne russe
- delle curve glicemiche, forse non si sarebbe mai evidenziato un mondo
- fantasmatico così ricco e determinante sulle vicissitudini somatiche del
- soggetto interessato.
- Condivido con Porcelli che la cura deve partire da una coppia
- terapeutica al lavoro, nel rispetto non solo dei propri ambiti
- professionali, che non stato quasi mai un problema, ma per le
- rappresentazioni fantasmatiche dei pazienti.
-
- 28 Marzo 1999, Paolo Migone:
- Riguardo all'intervento di Carlo Pasino, tutto può essere, anche che
- il "rumore sordo e fastidioso" non fosse stato ben analizzato, e
- vissuto come tale a causa di un controtransfert (viverlo
- come causato solo dai farmaci, o dal loro significato nella relazione,
- significato però che potrebbe essere diverso se non avessimo alle spalle una
- concezione pregiudiziale sui farmaci... Poteva significare - dico a caso -
- una aggressività del paziente verso il terapeuta che glieli ha consigliati
- mentre questa non era la risposta che il paziente sentiva come la più vera,
- oppure poteva significare la paura del paziente che il farmaco fosse contro
- i significati della psicoterapia, paura magari trasmessa inconsciamente dal
- terapeuta, ecc.).
- L'esempio che tu citi è un esempio tipico, comunque, quello di ricorrere al
- farmaco per ansia nostra e poi accorgersi che era stato un errore. Concordo
- anche sul fatto che per la grande maggioranza dei pazienti ambulatoriali il
- farmaco viene usato in modo difensivo. Ma il mio discorso mirava a collocare
- nella giusta posizione il ruolo delle difese, che si annidano dovunque, non
- da una parte soltanto, ecco perché la discussione farmaci+psicoterapia,
- secondo me, non significa niente "in quanto tale".
- Grazie comunque delle tue osservazioni.
-
- 28 Marzo 1999, Fabio Canegalli:
- Riprendo brevemente l'intervento di Paolo Migone del 27-3-99,
- intervento che mi pare condivisibile non solo per la posizione che esprime,
- ma in modo particolare per la dismostrazione che ci da di come sia possibile
- "svelare" certe posizione preconcette e spesso prese a prestito senza una
reale
- rivisitazione ed interiorizzazione dei modelli con le necessarie conseguenze
- nell'operare pratico quotidiano, per segnalare che nell'ambito dei seminari
- di clinica psicodinamica dell'Università di Milano, che verranno pubblicati
- integralmente a breve con l'apertura di un forum di disussione moderato,
- soltanto alcuni giorni fa è stato toccato, direi "violentemente", lo stesso
- argomento.
- Analizzando un caso clinico specifico, che rientra comunque nella pratica
- media attuale della psichiatria nei servizi pubblici italiani, si è potuto
- verificare quante di queste posizioni rendano effettivamente inutile se non
- addirittura dannosa ed in quel caso pericolosa (per il paziente) la pratica
- di un lavoro di équipe che resta solo sulla carta, lasciando il soggetto in
- balia di riferimenti diversi.
- Ognuno opera nel suo "settore", senza confrontarsi con il resto del gruppo,
- in una aristocratica posizione di isolamento, colludendo in tal modo con la
- patologia del soggetto, nella convinzione che chi si occupa di aspetti
- psicologici debba rimanere fuori da ciò che la somministrazione di un
- farmaco comporta e, specularmente, chi somministra farmaci lo possa fare
- prescindendo dai vissuti e dal percorso che il soggetto sta facendo con lo
- psicoterapeuta o l'analista.
- Le drastiche suddivisioni di ruoli professionali, oltre che le separazioni
- delle stesse scuole di formazione, stanno conducendo a questo.
- Se qualcuno è interessato a tali argomenti troverà materiale abbondante di
- discussione nella trascrizione del citato seminario ove i relatori ed il
- pubblico, di fronte alle conseguenze sul paziente (defenestrazione annunciata,
- come qualcuno ha sostenuto) si sono espressi in termini chiari e polemici.
-
- 28 Marzo 1999, Luca Panseri:
- Cari colleghi, esordisco oggi in lista intervenendo nel dibattito su farmaci e
- psicoterapia. Prima, mi presenterò brevemente.
- Mi chiamo Luca Panseri, ho 35 anni, vivo e lavoro a Bergamo in libera
- professione come psichiatra e psicoterapeuta dopo aver lavorato per otto
- anni nel Servizio Pubblico. Nei mesi precedenti ho seguito gli interessanti dibattiti in
lista
- da cui ho tratto un notevole arricchimento professionale. Sono perciò molto grato
ai colleghi
- che hanno discusso di questioni rilavanti per la teoria e la prassi
terapeutica. Da oggi mi
- piacerebbe portare anche il mio piccolo contributo in lista.
- In merito alla discussione in corso, ritengo che Paolo Migone abbia focalizzato
- con chiarezza e incisività il nucleo del problema affermando che:
- >non si capisce come mai il farmaco in quanto tale dovrebbe
- >appartenere ad una categoria logica diversa da quella di qualunque altro
- >intervento o evento sia dentro che fuori al setting (stringere la mano al
- >paziente, tossire, ridere, essere depressi o felici, NON DARE UN
FARMACO invece
- >di darlo, avere una poltrona comoda o scomoda, avere il
mal di testa per il fumo del
sigaro
- >dell'analista, o invece amare quel fumo, ecc.).
-
- Affrontare in questo modo la questione, significa riaffermare il presupposto
- fondamentale a lungo discusso in lista nei mesi precedenti, e cioè che non può
- esistere una buona terapia senza un' attenta e costante "analisi della
relazione".
- Se questa è la base di ogni terapia , allora la somministrazione del farmaco non è
niente altro
- che uno dei molteplici aspetti di cui dobbiamo tener conto all'interno della
relazione terapeutica.
- Ritengo che escludere a priori dal campo terapeutico questa possibilità di intervento
non ci
- garantisce certo dal pericolo di compiere degli agiti e sinceramente ho difficoltà
nel comprendere
- cosa intende Carlo Pasino quando afferma :" Ma, appena possibile,
riduco tutti gli acting-in e
- out a zero, perché sono un "casino" che non mi
permette di "ascoltare" quello che succede nella
- stanza del trattamento
psicoterapeutico".
- Come fai a essere così sicuro di quali siano gli acting in e out da
ridurre a zero senza che
- questo privi il processo di possibilità terapeutiche importanti?
- Che cosa dovremmo pensare allora, a proposito di agiti, degli interventi che includono
elementi
- di terapia corporea ? Ci troviamo in questo caso di fronte a condannabili
trasgressioni del setting
- da ridurre a zero, oppure possiamo pensare che anche la
psicoterapia corporea possa talvolta
- essere un potente strumento terapeutico, a patto che
sia utilizzata in modo consapevole all'interno
- della relazione (se a qualcuno interessasse
mi piacerebbe discutere in maniera più approfondita
- di questo argomento).
- Tornando all'argomento iniziale vorrei proporre un breve resoconto di un'esperienza
clinica.
- Qualche mese orsono mi venne inviata per una visita una donna di 67 anni afflitta
da 17 anni da
- una sintomatologia di tipo ansioso depressivo ( la vecchia "depressione
nevrotica") che recentemente
- in concomitanza con eventi esistenziali dolorosi si era
molto accentuata
al punto di divenire invalidante.
-
La paziente infatti oppressa e sfiancata dal suo
"malessere" si stava lentamente spegnendo,
-
impossibilitata a fronteggiare da
sola l'angoscia quotidiana (che si esprimeva con ansia generalizzata,
-
somatizzazioni e una
flessione del tono dell'umore di carattere reattivo).
- La paziente assumeva da circa 15 anni un antidepressivo triciclico a dosaggio medio alto
che
- non aveva mai avuto significativi effetti terapeutici ma che era stato impostato e non
più sospeso
- da una neurologa che negli anni aveva talvolta visitato la paziente. Il
recente peggioramento dei
- sintomi e l'impossibilità della collega neurologa nel poter
continuare a seguire la paziente hanno
- determinato l'invio al sottoscritto. La richiesta
della paziente era precisa: voleva cambiare il farmaco
- (che secondo il suo parere ora non
funzionava più) e provare un'altra terapia farmacologica che
- l'aiutasse a combattere il
suo malessere.
- Inizialmente ho deciso di accogliere la richiesta della donna di riprovare con una nuova
terapia
- farmacologica, proponendole però delle visite ravvicinate che permettessero sia
un monitoraggio
- della terapia farmacologica che una più approfondita espressione e
comprensione degli aspetti
- conflittuali in gioco.
Di fatto, la mia iniziale disponibilità ad accogliere le aspettative magiche di
-
una
soluzione puramente farmacologica dei suoi disturbi ha permesso al processo terapeutico di
-
mettersi in moto e di aprire uno spiraglio per una comprensione dei conflitti familiari ma
soprattutto
-
della sua profonda sofferenza personale per le vicende della sua esistenza.
- La paziente ha successivamente deciso di dedicare due sedute alla settimana per "la
sua terapia"
- poiché si era accorta "che ci sono tante altre cose oltre al
farmaco che possono aiutarla ad affrontare
- il suo malessere".
- Vi chiedo scusa per la lunghezza dell'esposizione ma ho preferito ricorrere ad un
esempio clinico per
- supportare la mia ipotesi sulla necessità di non escludere a priori
l'associazione dell'intervento
- farmacologico con quello psicologico.
- Chiaramente uno psicoterapeuta non medico non ha questa possibilità, ma come ha
mostrato
- Piero Porcelli nel suo ultimo prezioso intervento del 28 Marzo 1999, in questo
caso si potrebbe
- tentare di praticare altre strade molto interessanti:
- >Finché non abbiamo deciso di riflettere e di cambiare metodo.
- >Insieme ad un collega gastroenterologo con cui ho una particolare sintonia,
- >abbiamo messo su un ambulatorio in cui in prima battuta questi pazienti
- >vengono visti da entrambi. Poi si decide se continuare a vederli insieme
- >(gestione: prescrizione di farmaci e discussione dei vari problemi
- >psicologici legati ai sintomi, controlli periodici con visite "lunghe" di
- >circa mezz'ora), se si dividono i pazienti o si dividono solo le competenze
- >con gli stessi pazienti. I risultati sono ottimi, anche utilizzando farmaci
- >che in passato non hanno sortito effetti benefici.
-
- Per oggi mi fermo qui. Grazie per l'attenzione. Saluti a tutti
- 28 Marzo 1999, Tullio Carere:
- Caro Luca, il caso clinico con cui ti sei presentato in lista è un ottimo esempio
- di come l'integrazione psicoterapia/psicofarmaci sia spesso non solo possibile,
- ma doverosa. Noi psichiatri abbiamo il privilegio e l'onere di poter tentare questa
integrazione,
- e il dovere di tentare di farlo come meglio si può. Gli psicologi debbono
collaborare
- con uno psichiatra, e trovarne uno con cui stabilire un buon affiatamento. Non
li invidio.
- La realtà media delle équipe, infatti, è quella descritta da Fabio
Canegalli:
- >Analizzando un caso clinico specifico, che rientra comunque nella pratica
- >media attuale della psichiatria nei servizi pubblici italiani, si è potuto
- >verificare quante di queste posizioni rendano effettivamente inutile se non
- >addirittura dannosa ed in quel caso pericolosa (per il paziente) la pratica
- >di un lavoro di équipe che resta solo sulla carta, lasciando il soggetto in
- >balia di riferimenti diversi.
- >Ognuno opera nel suo "settore", senza confrontarsi con il resto del
gruppo,
- >in una aristocratica posizione di isolamento, colludendo in tal modo con la
- >patologia del soggetto, nella convinzione che chi si occupa di aspetti
- >psicologici debba rimanere fuori da ciò che la somministrazione di un
- >farmaco comporta e, specularmente, chi somministra farmaci lo possa fare
- >prescindendo dai vissuti e dal percorso che il soggetto sta facendo con lo
- >psicoterapeuta o l'analista.
- >Le drastiche suddivisioni di ruoli professionali, oltre che le separazioni
- >delle stesse scuole di formazione, stanno conducendo a questo.
-
- Allo stato attuale delle cose è più facile, e soprattutto più produttivo per il
- paziente, integrare psicoterapia e farmaci all'interno di una sola relazione,
- piuttosto che con due operatori distinti: pratica quest'ultima abitualmente non
- integrativa, ma nettamente disintegrativa.Benvenuto in questa lista di discussione.
-
- 28 Marzo 1999, Paolo Migone:
- Il 27/03/99 Gianni Guasto ha scritto:
- >Non avere il farmaco a disposizione impedisce al terapeuta questa via
di fuga: non é meglio così?
-
- E io avevo risposto:
- >No, ritengo che se deve esserci una via di fuga essa ci sarà sempre,
- >l'analista per primo la utilizzerà, perché ha mille opportunità per farlo,
- >nei modi a cui ho accennato prima e in tanti altri modi.
-
- Gianni ha continuato:
- >Hai ragione. Io, però, dal mio canto, ho imparato da alcuni maestri ad
- >eliminare tutto quanto può essere d'intralcio, e non ho ancora, se non in
- >misura molto limitata, trovato utile rinunciare a quelle opzioni. E' una
- >presa d'atto dei propri limiti. Altrimenti la psicoanalisi, come il
- >digestivo Antonetto "si potrebbe prendere anche in tram" (il che é
- >teoricamente possibile, ma molto, molto difficile).
-
- Sono d'accordo, ognuno ha il proprio criterio di difficoltà, e va
- rispettato. Se è per questo, a me capita a volte di trovare molto difficile
- non dare farmaci, in quanto, a livello di input biologico o danno al
- paziente, può essere maggiore del darli. Cioè può essere più difficile, può
- essere più un intralcio. Altre volte la penso come te. Non ho cioè un
- criterio a priori, che attribuire al farmaco un valore dato. Capisco
- benissimo però quello che vuoi dire.
- Io poi avevo detto:
- >Per farti capire meglio: se
- >quello che io dico non fosse vero, nessuno parlerebbe mai del problema
- >della combinazione farmaci+psicoterapia, perché non esisterebbe in quanto
- >tale (in altre parole, i farmaci in quanto tali possono essere o non essere un
agito
-
- E Gianni aveva risposto:
- >é vero, ma una volta che hai iniziato a prescriverli, devi continuare
- >secondo il "loro" paradigma, e non secondo le necessità interpretative.
-
- Sì, ma i farmaci, come ogni altra cosa, possono essere soggetti a eventuali
- interpretazioni, pur nel rispetto del loro eventuale paradigma. Anche il
- "non dare i farmaci" è un intervento molto "farmacologico", perché
si
- deprima l'organismo di un eventuale input biologico che si suppone mancante,
- per cui si squilibra comunque l'organismo rispetto a quanto potrebbe essere
- riequilibrato. In altre parole, "dare i farmaci" o "non darli" sono
due
- interventi equivalenti, molto attivi, dipende dalle variabili in gioco. Ecc.
- Mi sembra comunque che sostanzialmente ci siamo capiti, e mi fa molto piacere.
- Grazie
dei commenti
-
- 28 Marzo 1999, Tullio Carere:
- Se la somministrazione di farmaci da parte dello psicoterapeuta sia o non
- sia un agito (acting out, cosa da non farsi) si può decidere a patto di
- chiarire in via preliminare che cosa sia un agito. Per questo occorre
- superare più livelli di fraintendimenti. Primo fraintendimento: il
- terapeuta "agisce" tutte le volte che si allontana dalla posizione
- neutrale. Si basa sull'illusione che si possa non agire: ma ormai è a tutti
- chiaro che la relazione terapeutica, come qualsiasi altra, è
- intrinsecamente interattiva. Secondo fraintendimento: è accettabile
- l'interazione spontanea o involontaria, non quella deliberata o
- intenzionale (posizione di Gill,
o di Katz il cui lavoro
- sull'argomento è attualmente in discussione sulla lista del
- Journal of the American Psychoanalyitc Association).
A parte la difficoltà
- di distinguere le due modalità (un'azione spontanea è di fatto deliberata, se
- decido di agire spontaneamente invece che controllarmi), una relazione può
- essere detta terapeutica solo in quanto si basa su un'intenzione
- terapeutica: e questa implica necessariamente una continua selezione, che
- favorisce atteggiamenti e atti ritenuti terapeutici ed esclude quelli
- ritenuti non terapeutici (quale che sia il criterio di distinzione
- applicato). Terzo fraintendimento: chiarito che la relazione è
- necessariamente un'interazione, e che questa include necessariamente anche
- azioni intenzionali, si vuole che almeno queste azioni siano "poche" o
- "piccole": per non allontanarsi troppo dall'ideale mai abbandonato di
- neutralità. Ma il far valere la "neutralità" (comunque definita) come
- criterio principe, cui ogni altro deve subordinarsi, questo sì è un
- "agito", nel senso negativo del termine: significa imporre uno stile di
- relazione stereotipato, che non tiene conto della realtà dell'interazione
- presente e si sottrae alla responsabilità di decidere momento per momento,
- assieme al paziente, la modalità interattiva che il processo richiede. (Mi
- pare che l'intervento di Paolo Migone fosse in questo senso).
- Poste queste premesse - sgomberato il campo, spero, dai più comuni
- fraintendimenti - si può capire meglio la questione del farmaco. Primo,
- nessuno più discute che a volte i farmaci, in corso di psicoterapia, sono
- utili o anche necessari. Ne consegue che lo psicoterapeuta ha il dovere,
- quando è il caso, di inviare il paziente al farmacoterapeuta oppure di
- prescriverli lui stesso. Già questo elimina i primi due fraintendimenti:
- proporre un farmaco, chiunque lo somministri, o anche solo inviare il
- paziente allo psichiatra, è un'uscita dall'illusoria neutralità, o dal
- campo delle interazioni puramente "intrinseche" o non intenzionali. Ma
- veniamo al terzo fraintendimento: lo psicoterapeuta, anche se è psichiatra,
- non dovrebbe somministrare lui stesso il farmaco per "non alterare il
- setting". Tesi fondata sull'ideale detto sopra, del setting il più
- possibile asettico. Ma se dall'ideale/ideologico scendiamo alla realtà,
- come molto opportunamente ha fatto Piero Porcelli, che cosa troviamo?
- Troviamo quello che è ovvio: le due interazioni - psicoterapeutica e
- farmacoterapeutica - debbono essere sintonizzate e integrate, altrimenti ne
- nasce ogni sorta di pasticci. Ne consegue che se è possibile creare
- un'équipe affiatata, come quella che è riuscito a costruire Piero, le cose
- vanno bene. Ma se tra le due figure - lo psicoterapeuta e il
- farmacoterapeuta - l'integrazione è scarsa, come assai spesso accade, è
- molto meglio un'integrazione realizzata da un terapeuta unico, che gestisce
- entrambi i ruoli, piuttosto che la disintegrazione operata da due terapeuti
- non sintonizzati.
- Questa in ogni caso è la mia testimonianza: dopo avere seguito anch'io, per
- anni, la regola di inviare ad altri colleghi i pazienti bisognosi di
- psicofarmaci - e aver sperimentato fino in fondo le complicazioni di questa
- pratica - ho ricominciato a darli io stesso, nella maggior parte dei casi.
- E le cose sono andate molto meglio. Conclusione: la somministrazione di
- farmaci è un'azione come un'altra, e come ogni altra va valutata caso per
- caso, per il significato e il valore che prende nel processo in corso. La
- terapia non ha bisogni di azioni "piccole" o "poche", ma di azioni,
per
- quanto è possibile, giuste.
-
- 28 Marzo 1999, Gaetano Dell'Anna:
- Un contributo. Dal margine di questo interessante dibattito ho pensato se non
- occorra riflettere sul bisogno inconscio del paziente di mantenere un
- qualche controllo sul suo stato e come il farmaco si presti meglio di ogni altro
- elemento a essere manipolato a tale scopo in modo strumentale.
- Infatti il paziente può rifiutarlo; può assumerlo fiduciosamente, remissivamente,
- voracemente, scetticamente, eccetera, e poi coltivare attese di fallimento o di
- risoluzione del tutto illusorie;
- può dire di rifiutarlo e assumerlo in segreto (se il medico dirà "iocomunque
- glielo prescrivo");
- può dire di assumerlo e non farlo;
- può assumerlo senza seguire le indicazioni, quindi modificare tempi, dosi e
- associazioni, e riferire gli effetti come lode o critica della prescrizione;
- può somministrarlo, o pensare di somministrarlo, ad altri;
- può assumere farmaci prescritti ad altri;
- e mi fermo qui, certo che ciascun collega avrà una casistica nutrita cui
- fare riferimento.
- Io ritengo che, qualunque sia il metodo, le cose che il paziente riferisce
- della sua esperienza, e quelle che il terapeuta può pensare della narrazione,
- debbano prevalere sempre nella considerazione dei fattori clinici.
- Superata l'epoca della coazione manicomiale il "locus of control" della
- terapia è oggi fluttuante, ed è il paziente che formula la domanda di
- cura, a suo modo. Questo anche se il rapporto tradizionale tra "chi cura",
- "chi è malato" e "ciò che è farmaco" ha ancora una forte
componente
- costrittiva alla quale ci si deve adeguare.
-
- 28 Marzo 1999, Emilio Vercillo:
- Paolo Migone ha scritto:
- >Vi è chi argomenta che fare tutte e
- >due le cose insieme è "più difficile": questo a prima vista sembrerebbe
un
- >ragionamento convincente, ma rivela solo la illusione che la "analisi
- >normale" sia "facile", "pulita", tratta dati
"psicologici puri" (vedi
- >l'antico mito della "analisi classica", dove si rispetterebbe il setting).
- >Anche dietro a questa posizione vi è una concezione antipsicoanalitica: il
- >dato psicologico (o somatico) non viene così scoperto o interpretato, ma è
- >conosciuto a priori, tramite un pregiudizio, e l'analisi è solo una
- >razionalizzazione delle idee preconcette dell'analista o della sua malcelata
- >cultura behavioristica di appartenenza (o forse anche di una cultura
- >filosofica basata sul dualismo corpo-mente).
-
- Gianni Guasto ha scritto:
- >Io, però, dal mio canto, ho imparato da alcuni maestri ad
- >eliminare tutto quanto può essere d'intralcio, e non ho ancora, se non in
- >misura molto limitata, trovato utile rinunciare a quelle opzioni. E' una
- >presa d'atto dei propri limiti. Altrimenti la psicoanalisi, come il
- >digestivo Antonetto "si potrebbe prendere anche in tram" (il che é
- >teoricamente possibile, ma molto, molto difficile).
-
- Paolo Migone ha scritto:
- >Sono d'accordo, ognuno ha il proprio criterio di difficoltà, e va
- >rispettato. Se è per questo, a me capita a volte di trovare molto difficile
- >non dare farmaci, in quanto, a livello di input biologico o danno al
- >paziente, può essere maggiore del darli. Cioè può essere più difficile, può
- >essere più un intralcio. Altre volte la penso come te. Non ho cioè un
- >criterio a priori, che attribuisce al farmaco un valore dato. Capisco
- >benissimo però quello che vuoi dire.
-
- Grazie
-
- 28 Marzo 1999, Gaetano Giordano:
- Gaetano Dell'Anna ha scritto:
- >Dal margine di questo interessante dibattito ho pensato se non
- >occorra riflettere sul bisogno inconscio del paziente di mantenere un qualche
- >controllo sul suo stato e come il farmaco si presti meglio di ogni altro
- >elemento a essere manipolato a tale scopo in modo strumentale.
-
- Gaetano tocca, come sempre (sarà l'omonimia), un punto secondo me determinante.
- Per quanto mi riguarda, io ho paura a prescrivere i farmaci perché ho sempre la
- sensazione che il paziente li chiede per avere la legittimità di "percepire"
- che la sua è una "malattia" - vale a dire, uno stato sottratto in qualche
modo
- al suo "psichico" e alla sua possibilità di intervento - e dunque per creare
- resistenze invalicabili.
- Il farmaco a mio avviso rischia sempre di dare al paziente il potere di parlare
- di una "malattia" e non di se stesso. Personalmente, lo uso dunque in modo
- molto strategico, paradossale, facendo leva dunque sul fatto che - nella mia
- epistemologia - è un'esperienza. Lo utilizzo dunque dandogli il significato di una
- delle leve da poter utilizzare per generare una riflessione - non una soluzione.
- Gaetano Dell'Anna continua:
- >Infatti il paziente può rifiutarlo;
- >può assumerlo fiduciosamente, remissivamente, voracemente,
scetticamente,
- >eccetera, e poi coltivare attese di fallimento o di
risoluzione del tutto illusorie;
-
- ...prima o poi rischia di dire che quello che né il farmaco, né la psicoterapia
- possono farci nulla, con lui. Deve solo aspettare che il primo non faccia
- l'effetto che lui comunque gli attribuisce. E non credo che in questi casi
- basti avvertirlo che gli psicofarmaci non risolvono del tutto il problema.
- Una volta avevo una paziente - una gravissima ossessiva - che mi scongiurò per
- settimane di prescriverle "qualcosa". Dal contesto e dalle modalità della
- richiesta, a me sembrava evidente che volesse sancire, attraverso "i
sedativi",
- la legittimità a sostenere che la sua era una malattia sganciata totalmente dal
- suo controllo. Riuscii a resistere alla richiesta, e così passarono dei mesi.
- La tizia
migliorò in modo eclatante e stravagante: in ufficio non aveva sintomi, a casa ne
- era
piena. Siccome si lamentava di stare malissimo - pur contro le evidenze - un giorno
- le
dissi chiaro e tondo che, se stava così male, era venuto DAVVERO il momento di prendere
-
dei farmaci. Fu un attimo: con una incredibile faccia di bronzo cambiò completamente tono
e discorsi,
- e mi disse senza esitazioni - e nel giro di un incredibile secondo - che da
qualche tempo aveva notato
- dei veri miglioramenti, e dunque non riteneva opportuno
assumere dei sedativi. Evidentemente,
- aveva fiutato il paradosso nel quale si stava
cacciando, relativo al controllo del controllo.
- Io feci finta di non sentire, e glielo
feci ripetere due o tre volte. Dopodiché le chiesi se
- si rendeva conto della
contraddizione con quanto detto poco prima. Mi rispose di sì,
- ma disse che non sapeva
come spiegarla. Fino a poco prima le sembrava veramente
- di star male e ora le sembrava di
non volere i farmaci perché "inutili".
- Per la cronaca, la signora abbandonò la terapia dopo un anno circa.
- Fu quando si rese conto che non poteva più negare gli evidenti miglioramenti in
- ufficio e la tragica assenza di cambiamenti in casa.
- Quando non poté fare a meno di dare una spiegazione, disse una cosa
- emblematica: - Non mi sembrava carino star male in ufficio perché i colleghi
- erano buoni con me e mi aiutavano. - Cercai di farle dire di più e non si fece pregare:
-
mi spiegò che le colleghe e i colleghi scrivevano per lei gli elenchi delle A.R.
(lavorava alle poste),
- così come quelli dei vagli o dei C.C. Non le era sembrato bello
ricambiare con il muto persistere
- dei cupissimi suoi sintomi, e li aveva
"ricompensati" guarendo.
- Fu qui che mi persi: insistetti troppo per cercare di farla ragionare sulla
- differenza con la casa e la famiglia, ambiti nei quali non vi erano stati
- miglioramenti. Quasi psicoticamente, in tale situazione lei si sentiva
- impotente e malatissima, ridotta allo stremo delle forze e totalmente in balia
- dei sintomi - anche se, in realtà, anche qui aveva avuto dei leggeri
- miglioramenti. Scappò quando la misi di fronte all'evidenza che le due logiche erano
incompatibili,
- e che il problema doveva essere in qualche modo nel suo rapporto col
marito.
- Molto probabilmente dovevo essere più cauto nell'avvicinarla a quella
consapevolezza.
- Ritornando però al problema dei farmaci, credo che se avessi dato seguito alla
- richiesta che la signora mi fece, quella terapia sarebbe finita molto prima.
- Saluti a tutti
-
- 29 Marzo 1999, Paolo Roccato:
- Il 26 Marzo 1999 Emilio Vercillo ha scritto:
- >Vorrei chiedere a Roccato se fa rientrare nell'evitamento il passare dal
- >piano dell'interpretazione a quello dei "milligrammi" (che potrebbe essere
- >però anche quello dei sintomi e della psicopatologia), o considera anche
- >il passaggio inverso un evitamento, dato che la sua frase sembrerebbe
intendere questo.
-
- A mio parere, è differente il tipo di ascolto e di risonanza cui
- l'operatore si dispone, e la differenza è data dallo "scopo".
- Nell'ascolto psicoterapico lo scopo è cercare di cogliere i vari aspetti
- del Sé del paziente e vedere come essi si articolano fra di loro;
- nell'ascolto finalizzato alla somministrazione di farmaci lo scopo è
- cogliere gli aspetti della psicopatologia presentata dal paziente, per
- poterla influenzare in modo non direttamente mentale, ma biologico.
- E' la mente del terapeuta che, io credo, non riesce a seguire due scopi
- contemporaneamente e che rischia di passare dall'uno all'altro per evitare
- l'impatto con l'angoscia, e non per gli scopi che ritiene di perseguire.
- Trovo fuorviante considerare agito o non agito la prescrizione di farmaci
- fatta da uno psicoterapeuta, o la psicoterapia attuata da uno che prescrive
- farmaci. A me pare che si tratti, semplicemente, di qualche cosa che
- persegue uno scopo differente da quello che ci si è proposto.
- Vorrei precisare, di passaggio, che per me non si tratta tanto del piano
- dell'interpretazione, quanto di quello della risonanza. Credo che il
- concetto di interpretazione debba essere da noi molto, ma molto rivisto,
- all'inizio del secondo secolo di psicoanalisi. Ma questa è un'altra storia.
- Cordiali saluti.
-
- 29 Marzo 1999, Paolo Migone:
- A mio parere non bisognerebbe separare la psichiatria dalla psicoanalisi,
- nel senso che, anche nello spirito di Balint, il livello "biologico" non
esiste
- mai allo stato puro, essendo sempre colorato da significati psicologici
- (esplicitati o non). Anche nell'analisi tradizionale non vi sono aree di
- purezza, anche lì il corpo c'è sempre, in molti modi.
- Come dissi una volta in modo volutamente provocatorio, ritengo che non vi
- sia una alternativa alla "psicoanalisi" (nel senso di porre attenzione alla
- relazione, come fanno bene anche molti cognitivisti, sistemici, ecc.).
-
- 29 Marzo 1999, Paolo Migone:
- Ringrazio Tullio per il preziosissimo intervento chiarificatore del 28-3-99.
- Vorrei fare due brevi commenti a latere:
- Tullio Carere ha scritto:
- >Se la somministrazione di farmaci da parte dello psicoterapeuta sia o non
- >sia un agito (acting out, cosa da non farsi) si può decidere a patto di
- >chiarire in via preliminare che cosa sia un agito...
-
- A proposito del concetto di agito (acting), ricordo alcune belle pagine nel
- primo volume del "Trattato di terapia psicoanalitica" di H.
Thomä & H. Kächele
- (1985, Torino: Bollati Boringhieri, 1990, cap. 8.6, pp. 386
sgg.),
- dove demitizzano molto il concetto di agito, tradizionalmente visto in termini
- negativi, ma da vedersi invece anche in termini positivi (l'agito in un certo
- senso fa parte della terapia, come anche della vita, soprattutto nei processi
- di cambiamento, ecc.).
- Continua Tullio:
- >Ma se tra le due figure - lo psicoterapeuta e il
- >farmacoterapeuta - l'integrazione è scarsa, come assai spesso accade, è
- >molto meglio un'integrazione realizzata da un terapeuta unico, che gestisce
- >entrambi i ruoli, piuttosto che la disintegrazione operata da due terapeuti
- >non sintonizzati.
-
- Qui, a voler essere pignoli, farei una osservazione. Sì, può essere
- "meglio" avere un terapeuta unico (siamo quindi nella dimensione "più
facile
- o più difficile" avere un terapeuta o due, non nella dimensione "deve
- esservi un terapeuta e non due" o viceversa). Ma a rigor di logica è
- indifferente, in quanto non siamo mai "terapeuti unici" (la moglie del
- paziente, gelosa, può dirgli che sbagliamo in questo o in quello, il
- paziente parla con un amico che va dall'analista e gli fa dire che il suo
- analista farebbe in un altro modo ecc.). Certo, un'altra figura professionale
- è più "autorevole" di una figura non professionale concorrente (ma sappiamo
- che l'autorevolezza è proprio quella che andrebbe analizzata e smitizzata,
- cioè non è seguendo l'autorevolezza degli altri che vogliamo che il nostro
- paziente ragioni, anche nel senso che magari la moglie del nostro paziente
- vede le cose molto meglio di noi). Intendo dire questo: se il nostro
- paziente va a farsi dare i farmaci da un altro medico, e se questo medico ha
- una linea diversa dalla nostra, o se addirittura ci si mette contro (magari
- colludendo con una tendenza scissionale inconscia del paziente), quale è il
- problema? Questo sarebbe un problema come un altro, da affrontare
- tranquillamente in terapia, all'ordine del giorno. Cosa c'è di più bello che
- due opinioni diverse? Vediamo quale può esser la migliore, discutiamone.
- Magari ha ragione il farmacologo! Avremmo un arricchimento. L'analista
- analizza dal suo punto di vista, e tutti i dati rientrano nel processo
- interpretativo, compresi i comportamenti dell'altro collega (che sono
- comunque anche oggetti interni del paziente): questi comportamenti
- potrebbero essere "usati" dal paziente, oppure potrebbero rappresentare una
- possibile interpretazione diversa dei dati, che noi vaglieremmo, e, come
- facciamo sempre, cercheremmo di capire cosa è meglio fare. Vi sono qui
- ottime occasioni, nell'affrontare questo problema, di mostrare al paziente
- come lavoriamo (es. non mettendoci in competizione con l'altro collega -
- cosa che rivelerebbe solo una nostra debolezza o la nostra invidia e
- l'inconscio del paziente la coglierebbe subito; rispettando la opinione
- degli altri, ecc.). Insomma anche qui vi sarebbero infiniti test
- potenzialmente terapeutici se noi sappiamo superarli, al punto che
- addirittura potrebbe considerarsi una felice opportunità terapeutica questo
- "problema", che peraltro è un modello di problema come tanti il paziente ne
- deve affrontare nella vita, e non c'è niente di meglio per lui che vedere
- come noi lo affrontiamo.
-
- 11 Aprile 1999, Tullio Carere:
- Caro Paolo, un breve commento (scusa il ritardo) a questo tuo importante
- contributo. Sono d'accordo con riserva con quello che dici. Tu dici:
- >Cosa c'è di più bello che
- >due opinioni diverse? Vediamo quale può esser la migliore, discutiamone.
- >Magari ha ragione il farmacologo! Avremmo un arricchimento. L'analista
- >analizza dal suo punto di vista, e tutti i dati rientrano nel processo
- >interpretativo, compresi i comportamenti dell'altro collega (che sono
- >comunque anche oggetti interni del paziente)
-
- D'accordo, è un "problema come un altro, da affrontare tranquillamente in
- terapia". E' una posizione filosofica basilare (di vertice O, tra l'altro:
- quello su cui finora meno siamo riusciti a intenderci). Da questo vertice
- tutto quello che accade va bene. Da ogni problema c'è qualcosa da imparare,
- anche il dolore più profondo è un'occasione per andare più in profondità.
- Anche quando il problema sembra non avere soluzione, anche se si arriva al
- limite di ciò che può essere elaborato cognitivamente, dove saltano tutte
- le abituali griglie interpretative e ci si trova nella più completa
- impotenza (Kierkegaard e Nietzsche hanno pagine magistrali su quella che
- Jaspers ha chiamato l'"esperienza limite"). Infatti è molto nietzscheana la
- tua esclamazione: "Cosa c'è di più bello di due opinioni diverse?"
- Ma, proprio perché è una posizione filosofica - una posizione non
- speculativa, ma esistenziale, che mette radicalmente in questione i
- presupposti su cui si basa un'esistenza - richiede una relazione
- terapeutica piuttosto evoluta, con un paziente dotato di una struttura
- personale abbastanza solida, capace di tollerare livelli elevati di
- conflittualità, fino al livello "catastrofico". Sappiamo bene che con le
- persone fragili, a mala pena capaci di affrontare a poco a poco i propri
- conflitti interni, la presenza di un conflitto esterno di rilievo (come una
- figura autorevole del mondo esterno che si pone in aperta contraddizione
- con la terapia) può far crollare quel precario equilibrio che ci permetteva
- di lavorare: o perché l'"attacco al legame" è rafforzato oltre il limite
- della rottura, o perché l'angoscia supera il livello che attualmente il
- paziente può sopportare.
- Credo che in ogni terapia, anzi in ogni seduta, si debba trovare il giusto
- punto d'incontro, la giusta sintesi tra il lavoro psicologico (remaking) e
- quello filosofico (uncovering). Con un certo paziente, in un certo momento
- della terapia, l'apertura di un nuovo fronte conflittuale (come può essere
- quello con un farmacoterapeuta) può essere benvenuta e feconda. Con un
- altro, o con lo stesso in un momento diverso, la stessa apertura può avere
- conseguenze ingestibili, e quindi è bene fare il possibile per evitarla.
- Costruendo un buon affiatamento tra psicoterapeuta e farmacoterapeuta, se è
- possibile. O unificando i due ruoli nella stessa figura, se non lo è.
-
- 12 Aprile 1999, Paolo Migone:
- Caro Tullio, sono d'accordo col tuo discorso. Bisogna sempre fare attenzione
- a come il paziente vive determinate cose. Certi pazienti non riuscirebbero a
- tollerare ogni minima area di incertezza o di riflessione, e quindi hanno bisogno
- di poche cose ma chiare, nella speranza che in seguito arrivino a tollerare le
- varie divergenze o difficoltà di comprensione, sia dentro che fuori alla
- terapia. Forse questi pazienti in certi casi hanno bisogno anche di un
- approccio apertamente "suggestivo" o mirato più a chiudere i discorsi più
- che ad aprirli, onde diminuire le loro sofferenze, in quanto ogni ricerca di
- significato potrebbe essere vissuta come minacciosa.
-
- 13 Aprile 1999, Emilio Vercillo:
- Eppure, anche dopo i complessi interventi di Paolo Migone e di Carere,
- per citarne due, non rimango del tutto convinto.
- Difficile non trovarsi d'accordo con Migone, che evidenzia con forza il
- fatto che a voler considerare il dato farmacoterapia come una evenienza a
- parte degli altri 'fatti' non verbali che avvengono nell'analisi, si
- alimenta il mito di una psicoanalisi che viva solo di parole, o meglio di
- contenuti delle parole, invece che della relazione tra due persone, e della
- comprensione di quello che accade tra loro. (Spero di non aver travisato
- troppo nella mia volgarizzazione).
- Paolo Migone dice:
- >Vi è chi argomenta che fare tutte e
- >due le cose insieme è "più difficile": questo a prima vista sembrerebbe
un
- >ragionamento convincente, ma rivela solo la illusione che la "analisi
- >normale" sia "facile", "pulita", tratta dati
"psicologici puri" (vedi
- >l'antico mito della "analisi classica", dove si rispetterebbe il
setting).
- >Anche dietro a questa posizione vi è una concezione
antipsicoanalitica: il
- >dato psicologico (o somatico) non viene così scoperto o interpretato, ma è
- >conosciuto a priori, tramite un pregiudizio, e l'analisi è solo una
- >razionalizzazione delle idee preconcette dell'analista o della sua malcelata
- >cultura behavioristica di appartenenza (o forse anche di una cultura
- >filosofica basata sul dualismo corpo-mente).
-
- La questione per cui, varie mail fa, accennavo a un problema
- "facile-difficile", riguardava non tanto la possibilità di valutare
- l'effetto nel paziente del farmaco, o delle sue prescrizione e somministrazione
- da parte del curante, quanto piuttosto, a monte, la difficoltà insita
- nella necessità di porsi da parte della stessa persona in due modi di
- funzionamenti differenti, allorché valuta sintomi, sindromi e forme
- morbose per cui formulare un piano terapeutico farmacologico, o invece fa
- con il paziente tutte quelle cose che si fanno in una psicoterapia psicoanalitica,
- ma che mirano comunque tutte ad una ricerca si spera comune di senso.
- La commutazione, e la interazione temporale, tra queste due funzioni mi
- appariva difficile, anche se, come dicevo, ho avuto modo di constatare
- colleghi al contrario capacissimi.
- La discussione si è sviluppata, mi sembra, più su quello che avviene a
- valle di questi eventi, (nella valutazione NEL paziente di questi atti e
- chimiche) che invece mi paiono porre fortemente il problema della
- "integrazione" (e su questo Carere potrà aiutarmi). Cari saluti
-
- 14 Aprile 1999, Tullio Carere:
- Il 13/04/99 Emilio Vercillo ha scritto:
- >Eppure, anche dopo i complessi interventi di Paolo Migone e di Carere,
- >per citarne due, non rimango del tutto convinto (...)
- >La questione per cui, varie mail fa, accennavo a un problema
- >"facile-difficile", riguardava non tanto la possibilità di valutare
- >l'effetto nel paziente del farmaco, o delle sue prescrizione e somministrazione
- >da parte del curante, quanto piuttosto, a monte, la difficoltà insita
- >nella necessità di porsi da parte della stessa persona in due modi di
- >funzionamenti differenti, allorché valuta sintomi, sindromi e forme
- >morbose per cui formulare un piano terapeutico farmacologico, o invece fa
- >con il paziente tutte quelle cose che si fanno in una psicoterapia psicoanalitica,
- >ma che mirano comunque tutte ad una ricerca si spera comune di senso.
- >La commutazione, e la interazione temporale, tra queste due funzioni mi
- >appariva difficile, anche se, come dicevo, ho avuto modo di constatare
- >colleghi al contrario capacissimi.
- >La discussione si è sviluppata, mi sembra, più su quello che avviene a
- >valle di questi eventi, (nella valutazione NEL pz di questi atti e
- >chimiche) che invece mi paiono porre fortemente il problema della
- >"integrazione" (e su questo Carere potrà aiutarmi).
-
- Sono d'accordo, c'è una questione "a valle" e una "a monte". A
valle, si
- tratta di valutare il significato che ciascuno dei partner della coppia
- terapeutica attribuisce a tutto ciò che viene detto e fatto nella relazione
- (inclusa la somministrazione di farmaci). A monte, il problema è quello di
- disporre (di fornirsi) di una griglia, o mappa, che permetta di collocare
- ogni tipo di intervento in un quadro unitario (questo per evitare
- l'eclettismo radicale in cui tutto va bene, a patto di interpretarne il
- significato - anche, perché no?, andare a letto con il/la paziente, purché
- se ne interpreti prima, durante e dopo il significato).
- Possono andare bene diverse mappe, ma bisogna dichiarare quale si sta
- usando, e lavorare per correggerla e raffinarla continuamente. Per la
- psicoterapia io uso una mappa con due assi ortogonali e quattro vertici che
- mi permette di orientarmi in qualsiasi momento del processo (v. mio lavoro
- su PM-TR). Per la psichiatria uso una mappa a tre vertici
- (psicoterapeutico, farmacoterapeutico, socioterapeutico). Se si disegna il
- triangolo del campo psichiatrico, i tre settori compaiono come figure
- quadrangolari: ognuno di questi settori può essere visto a sua volta come
- un campo definito da due assi ortogonali e quattro vertici, allo stesso
- modo del campo psicoterapeutico. Per es. la somministrazione del farmaco
- può avvenire da un vertice materno (rassicurante), paterno
- (responsabilizzante), scientifico (basato sulla conoscenza oggettiva del
- farmaco e l'osservazione dei suoi effetti), mistico (il farmaco come
- oggetto simbolico, capace di attivare le potenze inconsce di guarigione -
- buona parte dell'effetto placebo proviene da questo vertice).
- Non dico che la mia mappa sia la migliore (è la migliore di quelle che
- conosco, ma chiunque abbia disegnato una mappa direbbe lo stesso della
- propria). Possono andare bene altre mappe, ripeto, ma è importante averne
- almeno una (se sono più di una, occorre poi una chiave per coordinarle).
- Altrimenti, o lavorate su un modello di scuola (ad es. psicoanalisi
- freudiana, comportamentismo skinneriano), e allora l'integrazione è
- impossibile (che il farmaco sia somministrato dallo psicoterapeuta o da
- qualcun altro, è lo stesso); oppure adottate uno stile feyerabendiano alla
- "everything goes" - e allora spiegatemi come fate a non finire a letto
con
- le vostre/i vostri pazienti.
-
- 14 Aprile 1999, Paolo Migone:
- Il 13/04/99 Emilio Vercillo ha scritto:
- >La questione per cui, varie mail fa, accennavo a un problema
- >"facile-difficile", riguardava non tanto la possibilità di valutare
- >l'effetto nel paziente del farmaco, o delle sue prescrizione e somministrazione
- >da parte del curante, quanto piuttosto, a monte, la difficoltà insita
- >nella necessità di porsi da parte della stessa persona in due modi di
- >funzionamenti differenti, allorché valuta sintomi, sindromi e forme
- >morbose per cui formulare un piano terapeutico farmacologico, o invece fa
- >con il paziente tutte quelle cose che si fanno in una psicoterapia
- >psicoanalitica, ma che mirano comunque tutte ad una ricerca si spera comune
di senso...
-
- Il 14/04/99 Tullio Carere ha scritto:
- >Sono d'accordo, c'è una questione "a valle" e una "a monte". A
valle, si
- >tratta di valutare il significato che ciascuno dei partner della coppia
- >terapeutica attribuisce a tutto ciò che viene detto e fatto nella relazione
- >(inclusa la somministrazione di farmaci). A monte, il problema è quello di
- >disporre (di fornirsi) di una griglia, o mappa, che permetta di collocare
- >ogni tipo di intervento in un quadro unitario (questo per evitare
- >l'eclettismo radicale in cui tutto va bene, a patto di interpretarne il
significato...
-
- Ringrazio Emilio e Tullio per aver sollevato questa ulteriore riflessione
- nel dibattito "farmaci+psicoterapia", quella della questione "a
valle" e
- "a monte". Se ho capito bene, vi sarebbe una differenza tra la griglia che
- usiamo per analizzare i fenomeni a monte e quelli a valle. Pare che siamo tutti
- d'accordo che "a valle" usiamo una sola griglia, quella, nelle parole di
- Tullio, "di valutare il significato che ciascuno dei partner della coppia
- terapeutica attribuisce a tutto ciò che viene detto e fatto nella relazione
- (inclusa la somministrazione di farmaci)".
- "A monte", però, vi sarebbero dei problemi nell'usare una sola griglia, a
- causa, nelle parole di Emilio, della "difficoltà insita nella necessità di
- porsi da parte della stessa persona in due modi di funzionamento differenti"
- (valutare i sintomi come criterio per dare dei farmaci oppure ricercare il
- senso nella psicoterapia).
- Provo a rispondere in questo modo. Supponiamo che sia vero che vi sia
- differenza tra operazioni a monte e operazioni a valle, e che in quelle a
- monte occorrano due griglie diverse. Allora chiedo: se ad esempio una
- paziente mi dice che ha un forte mal di testa, e non è sicura perché ce
- l'ha, se per un conflitto di aggressività verso suo marito (o verso me),
- oppure perché si trova adesso in periodo premestruale, oppure, come anche
- sospetta, perché vi è aria viziata o piena di fumo nella mia stanza, io come
- terapeuta che griglia devo usare?
- Quella medica (anamnesi, storia di precedenti mal di testa nel periodo
- premestruale e non, ecc.) oppure psicodinamica (eventuali cause - o concause
- - "non fisiche" del mal di testa)? Questa è una situazione a monte o a valle?
- Questa analisi del sintomo in che modo è diversa da quella di mille altre
- situazioni in analisi? (quando ad esempio un paziente "psicologizza" come
- difesa, e io sospetto che invece la causa sia un'altra o viceversa, ecc.)
- Ho l'impressione che se riusciamo a rispondere a questi quesiti con
- chiarezza, ci avviciniamo di più a risolvere la questione che ci interessa.
-
- 18 Aprile 1999, Emilio Vercillo:
- Proverò a rispondere alla consueta ricchezza e duttilità di Paolo Migone
- con la mia piccola ossessività, che mi porta a distinguere, pensando che
-
- 1) non è uguale la situazione di contesto in cui il paziente si presenta da noi
- all'inizio per una valutazione, o, essendo già in psicoterapia,
- psicologizza sul suo mal di testa
-
- 2) se porto fino in fondo quello che Paolo suggerisce, devo pensare che a
- quel punto possa mettersi a valutare riflessi, Romberg, ecc., prescrivere
- un EEG, un MRI, e infine operi il paziente per il tumore in fossa posteriore
- che ha trovato, senza che questo configuri alcunchè di diverso dagli eventi
- reali che entrano nella relazione terapeutica. Sto ovviamente supponendo
- che, come è possibile, Paolo sia anche un buon neurochirurgo.
-
- 3) supponiamo l'evenienza più semplice di una prima presentazione di un
- paziente. Ho difficoltà (maggiore che a ritenerlo buon neurochirurgo) a vedere
- Paolo sottoporre il paziente a una intervista che valuti tutti gli elementi come
- frequenza delle crisi depressive, loro ricorrenza stagionale, peso
- determinato delle componenti d'umore, dell'inibizione psicomotoria,
- variazioni diurne, misura delle componenti ansiose, e poi "le capita che
- attività e interessi da cui prima traeva piacere non riescano a
- interessarla più?", "come riesce a dormire? Si sveglia presto al mattino, o
- ha ripetuti risvegli?", "com'è il suo appetito, diminuito o aumentato; ha
- perso peso? quanto?", "direbbe che il suo umore depresso ha una qualità
- diversa di quando in precedenza si è sentito triste?", "a volte è così
- irrequieto da non riuscire a sedere tranquillo?", "in precedenza quanto è
- durato un episodio simile?", "ha mai avuto in precedenza dei periodi in cui
- si sentiva innaturalmente su di giri", " periodi in cui si irritava per un
- nonnulla, in cui si litigava con tutti?", ecc. ecc. ecc. (e un episodio
- depressivo è solo un caso tra le possibilità da valutare per il singolo paziente,
- per non parlare di patologie mediche concomitanti di cui devo tenere conto).
- Ho difficoltà, dicevo, a pensare che questo tipo di colloquio (dettagliato
- per una terapia farmacologica che non sia data secondo criteri di massima),
- che sottopone (ripeto il verbo) il paziente a una dettagliata serie di domande
- possa essere lo stesso di (o possa non influire su) un trattamento
- psicoterapeutico psicoanalitico condotto dalla stessa persona.
-
- 4) Secondo quanto sopra, intendo che non si tratta solo di una diversa
- "griglia che usiamo per analizzare i fenomeni a monte e quelli a valle",
- ma anche di strumenti e manovre differenti, atti a elicitare elementi utili
- differenti alle diverse griglie di analisi
-
- 5) Il fatto che Paolo rimanga convinto che la persona che ha in stanza di
- analisi non sia puro spirito, ma si tratti di una persona concreta, e
- perciò corporea, non può che fargli onore, dato che al cambiare di laurea
- (e a volta anche senza questo cambiamento) questa appare teoria non
- condivisa, ma non comporta, a mio parere, che la distinzione di funzioni
- terapeutiche implichi in sé una concezione dualistica dell'essere umano.
- Se non avessi scritto una mail già lunga (per i miei standard almeno), e
- se non fosse questa una lista che discute di psicoterapia solo per via
- teorica - o modellistica, o come vi pare -, parlerei anche di un caso che in
- questo momento mi pone particolari problemi proprio per quanto sopra.
- Cari saluti
-
- 20 Aprile 1999, Paolo Migone:
- Il 18/04/99 Emilio Vercillo ha scritto:
- >1) non è uguale la situazione di contesto in cui il pz. si presenta da noi
- >all'inizio per una valutazione, o, essendo già in psicoterapia,
- >psicologizza sul suo mal di testa
-
- Non sono sicuro di capire perché dovrebbero essere diverse le due situazioni:
- in entrambe può "psicologizzare" o non, se è per questo.
- Inoltre ha scritto:
- >2) se porto fino in fondo quello che Paolo suggerisce, devo pensare che a
- >quel punto possa mettersi a valutare riflessi, Romberg, ecc., prescrivere
- >un EEG, un MRI, e infine operi il paziente per il tumore in fossa posteriore che
- >ha trovato, senza che questo configuri alcunché di diverso dagli eventi
- >reali che entrano nella relazione terapeutica. Sto ovviamente supponendo
- >che, come è possibile, Paolo sia anche un buon neurochirurgo.
-
- Certo, fai bene a portare fino in fondo la logica dei nostri ragionamenti,
- perché è così che si capisce meglio se tengono. Il "valutare i riflessi"
- (prendo questa operazione come esempio di tutte le altre che citi, tutte
- "mediche" o "chirurgiche") è una operazione omologa a quella di
dare i
- farmaci. Entrambe richiedono conoscenze mediche. Se uno non è un medico non
- le fa. Ma se è medico può farle. In che senso non fanno parte degli "eventi
- reali che entrano nella relazione terapeutica"? Il fatto che non siano
- usuali da parte dei terapeuti non significa niente, potrebbe essere dovuto
- al fatto che in genere non c'è bisogno di farli. Ma se ad esempio il
- paziente ha i sintomi di un tumore cerebrale, come fai ad accorgertene? (tra
- l'altro: siamo qui a valle o a monte?). Quale ragionamento clinico ti
- permette di non continuare a interpretare, fino alla morte del paziente, gli
- eventuali sintomi organici come dovuti unicamente a un conflitto inconscio?
- Ogni terapeuta, di fatto (medico o psicologo che sia) possiede (o dovrebbe
- possedere) delle minime conoscenze di base che gli permettono di non fare
- questo tipo di errori. Dovrebbe subito, se ha dei sospetti, suggerire al
- paziente di farsi vedere da uno specialista, ma solo perché in genere non è
- lui quello che conosce quel tipo di informazioni specialistiche. Se, caso
- rarissimo, quello psicoanalista facesse un lavoro part-time come
- neurochirurgo e fosse un ottimo specialista neurochirurgo, potrebbe anche
- dare consigli in tal senso, con tutta tranquillità (la stessa con cui parla
- di qualunque altro sintomo "psicologico"). Tu allora dirai, mosso più che
- altro dalla sorpresa per una cosa che in genere non si fa (il fatto che una
- cosa in genere non si fa non significa niente): ma allora deve essere lui ad
- operarlo al cervello? Deve essere lui, se ginecologo, a visitare la
- paziente? Questa problematica si pone, ma così allo stesso modo come si
- pongono tutte le altre problematiche in psicoterapia: quale impatto potrà
- avere sul paziente il fatto che il suo terapeuta si avvicina così tanto al
- suo "corpo" e non solo alla sua "mente"? Cosa può significare per
entrambi
- modificare così tanto le regole abituali del loro rapporto? Questo è un
- ottimo terreno di analisi e di scoperte di nuove cose. Dopo aver esaminato
- tutte le varie implicazioni, si può concludere che è meglio che lo
- specialista sia un altro, oppure no, così come nel caso dei farmaci.
- Ti ricordo anche che nella grossa tradizione psichiatrica americana (ma
- anche europea, es. svizzera) dell'approccio interpersonale (vedi Chesnut
- Lodge, ecc., cioè dove lavorò Sullivan, la Frida Fromm-Reichmann, ecc., e
- dove dagli anni '50-'60 inevitabilmente si danno anche farmaci) regolarmente
- da sempre vi è stata una commistione di interventi diversi nelle terapie
- psicoanalitiche che venivano condotte sui pazienti istituzionalizzati. Non
- era così facile non "sporcarsi le mani". Basta leggere un qualunque
- resoconto di casi clinici pubblicati, anche negli ultimi anni, di pazienti
- seguiti con terapia psicoanalitica in queste istituzioni, o in ambulatorio
- (sia privato che pubblico), per vedere come l'intervento "medico" (es. il
- farmaco) faccia regolarmente parte della logica interpretativa, pur valendo
- anche come "farmaco", così come qualunque altro intervento.
- Rimango sempre perplesso dalla difficoltà da parte di molti colleghi ad
- accettare questo modo di vedere le cose, come se improvvisamente ci si
- scordasse del tutto di Balint, di tutta la tradizione della "dynamic
psychiatry" ecc.
-
- Ancora:
- >3) supponiamo l'evenienza più semplice di una prima presentazione di un
- >paziente. Ho difficoltà (maggiore che a ritenerlo buon neurochirurgo) a vedere
- >Paolo sottoporre il paziente a una intervista che valuti tutti gli elementi come
- >frequenza delle crisi depressive, loro ricorrenza stagionale, peso
- >determinato delle componenti d'umore, dell'inibizione psicomotoria,
- >variazioni diurne, misura delle componenti ansiose, e poi "le capita che
- >attività e interessi da cui prima traeva piacere non riescano a
- >interessarla più?", "come riesce a dormire? Si sveglia presto al mattino,
o
- >ha ripetuti risvegli?", "com'è il suo appetito, diminuito o aumentato; ha
- >perso peso? quanto?", "direbbe che il suo umore depresso ha una qualità
- >diversa di quando in precedenza si è sentito triste?", "a volte è così
- >irrequieto da non riuscire a sedere tranquillo?", "in precedenza quanto è
- >durato un episodio simile?", "ha mai avuto in precedenza dei periodi in
cui
- >si sentiva innaturalmente su di giri", " periodi in cui si irritava per un
- >nonnulla, in cui si litigava con tutti?", ecc. ecc. ecc. (e un episodio
- >depressivo è solo un caso tra le possibilità da valutare per il singolo
paziente,
- >per non parlare di patologie mediche concomitanti di cui devo tenere
conto).
-
- Vedi sopra. Inoltre, anche ogni psichiatra che fa una intervista strutturata
- o semistrutturata per scopi di ricerca non può prescindere mai dalla
- attenzione che deve dare alla relazione interpersonale e all'impatto
- dell'intervista sul paziente. Queste sono cose arcinote, forse solo in
- qualche più o meno grande anfratto sottoculturale della psichiatria italiana
- si crede che esista lo psichiatra che fa solo la intervista arida per dare
- farmaci.
- In breve: se voglio dare un farmaco per ottenere degli effetti, e se per
- questo, come tu dici, ho bisogno di avere rapidamente altre informazioni che
- ritengo possano servirmi, quale è il problema a fare tutte le domande di cui
- ho bisogno? Il paziente, sapendo bene il contesto da cui nasce la mia
- esigenza, sarà lietissimo di collaborare, nel suo interesse. Non riesco
- proprio a capire dove sia il problema. Forse che il paziente vive male il
- fatto che io penso che abbia bisogno di farmaci? E perché? E se vivesse male
- il contrario? ecc. (ma di questo abbiamo già parlato le altre volte).
- Più vanti ha scritto:
- >Ho difficoltà, dicevo, a pensare che questo tipo di colloquio (dettagliato
- >per una terapia farmacologica che non sia data secondo criteri di massima),
- >che sottopone (ripeto il verbo) il paziente a una dettagliata serie di domande
- >possa essere lo stesso di (o possa non influire su) un trattamento
- >psicoterapeutico psicoanalitico condotto dalla stessa persona.
-
- Hai mai visto un videotape di una "intervista strutturale" di Kernberg? Fa
- molte domande che tu chiami "mediche" (eppure è uno psicoanalista,
- almeno alivello istituzionale, essendo stato eletto presidente
- dell'International Psychoanalytic Assoiciation
[IPA]). Queste rientrano
- perfettamente nell'intervista, perché il loro impatto "medico" fa
- parte del materiale da analizzare. (da notare che, secondo la logica che uso
- io, anche le domande "non mediche" sono biased, fanno già parte del
- pregiudizo dell'analista che crede che abbiano un determinato significato
- per il paziente).
- Al punto 4 dice:
- >4) Secondo quanto sopra, intendo che non si tratta solo di una diversa
- >"griglia che usiamo per analizzare i fenomeni a monte e quelli a valle",
- >ma anche di strumenti e manovre differenti, atti a elicitare elementi utili
- >differenti alle diverse griglie di analisi.
-
- Sì, ma il dato "psichiatrico" che emerge da una certa griglia
"psichiatrica"
- sarà necessariamente anch'esso filtrato dall'altra griglia, quella
- "psicologica", cioè rientrerà sempre all'interno di una logica comunque
- presente nell'interazione. Pare che tu creda nella esistenza di una griglia
- psichiatrica pura, ma non esiste uno psichiatra che non sia nello stesso
- tempo anche uno psicoterapeuta. Lo "psicofarmacologo puro" è una finzione,
- già il medico non specialistico deve avere determinate conoscenze
- relazionali, figuriamoci uno che non dà farmaci ma psicofarmaci. Lo
- "psicofarmacologo puro" mi ricorda l'anatomopatologo, che lavora coi
- pazienti come se fossero sul tavolo autoptico.
- Al punto 5:
- >5) Il fatto che Paolo rimanga convinto che la persona che ha in stanza di
- >analisi non sia puro spirito, ma si tratti di una persona concreta, e
- >perciò corporea, non può che fargli onore, dato che al cambiare di laurea
- >(e a volta anche senza questo cambiamento) questa appare teoria non
- >condivisa, ma non comporta, a mio parere, che la distinzione di funzioni
- >terapeutiche implichi in sé una concezione dualistica dell'essere umano.
-
- Non sono sicuro di questo.
- Mi fa piacere continuare a discutere con te, il mio unico problema a continuare
- a conversare in lista è la eventuale mancanza di tempo.
- Riguardo ad una nostra differenza di vedute, una possibilità (ma non ne sono
- sicuro, dato che mi sembra di averla sempre pensata così) è che essa dipenda
- anche dalla diverse culture a cui siamo stati esposti: la cultura
- psichiatrica americana è stata "psicoanalitica" fin dagli anni '20-'30, per
- cui ha quasi 50 anni di anticipo rispetto a quella italiana. Là certe cose
- sono state date sempre per scontate. Anche la ondata biologica recente
- (dagli anni '70-'80 in poi) a mio modo di vedere ha sempre avuto un
- importante retroterra dinamico non del tutto invisibile. Come ben sai, molti
- dei principali creatori del DSM-III (a cominciare da Spitzer) erano stati
- psicoanalisti e avevano anni di pratica clinica (a quattro sedute alla
- settimana! Spitzer lavorò otto anni in questo modo), e se non avevano
- completato il training erano stati immersi nella cultura psicoanalitica per
- tutta la loro formazione, essendo di quella generazione. Questa ideologia
- psicosociale, come è ben noto, ha da sempre caratterizzato la psichiatria
- del nuovo mondo rispetto all'Europa, e spesso si tende a dimenticarlo
-
- 18 Aprile 1999, Tullio Carere:
- Riguardo alla mail di Paolo Migone del 14-4-99,
- "A valle" significa: qualcosa è già avvenuto (qualsiasi cosa: un evento
- casuale o voluto, un intervento tecnico o una manifestazione emotiva
- spontanea, il racconto di un sogno o la somministrazione di un farmaco). Si
- tratterà di vedere in che modo questa cosa è vissuta e interpretata da
- ciascuno dei due partner della coppia terapeutica.
- "A monte" significa: qualcosa deve ancora accadere (per esempio fornire una
- certa interpretazione, prescrivere un certo homework o un certo farmaco).
- La cosa accadrà o meno, e accadrà in un modo o in altro, a seconda della
- mia decisione, e del modo in cui io cercherò di farla accadere. La
- questione allora è: con quale criterio io decido come muovermi?
- Prima risposta: con lo stesso criterio che uso a valle. Cioè cerco di
- esplorare in anticipo il significato che il mio intervento potrà avere sia
- per me, sia per il paziente, e mi regolo di conseguenza. Ma che cosa vuol
- dire precisamente che "mi regolo di conseguenza"? Vuol dire che in base
- alla mia valutazione (secondo scienza e coscienza) dei diversi fattori in
- gioco, e dei significati ad essi attribuiti da entrambe le parti, io decido
- di fare qualcosa (fornire un'interpretazione o un farmaco o quant'altro) da
- cui posso ragionevolmente aspettarmi un risultato terapeutico, e di
- astenermi dal fare qualcos'altro, le cui conseguenze sono dubbie.
- Ma se le azioni che io prendo in considerazione derivano da paradigmi
- diversi e incompatibili (ad esempio: fornire un'interpretazione freudiana o
- kohutiana, prescrivere un antidepressivo o un rimedio omeopatico - si può
- fare, lo dice anche la Bindi) come farò a confrontare tra loro atti che
- appartengono a sfere diverse e non comunicanti? Risposta: o dispongo di (o
- creo sul momento) uno schema sovraordinato che includa le due pratiche
- (incompatibili se prese ciascuna al proprio livello), e che mi permette di
- stabilire, ad esempio, quando intervenire in modo freudiano e quando in
- modo kohutiano, oppure vado "a naso", ma in questo caso dovrei fidarmi
- proprio tanto del mio olfatto (al punto che non procederei più secondo
- scienza e coscienza, ma secondo coscienza e olfatto).
- Non voglio dire nulla contro il naso, organo preziosissimo e in tanti casi
- insostituibile. Ma saremo tutti d'accordo, credo, che non dovrebbe essere
- l'organo guida di un terapeuta, quanto piuttosto la risorsa di emergenza,
- quando i procedimenti più regolari e affidabili per qualsiasi motivo non
- siano utilizzabili. Tornando, per concludere, alla questione dei farmaci,
- se il terapeuta dispone, poniamo, di una strumentazione psicoterapeutica di
- tipo psicoanalitico, ma per somministrare un farmaco non può fare altro che
- sottoporre il paziente a un interrogatorio come quello riportato da
- Vercillo nel suo messaggio di ieri, per "integrare" le due cose non gli
- resta proprio altro che il naso, e che Dio la mandi buona, a lui e
- soprattutto al suo paziente. Se invece il terapeuta dispone di schemi o
- mappe o modelli sovraordinati (anche parziali e provvisori) che includono,
- o mettono in relazione dialettica, le due sfere di per sé incompatibili se
- lasciate ciascuna al proprio livello, allora e solo allora, a mio parere,
- si può cominciare a parlare di integrazione.
- Grazie a Paolo Migone a Emilio Vercillo per questa stimolante discussione
-
- 20 Aprile 1999, Paolo Migone:
- Caro Tullio, mi sembra di non essere d'accordo con te. A me sembra che
- "l'interrogatoriocome quello riportato da Vercillo nel suo messaggio di ieri"
sia
- uno stimolo come un altro, o forse addirittura meno potente di altri, analizzabile
- come qualunque altra cosa. Forse una certa interpretazione psicoanalitica può
- essere ancor più destrutturante, ancor più difficile da analizzarne gli
- effetti. Una interpretazione psicoanalitica può essere altrettanto difensiva
- (se questo è il caso), offensiva, intrusiva, o forse altrettanto empatica,
- ecc. Magari solo con un interrogatorio psichiatrico di quarto grado il
- paziente, che ne so, a causa del suo transfert, si sente veramente capito
- dal suo terapeuta e di questo poi se ne può parlare. E magari proprio un
- atteggiamento psicoterapeutico classico o "empatico" viene vissuto malissimo
- da un paziente, che si aspettava qualcos'altro.
- Mi sembra che vi sia il solito pregiudizio di fondo: i "dati" voi li conoscete
già,
- sapete già quali sono quelli psicologici e quali sono quelli medici...
- Sembra un dualismo culturale, nel terapeuta. Per me i dati sono sempre
- psicologici e ovviamente anche biologici, altrimenti non esisterebbero.
-
- P.S.: se ho capito bene, in questa tua mail tu poi di fatto abolisci la
- differenza, fatta in una precedente mail, tra "a monte" e "a valle",
nel
- senso che in entrambi i casi si tratta pur sempre di usare un criterio di scelta.
-
- 29 Aprile 1999, Tullio Carere:
- Caro Paolo, credo che per riuscire a intenderci la questione delle valutazioni
- "a monte" e "a valle" vada riformulata, anche a costo di ripartire
da cose per
- noi arcinote e di dilungarmi più di quanto sia mia abitudine. Per
- l'analista tradizionale (e in questo senso anche Gill, almeno fino al 1984,
- lo è) qualsiasi intervento deliberato (come una prescrizione
- comportamentale o farmacologica, o la ricerca di un'esperienza emotiva
- correttiva) deve essere evitato. Se si ammette solo un'interazione
- involontaria, implicita o intrinseca, il senso si dà solo "a valle", cioè
- a posteriori, per un evento non attivamente cercato (posizione
- tradizionalista ancora recentemente ribadita da Katz e definita da Gillet,
-
sulla lista di discussione del Journal of the American Psychoanalytic
- Association, "espressione della resistenza ortodossa a nuove idee"
- [expression of orthodox resistance to new ideas]).
- Per chi ha superato la "resistenza ortodossa", invece, anche le azioni
- terapeutiche deliberate sono lecite, e anzi doverose. Di queste il senso
- deve essere valutato "a monte", cioè prima di effettuarle, e rivalutato
"a
- valle", dopo che sono state compiute. Ma, una volta superata la
- "resistenza ortodossa", e quindi introdotta la necessità di valutazioni
- anticipatorie, lo scenario cambia completamente rispetto a quello
- "psicoanalitico classico". In questo, infatti, c'è un'unica azione
- terapeutica deliberatamente cercata, ed è l'interpretazione. Questa
- "verità" non è mai messa in discussione: in questo orizzonte si discute
- solo sulla giustezza dell'interpretazione, sulla sua tempestività, e simili.
- Nel nuovo scenario, invece, che mi sembra giusto chiamare
- "psicoterapeutico", o "terapeutico" tout court, si ammette la
legittimità e
- anzi la necessità di molteplici azioni terapeutiche, oltre a quella
- interpretativa. Naturalmente il significato di tutte queste azioni deve
- essere valutato, a monte e a valle, ma si tratta di valutazioni (o
- interpretazioni) ben diverse da quelle dello scenario precedente. Infatti
- l'interpretazione "psicoanalitica" è ritenuta terapeutica di per sé, in
- qunato porta alla conoscenza un materiale inconscio, o lega in un processo
- secondario un materiale primario. Invece l'interpretazione "terapeutica" si
- propone di stabilire in primo luogo se una certa azione, o un certo
- movimento del processo, sono o non sono terapeutici, e ha quindi
- l'obiettivo di favorire certe azioni o certi processi ritenuti terapeutici,
- e di frenarne altri, ritenuti non terapeutici (per es. dare o sospendere un
- certo farmaco, incoraggiare un'esperienza ritenuta correttiva, scoraggiarne
- un'altra ritenuta patogena). In questo quadro la "psicoanalisi" diventa
- solo un settore particolare della terapia: portare alla coscienza un
- materiale inconscio, o comunque fornire un'interpretazione, è un'operazione
- che può essere terapeutica oppure no (sappiamo tutti come può essere
- patogena un'analisi), e quindi va attuata o evitata a seconda di tale
- valutazione, al pari di qualsiasi altra azione.
- Ma una volta usciti dal quadro ristretto e tranquillizzante in cui sappiamo
- che "in ultima analisi" quello che conta è solo "fornire buone
- interpretazioni", ci troviamo calati in un orizzonte ben più vasto in cui
- ogni cosa può essere terapeutica o patogena: un'interazione affettiva come
- un farmaco, un'interpretazione come un santino di padre Pio. A questo punto
- la distinzione tra valutazioni "a monte" e "a valle" perde di senso
(sono
- d'accordo con te): è evidente che in un processo interattivo ci troviamo
- continuamente a monte di qualcosa e a valle di qualcos'altro. Quello che
- conta, allora, è installare all'interno della relazione terapeutica un buon
- vertice conoscitivo, in cui esplorare continuamente e assieme al paziente
- il significato di tutto ciò che accade, inclusi i progetti e le intenzioni
- (che stanno "a monte" delle azioni che saranno poi effettivamente
- compiute). In alcuni casi la conoscenza che in tal modo si ottiene ha di
- per sé valore terapeutico: si produce per così dire un "effetto
- psicoanalitico". In altri casi il lavoro di conoscenza ha valore
- preparatorio per azioni diverse, di ordine psicoterapeutico (come la
- ricerca di un'esperienza emotiva correttiva), psichiatrico (la prescrizione
- di un farmaco), medico (il suggerimento di una gastroscopia), o altro
- ancora. Conclusioni:
-
- 1. La questione delle valutazioni "a monte" non si pone in un
- trattamento analitico tradizionale, che ammette solo un'interazione
- implicita o intrinseca. Si pone invece in un trattamento che prende in
- considerazione e tenta di integrare molteplici fattori terapeutici: ma in
- questo caso la "griglia" di valutazione è appunto una griglia terapeutica
- (essendo una griglia psicoanalitica solo una sottoscala di tale griglia
- generale), e vale tanto a monte, quanto a valle di ogni singola interazione
- terapeutica.
-
- 2. Una volta ammessa la legittimità, e anzi la doverosità,
- dell'integrazione di molteplici e svariate interazioni terapeutiche, tale
- integrazione non può peraltro assolutamente essere data per scontata, dal
- momento che abbiamo a che fare con universi teorico-tecnici disparati e a
- tutta prima incompatibili (di qui la perplessità di Emilo Vercillo, credo).
- L'integrazione è, piuttosto, un problema e un compito. Una delle vie
- all'integrazione - quella che, come sai, preferisco - è la costruzione di
- mappe in cui i fattori terapeutici essenziali sono organizzati in strutture
- coerenti e passabilmente unitarie (ne ho parlato a Miami nei giorni scorsi, al
- congresso della Society for the
Exploration of Psychotherapy Integration
- [SEPI], con Mike Basseches e Hilde Rapp, anche loro "cartografi"
- come me: abbiamo deciso di organizzare assieme un panel sul tema al
- prossimo congresso). Invece non sono sicuro di avere capito bene, Paolo,
- qual è la tua via all'integrazione. Intendi dire che il dialogo terapeutico
- è di per sé una condizione necessaria e sufficiente per l'integrazione,
- senza alcun bisogno di strumenti concettuali supplementari? (E' la tesi di
- Arthur Egendorf, ma non credo che ti riconosceresti nei suoi presupposti
- heideggeriani). Aspetto lumi.
-
- 30 Aprile 1999, Paolo Migone:
- Caro Tullio, innanzitutto ben tornato dal convegno della SEPI a Miami.
- Spero che sia stata una esperienza ricca di stimoli.
- Ti ringrazio per questa tua ultima mail, che tocca importanti punti con la
- solita lucidità. Mi sembra di essere d'accordo con te su quasi tutto. Vengo
- quindi sui punti critici e sulle domande che fai.
- Innanzitutto devo dire che ho sempre avuto delle perplessità a separare
- terapia da conoscenza (cioè dalla interpretazione), nel senso che lo scopo
- della psicoanalisi, da come lo ho sempre capito, e da come a mio parere lo
- intendeva Freud, è curare le persone, e la interpretazione veniva usata solo
- perché serviva a quello scopo. Freud era alla ricerca di tecniche per
- modificare le persone. La "conoscenza" era al servizio della cura, e non
- viceversa, anche per ovvi motivi etici. Lo "junktim" freudiano (legame
- inscindibile tra terapia e conoscenza) era un'ipotesi, confermata anche dal
- fatto che la conoscenza può fare male. Infatti tu dici:
- >la "psicoanalisi" diventa
- >solo un settore particolare della terapia: portare alla coscienza un
- >materiale inconscio, o comunque fornire un'interpretazione, è un'operazione
- >che può essere terapeutica oppure no (sappiamo tutti come può essere
- >patogena un'analisi), e quindi va attuata o evitata a seconda di tale
- >valutazione, al pari di qualsiasi altra azione.
-
- Quindi, soprattutto dopo l'avvento della Psicologia dell'Io (concetti di
- difesa, ecc.) è diventata prassi normale non dare conoscenza se questa è
- patogena, ma lavorare sulle difese, anzi, rafforzarle, e così via. Il fatto
- che certe scuole psicoanalitiche lavorino ancora su basi teoriche della
- "Psicologia dell'Es" (cioè interpretare la "verità" come massimo
compito
- dell'analista), es. certi kleiniani, certi lacaniani, ecc. (ammesso che poi
- lavorino così, cosa improbabile), non cambia la questione, almeno io ho
- sempre visto le cose in questo modo. Quindi, in questa prospettiva, e
- volendo insistere sul mio modo provocatorio con cui ho posto sempre la
- questione, non sarebbe vero che, come dici,
"la "psicoanalisi" diventa solo
- un settore particolare della terapia"
ma la "psicoanalisi" (così come la
- intendiamo noi, cioè come una pratica a
tutto campo) è la "terapia", in quanto nelle
- premesse teoriche di questa
psicoanalisi vi è ben chiaro l'assunto che "non si deve affatto
- interpretare
per il gusto di interpretare". Tu citi autori "ortodossi" che la pensano
- diversamente, ma allora si potrebbero citare altri autori e così
- all'infinito. Proporrei invece di non citare nessuno (neanch'io Gill, che
- peraltro ho sempre citato a scopo retorico, per convincere il lettore, non
- perché mi servisse per la logica del discorso) e di basarci solo sui nostri
- ragionamenti. Ho l'impressione che potremmo essere d'accordo, ma vorrei
conferma.
- Il secondo punto che sollevi, collegato al precedente, è quello della
- integrazione. Devo dire che ho sempre avuto delle perplessità anche a usare
- questo termine, in quanto l'ho sempre trovato un pò privo di senso. Si
- possono integrare due cose solo se queste due cose esistono separatamente,
- cioè se una non contiene già l'altra. E qui, alla luce delle cose dette
- prima, ho dei problemi. Pensa solo a un Gedo (altro che terapia integrata!),
- oppure allo stesso Freud che era meno "freudiano" di tanti suoi seguaci.
- Casomai si è imparata una maggiore raffinatezza interpretativa, ad
- analizzare ad esempio meglio la ubiquità del transfert, ma questo solo come
- arricchimento alla totalità e complessità della terapia (sai benissimo poi
- quanta importanza venga data, nella psicoanalisi recente, alla interazione
-
inconscia come ipso facto terapeutica (es. Stern et al. nell'International
- Journal of Psychoanalysis, 1998/5, http://ijpa.org/archives1.htm).
-
In altre parole, se Gillett parla di "expression of orthodox resistance to
- new ideas", c'è da chiedersi quali sono queste "nuove" idee:
quelle di Ferenczi
- degli anni '20? quelle di Alexander degli anni '30 e '40?
- (Un'ultima osservazione, dato che questo dibattito riguarda "Farmaci e
- psicoterapia": chi è favorevole a una psicoterapia cosiddetta
"integrata",
- allora forse dovrebbe, a maggior ragione, essere favorevole a una figura
- unica che, se gli è consentito e se ne ha l'expertise, somministra farmaci e
- psicoterapia). Un caro saluto
-
- 1 Maggio 1999, Piero Porcelli:
- A proposito dell'ultima osservazione di Paolo Migone della sua mail del
- 30-4-99, come ho già detto in un altro intervento su questo tema, poche
- volte durante il mio training analitico è stato trattato il rapporto tra farmaci
- e psicoterapia (un po' più spesso nelle supervisioni, ma mai approfondito)
- ed in ogni caso la versione ufficiale sostenuta quasi come dato scontato è
- la divisione fra chi somministra i farmaci e chi fa la psicoterapia. Ritengo
- che la maggior parte dei colleghi adoperi questa linea di comportamento
- nella prassi clinica routinaria. Ripeto questa nota perché dai discorsi di
- Paolo Migone e Tullio Carere sembra che la realtà "normale" sia l'opposto e
- che ci sia una sostanziale unanimità sul modo critico di intendere questo
- rapporto così come viene discusso in lista.
- Chiunque abbia una concezione laica della psicoanalisi e della psicoterapia
- non può che salutare con entusiasmo l'idea di abolire legittimamente gli
- steccati rigidi eretti dalle "resistenze ortodosse". In effetti, pretendere
- di impiegare una tecnica psicoterapeutica (quella analitica classica) quale
- metro di misura di ogni intervento terapeutico (il "si fa così") appartiene
- ad una concezione molto fideistica e religiosa della psicoanalisi.
- Partendo da questo punto, l'affermazione di Paolo sulla figura unica del
- terapeuta è del tutto consequenziale all'idea che la terapia sia una
- analisi dei significati della relazione. Questa, che è senz'altro una idea
- psicoanalitica, identifica la terapia non con la psicoanalisi come tecnica
- (che credo resti una delle tante tecniche psicoterapeutiche, come dice
- Tullio) ma con una filosofia molto ampia che intende la psicoterapia
- anzitutto come rapporto, per cui in questi rimandi di equivalenze semantiche
- la psicoanalisi è "la" terapia perché ogni psicoterapia è rapporto, come
- dice Paolo. In sostanza, non vedo contraddizioni fra le due posizioni di
Tullio e Paolo.
- Cosa significa figura unica del terapeuta? Me lo chiedo per ovvie ragioni,
- essendo io psicologo e non medico. Figura unica potrebbe significare che il
- terapeuta (nel senso ampio che intende Tullio) si assume la
- "responsabilità" della terapia e quindi dell'integrazione fra i diversi
- momenti della terapia. L'expertise di cui parla Paolo non si riduce soltanto
- al possesso dei requisiti legali (laurea in medicina) ma, nell'ottica della
- relazione fra terapeuta e paziente, al fatto che il terapeuta si assume la
- responsabilità diretta della terapia in toto, ossia si identifica al
- paziente come agente responsabile della cura. Ancora più nello specifico,
- significa che il terapeuta accetta di identificarsi socialmente come figura
- di riferimento della terapia e per il paziente come vertice responsabile di
- aiuto all'analisi dei vari momenti della relazione, compresa la
- somministrazione dei farmaci come di altri interventi sanitari.
- Inviare il paziente dallo psichiatra per la terapia farmacologica non è un
- semplice atto qualsiasi, non è privo di conseguenze. Primo, lo psicofarmaco
- ha una valenza potente poiché interviene nella mente stessa del paziente ed
- ha effetti diretti e collaterali nel processo mentale del paziente. Non è
- cioè una molecola che ha riflessi indiretti e mediati, simbolici, per il
- paziente in quanto oggetto esterno alla propria mente intesa come soggetto.
- Pertanto, la somministrazione di una terapia antidepressiva per un episodio
- depressivo grave non è la stessa cosa della somministrazione di una terapia
- antibiotica per l'eradicazione dell'HP nello stomaco. Secondo, il paziente
- viene inviato ad un medico per la gestione chimica di un pezzo della propria
- vita mentale e porta al medico anche un pezzo di rapporto transferale. Chi
- si assume, in questo caso, la responsabilità della terapia? La cosa più
- difficile che accade in psicoterapia - ed è la mia esperienza quasi
- costante con pazienti seguiti farmacologicamente da uno psichiatra - è che
- è il paziente stesso a gestire l'integrazione fra le figure terapeutiche.
- Quando questo significa confusione di livelli (e va da sé che le manovre di
- gestione da parte del paziente sono largamente inconsce), il mio compito va
- al di là dell'integrazione poiché inizia dove è necessario operare in
- senso opposto, con la scissione di livelli sovrapposti in modo
confusivo.
- Estremizzando in maniera spinta quello che voglio dire, è come se il
- paziente in analisi si rivolge ad un terapeuta comportamentale per risolvere
- con la desensibilizzazione in relativamente breve tempo un fastidioso
- sintomo fobico ben circoscritto. Se nel corso dell'analisi sono io stesso a
- compiere interventi in questa direzione (cosa che ho anche fatto in più di
- una occasione), sono comunque consapevole del significato di ciò che sto
- facendo e pronto a chiarirne gli aspetti di relazione con il paziente. Se lo
- demando ad un collega (infatti, se posso inviare il paziente allo psichiatra
- per una sindrome depressiva, perché non dovrei inviarlo da un terapeuta
- comportamentale per una sindrome fobica?), chi gestirà l'integrazione fra i
- diversi aspetti della terapia e dei canali transferali aperti?
-
- 3 Maggio 1999, Tullio Carere:
- Certo, è tanto spesso il paziente a "gestire" l'integrazione, visto che non
- lo fanno altri. Come notava Petrella, alla dis-integrazione del paziente
- corrisponde abitualmente la dis-integrazione terapeutica, in quanto la
- terapia è gestita da figure diverse, o dalla stessa figura con paradigmi
- diversi e incompatibili. Mi permetto di riprodurre qui sotto il mio
- commento del 17-6-1998 all'articolo
di Petrella ("Intervento
- farmacologico versus
intervento psicologico: la questione dell'integrazione"),
- perché mi pare che anticipasse il dibattito attuale:
-
- La malattia mentale - scrive Petrella nel suo articolo
"Intervento
- farmacologico versus intervento psicologico: la questione
- dell'integrazione" - si presenta, dal punto di vista dell'integrazione
- psichica, sotto la forma della perdita o del difetto di tale
- integrazione, quindi come scissione fra parti, dissociazione,
- frattura o frammentazione". La terapia dovrebbe pertanto
- svolgere una funzione reintegratrice, ma "si verifica facilmente che alla
- dis-integrazione del paziente corrisponda nel campo dell'intervento un
- insieme teorico-clinico esso pure disgregato e travagliato da impostazioni
- e concezioni diverse".
- La terapia dei disturbi mentali è dunque "naturaliter" integrata: ma
- questa integrazione è ostacolata dalle resistenze opposte dai modelli
- clinico-terapeutici, che "aspirano ciascuno a un certo imperialismo". In
- questo momento della storia della psichiatria il modello imperialista
- dominante è quello psicofarmacologico (che ha soppiantato il tiranno
- precedente, il paradigma psicoanalitico), con la riduzione del terapeuta a
- "diagnosta-prescrittore, che sembra procedere mediante un protocollo
- standardizzato e sicuro, o che perlomeno si presenta sicuro egli stesso dei
- suoi strumenti e dei suoi linguaggi".
- Alla malattia del paziente come perdita o difetto di integrazione personale
- corrisponde la malattia del terapeuta o dell'istituzione curante,
- oscillante tra l'imposizione unilaterale di un modello acriticamente e
- arbitrariamente assunto da un lato e "l'accozzaglia, la confusione
- sistematica" dall'altro. Medice cura te ipsum, dunque. Ma qual è la
- terapia del terapeuta che Petrella propone? "Forse le posizioni culturali
- possono essere eclettiche, [si può] ammettere un certo pluralismo di
- vedute coesistenti; ma al medico si richiede l'integrità personale della
- presenza, che vaglia tutte le valutazioni e assume la responsabilità finale
- della posizione terapeutica. Questo principio di integrità, che credo anche
- Jaspers condividerebbe, non va mai dimenticato. A livello istituzionale il
- problema diventa culturale: l'integrazione è il risultato di un cemento
- culturale dell'insieme".
- Si fa giustamente appello a un "principio di integrità", che può essere
- reso operante tanto negli individui quanto nei gruppi. Non si può non
- apprezzare, in un autore che in questo momento presiede un'istituzione
- psicoanalitica in cui ancora serpeggiano antiche e non sopite tentazioni
- egemoniche, questa posizione super partes e "antiimperialistica". Su
questa
- base ci si può davvero incontrare. Ciò detto e riconosciuto, occorre
- chiedersi: come deve essere inteso questo principio di integrità?
- Si tratta, in primo luogo, di prendere le distanze dalle pretese di
- supremazia avanzate dai vari modelli. Ma come è possibile una così
- radicale presa di distanza che sospende la validità di ogni presupposto
- teorico? E' la chiave di volta della questione ed è il tema che stiamo
- dibattendo da alcuni mesi sulla lista PM-PT: la domanda si pone per la
- psichiatria allo stesso modo che per la psicoterapia. E' possibile la messa
- in dubbio di tutto ciò che è noto senza un atto di affidamento
- all'ignoto, la posizione che Bion ha indicato con la formula F in O?
- Non si tratta di dare una fondazione "bioniana" alla psichiatria. La
"fede
- filosofica" di Jaspers, opportunamente citato da Petrella in questo
- contesto, è una nozione che ampiamente anticipa l'F di Bion, e va
- altrettanto bene per denotare la capacità, che lo
- psichiatra-psicoterapeuta deve conquistare, di soggiornare in uno spazio
- libero da teorie, di attingere al fondamento ateoretico di ogni teoria, di
- lasciarsi guidare dalla "cosa in sé" del processo senza costringerlo nel
- letto procustiano di un modello qualsivoglia.
- In secondo luogo, se è basilare per lo psichiatra emanciparsi dalla
- tirannide dei modelli, gli è poi necessario riappropriarsi della capacità
- di costruire modelli e di usarli come strumenti di orientamento e di
- lavoro: cosa che diventa possibile nel momento in cui è visto e superato
- il loro uso perverso come strumenti di identificazione e di potere. In
- particolare servono dei buoni modelli per riconoscere i bisogni
- fondamentali che sono in gioco in ogni relazione psichiatrica-psicoterapeutica,
- indipendentemente dall'orientamento delterapeuta.
- Molti pazienti portano in terapia un bisogno implicito, a volte dichiarato,
- di conoscenza di sé: dei propri conflitti, delle proprie trappole
- cognitive e caratteriali. E, oltre a questo, il bisogno di superarsi, di
- autotrascendersi, di ritrovare una capacità perduta o mai conosciuta di
- rigenerarsi e reinventarsi la propria esistenza a ogni passo. In altre
- parole, i pazienti più motivati e più ambiziosi aspirano a raggiungere
- essi stessi quella capacità di muoversi lungo l'asse che unisce K e O, la
- conoscenza e l'ignoto, che avrebbero il diritto di trovare già minimamente
- formata nel loro terapeuta.
- Altri pazienti portano in terapia dei bisogni più primitivi,
- corrispondenti a carenze patite nel corso dello sviluppo. Essi chiedono al
- terapeuta, in modo per lo più indiretto, di svolgere per loro alcune
- funzioni basilari che non sono state adeguatamente coperte nel loro
- ambiente di origine: essenzialmente di contenimento materno e di
- responsabilizzazione paterna. La somministrazione di farmaci si presta
- molto bene, come è ben noto a ogni psichiatra, alla modulazione di
- risposte su entrambi i registri, rassicurante e responsabilizzante.
- Per curare la "dis-integrazione" del terapeuta, Petrella fa appello a un
- principio di integrità capace di superare tanto l'imposizione arbitraria
- di modelli quanto la confusione velleitaria e impotente. Io aggiungo che il
- nostro compito, una volta pervenuti alla formulazione di questo principio,
- è di comprenderlo bene nella sua sostanza e articolarlo nel suo
- significato. L'integrità del terapeuta significa innanzitutto integrale e
- radicale libertà dalla tirannide dei modelli, che implica la radicale e
- integrale libertà dall'identificazione con i presupposti teorici e tecnici
- di qualsiasi scuola, causa prima della "dis-integrazione". Tale libertà, a
- sua volta, si fonda sulla capacità e la volontà, indicateci da Jaspers e
- Bion, di affidarsi a un vuoto di sapere.
- Solo su questo fondamento è possibile costruire dei modelli in funzione
- dei bisogni del paziente, e non dei bisogni di identificazione e
- appartenenza del terapeuta. Integrità del terapeuta significa allora
- capacità di cogliere i bisogni di cura e di crescita che il paziente
- esprime nella relazione e di fornire ad essi una risposta integrata: non
- occasionale nè semplicemente eclettica, ma fondata sulla visione globale
- della persona che solo al terapeuta provvisto di integrità personale è
- accessibile. In questa visione globale i diversi bisogni che di momento in
- momento si esprimono nella relazione sono sottratti a una considerazione e
- un trattamento parcellare e settoriale per trovare il loro posto
- nell'unità della persona.
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del Dibattito, avvenuto nell'aprile-maggio 2000 |