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Salute Mentale e Comunicazione |
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Editing a cura di Antonio M. Favero e Paolo Migone
9 marzo 1999, GAETANO GIORDANO: Esiste a mio parere una crisi della psicoanalisi e della psicoterapia di impostazione più o meno ortodossa, e a mio parere tale crisi emerge perché l'epistemologia della psicoterapia tendenzialmente non riesce ad abbandonare un linguaggio che rimanda ad un mondo di "oggetti" - mentre la nostra attività cognitiva coglie relazioni che l'attività linguistica trasforma poi in quelle distinzioni del nostro distinguere che noi definiamo appunto "oggetti". Per voi il "setting" esiste davvero - e discutete se è modificabile o no. Per me il "setting" descrive il mio bisogno di una esperienza ordinatrice autoreferenziale al mio rapporto con quella persona. Setting è una parola che rimanda ad una esperienza interna - ma non è qualcosa di cui si possa dire se è o no modificabile, perché ogni volta è diverso e identico allo stesso tempo.
Gli "oggetti" sono dunque ciņ che emerge dalla distinzione di distinzioni di esperienze interne, e quella che definiamo realtà emerge dal linguaggio, come spiegazione della distinzione tra sé e non-sé nella prassi dell'osservatore. L'autocoscienza, in questo senso, "nasce linguisticamente nella ricorsività linguistica che costruisce la distinzione del sé come entità quando spiega il funzionamento dell'osservatore che, in un dominio consensuale di distinzioni, distingue il sé da altre entità" (Maturana, 1993).Quella che definiamo la "realtà" è quindi la narrazione di come noi narriamo noi stessi a noi stessi. In questo senso, credo che il Teatro sia stata la prima forma di psicoterapia e che la psicoterapia sia indistinguibile dal Teatro - allorché le differenze fra questi due modi di esprimere la stessa dimensione della mente umana diventano identità. Hilmann definisce ciņ che si esprime in entrambi : la base poetica della mente umana; per me è la creatività, che lascia divenire cosciente l'autoreferenzialità con cui noi narriamo il mondo narrando noi stessi attraverso il mondo. Ogni maschera costituita, per esempio, da un linguaggio gergale, rimanda allora la consapevolezza della maschera - cioè che il nostro essere nel mondo è un raccontare il mondo da palcoscenici e da linguaggi sempre diversi - quelli che noi abbiamo distinto come tali e che poi oggettiviamo in un dipinto (Escher) che crediamo di guardare. Fare psicoterapia è creare tale consapevolezza: e cioè che noi siamo la nostra narrazione e che possiamo cambiare noi stessi cambiando questa narrazione. Il setting non è né fisso né variabile perché è un linguaggio e, come tale, è autoreferenziale a una esperienza cognitiva interna - dato anche che l'autocoscienza supera la corporeità che la genera perché opera nella comunicazione umana (Maturana e Varela, 1993). In riferimento agli apprezzamenti di Marina Ricci sul mio intervento ("Mi piace quello che hai scritto, sono assolutamente d'accordo e contenta di esserlo"), direi che il nucleo centrale della Biologia della Conoscenza, come Maturana definisce i propri studi, risiede nell'idea che quella che usualmente definiamo "realtà" non esista una oggettivamente - e non sia dunque accessibile come tale al consenso percettivo delle persone normali. In tale prospettiva, non esiste dunque una "verità", non esiste dunque una "percezione" della realtà, e la conoscenza non è una attività di "comprensione" - bensì di specificazione. Conoscere è dunque creare "distinzioni" in funzione dell'adattamento: non esiste dunque un "vero" o un "falso" quali li dà la logica aristotelica, esistono invece descrizioni più o meno funzionali. La domanda-trappola che in genere si rivolge a chi segue tale epistemologia è dunque chiedergli se ritiene "vera" la propria teoria . Una teoria che rinuncia al concetto di "verità" non puņ difatti considerare se stessa "vera", non puņ asserire che le proprie affermazioni sono "vere" e quelle delle teorie con enunciati opposti "false", e non puņ convalidare se stessa ricorrendo al concetto di obbiettività. Cosa asserisce dunque una teoria come questa sulla validità delle proprie affermazioni? Che sono adeguate a descrivere un processo: dalla verità la palla viene passata alla funzionalità delle descrizioni. La stessa prospettiva, applicata al concetto di "malattia mentale" cambia tutta la prospettiva con cui possiamo descrivere il rapporto tra il "malato" e la "realtà": il punto non è se le sue affermazioni sono "vere" o "false", ma se sono funzionali o no - cioè se utilizzando quelle descrizioni lui costruisce un mondo nel quale vive adeguatamente o meno. Nei rapporti umani vale la stessa regola: il problema non è stabilire chi ha "ragione" e chi "torto", perché non si puņ ricorrere al concetto di "obbiettività" per convalidare le proprie affermazioni. Il mio compiacimento sugli apprezzamenti di Marina Ricci, evidenzia in questo senso il rischio di una reciproca gratificazione quando ci si dà ragione a vicenda. Il concetto di "obbiettività" è autoreferenziale, e darsi ragione a vicenda equivale a convalidare le affermazioni nelle quali ci si riconosce attraverso il ricorso all'idea di una realtà obbiettiva che noi abbiamo capito e compreso e gli altri no. Il rischio è dunque che mi piaccia chi mi da ragione, e che solo quando mi danno ragione io costruisca una definizione di accordo nella quale riconoscermi. Il punto è assumere le proprie asserzioni sulla "realtà" come frutto della propria autonomia (nel senso di von Foerster: regolazione della propria regolazione) e dunque come frutto della propria responsabilità. L'imperativo etico di von Foerster è: Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle scelte. Entrare nella logica di "vero/falso" significa impoverirsi, e creare mondi nei quali lesprimere il proprio compiacimento è volgare perché strumentale ad una propria soddisfazione solipsistica - e non ad un ampliamento delle proprie possibilità di scelta. 12 marzo 1999, TULLIO CARERE: Caro Gaetano Giordano, ti ringrazio per avere ripreso l'obiezione che ti ho mosso alcuni mesi fa su questa lista (2/09/98, "Il mistico e lo scienziato": che verità hanno le affermazioni di chi non crede nella verità?). Non c'è bisogno che un'interpretazione (o una "narrazione") sia vera, dici in sostanza: basta che funzioni. Se ora "dalla verità la palla viene passata alla funzionalità delle descrizioni", giochiamoci anche questa partita. Che cosa significa che una descrizione "funziona"? Per evitare ripetizioni, riprendiamo brevemente cose già dette. Tu hai scritto (3/09/98):
Ripartiamo da qui. L'esempio della farfalla allucinata potrebbe bastare per capire che il concetto di funzionalità non puņ essere scisso completamente dal concetto di obiettività. Non basta che le cose funzionino nello spazio mentale (la logica paranoica funziona benissimo nella mente del paranoico): per funzionare "nel mondo esperienziale" occorre che funzionino, almeno in parte, anche oggettivamente. Occorre, cioè, che la farfalla sia capace di trovare il fiore oggettivo - non solo il fiore mentale - e che il terapeuta sia capace di riconoscere oggettivamente uno psicotico pericoloso per sé e per altri. Oppure: che valore ha l'affermazione "la mia descrizione funziona nel mondo esperienziale"? Dipende. Se fatta da uno psicotico o da un mitomane, vale molto poco. E' un'affermazione che puņ essere più o meno vera o più o meno falsa, come qualsiasi altra. E' arcinota la beffa di Sokal alla rivista "Social Text", tempio dei post-modernisti/costruttivisti radicali, incapaci di riconoscere gli strafalcioni e le sciocchezze di cui Sokal aveva infarcito l'articolo pubblicato senza sospetti dall'autorevolissima rivista. Una volta abolito il concetto di verità, si è del tutto indifesi di fronte a simili beffe. Il giudizio di funzionalità non puņ prescindere dai giudizi di obiettività e di verità. Giudizi tutti, dovrebbe essere chiaro, altamente problematici: una piena obiettività non si raggiunge mai, così come nessuno mai possiede la pura verità. Nel campo psicoterapeutico abbiamo una "estrema destra" di fautori acritici della verità scientifica positiva, e una "estrema sinistra" di negatori, ugualmente acritici, di ogni obiettività e verità. Ciņ che accomuna gli oggettivisti e i soggettivisti radicali è la difficoltà a mantenere la tensione dialettica tra il soggetto e l'oggetto: quella tensione che, se mantenuta, è fonte di ogni conoscenza feconda e trasformativa. 24 marzo 1999, GIAN PAOLO SCANO: Caro Tullio Carere, il 20 marzo scorso hai scritto che
Si puņ essere d'accordo o in disaccordo; siamo in disaccordo su questioni sostanziali. Poco male! Si discute per questo! Mi preoccupo, perciņ, di evidenziare il più possibile le discordanze nella speranza che ciņ favorisca un dibattito più chiaro. 1) Scrivi che "non puņ esistere un ambito dell'interazione indipendente da intenzioni e contenuti, ma solo un ambito indipendente da intenzioni e contenuti coscienti e/o deliberati. Ne consegue che non si possono distinguere "due differenti ordini di significato", ma solo diversi livelli di consapevolezza e volontarietà dell'interazione". La tua posizione è del tutto legittima, talmente legittima che è esattamente quanto la psicoanalisi sostiene da cento anni. Non credo perņ che questo asserto sia compatibile con l'ulteriore asserto secondo cui l'interazione è "intrinseca alla procedura", a meno che questo non venga assunto in termini, appunto, "tecnici". Se non si dà un ambito dell'interazione "indipendente da intenzioni e contenuti inconsci", tanto l'interazione quanto le procedure devono essere intesi come subordinati alla intenzionalità inconscia. Conseguentemente la ricerca del significato rimane il fulcro del metodo e l'interpretazione resta lo strumento essenziale della tecnica. Al massimo, da tale posizione, si potrebbe sostenere che la terapia avviene in un "contesto interattivo" e che noi terapisti imperfetti, a causa della nostra inadeguatezza, non riusciamo a padroneggiare l'interazione a causa di un difetto di consapevolezza, a differenza di un (almeno pensabile) terapista perfetto. La considerazione dell'interazione si pone in tal modo come un problema tecnico, importante, essenziale, ma tecnico. Infatti se l'intenzionalità determina l'interazione è consequenziale che siano i meccanismi dell'intenzionalità a porsi come oggetto della teoria di riferimento della psicoterapia. Anche questo è legittimo, infatti la psicoanalisi lo fa da cento anni. Mi sembra perņ che in questo caso si dovrà continuare a spiegare il comportamento del soggetto (l'azione e... l'interazione!) in termini di intenzioni, fantasmi e processi mentali inconsci cioè in termini intrapsichici e metapsicologici; non necessariamente nei termini della metapsicologia freudiana, magari di una neo-metapsicologia, ma pur sempre metapsicologia! Oggetto del mio primo intervento era appunto la sottolineatura dei limiti insiti in una assunzione puramente tecnica dell'interazione, che, a mio avviso, si traduce in una posizione riformista, moderata o radicale nei toni, ma sostanzialmente omogenea alla posizione tradizionale. 2) Naturalmente anch'io penso che l'interazione è comunque "carica di intenzionalità inconsce", ma non vi è alcun motivo per assumere che quindi si debba spiegare l'interazione con l'intenzionalità (nel senso che questo termine assume nel dibattito psicoanalitico e non nel senso filosofico corrente perché allora il problema sarebbe differente). L'inconscio intenzionale non è un "dato" né un "fatto", è una spiegazione e, nella fattispecie, è la sostanza della spiegazione metapsicologica, che ha il grave difetto di essere una spiegazione confutata. La mia assunzione dell'asserto secondo cui l'interazione è intrinseca alla procedura (e la delimitazione di un dominio di significato che non pertiene all'intenzione) fa riferimento a una differente tipologia di spiegazione, che, lasciando il tradizionale punto di vista intrapsichico, assume come oggetto il "cerchio intersoggettivo" e lo guarda da un duplice punto di vista: a) dal punto di vista del sistema duale complessivo, che ha regole sue proprie tipiche di ogni attaccamento strutturale tra due soggetti (punto di vista intersoggettivo) e b) dal punto di vista di ognuno dei sottosistemi soggettuali che lo compongono (punto di vista intrasoggettivo). I due ordini di significato derivano dalla differenza dei due domini creata dalla distinzione dei punti di vista. Questa prospettiva non ha solo il vantaggio di chiudere il forno della metapsicologia spiegando, in termini meno equivoci e meno compromessi con la mente rappresentazionale e centralizzata (il cartesiano "studio ovale" di Dennett!), anche il ruolo degli scopi, intenzioni, teorie inconsce del soggetto, ma soprattutto permette di impostare in modo differente il problema del cambiamento e dei principi attivi del cambiamento e, per esempio, consente di concettualizzare, senza rischi, una esperienza che a posteriori potrebbe anche essere definita "correttiva" seppure nel senso che il soggetto puņ costruirsi, lui, una esperienza che risulta correttiva. Nella prospettiva classica, anche riformata, non vedo, invece, come si possa uscire dal vicolo cieco della centralità dei fattori conoscitivi e della interpretazione. 3) Anche io parlo di fatti e non mi sento in contraddizione nel parlarne, pur affermando, per altro verso che i "fatti" sono costruiti in risposta a nostre domande. In una seduta avvengono centinaia di fatti e, se registriamo la seduta, avremo anche la registrazione di questi fatti. Io nego che esistano fatti nel senso dello "stiamo ai fatti" o dello "stiamo alle cose che effettivamente accadono e che ci dimostrano che... x". In questo senso nego che si possa parlare di fatti indipendentemente da teorie. Questi "fatti" si chiamano usualmente "dati" e nego che un terapista in quanto terapista possa cogliere dati che gli consentano di suffragare questa o quest'altra congettura. La psicoanalisi ha seguito questa strada perché era l'unica possibile. Adesso ne esistono altre. Questa discordanza porta a un bivio metodologico. Il terapista e lo scienziato-osservatore sono figure differenti che si situano su posizioni e punti di vista differenti. Se uno scienziato osservatore studia un sistema vivente (una chiocciola, un gatto, Giacomo, un formicaio, Giacomo e il suo terapista...) deve considerare che esiste un duplice punto di vista: un punto di vista "esterno" proprio dell'osservatore che studia il sistema delimitato e le sue interazioni con l'ambiente e un punto di vista "interno", che non ha nulla a che vedere con l'osservatore è che è proprio della chiocciola, del gatto, di Giacomo, del sistema Giacomo-terapista ecc. Parallelamente esistono due epistemologie: l'epistemologia normativa "esterna" e l'epistemologia "interna" della chiocciola, del gatto, di Giacomo cioè il loro proprio modo di "conoscere" cioè di cambiare per mantenere la propria autonomia e chiusura operazionale. Naturalmente l'osservatore potrà anche ricostruire congetturalmente le caratteristiche salienti dellepistemologia interna, del conoscere e agire del sistema vivente o nel nostro caso della diade. In psicoanalisi ciņ corrisponde all'ambito contraddistinto dalle nozioni di transfert e di controtransfert. Le descrizioni, le regole e le previsioni della teoria in tal modo costruita potranno diventare parti essenziali della competenza del terapista e punto di partenza della tecnica. Il dispositivo terapeutico non prevede, perņ, alcun osservatore-scienziato ma piuttosto un SOGGETTO\OGGETTO CHE OSSERVA (MENTRE SI AUTOSSERVA) > UN SOGGETTO\OGGETTO OSSERVATO CHE OSSERVA (MENTRE SI AUTOSSERVA). Si tratta di una situazione circolare e non lineare, complessa e non semplicemente complicata, in cui il terapista, in quanto sistema soggettuale e parte del sistema duale, non potrà in nessun modo sentirsi nella medesima posizione dellosservatore esterno. La sua collocazione infatti è inesorabilmente interna a sé stesso e alla diade. Egli puņ naturalmente collocarsi nel posto virtuale dello scienziato e dovrà anzi farlo, tentando continuamente di mantenere un posizionamento "meta", ma risulterà comunque nella sua concreta azione e interazione terapeutica inesorabilmente legato al punto di vista interno sia in quanto soggetto coinvolto nella interazione sia in quanto sottosistema del sistema complessivo. Ciņ equivale a dire che lepistemologia interna della coppia e dei due soggetti coinvolti è prevalente e primaria rispetto allepistemologia normativa e delloggetto osservato. La storia del transfert e del controtransfert nella storia complessiva della psicoanalisi puņ essere letta come la storia dell'imporsi della epistemologia interna della coppia nei confronti all'epistemologia normativa, peraltro originariamente fisicalista. La relazione tra le due epistemologie puņ essere comodamente intesa in senso evoluzionista. 4) Giungiamo infine alla discordanza più seria e cioè alla nozione di "conoscenza". Io non sono né un soggettivista radicale o moderato né un positivista scientista, e non credo di essere costretto ad accettare, tra questa Scilla e Cariddi, di muovermi "su un terreno che precede non solo le tecniche, ma anche le teorie" cioè "il terreno delle essenze "pre-predicative", cioè il campo della fenomenologia....che occupa uno spazio intermedio tra l'ineffabile cosa in sé, e gli oggetti ritagliati dalle scienze oggettive". Non conosco Longhin e Mancia, ma si sono aperte molte botteghe di epistemologia, di filosofia della scienza e di biologia della conoscenza da quando sembrava che, per evitare quei mitici scogli, si dovesse per forza salire sulla barca della fenomenologia o sulla scialuppa senza fondo dell'ermeneutica. C'è stato Popper, Piaget, l'epistemologia evoluzionista e genetica, la prima e seconda cibernetica, Bateson, von Foster, Maturana, Morin, Prigogine, lo sviluppo delle scienze dell'evoluzione, l'epistemologia scientifica e sperimentale... Il mio riferimento alla "cosa" è scevro da qualunque preoccupazione ontologica (per quanto mi riguarda, la mia sete ontologica si accontenta di sapere che tutto l'osservabile consiste di un brodo di quattro\cinque tipi di particelle fra spin e leptoni!). "Cosa", molto più banalmente, sta per "oggetto formale", l'oggetto che una teoria si fa carico di studiare e spiegare attraverso congetture e osservazioni controllate. Mi limito ad affermare che la teoria di riferimento per la psicoterapia deve avere come oggetto non il soggetto, ma il sistema formato da due soggetti, l'attaccamento strutturale tra due Io. Al di là perņ delle botteghe epistemologiche che frequentiamo, mi pare che ciņ che ci divide più profondamente sia proprio la nozione di "conoscenza", da cui derivano io credo tutte le altre divergenze. Il discorso si ricongiunge così, e non imprevedibilmente, al tema dell'altro dibattito in corso nella lista, che ti vede coprotagonista insieme a Gaetano Giordano, i cui sentieri epistemologici incrociano i miei. Io penso che, tra la mia "conoscenza" e quella della "farfalla" (spero non impazzita) o del mio gatto, le somiglianze siano maggiori delle differenze e che noi, sopravvalutiamo il fatto che siamo gatti che hanno imparato a parlare e hanno trovato il modo di conoscere la loro "conoscenza", di raccontarsela e di raccontarla. La metaconoscenza ci ha dato tanti vantaggi che tendiamo a leggere nei suoi termini anche il lavoro della "conoscenza". Dal mio punto di vista il problema della psicoterapia è come far sì che le "(meta-) conoscenze" possano favorire e rendere più probabile la "conoscenza" (=cambiamento) possibile (resa possibile dai "vincoli") di Giacomo. 13 marzo 1999, GAETANO GIORDANO: Caro Tullio Carere, a proposito della tua domanda "che verità hanno le affermazioni di chi non crede alla verità?" (tua mail del 12 marzo 1999), vorrei dire che Maturana non nega il concetto di "obbiettività". Distingue perņ una epistemologia che usa l'obiettività senza parentesi - quella positivistica, per la quale il mondo è conoscibile oggettivamente - dalla oggettività posta tra parentesi, che è la descrizione di esperienze interne che... ecc. ecc. Non aggiungo altro perché, come sai, non voglio dire stupidaggini anzitempo. Ma il punto è lì, in questa parentesi che relativizza il concetto di oggettività. 13 marzo 1999, TULLIO CARERE: Carissimo Gaetano Giordano, aspetto con fiducia la tua risposta. Solo un piccolo commento sul tuo anticipo: se il bersaglio è l'oggettività ingenua e acritica dei positivisti, sfondi una porta aperta. Certo che l'obiettività va relativizzata e problematizzata: se questo significa riconoscere il gioco e l'intreccio che sempre avviene tra soggetto e oggetto, siamo perfettamente d'accordo (si tratterà poi di essere più precisi sulle leggi e le regole di questo gioco, e su come le diverse logiche - scientifica, fenomenologica, ermeneutica, estetica - si articolano tra di loro). Se invece questa relativizzazione si traduce in una obliterazione tout court dell'obiettività, tutto riducendosi alla "descrizione di esperienze interne", e nulla restando all'esterno di cui valga la pena parlare... ma confido che tu e Maturana non vogliate dire questo. 16 marzo 1999, GAETANO GIODANO: Caro Tullio Carere, spero di darti una risposta abbastanza esauriente, in grado di darti nuovi argomenti di discussione. Dunque: tu affronti il problema della "conoscenza" e definisci conoscenza il fatto che la farfalla distingua il fiore dal segnale stradale. Ti dico subito che a mio avviso in questo ragionamento c'è - dal mio punto di vista - una grave pecca. E' vero infatti che la farfalla ci appare (uso le mie categorie) "riconoscere" il fiore, ma questo modo di descrivere la sua "conoscenza" è a mio avviso parziale: intanto perché non riconosce né ciņ che la farfalla non riconosce, né ciņ che ci consente di dire che la farfalla ha questa capacità di "riconoscere" i fiori. In altri termini: cosa ne sa la farfalla non dei fiori - ma dei segnali stradali? E, se proprio non vogliamo cadere nella domanda relativa all'artefatto umano, vorrei che ci chiedessimo: una farfalla distingue un sasso da un albero? Li definisce in questo modo? Il punto secondo me è a questo livello del problema, cioè cosa è che definiamo "conoscenza". Di fatto, la farfalla si andrà a posare su un sasso o su un albero - o forse ci puņ andare a sbattere, non sappiamo come registra il suo impatto con questi oggetti - ma la conoscenza che ne ha è sicuramente lontana dalla nostra descrizione, dal nostro chiamare "sasso" un sasso e "albero" un albero. In altre parole, vorrei mettere l'accento su quello che per me è l'aspetto principale della questione: a mio parere, noi parliamo di "conoscenza" allorché un organismo mostra ad un osservatore - che è quello che crea il concetto di "conoscenza" - un comportamento efficace in un dominio da noi scelto per avere una risposta circa tale efficacia. Noi conosciamo le farfalle e le stelle - ma le farfalle conoscono noi e le stelle così come noi conosciamo noi stessi, le farfalle e le stelle ? Il problema della conoscenza si sviluppa secondo me da tale nodo: la conoscenza è un nesso stabilito dall'osservatore, e tutto ciņ che viene detto al riguardo, vale a dire tutto ciņ che è detto circa la conoscenza, è detto "da qualcuno" - cioè da un osservatore il quale, come tale, è in condizione di creare relazioni tra domini cognitivi posti su piani differenti ma osservabili nello stesso momento. Possiamo dire che le farfalle sono ignoranti perché non conoscono le stelle e la composizione del Sole? Ovviamente no: e ciņ, per quanto banale possa sembrare, rimanda al fatto che la conoscenza è sempre autoreferenziale al dominio cognitivo dell'unità che sembra dimostrarcela. La farfalla è infatti autorizzata a non sapere nulla delle stelle - vola perņ quando c'è luce se farfalla diurna. In realtà, a mio avviso dobbiamo abituarci a pensare per Universi o domini conoscitivi. Riprendendo la farfalla, dobbiamo considerarla nella prospettiva del funzionamento dei suoi componenti, dei suoi stati interni, dei suoi cambiamenti strutturali. E, mantenendo ben distinta la cosa, descrivere le sue interazioni con l'ambiente. Chiaramente le interazioni con l'ambiente sono espressione dell'unità che le produce: la farfalla vola sui fiori ma non conosce le stelle, le nuvole e il cielo, e nemmeno i segnali stradali come tali. Questo significa che l'ambiente non contiene "istruzioni per l'uso": è l'osservatore che stabilisce un significato fra i cambiamenti strutturali indotti nel sistema dalle interazioni con l'ambiente e certe caratteristiche dell'ambiente: la farfalla puņ solo posarsi sui fiori, ma non puņ distinguerli per colori e forme nel modo con cui lo facciamo noi, non puņ portarli alla propria fidanzata o alla suocera, e non tenta nemmeno di mangiarli. I cambiamenti suscitatigli dal fiore sono dunque specificati dal suo essere farfalla, vale a dire sono sempre interni alla sua autopoiesi: l'Universo non fa e non ha nulla per essere conosciuto dal suo punto di vista, non manda messaggi, non contiene, appunto istruzioni per l'uso e la decodificazione: ogni essere vivente intreccia interazioni con quella parte di Universo con cui la sua struttura gli permette di intrecciare relazioni, e se il proprio comportamento gli permette di operare efficacemente - cioè di non interagire distruttivamente e dunque di non perdere la propria autonomia e il proprio essere unità - noi, dall'esterno della sua autopoiesi e distinguendo l'ambiente in cui opera (della farfalla non ci chiediamo appunto se conosce "davvero" sassi, orsi polari, squali e meduse), definiamo come conoscenza quelle interazioni che ci appaiono adeguate all'ambiente che noi abbiamo distinto come tale per definire tali le interazioni. Piccola ma utile deviazione: le farfalle che non sono (e soprattutto che non sono state) in grado di posarsi sui fiori sono estinte: e questo ci appare spiegabile col concetto di "selezione naturale". Iniziando a concludere, ciņ significa, a mio avviso, che per gli esseri viventi non possiamo parlare di "conoscenza", ma di interazioni efficaci con l'ambiente. E' chiaro a questo punto che il concetto di "realtà" subisce - in questa logica - un serio scossone. Non si nega che esista un mondo "là fuori" contro il quale andiamo ad incocciare. Ma noi lo definiamo attraverso le nostre caratteristiche strutturali: "Nella nostra prassi noi non passiamo attraverso un muro, perché esistiamo come sistemi viventi nello stesso dominio di coerenze operative in cui un muro esiste come entità molecolare, e un muro viene distinto come entità composita nello spazio molecolare proprio come quell'entità attraverso la quale noi come entità molecolari non possiamo passare. L'osservatore viene prima, non l'oggetto. L'osservare è dato nella prassi del vivere nel linguaggio, e noi ci troviamo già immersi in esso quando cominciamo a rifletterci sopra. La materia, l'energia, le idee, i concetti, la mente, lo spirito, dio ecc., sono proposte esplicative della prassi in cui vive l'osservatore. Inoltre, come proposte esplicative, comportano per l'osservatore maniere diverse di vivere conservando ricorsivamente l'adattamento nei domini di coerenze operative che le loro distinzioni costruiscono." In altri termini, la realtà come oggettività nell'ambito dei singoli domini di realtà. Un muro è un muro proprio perché non ci passiamo dentro. In questo senso tale descrizione è oggettiva, e non ha bisogno di nessuna parentesi. Ma ciņ fino a quando permaniamo in questo dominio descrittivo, quel dominio in cui noi siamo distinti come entità molecolari e i muri pure. La fantasia, e l'innovazione scientifica, nonché la follia, nascono allorché come osservatori ci spostiamo - rispetto ad altri osservatori - in domini di realtà definiti da coerenze diverse. In questo senso la realtà esiste ma non c'è: è una spiegazione e possiamo metterla tra parentesi per generare nuovi universi conoscitivi. Nasce come spiegazione della nostra esperienza ed emerge perché come osservatori immersi nel linguaggio possiamo operare distinzioni e distinzioni di distinzioni. 20 marzo 1999, TULLIO CARERE: Caro Gaetano Giordano, sul fatto che la conoscenza porti a comportamenti efficaci nell'ambiente, non ci piove. Sul fatto, poi, che per valutare questa efficacia dobbiamo scegliere un ambito cui tale efficacia si riferisce, e dei criteri per valutarla, siamo ugualmente d'accordo. La discussione è su questo punto: se la conoscenza si riduca a questo - se sia cioè solo un fatto convenzionale e utilitaristico - oppure se non si dia conoscenza senza un riferimento veritativo e ontologico. A me sembra che l'estremismo soggettivista, o costruttivismo o contestualismo radicale (forme contemporanee del vecchio scetticismo), si contrapponga continuamente al vecchio oggettivismo, altrettanto radicale, di stampo scientista neopositivista. E' vero che quell'avversario, che sembrava sparito o definitivamente debellato, rialza invece la testa (vedi l'ondata neo-organicista in psichiatria). Ma direi che lo scientista ha bisogno dello scettico, come lo scettico dello scientista. Un estremista ha bisogno dell'altro per giustificare la propria esistenza. Il limite di tutte le posizioni convenzionaliste e utilitariste per me sta in questo: la cancellazione del referente ontologico fa mancare il terreno sotto i piedi di coloro che tali posizioni sostengono. Venendo meno una procedura extra-linguistica che dia accesso alla cosa di cui si parla, tutto ciņ di cui si parla non è più che un "effetto di linguaggio". Una convenzione vale l'altra, e l'unico vincolo rimane l'"efficacia" (l'utilità). Che cosa puoi dire (faccio un esempio estremo, per semplificare) al serial killer che ha trovato il modo di far fuori una prostituta ogni sei mesi e di farla franca? Gli fai i complimenti, perché nel dominio cognitivo prescelto la sua strategia funziona benissimo. Se poi è riuscito a fare dell'assassinio un'arte, che esercita con piena soddisfazione e consumata perizia, sentendosi per di più un benefattore dell'umanità, in nome di che cosa potrai spingerlo a riconoscere il suo delirio, scendere dal piedistallo superuomista e fare i conti con la sua miseria? Ma prima ancora, come farai a capire che è un delirio, dal momento che per te, come hai detto più volte, non esiste il vero e il falso, il bene e il male, esistono solo descrizioni più o meno funzionali? Le descrizioni dei paranoici e dei perversi spesso funzionano a meraviglia. Pensa come funzionavano bene, per la quasi totalità del popolo tedesco, le descrizioni di Hitler. Se non avesse perso la guerra, forse funzionerebbero ancora adesso. 21 marzo 1999, GAETANO GIORDANO: Caro Tullio Carere, per cominciare, cerco di chiarire un punto per me fondamentale: nella mia prospettiva, la conoscenza non "porta" a dei comportamenti efficaci. La penso molto peggio, dal tuo punto di vista. Quella che noi definiamo conoscenza "è" un comportamento efficace. Ripeto: la conoscenza non è "rappresentabile come" - ma "è" - un comportamento definito efficace da un osservatore (e all'interno di un dominio definito tale da questi). E' (un comportamento ecc.), e nulla più. Il punto è che noi osservatori parliamo appunto di "conoscenza" quando - in un dominio da noi definito come tale - osserviamo un comportamento efficace. Torniamo un attimo al tuo esempio - la farfalla. Ha "conoscenza" del fiore ? Noi diciamo si perché ce la vediamo volare sopra e posarcisi. Ma se noi allargassimo o mutassimo il contesto di riferimento, vedremmo che questo modo di definire la conoscenza è totalmente inefficace. La farfalla ha conoscenza dei pesci e delle onde ? Non c'è risposta nei termini da noi utilizzati per identificare sino a qui la conoscenza: la farfalla vola e si posa sui fiori ma non sa nulla dei pesci ? Possiamo dire che è ignorante ? Possiamo dire che non è ignorante ? Credo che non abbiamo risposta, in questi termini. E ciņ a mio avviso dimostra che noi, quando parliamo di "conoscenza":
La mia impressione è che la tua risposta non risolva affatto questo nodo, e cioè che la conoscenza sorga come concetto esplicativo solo allorché un osservatore crea, con la sua presenza, una relazione tra un comportamento che seleziona e ritiene adeguato e un dominio cognitivo cui viene riferito. In altri termini, dobbiamo anche chiederci: quella del girasole che segue il sole nel suo cammino, è "conoscenza" ? Da un punto di vista biologico, la "conoscenza" è solo questa: un comportamento che noi definiamo adeguato. Se poi come esseri umani sappiamo fare "previsioni" sulla base di tale "conoscenza", diciamo di "conoscere" la cosa relativamente alla quale sappiamo fare previsioni: ad esempio, se usiamo un certo antibiotico, ammazziamo un certo tipo di microbo e questo ci fa dire di conoscere il microbo. Per me questo non descrive adeguatamente ciņ che accade: di fatto, noi sappiamo produrre un comportamento per noi adeguato, e lo chiamiamo "conoscenza". Se non sappiamo prevedere il risultato di un nostro particolare "accoppiamento strutturale" - diciamo che non abbiamo conoscenza. Ad esempio, se l'AIDS continua a mietere vittime, noi diciamo di non averne una conoscenza sufficiente. Di fatto, ci manca un comportamento adeguato a controllare a che l'accoppiamento strutturale tra noi e il virus diventi distruttivo. Il nostro comportamento non ci appare adeguato, e dunque diciamo di "non conoscere" il virus. Attenzione: la differenza, è che io parlo della "conoscenza" in questi termini - e poi vi affianco l'Etica. L'Etica della Conoscenza - che emerge dal mio interrogarmi sulle circostanze di questa conoscenza e su ciņ che ne scaturisce. Ne parleremo dopo - perché se c'è un epistemologia totalmente distante da quel che tu paventi nelle righe successive del tuo intervento, è proprio questa di cui ti parlo io.
Vorrei chiarire una cosa: "estremismo" rispetto a QUALE punto di riferimento? Io credo che se già mi fissi un contesto (sia pure metaforicamente) spaziale, per individuare la prospettiva nella quale parlare di "conoscenza", e nel quale abbiamo un "vicino" o un "lontano", già denoti che esista un "centro" del "cosa è la conoscenza" che possa essere visto e descritto come tale. In altre parole, a me puņ apparire "estremistica" una posizione intermedia (come posso superficialmente definire la tua) perché collocata su un piano totalmente diverso dal mio. Di fondo, io ritengo che ogni posizione non sia paragonabile se non a se stessa.
A mio avviso avviene esattamente il contrario: il parlare delle cose ci fa dimenticare che emergono come tali in un accoppiamento strutturale nel quale un osservatore puņ intervenire semanticamente. Vale a dire: io e te "sappiamo" che la pera è un frutto - ma questa "realtà" della pera è posta dentro la parentesi del nostro Universo cognitivo. Se io incontro un leone non posso certo spiegargli che venti chili di pere sono una colazione migliore della mia carcassa! E' proprio l'effetto linguaggio che ci dà la possibilità della coscienza! Quando dici che "una convenzione vale l'altra, e l'unico vincolo rimane l'"efficacia" (l'utilità)", non sono daccordo. Qui confondi due diverse aree cognitive. Comincio col dire una cosa, e mi dispiace dirla: nel discorso fatto con queste premesse, l'oggetto nasce proprio per eludere la responsabilità umana nell'uso che ne fa. Poi, fai lesempio del serial killer. Proprio questo è il punto: il serial killer è abbagliato dalla impossibilità di distinguere se il suo mondo - quello con le donne da odiare - sia "il" mondo, cioè "tutto" il mondo, l'unico che puņ dunque percorre, o il suo confondere i propri domini cognitivi, dunque scoprendo che le donne non sono solo la descrizione che lui ne dà ad un livello di "realtà" e "fantasia" insieme (uso termini estremamente approssimativi: "realtà" è per me un modo di spiegare le mie esperienze, ma ha regole vincolate al mio agire: se definisco il muro in termini di "realtà" non posso passarci dentro confondendo il dominio nel quale lo colloco con quello che ha le regole di un altro dominio - quello in cui come "fantasma" posso passarlo). In altri termini, il serial killer nasce proprio perché non puņ mettere in discussione che il suo agire sia l'unico per lui efficace in un mondo nel quale il suo punto di vista e/o il suo comportamento sono in qualche modo oggettivamente immodificabili.
Credo che ci sia un po' di confusione nel come mi sono fatto leggere in questi mesi. Dunque, partiamo da qui. Nella storia dell'Umanità lo sterminio di massa nasce solo, soltanto, e inequivocabilmente, allorché la "funzionalità" che tu mi addebiti viene utilizzata - AL CONTRARIO DI COME TU IPOTIZZI (scusa le maiuscole) - IN UN MONDO OGGETTIVO E OGGETTIVABILE. In altri termini E' SOLO ALLORCHE' PENSO che: 1) L'Ebreo / l'Eretico / l'Infedele / il Revisionista ecc. (mettici tutte le eresie che vuoi) siano OGGETTIVAMENTE esseri inferiori o dannosi, 2) e lo è in un mondo che OGGETTIVAMENTE me ne da "le prove" che emerge la mia legittimità allo sterminio e alla tortura per imporre una SOLUZIONE OGGETTIVAMENTE VALIDA PER TUTTI ! La Soluzione Finale era tale perché era pensata come l'unica "oggettivamente" vera. In realtà, il mio punto di vista è l'esatta e la completa antitesi di ciņ, proprio perché legando la conoscenza alla relatività del rapporto fra un organismo, un contesto, e un osservatore che definendo l'uno e/o l'altro assegna il significato di "conoscenza" a ciņ che accade, assegna alla responsabilità dell'osservatore (o di chi parla di conoscenza) il senso e le conseguenze dell'uso di questa conoscenza. Vale a dire: se si supera l'alibi dell'"oggettività" che ci legittima all'uso di ciņ che diciamo di "conoscere" - entriamo nell'ambito della nostra pura e totale responsabilità. In questa regione cognitiva (e scusa sempre le maiuscole) non hai scampo: TU SEI L'USO CHE FAI DELLA TUA "CONOSCENZA". Per punirti mostruosamente di tale fraintendimento, ti trascrivo dunque un inedito in spagnolo di Maturana seguito da un altro brano in italiano (la quale trascrizione, solo pensando agli accenti da copiare bene, è una punizione anche per me e - dunque - per i miei intenti punitivi): "La aplicación del criterio de validez de las explicacione científicas como una manera de vivir sin tener en cuenta si está completo o no en un caso particular , abre para el observador la posibilidad de operar sistemáticamente en una reflexión recursiva acerca de sus circustancias, y así, la posibilidad de ser responsable de sus acciones. (...) Considero que el mayor peligro espiritual que una persona enfrenta en su vida es creer que es el poseedor de una verdad o el legítimo poseedor de una verdad o el legítimo defensor de algún principio o el poseedor de algún conocimiento trascendental o el propietario legal de alguna entidad, o el acreedor meritorio de alguna distinción, etcétera, porque inmediatamente se vuelve ciego respecto de su circunstancia y entra en el callejón sin salida del fanatismo. Considero también que el segundo peligro espiritual mas grande que una persona enfrenta en su vida es creer, de alguna manera u otra, que no siempre es responsable de sus actos o de sus deseos o de no desear las consecuencias de ellos. Finalmente, considero también que el dono mas grande que la ciencia nos ofrece es la responsabilidad de aprender, libres de todo fanatismo, y si queremos, como ser siempre responsables de nuestras acciones a través de reflexiones recursivas acerca de nuestras circunstancias." (da: "La ciencia y la vida cotidiana: la ontologia de las explicaciones científicas" escrito por H. Maturana, en "El ojo del observador - contribuciones al constructivismo" composicion por P. Watzlawick y P. Krieg, Barcelona, 1991). L'altro testo sull'Etica della Conoscenza è questo (trascrivo in maiuscolo il corsivo del testo): "La conoscenza della conoscenza ci obbliga. Ci obbliga a tenere un atteggiamento di permanente vigilanza contro la tentazione della certezza, a riconoscere che le nostre certezze non sono prove di verità, come se il mondo che ciascuno di noi vede fosse IL MONDO e non UN MONDO con cui veniamo a contatto insieme agli altri. Ci obbliga perché sapendo di sapere, non possiamo negare ciņ che sappiamo. Perciņ tutto quello che abbiamo detto qui, questo sapere che sappiamo, comporta un'Etica che è inevitabile e non possiamo eludere. In questa Etica il punto principale è che farsi veramente carico della struttura biologia e sociale dell'essere umano EQUIVALE A PORRE AL CENTRO LA RIFLESSIONE SU COSA QUESTI E' CAPACE DI FARE E COSA LO DISTINGUE. Equivale a cercare le circostanze che permettano di prendere coscienza della situazione in cui si è - qualunque essa sia - e guardarla da una prospettiva più ampia, da una certa distanza. Se sappiamo che il nostro mondo è sempre il mondo con cui veniamo in contatto insieme ad altri, ogni volta che ci troviamo in contraddizione o opposizione con un altro essere umano con il quale vorremmo convivere, il nostro atteggiamento non potrà essere quello di riaffermare ciņ che vediamo dal nostro punto di vista, ma quello di ammettere che il nostro punto di vista è il risultato di un accoppiamento strutturale in un dominio di esperienza VALIDO TANTO QUELLO DEL NOSTRO INTERLOCUTORE, ANCHE SE IL SUO CI APPARE MENO DESIDERABILE. Quello che resta da fare, allora, è la ricerca di una prospettiva più ampia, di un dominio di esperienza in cui anche l'altro abbia un posto e nel quale possiamo costruire un mondo con lui.(...) A questo atto di ampliamento del nostro dominio conoscitivo riflessivo, che implica sempre una nuova esperienza, possiamo giungere o perché i nostri ragionamenti sono rivolti verso di esso, oppure, e più direttamente, perché qualche circostanza ci porta a guardare l'altro come uno uguale a noi, in un atto che generalmente chiamiamo di AMORE. Inoltre, tutto ciņ che ci permette di renderci conto che l'amore o, se non vogliamo usare una parola tanto forte, L'ACCETTAZIONE DELL'ALTRO DA PARTE DI QUALCUNO nella convivenza, è il fondamento biologico del fenomeno sociale: senza amore, senza accettazione dell'altro da parte di ciascuno, non c'è socializzazione e senza socializzazione non c'è umanità. Qualunque cosa che distrugga o limiti l'accettazione dell'altro da parte di qualcuno, dalla competizione al possesso della verità, passando per la certezza ideologica, distrugge o limita colui che si dà il fenomeno sociale, e cioè l'essere umano, perché distrugge il processo biologico che lo genera. Cerchiamo di non cadere in equivoci, qui non stiamo facendo della morale, questa non è una predica sull'amore; stiamo solo mettendo in evidenza che BIOLOGICAMENTE, SENZA AMORE, SENZA ACCETTAZIONE DELL'ALTRO, NON C'E' FENOMENO SOCIALE, e che se si convive lo stesso senza considerare questo problema, si vive ipocritamente la indifferenza o la negazione attiva. (...) Non considerare che ogni conoscenza è azione, non vedere l'IDENTITA TRA AZIONE E CONOSCENZA, non vedere che ogni azione umana, quando veniamo a contatto con un mondo mediante il linguaggio, ha un carattere etico perché si verifica nel dominio sociale, corrisponde a non voler ammettere che le pere cadono verso il basso. Comportarsi così, nonostante che sappiamo di sapere, sarebbe un autoinganno in una negazione intenzionale. Per noi, pertanto, tutto quello che abbiamo detto in questo libro non solo è interessante come ogni ricerca scientifica, ma ci consente anche la comprensione del nostro essere umani nella dinamica sociale e ci libera da una cecità fondamentale: quella di non renderci conto che abbiamo a disposizione solo il mondo che creiamo con gli altri, e che solamente l'amore ci permette di creare un mondo in comune con gli altri. NOI AFFERMIAMO CHE ALLA BASE DELLE DIFFICOLTA' DELL'UOMO ATTUALE STA IL MANCATO RICONOSCIMENTO DELLA CONOSCENZA. Non è la conoscenza, ma la conoscenza della conoscenza ciņ che obbliga. Quello che determina se noi facciamo esplodere una bomba o no, non è sapere che la bomba uccide, ma è ciņ che vogliamo fare con la bomba. Questo viene generalmente ignorato, o si finge di ignorare per evitare la responsabilità che ciņ comporta in tutte le nostre azioni quotidiane, giacché tutte le nostre azioni, senza eccezione, contribuiscono a formare il mondo in cui esistiamo e a cui diamo valore proprio tramite esse, in un processo che costituisce il nostro divenire. Ciechi, di fronte a questo aspetto che trascende le nostre azioni, pretendiamo che il mondo abbia un divenire indipendente da noi, per giustificare la nostra mancanza di responsabilità nelle azioni, e confondiamo limmagine che cerchiamo di proiettare, il ruolo che rappresentiamo, con lessere che realmente costruiamo durante la nostra vita quotidiana." (da: Maturana H. - Varela F., Lalbero della conoscenza, Garzanti, Milano, 1981). 21 marzo 1999, GAETANO GIORDANO: ERRATA CORRIGE:
...MA AVREI DOVUTO SCRIVERE: 1) L'Ebreo / l'Eretico / l'Infedele / il Revisionista ecc (mettici tutte le eresie che vuoi) siano OGGETTIVAMENTE esseri inferiori o dannosi 2) e lo sono in un mondo che OGGETTIVAMENTE mi da "le prove" di quanto siano OGGETTIVAMENTE inferiori che emerge la mia legittimità allo sterminio e alla tortura per imporre una SOLUZIONE OGGETTIVAMENTE VALIDA PER TUTTI ! La Soluzione Finale era tale perché era pensata come l'unica "oggettivamente" possibile - ed era l'unica oggettivamente possibile perché l'unica coerente con la OBBIETTIVITA' delle proprie premesse. Maturana ha scritto un bellissimo libro, inedito in Italia, che si intitola: "L'obbietività - un argumento para obligar" (Tercer Mundo Ediciones, 1997) nel quale dimostra che è proprio ricorrendo alla nozione di "obbietività" per convalidare le nostre asserzioni "scientifiche" e "quotidiane", che commettiamo i peggiori soprusi. Perché ciņ che è "responsabilità" diventa "oggettività" e viene sottratto alla verifica relativo alla decisione personale. Fine dell'errata corrige. 28 marzo 1999, WILFREDO GALLIANO: Effettivamente, rileggendo quanto avevo scritto un po' a caldo nel mio ultimo intervento capisco che la comprensione non potesse essere facile. Provo a sviluppare meglio il mio pensiero. 1. La faccenda era partita, mi sembra, dal tentativo di distinguere (i) la psicoterapia dall'aiuto offerto dalla parrucchiera (lettera di Carere del 12/3) e (ii), in origine, la psicoanalisi dalla psicoterapia (Gill, ecc.). A questo proposito, parlando del fatto che l'interazione è "intrinseca alla procedura" Scano afferma, a mio parere giustamente, che essa "norma" la tecnica, piuttosto che esserne normata. Da questo discende l'importanza, da quasi tutti ormai condivisa, dei cosiddetti fattori aspecifici di cambiamento: il paziente cambia a causa soprattutto dell'interazione e della relazione che si crea tra paziente e terapeuta. 2. Il punto successivo riguarda il fatto che l'interazione ha "leggi" proprie che determinano l'esito dell'interazione stessa. 3. Le considerazioni dei punti 1 e 2 porterebbero a indebolire, se non ad annullare, i confini tra psicoterapia e qualsiasi altra interazione: il paziente in psicoterapia cambia perché non puņ far altro; il paziente cambia perché le interazioni tra esseri umani hanno la tendenza a cambiare i soggetti interessati. Soprattutto il paziente in terapia cambia per gli stessi motivi per cui cambia in altre interazioni. 4. Esistono, tuttavia, delle differenze tra quello che fa la parrucchiera e quello che fa il terapeuta. A questo proposito Scano tendeva a categorizzare le differenze in due grandi generi: (i) quella terapeutica (a differenza di quella con la parrucchiera) è una relazione di attaccamento; e (ii) le regole del gioco che governano l'interazione terapeutica e quelle che governano la relazione con la parrucchiera sono diverse. [A questo punto, se il formato e-mail lo consentisse, metterei una nota a piè di pagina per dire che (i) puņ darsi che la relazione terapeutica non sia solo di attaccamento (potrebbe essere anche una relazione di "conoscenza", o quant'altro), ma (ii) questo non altera la sostanza del mio ragionamento, per cui "attaccamento" lo possiamo considerare uno specimen] 5. Per quanto riguarda la relazione di attaccamento facevo notare (e mi sembra che Gian Paolo sia d'accordo) che essa non è specifica dell'interazione terapeutica. Sebbene io possa essere d'accordo che "relazione d'attaccamento" possa distinguere questa relazione da "relazione qualsiasi" (che perņ non esiste, ogni relazione è in qualche modo), "relazione d'attaccamento" non distingue tra padre e figlio, insegnante e allievo, terapeuta e paziente. Questa categoria, quindi, per quanto importante per dirci cosa succede tra le persone implicate, non ci aiuta a distinguere. Qui entra in gioco, mi sembra, un primo aspetto che riguarda l'opposizione "intinseco/estrinseco". Voglio dire che, se usiamo il concetto di attaccamento come vertice per comprendere quel che in una relazione succede, allora l'attaccamento è intrinseco alle relazioni di attaccamento (di fatto è una tautologia). Da un altro punto di vista: l'attaccamento è un fattore intrinseco e necessario a tutte le relazioni che stanno in questa categoria e che determinano un cambiamento a causa dell'intervento di questo fattore. "Relazione di attaccamento", inoltre non ci aiuta in nulla a specificare la forma della relazione. Sarà pur vero che alla fin fine ciņ che fanno tutte le madri con i loro figli è "questo e quello", ma "questo e quello" prendono forme (e danno luogo a risultati) drammaticamente diversi se implementati da una madre italiana o da una masai. 6. Se l'attaccamento aiuta a fare distinzioni, ma è ancora troppo generico per definire in modo inequivoco una relazione, allora rimane un aspetto formale, che è quello che introduco alla fine del paragrafo precedente. Questo aspetto formale riguarda le "regole del gioco": quello che si puņ o non si puņ fare con (di) una certa parola, azione, relazione. Le regole del gioco sono, in altri termini, l'unico modo che abbiamo per distinguere in modo relativamente univoco una relazione da un'altra. La psicoterapia è psicoterapia perché segue le regole del gioco della psicoterapia (quali che siano) e non quelle della educazione di un bambino masai, anche se in entrambi i casi viene movimentato un aspetto irrinunciabile di "attaccamento". Questo vale, a maggior ragione, anche per distinguere ciņ che avviene in una terapia da ciņ che avviene dal parrucchiere (sebbene possa aver avuto sostanziali cambiamenti di vita proprio e più dal parrucchiere che non dal mio analista). 7. Parlare di regole del gioco, perņ, significa parlare di fattori che sono "estrinseci" a ciņ che viene giocato. In che senso dico questo? Le regole del gioco rappresentano il quadro all'interno del quale il gioco stesso viene giocato, sono cioè meta rispetto al gioco. Il gioco non ha nulla da dire sul perché lui ha quelle regole piuttosto che altre. Questo vuol forse dire, tuttavia, che le regole sono arbitrarie? Guardando da "dentro" il gioco, forse sì. Guardando il gioco dal di fuori, forse no - a meno di non voler considerare lo specifico gioco che stiamo osservando come qualcosa che esiste nel vuoto siderale. In altri termini le regole del gioco dipendono da fattori (storici, culturali, ambientali, assicurativi, e via dicendo) che sono "estrinseci" rispetto al gioco stesso. 8. Per riassumere abbiamo che la psicoterapia implementa (vorrei dire "performs") certe categorie relazionali (tra cui l'attaccamento è una delle più importanti, se non la principale) secondo certe regole che "sempre" (per definizione) sono estrinseche a ciņ che la terapia stessa mette in scena. 9. La psicoterapia (ogni relazione, del resto) ha sempre un aspetto: questo è il livello "estetico" (non so come altro chiamarlo) che mettevo in campo nella mia mail precedente. Ho la sensazione che questo livello estetico sia largamente svalutato nella discussione attuale sulla psicoterapia a favore di un approccio (peraltro degnissimo e utile) di tipo scientista e universalizzante, ma questo è un altro discorso. Spero di aver chiarito il mio pensiero. Vorrei tuttavia concludere con una domanda a Scano e a Giordano (che mi sembrano quelli che più coerentemente svolgono un discorso influenzato da Maturana e Varela). Mi scuso fin d'ora se la domanda risulterà oscura o sarà solo l'espressione della mia abissale ignoranza. Dunque, l'autopoiesi (o i sistemi autopoietici). La discussione sull'argomento "Gill e Wallerstein" ha preso, ad un certo punto, un rivolo verso "setting autoreferenziale". Ora mi chiedo, se per autoreferenziale si intende che il referente non è un oggetto dato e certo nel mondo, allora siamo d'accordo. Ma se "auto" vuol dire auto, come la mettiamo con le regole del gioco? A me non pare che le regole del gioco siano mai autoreferenziali - a meno, ripeto, di non voler vedere ogni gioco per sé in una sorta di vuoto pneumatico che lo separa da tutti gli altri giochi. Se i termini di un linguaggio si giustificano per la loro relazione con gli altri termini, piuttosto che per la relazione con gli oggetti che vorrebbero designare, lo stesso non vale anche per i giochi e le loro regole? 28 marzo 1999, TULLIO CARERE: Ho citato nell'ultima mail di questa serie il testo di Longhin e Mancia perché ha il merito di sfatare un luogo comune molto diffuso. Criticando l'ambiguità della tesi contestualista, secondo la quale i termini "osservativi" della scienza sarebbero "carichi di teoria", e quindi da considerare anch'essi teorici, Longhin riprende le fondamentali considerazioni di Agazzi: "Ma, in tal modo, essi sarebbero privati del potere di controllo sperimentale per il confronto delle teorie, in quanto non esisterebbe più un ambito neutro di paragone tra di esse. Infatti, solo se i termini di una scienza sono osservativi è possibile assicurare una certa indipendenza dalle teorie e anche un qualche collegamento con la realtà extralinguistica su cui la teoria sta indagando". In altre parole: senza un ambito o un fondamento non teoretico è impossibile valutare e controllare le teorie, ed è inevitabile cadere in posizioni di tipo scettico-convenzionalista: per decidere il valore di una teoria non resterebbe altro che il dato della sua accettazione da parte di una certa comunità che la adotta. Questo non vuol dire che tale ambito non teoretico, o teoreticamente "neutro", sia una nozione semplice, autoevidente e non problematica. Nel nostro campo esistono due schieramenti opposti: da un lato i fautori di una "neutralità" che si dà per scontata, e diventa una specie di idolo al quale si deve sacrificare ogni altra cosa. Bisogna muoversi in punta di piedi, non somministrare farmaci, eccetera, per non disturbare la neutralità. Dall'altro lato con la stessa sicurezza la neutralità viene dichiarata concetto vuoto e abrogata: non rimangono altro che "narrazioni" o "descrizioni", più o meno funzionali al mondo interno del soggetto. Alle solite, si passa da un oggettivismo acritico a un soggettivismo altrettanto acritico. La difficoltà che in entrambi i casi è evitata è quella della dialettica soggetto/oggetto, che sappia integrare i due momenti dell'esperienza, quello teoretico-oggettivante e quello empatico-fenomenologico. Tra i pochi che hanno visto questa necessità, cito spesso Poland (1984): "L'esperienza umana è unitaria. L'affetto e la cognizione non sono due fenomeni completamente separati, ma aspetti differenti di eventi intrinsecamente integrati. Di conseguenza una lettura autenticamente neutrale del paziente richiede una combinazione di entrambi i modi di percezione, empatico e cognitivo. La percezione empatica da sola sfuma troppo velocemente nella proiezione dell'immaginazione empatica. La lettura cognitiva da sola diventa troppo rapidamente analisi selvaggia. E ciascuno dei due elementi da solo permette all'analista di strutturare troppo velocemente i fatti in base alle sue conclusioni a priori. Per una vera neutralità, la musica e le parole debbono essere combinate. Ciascuno dei due fattori, preso separatamente, è fuorviante" (W.S. Poland, On the analyst's neutrality. J. Am. Psychoanal. Ass., 1984, 32, 283-300). Per quanto riguarda più specificamente "il sistema formato da due soggetti, l'attaccamento strutturale tra due Io", e "l'epistemologia interna della coppia" che si contrappone "all'epistemologia normativa esterna", abbiamo, in questo sistema, due soggetti, ciascuno dei due chiuso nel bozzolo delle proprie narrazioni o descrizioni, ma aperto, quando va bene, a un confronto con le narrazioni dell'altro. Tale confronto, perņ, non puņ avere alcun esito veritativo - dal momento che la verità è esclusa sin dal principio dall'orizzonte di tale epistemologia - ma solo, quando va bene, un buon esito negoziale, nel senso che i due si mettono d'accordo, "convengono" su qualcosa. E' già qualcosa, beninteso. Anzi è molto, in un mondo in cui è così diffuso il vezzo di spararsi l'uno contro l'altro le rispettive verità, garantite dal Padreterno o dalla Scienza. La moderazione scettico-convenzionalista è un sano antidoto rispetto all'ordinaria follia di chi ha la verità in tasca, ma è troppo poco per chi ha già capito che la verità non è cosa che si possa mai intascare. La posizione di chi, avendo capito di non potersi mettere in tasca la verità, la abolisce, è ancora troppo vicina, per me, a quella di chi non mette mai in gioco il contenuto delle sue tasche. E' un passaggio, e come tale lo rispetto. Ma solo un passaggio. In riferimento allosservazione di Gaetano Giordano che, citando Maturana, ricorda come spesso il ricorso alla nozione di "obiettività" serva per sottrarsi alle proprie responsabilità, vorrei dire che ha ragione: esiste un tipo di obiettività che è solo un trucco per sottrarsi alla responsabilità delle proprie decisioni. Smascherare questa pseudo-obiettività è pane quotidiano di ogni terapeuta. Se poi il terapeuta smaschera le obiettività altrui per metterci le proprie, spacciate come "scientifiche", fa solo quello che i chierici di ogni tempo e paese hanno sempre fatto. Caro Giordano, fin qui ti seguo, mi sta benissimo questa etica della responsabilità. Tuttavia un'etica che implica solo l'assunzione di responsabilità rispetto alle proprie descrizioni o narrazioni non ha davanti a sé che una negoziazione a oltranza, e manca all'impegno essenziale di ogni etica: la ricerca del vero e del giusto, nella consapevolezza che non sono cose che si possano mai possedere, né tanto meno sbandierare. Un'etica così dimezzata, tra l'altro, è del tutto impotente nelle situazioni limite, quelle in cui i margini di negoziato sono esauriti. Cosa fai con un'etica del genere di fronte a un Hitler o un Milosevic, ai piccoli Hitler e Milosevic che incontriamo tutti i giorni, magari dentro di noi? 29 marzo 1999, WILFREDO GALLIANO: Vorrei fare due brevissimi commenti a un intervento di Scano e a uno di Carere. I commenti sono brevi, ma le questioni sono, ovviamente, ampie (forse troppo). Mi chiedo se sia sensato parlare di conoscenza nel senso così ampio di cui parla Paolo Scano quando dice che "tra la mia *conoscenza* e quella della "farfalla" (spero non impazzita) o del mio gatto, le somiglianze siano maggiori delle differenze e che noi, sopravvalutiamo il fatto che siamo gatti che hanno imparato a parlare e hanno trovato il modo di conoscere la loro *conoscenza*, di raccontarsela e di raccontarla." So bene che nell'orizzonte paradigmatico di Scano e di Giordano quest'uso allargato del termine si legittima. Mi sembra, tuttavia, che i "giochi linguistici" che si possono fare con *conoscenza* applicata a un essere umano siano tutto sommato molto diversi da quelli che si possono fare con *conoscenza* applicata a farfalla (o anche elefante, per altro) e che accomunarli sia fuorviante. Tullio Carere ha scritto: " solo se i termini di una scienza sono osservativi è possibile assicurare una certa indipendenza dalle teorie e anche un qualche collegamento con la realtà extralinguistica su cui la teoria sta indagando". Il problema, credo, è proprio decidere se la realtà di cui parliamo (noi umani, noi umani in psicoterapia) sia extralinguistica o non si risolva proprio nel linguaggio. Fortunatamente non siamo né io né Scano, né Giordano a portare avanti queste tesi e di fronte alle trombe di Tullio (che suona Agazzi) qualche campana l'abbiamo anche noi. Mi piacerebbe che qualcuno mi illuminasse, ma a occhio non credo che si tratti di porre l'aggettivo "acritico" di fronte a oggettivismo o soggettivismo. Penso che perņ non si possa stare in un discorso che sia contemporaneamente realista e relativista. Si puņ cercare di metacommentare, ma se si parla del nostro rapporto con il "là fuori" bisogna che di volta in volta assumiamo una prospettiva o realista o relativista. 31 marzo 1999, GIAN PAOLO SCANO: Sono sostanzialmente d'accordo con quanto ha scritto Wilfredo Galliano. Mi limito perciņ a precisare qualche punto, profittando delle tue utili osservazioni, prima di tentare qualche risposta ai quesiti che poni. 1) L'affermazione secondo cui "l'interazione norma la tecnica piuttosto che esserne normata" è stata da me usata (i) in contrapposizione all'affermazione opposta, che, in modo implicito o esplicito, è prevalente in ambito psicoanalitico; (ii) per definire una accezione "forte" dell'asserto "la psicoterapia è intrinsecamente interattiva" in contrapposizione a una accezione debole quale "la psicoterapia opera in un contesto interattivo"; (iii) per delineare uno spazio che consenta di cominciare a dare un seguito alla lamentela espressa da più parti (Lipton, Gill...) riguardo al fatto che nella psicoanalisi contemporanea la "tecnica" copre onnipotentemente tutto lo spazio della terapia. Per questi motivi (e anche per chiarezza di contrapposizione) l'asserto è così netto. Ovviamente perņ non lo intendo in senso assoluto, ma piuttosto in senso circolare: "L'interazione norma la tecnica e ne è normata", anche se, per così dire, la tecnica rincorre sempre e non puņ mai rendere non avvenuti gli eventi interattivi. 2) il fatto che questa prospettiva indebolisca "i confini tra questa interazione e tutte le altre" credo faccia tanta difficoltà (non dico a me e a te!) a causa di un lascito o di un imprinting metapsicologico. Freud ha spiegato la specificità del metodo psicoanalitico con la specificità dell'oggetto, cioè: "il metodo psicoanalitico è x e funziona in modo y perché la mente è x1 e funziona in modo y1". Io credo che questa necessità venga meno nel momento stesso in cui si abbandona la metapsicologia e penso che il metodo psicoanalitico sia semplicemente una variante di quello che Popper chiama "metodo contestuale- situazionale", che funziona altrettanto bene per risolvere il problema psicologico di Giacomo (è il mio paziente virtuale), il problema del perché i dinosauri si siano estinti e alcuni si siano trasformati in uccelli, quello della esistenza e natura dei buchi neri e così via. Se i fattori in gioco nel cambiamento terapeutico fossero differenti da quelli che funzionano in ogni altra interazione, la psicoterapia sarebbe una sorta di stupefacente e miracolosa singolarità. 3) Questo non significa che le interazioni tra soggetti siano tutte uguali come, del resto, il fatto che tutto l'osservabile sia un brodo di quattro o cinque particelle non fa sì che un'aragosta sia la stessa cosa di una palla da football. Tra le interazioni, alcune hanno caratteristiche comuni, che le fanno includere in una classe, che possiamo definire "di attaccamento" anzi, (proprio per caratterizzare la non specificità ed evitare qualunque possibile interpretazione regressiva o traumatica, che è un altro imprinting metaspicologico), io preferisco dire: "interazioni che strutturano un accoppiamento strutturale". Non credo perņ che l'attaccamento sia un "fattore". Lattaccamento è la inevitabile matrice, la nicchia ecologica in cui "cambiare" puņ diventare necessario e possibile, allo stesso modo in cui per i gabbiani puņ diventare necessario e possibile (in ragione dei vincoli della propria struttura e delle "competenze" del loro organismo) modificare la loro abitudine originaria alla pesca in mare modificandola in "pesca nei rifiuti" o per gli storni inurbarsi e "conoscere" la città come luogo più adatto per trascorrere la notte. Da questo punto di vista la psicoterapia funzionerebbe proprio perché non è "specifica". 4) Per come io la vedo ciņ che distingue infine la psicoterapia dalle altre interazioni di attaccamento è una "metaorganizzazione" nel senso cioè che utilizziamo le nostre conoscenze sui rapporti di attaccamento per costruire e organizzare una situazione che funzioni come una sorta di placenta e favorisca lo sviluppo di una accoppiamento strutturale, consenta l'attivazione degli schemi di "essere con" e dei contesti, che sono propri delle situazioni di attaccamento e renda non casuali quel tipo di perturbazioni che rendono più probabile il cambiamento. Questo secondo me, tra l'altro, è il ruolo fondamentale della tecnica. Le regole del gioco non sono quindi estrinseche da questo punto di vista ( e forse in futuro lo saranno ancora meno grazie alla ricerca, che questo paradigma promuove invece che impedire), ma molte di esse lo sono e regolano la posizione di questo "oggetto" nel panorama degli altri oggetti nell'orizzonte semantico complessivo, determinando il contesto esterno necessario a distinguere la psicoterapia dalle altre bolle di contesto sia per quanti la "fanno" che per quanti la studiano. 5) Ora vengo alle questioni che pone Galliano: (i) La discussione sull'argomento "Gill e Wallerstein" ha preso, ad un certo punto, un rivolo verso "setting autoreferenziale". Ora mi chiedo, se per autoreferenziale si intende che il referente non è un oggetto dato e certo nel mondo, allora siamo d'accordo. Ma se "auto" vuol dire auto, come la mettiamo con le regole del gioco? A me non pare che le regole del gioco siano mai autoreferenziali - a meno, ripeto, di non voler vedere ogni gioco per sé in una sorta di vuoto pneumatico che lo separa da tutti gli altri giochi. Se i termini di un linguaggio si giustificano per la loro relazione con gli altri termini, piuttosto che per la relazione con gli oggetti che vorrebbero designare, lo stesso non vale anche per i giochi e le loro regole? (ii) Mi chiedo se sia sensato parlare di conoscenza in senso così ampio. So bene che nell'orizzonte paradigmatico di Scano e di Giordano quest'uso allargato del termine si legittima. Mi sembra, tuttavia, che i "giochi linguistici" che si possono fare con *conoscenza* applicata a un essere umano siano tutto sommato molto diversi da quelli che si possono fare con *conoscenza* applicata a farfalla (o anche elefante, per altro) e che accomunarli sia fuorviante. Quanto alla prima questione credo che Giordano sia più competente di me nel precisare, in termini "maturaniani", il senso di "auto" nel setting autoreferenziale (spero che colga la provocazione perchè mi piacerebbe che intervenisse su questi temi!). Credo che la maniera migliore di tentare una risposta sia di assumere contestualmente le due domande. Io mi sforzo di prendere sul serio e contemporaneamente la "chiusura" e l' "apertura", l'autonomia e l'eteronomia, il "soggetto" e l'"oggetto" e il "soggetto-oggetto". Dire che noi esageriamo la differenza tra il nostro modo di "conoscere" rispetto al modo di conoscere del gatto o della farfalla è naturalmente uno slogan, che si giustifica con il fatto che la cultura occidentale ha appiattito la nozione di conoscenza su quella di metaconoscenza al punto che soltanto all'inizio del secolo si è giunti a categorizzare la distinzione concettuale tra "coscienza" e "metacoscienza", "conoscenza" e "metaconoscenza", mentre molta psicoanalisi ancora la ignora. Certo, Giacomo è un sistema vivente, come una chiocciola o un delfino e, come tale è un sistema (termodinamicamente) aperto, ma chiuso in virtù della sua auto-organizzazione; da questo punto di vista è omologo alla chiocciola e al delfino, ma a differenza del delfino e, a maggior ragione, della chiocciola, è un sistema-soggetto, che non solo "osserva", ma si auto-osserva e metaosserva le sue osservazioni e le sue auto-osservazioni. Egli, inoltre, è in grado di importare dallesterno per via rapida e diretta memi, ricette, informazioni già elaborate e interi pacchetti di programmi. Ciņ sembra implicare qualche modificazione nel modo di concepire il quadro dei vincoli e delle possibilità e riguardo al modo di intendere, a suo riguardo, il "cambiamento" e la "conoscenza", rispetto al modo di intendere il cambiamento e la conoscenza nelle chiocciole o nei delfini. Questa caratteristica di Giacomo di acquisire informazioni per via diretta e di acquisire anche informazioni su di sé e sul suo funzionamento, ha giustificato la congettura secondo cui egli puņ essere modificato mediante il passaggio diretto di informazione e conoscenza (interpretazione > insight > cambiamento). La psicoanalisi perņ ha sempre riconosciuto aspetti ed elementi propri dellautonomia e dellauto-organizzazione del sistema (resistenza, difesa, transfert...). Si puņ forse guadagnare in chiarezza, anche se non in semplicità, se, piuttosto che contrapporre (o ridurre) lautonomia alleteronomia, la chiusura e lapertura, si disegna invece un quadro complessivo dei "vincoli" di Giacomo: vincoli che lo limitano in quanto organismo biologico, in quanto organismo "cosciente" e in quanto organismo "autocosciente", che vive in accoppiamento strutturale con un ambiente non solo fisico e antropizzato, ma soprattutto semantico, in cui passano anche informazioni già elaborate, per esempio interpretazioni o informazioni sul suo funzionamento. Rispetto a questa massa di vincoli, di possibilità e di perturbazioni, Giacomo, analogamente alla chiocciola, continua, tuttavia, a mantenere la sua chiusura, selezionando nel vortice degli stimoli, quelli che risultano per lui significativi e non significativi e attribuendo anzi, direttamente significatività ad essi in ragione della sua struttura e organizzazione. Ciņ vale anche per quegli "stimoli" particolari che riguardano in maniera diretta la sua stessa organizzazione in quanto "oggetto osservato" sia che essi provengano da un osservatore esterno sia che provengano dalla sua stessa auto-osservazione. Quello che intendo dire è che "conoscenza" è più ampio di "metaconoscenza" e la include, il che non significa che non possiamo parlare di metaconoscenza, delle sue regole, dei suoi criteri e dei suoi metodi osservazionali, distinguendola dalla "conoscenza", che si riferisce a un ordine logico e fattuale più ampio e "complesso". Potremo poi metterci d'accordo e chiamare "peppe" la conoscenza in quanto processo biologico di invarianza e cambiamento e "peppino" la metaconoscenza anche per non confondere i "giochi linguistici", ma forse in questo momento è più salutare la "con-fusione". Onestamente non riesco a capire per quali vie una tale posizione possa essere scambiata per "scettica" o per "soggettivista": quasi che rendersi conto del fatto che non possiamo uscire dal nostro orizzonte semantico (e più in generale dalla nostra singolarità) sia la stessa cosa che chiudersi nel sogno di Berkeley e buttare via la chiave. Per quanto mi riguarda, tra Aristotele e Platone non ho dubbi: scelgo Democrito di Abdera! Scusate l'enfasi finale: questa tematica mi accalora! Per quanto riguarda lintervento di Tullio Carere, egli parla di un "luogo comune molto diffuso" che il testo di Longhin e Mancia avrebbe il merito di sfatare. Sono un po perplesso a causa delle bacchettate epistemologiche che ho visto partire in questa e nella precedente mail. Dico "partire" e non "arrivare" perché non riesco a riconoscermi nel bersaglio. Spero non me ne avrai se tenterņ di disinnescare questi "schiocchi" prima di formulare una "provocazione" che spero raccoglierai. Allora: 1) "... il testo di Longhin e Mancia ... ha il merito di sfatare un luogo comune molto diffuso. Criticando l'ambiguità della tesi contestualista, secondo la quale i termini "osservativi" della scienza sarebbero "carichi di teoria", e quindi da considerare anch'essi teorici, Longhin riprende le fondamentali considerazioni di Agazzi: "Ma, in tal modo, essi sarebbero privati del potere di controllo sperimentale per il confronto delle teorie, in quanto non esisterebbe più un ambito neutro di paragone tra di esse. Infatti, solo se i termini di una scienza sono osservativi è possibile assicurare una certa indipendenza dalle teorie e anche un qualche collegamento con la realtà extralinguistica su cui la teoria sta indagando". Un giorno Popper, entrando in aula, diede agli allievi il seguente compito: "osservate!". Essi non seppero, naturalmente, eseguirlo. Era un modo di sottolineare che si osserva solo ciņ che si cerca e che, se qualcosa viene cercata, è già inclusa in una congettura! E' un esperimento facilmente reiterabile. Ciņ non implica che i termini di una scienza non siano "osservativi". Popper non lo pensava e, sulla sua scorta, neanche io; infatti spero di riuscire a mettere su un laboratorio di ricerca. A prescindere dalla riuscita o meno di questo progetto, si fa comunque ricerca sulla base del paradigma della complessità. Il gruppo di Di Nuovo e Lo Verso, per esempio, la fa. 2) "... senza un ambito o un fondamento non teoretico è impossibile valutare e controllare le teorie, ed è inevitabile cadere in posizioni di tipo scettico-convenzionalista: per decidere il valore di una teoria non resterebbe altro che il dato della sua accettazione da parte di una certa comunità che la adotta. Questo non vuol dire che tale ambito non teoretico, o teoreticamente "neutro", sia una nozione semplice, autoevidente e non problematica. Nel nostro campo esistono due schieramenti opposti: da un lato i fautori di una "neutralità" che si dà per scontata, e diventa una specie di idolo al quale si deve sacrificare ogni altra cosa. Bisogna muoversi in punta di piedi, non somministrare farmaci, eccetera, per non disturbare la neutralità. Dall'altro lato con la stessa sicurezza la neutralità viene dichiarata concetto vuoto e abrogata: non rimangono altro che "narrazioni" o "descrizioni", più o meno funzionali al mondo interno del soggetto. Alle solite, si passa da un oggettivismo acritico a un soggettivismo altrettanto acritico". Il problema metafisico della "Verità" è una cosa; il problema metodologico del come si fa a stabilire se il sole gira intorno alla terra o se la terra gira intorno al sole, è un altra cosa. Il secondo problema è risolvibile ed è stato brillantemente risolto benché il problema metafisico della Verità non abbia allo stato trovato soluzione. Temo non la trovarà mai perché ha strane attinenze con un altro problema metafisico di uguale portata: "esiste Dio?". Il problema della "Verità" è una faticosa deviazione imposta alla scienza da una antica diatriba tra Aristotele e Platone, che proprio per questo non erano amati dal più antico sperimentalista che io conosca, Democrito di Abdera, che piuttosto che discutere sulla natura delle idee faceva curiosi esperimenti tramite piccolissimi coltelli (mentali). A parte questo, non riesco a vedere relazione tra il problema dell'ambito "non teoretico" e quello della diatriba tra neutralità e non neutralità, che a mio parere è un problema logico-metodologico che ha scarse attinenze con il problema metafisico. 3) "La difficoltà che in entrambi i casi è evitata è quella della dialettica soggetto/oggetto, che sappia integrare i due momenti dell'esperienza, quello teoretico-oggettivante e quello empatico-fenomenologico". Mi mordo la lingua, ma non riesco a impedirmi di ribattere con altrettanto schiocco. Dire che io evito la difficoltà della dialettica soggetto\oggetto mi suona come un voler spiegare al vinaio che esiste una sostanza chiamata vino. Mi occupo della dialettica tra soggetto e oggetto da venti anni quando tutti (salvo Holt, George Klein, Gill...) ancora giocavano a nascondino con gli affetti e le rappresentazioni della metapsicologia, ma questo tu non puoi saperlo e, dunque, ti scuso volentieri, ma nondimeno ribatto che parlare dei "due momenti dell'esperienza teoretico-oggettivante ed empatico-fenomenologico" è, per me, "evitare" e anzi negare "la dialettica soggetto\oggetto" disegnando una scorciatoia, che si suppone esista perché sarebbe utile che esistesse! Se avessi saputo delle tue ascendenze fenomenologico-ermeneutiche mi sarei risparmiato la battuta sulla "scialuppa senza fondo dell'ermeneutica" della mia prima mail... ma è ...andata! L'affermazione è, comunque, ampiamente suffragata dall'analisi critica di Popper, Grünbaum e mille altri. Capisco che tu voglia fondare l'"empatia", ma il fatto è che lungi dal pensare che "L'affetto e la cognizione" siano "due fenomeni completamente separati" e lungi dal prendere separatamente "ciascuno dei due fattori" (Poland, 1984) io penso proprio che non siano "due" fattori e anzi che non siano proprio in alcun modo "fattori" e che non siano nemmeno "fenomeno". Penso anche che, al di là del suo significato nel linguaggio di tutti i giorni, "empatia" sia una categoria confusa che campa sull'oscurità della nozione di significato e presuppone che a livello linguistico e non linguistico si possano "scambiare" significati attraverso il tunnel strumentale scavato tra le due "cose non teoretiche". Ci si puņ scambiare messaggi non significati! 4) "Per quanto riguarda più specificamente "il sistema formato da due soggetti, l'attaccamento strutturale tra due Io", e "l'epistemologia interna della coppia" che si contrappone "all'epistemologia normativa esterna", abbiamo, in questo sistema, due soggetti, ciascuno dei due chiuso nel bozzolo delle proprie narrazioni o descrizioni, ma aperto, quando va bene, a un confronto con le narrazioni dell'altro. Tale confronto, perņ, non puņ avere alcun esito veritativo - dal momento che la verità è esclusa sin dal principio dall'orizzonte di tale epistemologia - ma solo, quando va bene, un buon esito negoziale, nel senso che i due si mettono d'accordo, "convengono" su qualcosa. E' già qualcosa, beninteso. Anzi è molto, in un mondo in cui è così diffuso il vezzo di spararsi l'uno contro l'altro le rispettive verità, garantite dal Padreterno o dalla Scienza. La moderazione scettico-convenzionalista è un sano antidoto rispetto all'ordinaria follia di chi ha la verità in tasca, ma è troppo poco per chi ha già capito che la verità non è cosa che si possa mai intascare. La posizione di chi, avendo capito di non potersi mettere in tasca la verità, la abolisce, è ancora troppo vicina, per me, a quella di chi non mette mai in gioco il contenuto delle sue tasche. E' un passaggio, e come tale lo rispetto. Ma solo un passaggio". Onestamente non riesco a capire perché tu abbia deciso che io sia uno "scettico-convenzionalista" o un "soggettivista acritico", ma temo che discutere su questo, oltre che poco fruttuoso, sarebbe poco interessante per chi avesse qualche interesse agli aspetti del nostro dibattito che riguardano cose più prossime alla psicoterapia. Perciņ visto che ci riconosciamo reciprocamente la disponibilità a mettere in gioco il contenuto delle proprie tasche, vorrei proporti una leggera provocazione che spero vorrai raccogliere. Dall'insieme delle cose che ho scritto credo puoi dedurre che non penso che il cambiamento avvenga in virtù dell'insight (per la verità io penso che l'insight, qualunque cosa esso sia, avviene, semmai, perché c'è stato un cambiamento!). Dall'insieme delle cose che hai scritto posso dedurre che nemmeno tu lo pensi (almeno in assoluto) e che, dunque potremo accordarci su una formulazione generica del tipo "Giacomo cambia perché ha potuto avere una "esperienza nuova". Sulla base di questa concordanza, possiamo ora confrontare il contenuto delle nostre tasche. Sia tu che Migone vi siete espressi ripetutamente sulla accettabilità dell' "esperienza correttiva". Sulla sostanza sono d'accordo e anzi gran parte della mia riflessione sul metodo mira a rendere operativa una tale congettura in modo da poter cercare "dati" osservazionali su questo nodo (quanto meno sono uno strano scettico-convenzionalista!). Ho tuttavia espresso dubbi sulla chiarezza e accettabilità della formula "esperienza correttiva" quando essa venga intesa nel modo corrente a indicare una specifica strategia tecnica; come ho già detto preferisco pensare che Giacomo cambia perché ha potuto costruirsi, lui, una esperienza che a posteriori potrebbe anche essere considerata "correttiva". Visto perņ che invece tu pensi che in qualche modo si possa progettare una esperienza correttiva, io ti chiederei di descrivere, magari servendoti di un caso concreto (come esempio illustrativo si puņ, come prova no!), come hai fatto a (i) identificare il bisogno in questione, (ii) a identificare la esperienza da correggere, (iii) a ideare la congetturale esperienza correttiva necessaria (iv), a favorire la realizzazione di tale esperienza, (v) a verificare l'effettiva esperienza correttiva avvenuta. Ti confesso che sono scettico sulla effettiva possibilità che allo stato si possano trovare risposte solide e convincenti a queste questioni, ma se effettivamente tu le avessi e risultassero convincenti, non potrei che esserne lieto. 1 aprile 1999, TULLIO CARERE: Caro Scano, faccio un po' di fatica a seguire le tue argomentazioni, ma almeno una cosa mi pareva di aver capito: tu neghi che si possa parlare di conoscenza in qualsiasi senso vera o oggettiva, perché per te esistono solo costruzioni (o teorie, o narrazioni, o descrizioni) autoreferenziali o tutt'al più condivise con altri. E' la classica posizione scettica, che ha il difetto di non poter pretendere di essere in alcun modo vera o oggettiva, non potendo essere altro che la costruzione (o teoria o fantasia) di chi la sostiene o condivide. Invece trovo continuamente scettici contemporanei (che si dicano o meno "costruttivisti radicali") che negano di esserlo, e pretendono che il loro discorso abbia un valore anche per me, quindi al di fuori del loro universo autoreferenziale, del tutto privato, o condiviso nelle loro cerchie. In questa acrobazia non riesco a seguirli. (A scanso di ulteriori malintesi: un "costruttivista radicale" è uno convinto che <<Giacomo cambia perché ha potuto costruirsi, lui, una esperienza che a posteriori potrebbe anche essere considerata "correttiva">>). Se tutto è costruzione (o teoria), e non esiste un ambito non costruito (non teoricamente neutro), siamo tutti "monadi senza finestre", ognuno chiuso nel bozzolo della propria teoria, o nella congrega di coloro che professano la stessa teoria. E' esattamente la situazione che caratterizza l'attuale arcipelago delle psicoterapie, composto da una miriade di isolotti, in ognuno dei quali gli indigeni parlano una loro lingua e non si intendono, né possono intendersi, con gli indigeni dell'isolotto vicino. Colgo loccasione per comunicare che Sergio Benvenuto ha messo in rete la versione inglese ("The crisis of interpretation") di un lavoro già pubblicato circa un anno fa su Psicoterapia e scienze umane. Ne consiglio la lettura a coloro che hanno seguito, con giusta insoddisfazione, un recente dibattito su questa lista ("Interazione, esperienza correttiva ecc."). In questo lavoro Benvenuto osserva che (cito dalla versione italiana) "la critica ermeneutica ci ha ricordato qualcosa di molto amaro per noi moderni... che è impossibile sapere qualcosa senza interpretare, è impossibile essere definitivamente 'oggettivi'". Ognuno interpreta a partire dai propri miti personali o di scuola. La crisi dell'interpretazione freudiana (non più rivelatrice di una verità oggettiva, ma un mito tra i tanti) è tuttavia salutare, "nella misura in cui umilia una tendenza cronica di molta psicoanalisi all'onnipotenza interpretativa". Una volta abbandonata l'illusione che l'interpretazione riveli fatti oggettivi, che cosa ci puņ salvare dal nichilismo cui già Nietzsche era approdato ("non esistono fatti, ma solo interpretazioni")? E' la questione cruciale che si ripropone continuamente nel nostro "Mondo incerto" (titolo di una raccolta curata per Laterza da M. Pera, contenente tra gli altri l'importante saggio di E. Agazzi "Tra scientismo e scetticismo"): come prendere le distanze dalle vecchie certezze ingenue o dogmatiche, senza cadere nell'estremo opposto dei vari costruzionismi "postmoderni"? La risposta di Benvenuto, in breve, è questa: si puņ uscire dal rimando senza fine delle interpretazioni, che porta al relativismo/scetticismo/costruzionismo/nichilismo, approdando a un "reale" che non deve essere confuso con i "fatti oggettivi". Questo "reale" ci è dato come "effetto/affetto di verità", quando scopriamo qualcosa che precedentemente ci era velato da una interpretazione falsificante, costruita inconsciamente per proteggerci da una consapevolezza dolorosa, in particolare dall'impossibilità della realizzazione dei nostri desideri (un "reale" dunque "non lontano dal senso di Lacan: le réel est l'impossible"). La differenza tra "l'interpretazione nevrotica che lega" e "l'interpretazione analitica che slega, o dovrebbe slegare" non consiste dunque nel mostrare "fatti oggettivi", ma nel fatto che quest'ultima riesce, quando ci riesce, a confrontare il soggetto con un reale discordante con le interpretazioni che erano state costruite per occultarlo. Nell'apertura prodotta dal rapporto analitico, qualcosa "svela la propria essenza", avviene "il rivelarsi di qualcosa nella sua essenzialità". L'esperienza, "l'emozione" di verità è dunque qualcosa che avviene quando il soggetto riesce a sospendere l'adesione alle proprie interpretazioni, a prenderne le distanze, a creare in sé stesso quell'apertura in cui una verità puņ mostrarsi (evidenti gli echi della fenomenologia husserliana e heideggeriana). Ma è sufficiente questa "emozione" di verità per una "certezza" di verità? Certamente no: basti pensare al ruolo giocato dall'onnipresente suggestione. Per questo l'esperienza acquisita attraverso l'insight deve essere nuovamente ripresa dall'interpretazione, che ne indaga il senso e prepara il terreno per nuovi insight. Questa circolarità tra intuizione (insight) e argomentazione (interpretazione) - che corrisponde esattamente alla circolarità tra noús e diànoia degli antichi - non è tematizzata da Benvenuto, che tuttavia ci ricorda un fatto essenziale, troppo spesso dimenticato o trascurato: la verità è in primo luogo un'emozione, un affetto, la meraviglia di trovarsi di fronte a qualcosa che si svela (la certezza di verità è un altro discorso). A chi non vede altro che teorie, descrizioni più o meno adattive, interazioni implicite o esplicite, suggerisco la lettura del lavoro di Benvenuto. Non si sa mai, potrebbe aprirsi uno spiraglio. 1 aprile 1999, GAETANO GIORDANO: Caro Tullio Carere, nel tuo intervento del 28 marzo 1999 hai detto che "un'etica che implica solo l'assunzione di responsabilità rispetto alle proprie descrizioni o narrazioni non ha davanti a sé che una negoziazione a oltranza, e manca all'impegno essenziale di ogni etica: la ricerca del vero e del giusto, nella consapevolezza che non sono cose che si possano mai possedere, né tanto meno sbandierare." Scusami: che il fine dell'Etica sia la ricerca del "vero" e del "giusto" è autoreferenziale all'idea che il "vero" ed il "giusto" esistano e siano obbiettivi ed obiettivabili.. E' ovvio dunque come per te - ma solo per te - questa sia una Etica dimezzata. Nel mio Universum non cerco il "Vero" e non cerco il "Giusto" - perché, nota, prima o poi arrivo all'idea che se io posseggo il giusto posso anche imporlo. Io mi fermo ad una Etica della responsabilità e del rispetto, verso me e verso gli altri. Non sindaco dunque chi sia che abbia in mano la verità, ma ne accetto i contenuti. Poi ti chiedi: "Cosa fai con un'etica del genere di fronte a un Hitler o un Milosevic, ai piccoli Hitler e Milosevic che incontriamo tutti i giorni, magari dentro di noi?" Il punto è che se dovessimo valutare i risultati delle varie etiche da questo punto di vista, nessuno di noi potrebbe discutere! Ed è proprio la possibilità di costruire il concetto di "obbiettività" e ciņ che lo sostiene, e poi dimenticare tale operazione, a permettere di imporre come giusto e obbiettivo ciņ che è pura idea personale. Per quanto mi riguarda, insisto su questo punto: è solo allorché si entra nella logica che l'obiettività è una ipotesi esplicativa, che si possono abbandonare i problemi di questo tipo - indissolubilmente legati all'idea che esista una sola ragione e una sola verità e che dunque possano e debbano essere affermate in tutti i modi. 10 Maggio 1999, WILFREDO GALLIANO: Caro Tullio, mi è un po' difficile comprendere le ragioni dell'acrimonia e dei toni millenaristici con cui ti rivolgi ai "costruttivisti". L'unica cosa che mi viene in mente è che "noi" nichilisti, dissolti nel linguaggio, acutamente consapevoli della particolarità dei giochi linguistici non possiamo non avere un modo sommesso, seppure convinto (di interpretare), nel dire le nostre cose; schiacciati come siamo dalla responsabilità che ogni volta dobbiamo assumerci quando affermiamo una cosa sapendo di non poterci appoggiare su nessuna certezza data ma di dover portare il peso dei risultati di ciņ che diciamo. Per "voi" realisti, invece, è più facile parlare con la voce stentorea della certezza, se non altro perché - per la legge dei grandi numeri - una volta o l'altra la Verità verrà pur fuori nelle vostre affermazioni. Scherzi a parte, ti volevo ringraziare per la bella frase
Non ho letto l'articolo di Benvenuto, ma certo lo farņ. Per intanto mi sembra che dire che la verità è un'emozione (molto Lucio Battisti, non trovi?) è qualcosa che, come direbbe Vattimo, "camola" (tarla) la Verità, la indebolisce, la rende più simile a noi. La verità è qualcosa che possiamo trovare ogni mattina quando riapriamo gli occhi e che perņ altrettanto facilmente possiamo perdere se per avventura ci distraiamo. La meraviglia di trovarsi di fronte a qualcosa che si svela è un'esperienza liminale, è un fenomeno transizionale, è qualcosa cui non possiamo legittimamente chiedere se ci è dato (se in esso ci si imbatte) o se l'abbiamo fatto noi. Che tu stia diventando un'ermeneuta senza accorgertene? Affettuosamente. Wilfredo 12 maggio 1999, TULLIO CARERE: Non c'è solo la verità come rivelazione, cara agli ermeneuti non meno che a me. C'è anche la vecchia e sempre buona verità come adaequatio rei et intellectus, di cui Benvenuto non si occupa ma io sì, assieme a quella parte crescente degli epistemologi contemporanei che riscopre l'ineludibilità dell'ontologia: nel senso che l'oblio dell'essere ci lascia in balia della tecnica o delle chiacchiere, e non so quale delle due cose sia più incresciosa. La verità si manifesta nella visione (insight) e nel linguaggio (anche il costruttivista più incallito quando dice "sto male" pretende di essere creduto). Entrambe queste manifestazioni sono problematiche, cioè esposte al dubbio. Il grado di certezza di una verità non si ricava dall'intuizione (per quanto luminosa sia una visione o perentoria un'affermazione, il dubbio non si sposta di una virgola), ma dall'argomentazione: bisogna spostarsi dal noús alla diànoia, come ben sapevano gli antichi e come ci ricorda Agazzi. In questo continuo passaggio dall'intuizione al ragionamento e viceversa, che non permette mai di approdare a certezze assolute o definitive, è la dialettica della conoscenza. Chi non la regge cade da una parte (dogmatismo) o dall'altra (relativismo, costruttivismo). 12 maggio 1999, GAETANO GIORDANO: Caro Tullio Carere, nel mentre ti ringrazio per la simpatia che nutri nei miei confronti, non posso che associarmi al collega Galliano nella difficoltà a comprendere la tua acrimonia contro chi dice non esistere la verità. E riprendo il problema: la verità. Esiste? E se esiste, possiamo conoscerla e condividerla con uguaglianza percettiva ? Il primo punto da chiarire è questo. Il costruttivista non parla di verità. Il costruttivista (uso volutamente questa figura come fosse un "figuro" quasi losco) parla dell'esperienza del vivere. Egli affronta la conoscenza - ed è curioso che nessuno voglia rendersene conto - dall'unico punto di vista possibile, cioè da quello che definiamo "scienza". La spiega quindi come fenomeno biologico, la osserva come si osserva qualunque altro fenomeno biologico. D'altra parte, non vedo quale altra strada esista, per parlare di "conoscenza". Se lo vogliamo fare da un punto di vista filosofico, non possiamo poi pretendere di essere presi per quelli che parlano con dimostrazione "scientifica". Dunque: dal punto di vista della biologia la "conoscenza" è un comportamento. Qualunque esempio tu voglia fare circa la conoscenza, prima o poi dovrai arrenderti a definirla così: un comportamento. Se, comunque, tale definizione non ti soddisfa, ti prego di darmene un'altra (sempre in termini biologici: altrimenti, usciamo dalla Biologia. Ma se usciamo dalla Biologia, dammi un altro campo scientifico ove definire la conoscenza. Altrimenti, finisce che, per parlare della "tua" verità, ne parli da spazi della cultura che non si occupano, dal tuo punto di vista, della "Verità", ma di opinioni). Insisto dunque sulla biologia per spiegare la conoscenza, perchè se vogliamo l'obbiettività dobbiamo cercarla appunto là dove noi collochiamo la ricerca dell'obbiettività. Se vogliamo parlare della verità fuori dalla scienza, non si puņ poi pretendere di definirlo un discorso obbiettivo. Ed è qui che nasce l'inghippo, secondo me: perchè per spiegare la verità io posso solo ricorrere alla biologia: altrimenti, come faccio a dimostrare quali sono i modi con cui conosco il mondo, se posso conoscerlo solo attraverso me stesso? D'altra parte, se tu pensi che possiamo conoscere il mondo attraverso qualcosa di differente da quello che siamo, ti prego di spiegarmi - scientificamente - come. In altre parole, lo dico provocatoriamente, ti sto dicendo che mi sembra che sia proprio tu a pretendere di parlare di una verità obbiettiva, ma che poi non vuoi conoscere come tale, dal momento che ne fai un argomento di discussione in campi non scientifici, fuori cioè dal contesto che tu stesso definisci valido per definire la verità come verità. Sintetizzo dunque quanto detto sino ad ora: 1) Se dobbiamo parlare della "verità" descrivendola obbiettivamente, dobbiamo parlarne da un punto di vista scientifico; 2) L'unico modo scientifico per farlo è studiando il sistema attraverso cui la conosciamo, noi stessi, a meno che non troviamo il modo di sperimentare la Verità senza farlo attraverso noi stessi. Questa è l'essenza del pensiero costruttivista, che non si occupa appunto della "verità" perchè ritiene che l'unico spazio scientifico per discutere di verità sia la riflessione sull'esperienza che se ne ha. Ovviamente, se hai qualcosa da contestare ai due punti suddetti , fallo pure. Per continuare, ti dico che in questi due punti vi è il nocciolo dell'altra "nostra" asserzione: tutto ciņ che è detto, è detto da un osservatore. E anche questa - per me - è scienza. E' scienza, perchè o mi dimostri che ciņ che diciamo della "realtà" sia appunto esperibile al di fuori della nostra costituzione biologica, o devi concludere che qualsiasi cosa noi possiamo dire sulla verità e la realtà la diciamo attraverso la nostra costituzione biologica. E' vero che possiamo "quantificare" dei dati, ad esempio, ma tale quantificazione riflette una nostra possibilità "cerebrale" (in senso lato). Se non sapessimo contare, in cielo potrebbero esserci miliardi infiniti di stelle ma non le conteremmo e non le vedremmo neppure. E questo implica il concetto di determinismo strutturale: non è l'Universo a dirci come deve essere decifrato. Il fatto che che esista una verità obbiettiva e trascendentale all'esperienza che se ne fa l'osservatore, è per noi un discorso senza senso scientifico. Di fatto, tutto ciņ che esperiamo del mondo lo esperiamo attraverso noi stessi, e dunque riconoscendo come stimoli solo quelli che la nostra struttura biologica ci permette di riconoscere come stimoli. E' qui che possiamo cominciare a dire che la conoscenza è un comportamento. Meglio: che ogni comportamento è conoscenza, e ogni conoscenza è comportamento. "Noi" costruttivisti non distinguiamo l'uno dall'altro, perchè consideriamo la "conoscenza" una forma di interazione con l'ambiente. Meglio: un modo per mantenere l'equilibrio del nostro sistema nel rapporto con l'ambiente in cui è immerso. Dirņ una cosa che ti farà indignare enormemente o inferocirti millenaristicamente: il paramecio reagisce col suo ciglio (spero lo abbia!) alle perturbazioni dell'ambiente, il girasole si volta verso il sole per riscaldarsi e noi reagiamo con altri comportamenti, fra cui ci sono quelli che definiamo "atto cognitivo": inventiamo i termosifoni. Perché "conosciamo" il freddo e/o il modo per produrre calore? Il punto è in questo "reagire", dunque. Tu presupponi che nell'essere umano non vi sia un "reagire" ma un conoscere, e dunque la possibilità di una conoscenza obbiettiva di ciņ a cui si reagisce, e io presuppongo invece che quella che chiamiamo conoscenza "obbiettiva" è una spiegazione che diamo noi, e che non c'entra nulla col nostro "reagire" . Per me questo "reagire" emerge come "comportamento" in un dominio di interazione e costruisce una rete circolare di fenomeni che stabiliscono una relazione (circolare) fra i miei stati interni e l'ambiente nel quale sono immerso. Mi spiego meglio. Se cammino su un terreno solido, le mie gambe spostandosi in avanti mi portano in avanti. Se cammino su un tapis roulant, le mie gambe si spostano ma io non mi muovo. Se - mentre corriamo velocemente - il terreno sotto di me scompare e io resto per aria ad agitare vorticosamente le gambe prima di spiaccicarci al suolo, siamo invece dentro un cartone animato che per far sì che le nostre consuete aspettative sul "comportamento" vengano disattese, (ed è possibile disattenderle proprio perchè il comportamento esiste come tale solo nel dominio di interazione) sfrutta la differenza fra ripetitività (il camminare sul terreno sempre differente) e ricorsività (un sistema che in uscita produce ciņ che ha in entrata) in un contesto che divarichi le nostre concezioni sulla identità tra "comportamento" ed organismo che lo esprime Mi ripeto, dato che mi sono dilungato troppo fra montagne, tapis roulant e cartoni animati. Che significa dunque "camminare"? E' quel che definiamo comportamento, che attribuiamo alla corporeità che lo esprime, ma che esiste solo nel "dominio" di interazione fra questa corporeità (tu che puoi muovere le gambe sui tuoi monti, io che - sovrappeso come sono - mi limito a guardarti) e l'ambiente in cui tale corporeità essa è immersa. Il comportamento è dunque un nesso, il segno lasciato da una relazione. E che rapporto ha questo nesso con noi come sistemi viventi e con ciņ che definiamo "conoscenza"? Il punto da cui partire - o ripartire - è che il Sistema Nervoso opera come un reticolo chiuso, serrato in se. Perchè lo dico ? Perchè qualunque sia la mia risposta corporea (mediata o no - a seconda del gradino filogenetico in cui mi trovo come vivente - dal S.N.), questa risposta è scelta solo fra quelle che la mia corporeità ammette, sia in entrata che in uscita. Sono, in ogni senso, chiuso in me stesso. Per fuggire a te che mi insegui inferocito perchè nego "oggettivamente" la tua esistenza "oggettiva", devo intanto comprenderti come pericolo, e - poi per scappare devo utilizzare solo gli strumenti che ho: non, ad esempio, le ali che non ho. Ed è ovvio che quando nasco non so che cosa significa muovere le gambe. Questo implica che qualunque perturbazione nell'ambiente io la posso definire solo se la mia corporeità l'ammette come tale (e puņ esistere in sua presenza) e che il mio rapporto con l'ambiente esprime dei miei cambiamenti di stato interni. In altri termini, il Sistema Nervoso (SN) accetta solo quegli stimoli che riconosce come tali, e dunque non è l'Universo che ci spiega appunto come esser decifrato: siamo noi che distinguiamo o non distinguiamo il "la fuori". Queste distinzioni provocano e danno luogo a cambiamenti interni al mio SN. E qui occorre già fare una distinzione, che peraltro avevo già fatto in una mia precedente mail. Il SN amplia le mie possibili interazioni con l'ambiente, ma non le modifica, rispetto agli esseri che ne sono privi. Una pianta si lascia bruciare dal fuoco, ma se potesse muoversi rapidamente lo farebbe. Ad esempio, si orienta appunto verso il sole. Dato che è lenta noi non lo classifichiamo come comportamento, ma è lenta perchè non gode della grande facilità nell'accoppiamento senso-motorio che si ha quando nella filogenesi compare il S.N. Noi invece ci muoviamo, e ci "comportiamo": ciņ equivale a dire che l'operare del sistema nervoso ha significato nel dominio delle interazioni dell'organismo - quantunque consti di una dinamica chiusa di cambiamenti di relazioni di attività in un operare che non è direttamente rapportabile (essendo il sistema nervoso un sistema chiuso in sé) con l'operare dell'organismo nel dominio di relazioni. Nel senso: sento il calore, e se me ne allontano sto meglio. Il problema non è nella conoscenza del fuoco, ma nel fatto che il mio output (la fuga) modifica il mio input (il sentirmi bruciare). Il concetto di "conoscenza" è a posteriori di tale modifica, o, se vogliamo, ad un altro livello. Interviene quando io posso interagire con altri cambiamenti interni a questi cambiamenti interni. E' qui che spiego me stesso a me stesso: nell'interazione linguistica con me stesso.Ma non conosco il fuoco, conosco la mia successione di cambiamenti interni: la conoscenza è dunque il nome che dņ a questo interagire con me stesso. Perchè dico che non conosco il "fuoco" ? Perché nella mia prassi esperenziale il mio SN puņ, per via della nostra struttura di viventi, interagire solo con se stesso. Il "fuoco" è una costruzione che faccio a posteriori. E' chiaro che esiste, ed è chiaro che nessuno lo nega: ma tutto ciņ che possiamo descrivere non è il fuoco in sé, ma la nostra prassi di viventi in rapporto ad esso. Quella che sto descrivendo è dunque una rete interlacciata di processi ricorsivi, dato che ciņ che di fatto avviene è che il cambiamento di correlazioni senso-effettrici dell'organismo - modificando l'ambiente - comporta anche dei cambiamenti nella dinamica degli stati del sistema nervoso e questo comporta che ogni risposta effettrice, modificando l'ambiente, modifica - in un ciclo ricorsivo - anche la dinamica degli stati interni del sistema nervoso. Il risultato di tutta questa dinamica ricorsiva è che la struttura del sistema nervoso (vale a dire: le caratteristiche operazionali dei suoi comportamenti e delle sue relazioni) cambia in maniera contingente alla storia delle interazioni dell'organismo con l'ambiente; ciņ comporta che l'operare del sistema nervoso come rete autoserrata in sé di cambiamenti di relazioni di attività, permane generando correlazioni senso effettrici che hanno un significato nel suo vivere nel suo dominio di relazioni e interazioni, anche se nulla nell'operare del sistema nervoso rappresenta ciņ che fluisce nelle relazioni e interazioni fra l'organismo e il suo ambiente. In altri termini, la conoscenza di sé è la conoscenza del mondo, e quello che facciamo ha un significato perchè lo facciamo noi. Tutto ciņ comporta una definizione precisa della "conoscenza": la conoscenza è una spiegazione. E' un nesso introdotto da un osservatore allorchè pone in relazione due domini che ha di fronte: un sistema vivente, e l'ambiente nel quale questo si mantiene integro e autonomo (in "accoppiamento strutturale"). Noi diciamo che un vivente, un umano, ha conoscenza di un contesto quando riesce a creare risposte funzionali al suo equilibrio. Lo so che qui tu ti secchi e tiri fuori Hitler e Milosevich. Ma il punto è che proprio per questo "noi costruttivisti" diciamo che questi due figuri possono esistere solo in un mondo in cui la verità viene cercata come obiettiva ed esistente a priori dell'osservatore che la descrive ! Entrambi sono o erano convinti di averla ! A questa pretesa - e qui, mi dispiace dirlo, mi sembra che tu faccia orecchie da mercante - noi ribattiamo che è proprio la conoscenza della conoscenza, cioè il sapere che la conoscenza emerge come comportamento e dipende dalla biologia dell'osservatore, a dirci che la conoscenza non porta verità assolute. Dunque che nessuno puņ dire di possederla più degli altri. Bene, concludo qui la lunga e sicuramente imprecisa spiegazione. E la concludo con una asserzione che è in parte una battuta, e in parte una voluta ...provocazione. Questa: a me sembra che tu parli di una verità obbiettiva, esistente in se, ma per dimostrare l'esistenza di tale verità ricorri a supposizioni e argomentazioni filosofiche, e resti ben lontano dal dimostrarla scientificamente e dal discutere dell'esistenza di questa "verità" attraverso le uniche argomentazioni che - in un mondo come il tuo, in cui la verità è obbiettiva - garantiscono risultati obbiettivi. In altri termini, sto sostenendo che non esiste una dimostrazione scientifica del concetto di "verità". 13 maggio 1999, TULLIO CARERE: Caro Gaetano Giordano, le frasi che hai scritto: "un umano ha conoscenza di un contesto quando riesce a creare risposte funzionali al suo equilibrio" e "la conoscenza emerge come comportamento e dipende dalla biologia dell'osservatore" hanno per te lo stesso valore di quest'altra: "gli asini volano"? Non mi dirai forse che le prime due frasi sono vere, a differenza della terza? Ha scritto il filosofo Dummett (Il Sole/24 Ore, 25 aprile): "Nella pratica di fare affermazioni è essenziale che possano essere giudicate corrette o scorrette; è da qui che nasce il concetto di verità. Quindi è impossibile fare interamente a meno di questo concetto a meno di non voler privare il linguaggio di significato". Se tu rinunci al concetto di verità, la frase "un umano ha conoscenza, ecc." vale esattamente come "gli asini volano", né più né meno: cioè niente. E perché, poi, le due frasi riportate sopra per te sono vere? Perché si basano su quelle che per te sono evidenze intuitive innegabili, e sulla forza delle argomentazioni che hai sviluppato nel resto del tuo messaggio. Se con questo vuoi dire che il tuo discorso dice alcune verità (non dice che gli asini volano), cui le argomentazioni che sviluppi (che non sono palesemente errate) conferiscono alcuni gradi di certezza, sono pienamente d'accordo. Certo non pretenderai che la verità del tuo discorso sia dimostrata con certezza incontrovertibile (non vorrai finire nella categoria Hitler e compagni). E' una verità che sta a fianco di altre, e che se non vuole fare la prepotente dovrà confrontarsi con molte altre. Ma un confronto si puņ fare se in primo luogo si stabilisce che si sta cercando la verità, poi si rinuncia a possederla in esclusiva, e infine si trova una minima intesa su che cosa sia un discorso vero. Successivamente dici: " a me sembra che tu parli di una verità obbiettiva, esistente in se, ma per dimostrare l'esistenza di tale verità ricorri a supposizioni e argomentazioni filosofiche, e resti ben lontano dal dimostrarla scientificamente e dal discutere dell'esistenza di questa "verità" attraverso le uniche argomentazioni che - in un mondo come il tuo, in cui la verità è obbiettiva - garantiscono risultati obbiettivi. Non ho mai parlato di una "verità obiettiva esistente in sé". La conoscenza nasce da un affetto (qualcosa ci si rivela come evidente) e procede con un'argomentazione (il ragionamento mediante il quale cerchiamo di stabilire il grado di certezza che possiamo attribuire a quell'evidenza, che potrebbe anche essere illusoria), o viceversa (un'interpretazione produce un insight). Se siamo sufficientemente critici, tra evidenze e argomentazioni stabiliamo un circuito di rimandi, una dialettica che fornisce conoscenze sempre parziali e mai definitive. Se non lo siamo, crediamo di avere raggiunto la verità oggettiva e ce la mettiamo in tasca, o ci scoraggiamo e dichiariamo che la verità non esiste (credendo di dire una cosa vera). 14 maggio 1999, GAETANO GIORDANO: Tullio Carere ha scritto: che le mie due frasi : "un umano ha conoscenza di un contesto quando riesce a creare risposte funzionali al suo equilibrio" e "la conoscenza emerge come comportamento e dipende dalla biologia dell'osservatore" avrebbero per me lo stesso valore di "gli asini volano". No, non è questo il punto, caro Tullio. Entrambi hanno un valore di verità messo - come dice Maturana - fra parentesi. Mentre per te esiste una verità trascendente a chi la descrive, valida per tutti e trascendente alla costituzione biologica dell'osservatore, per me ogni descrizione che io dņ porta con se le mie premesse, dipende da esse, e non puņ avere valore trascendentale, cioè essere oggettiva in sé. Questo perché io non posso descrivere il mondo se non descrivendo me stesso, anche qui operando come osservatore. Fra l'altro, quelle due frasi sono imprecise: quello che volevo dire è che, descrivendo il concetto di conoscenza come fenomeno biologico, si scopre che noi esseri umani parliamo di "conoscenza" quando un sistema vivente riesce a interagire col suo ambiente in un modo che a noi appare adeguato. Se perņ tu hai un'altra definizione, dammela e la discutiamo. Tu dici:
Io insisto: tu vuoi una discussione che abbia la connotazione della verità scientifica per dimostrare obbiettivamente l'esistenza della verità, o la possibilità di parlare di essa, ma poi citi dei filosofi. Citi cioè solo quelli che sono pareri esplicitamente soggettivi. Di fatto - insisto ad libitum - nessuno di coloro che giura sull'esistenza di una realtà oggettiva porta poi una dimostrazione scientifica della sua esistenza e, soprattutto, della possibilità di discuterne a prescindere dalla costituzione biologica dell'osservatore. Per cui, io potrei benissimo riutilizzare la frase che tu hai detto a Galliano e dire: che discuto a fare con chi prima pretende che mi inchini ad una oggettività trascendente all'osservatore e le cui coordinate emergono dal sapere scientifico, e poi utilizza per dimostrarmi la validità del suo assunto una supposizione filosofica? Le mie frasi si basano sulle descrizioni di un osservatore in un contesto di esperienze che avevano per oggetto la biologia dell'osservatore. Le evidenze intuitive innegabili sono anche le voci dello schizofrenico. Insisto sulla verità messa fra parentesi - uso appunto il termine di Maturana. La verità è un accordo, non è un dato esistente a prescindere dall'osservatore. Riprendo il termine di paragone (volutamente stupido) che sto utilizzando in un'altra lista per fare un po' di chiasso sull'argomento: come fai a sapere che un chilo di cemento è veramente un chilo di cemento? E' chiaro che un chilo di cemento è un chilo di cemento: basta che lo pesi! Ma il punto emerge quando vai a descrivere l'atto del pesare. Il chilo di cemento risulta essere una convenzione (dunque, un accordo fra più osservatori) e implica non il paragone fra "chili" ma un paragone fra esperienze dell'osservatore (di più osservatori). Quando noi "pesiamo" un chilo di cemento, noi compariamo una nostra esperienza con quella di un altro, attraverso un termine di paragone concordato - il chilo e attraverso un apparecchio che ci permette in teoria una comune esperienza. A Parigi sono ancora conservati i campioni dei pesi e delle misure in platino (ora si adopera il laser, per le lunghezze, ma per i pesi credo ancora il platino). Perché il platino ? Perchè è il meno deformabile e il meno soggetto a variazioni. Non è solo una metafora, questa dei campioni di Parigi: è la dimostrazione che le nostre "verità" sono abbastanza labili, e fondate tutte su un paragone concordato. La scienza, in questo senso, serve a costruire contesti di esperienza in cui le esperienze degli osservatori sono vincolate da criteri comuni alle esperienze di altri osservatori: ci siamo messi d'accordo su cosa sono "un centimetro", "un chilo" e via dicendo, e li utilizziamo come se fossero veri a prescindere da noi. Ma il nostro misurare il mondo è in realtà una diretta espresssione di nostre esperienze di osservatori, tanto è vero che dobbiamo conservare sotto vetro i punti di riferimenti perché, se si alterano, sballa tutto! In altri termini, la realtà e la verità esistono solo - come dice von Foerster - come utili stampelle. E Maturana aggiunge: per creare un mondo condiviso. Per cambiare parere, vorrei dunque una dimostrazione scientifica che mi chiarisse, con l'evidenza della dimostrazione scientifica e non della supposizione filosofica: 1) Che la "verità" sia conoscibile in sé a prescindere dalla costituzione biologica dell'osservatore; 2) Che, conseguentemente, si evidenziasse con metodo scientifico il modo per distinguere in sé, e non con un processo a posteriori o attraverso un altro osservatore (inteso come essere umano) da noi ritenuto in grado di dare una spiegazione più vera della nostra, qual è la differenza in sé fra percezione e illusione. Il punto è tutto qui, a pensarci bene: se noi possiamo distinguere tra illusione e percezione, possiamo parlare della verità solo tenendo presente che è quella che noi distinguiamo come tale. In questo senso, il discorso si trasforma: dobbiamo parlare di una "verità" posta appunto tra parentesi, perché quella posta fuori di parentesi, cioè oggettiva in sé, non ha senso. Conseguentemente, noi possiamo descrivere non la "verità" intesa in quanto tale, ma un confronto si puņ fare se in primo luogo si stabilisce che si sta cercando la verità, poi si rinuncia a possederla in esclusiva, e infine si trova una minima intesa su che cosa sia un discorso vero. La mia chiave per definire in questi termini il discorso è appunto nella Conoscenza di quel fenomeno che noi chiamiamo Conoscenza. Da un punto di vista scientifico, la Conoscenza della Conoscenza mi porta a concludere che non esiste una verità che possa essere esperita e spiegata senza tenere conto della biologia - dunque della costituzione - dell'osservatore. In questo senso, ogni "realtà" è una costruzione che facciamo con noi stessi e con gli altri. Quando dici che "Se siamo sufficientemente critici, tra evidenze e argomentazioni stabiliamo un circuito di rimandi, una dialettica che fornisce conoscenze sempre parziali e mai definitive." Il punto preoccupante, per me, è in quel "sufficientemente". E' lì che emerge l'autoreferenzialità della Conoscenza. In questo senso, tu mi stai dando ragione - non ti inferocire - più di quanto non credi, perchè ammetti con altre parole - che la certezza è messa fra parentesi e solo la consapevolezza di tale premessa (che consta del dover essere "sufficientemente" critici) svela o meno questa parentesi (cioè l'impossibilità di certezze assolute). In questo senso, dal momento che dobbiamo essere critici ed è ovvio che nessuno ha la verità. Dunque, ribatto, se nessuno ha la verità, questa è la verità! In altre parole, vorrei dire questo: il vero punto è stabilire se una verità esiste è puņ essere descritta a prescindere dalle premesse dell'osservatore. Se tu mi mi dai le evidenze scientifiche di questa possibilità, io ammetto che si possa parlare di verità. Ma dal mio punto di vista, no, perché le mie esperienze scientifiche mi dicono che ogni verità è solo una libera creazione della mente umana (lo diceva Einstein). In questo senso, è chiaro che le mie esperienze hanno un valore di "verità", ma nel senso di descrizioni della mia esperienza. La scienza è un modo per creare prassi di esperienze vincolate fra loro: quando io peso un chilo, devo sapere che la mia esperienza è identica alla persona che, in un'altra parte del mondo, fa la stessa esperienza. La verità puņ essere solo condivisa e non posseduta, dunque. 16 maggio 1999, TULLIO CARERE: Caro Gaetano Giordano, nel tuo intervento dici: "Insisto sulla verità messa fra parentesi - uso appunto il termine di Maturana. La verità è un accordo, non è un dato esistente a prescindere dall'osservatore. Provo a seguirti nella tua logica. Se la verità va messa tra parentesi, anche la verità della frase "la verità è un accordo, non è un dato esistente a prescindere dall'osservatore" va messa tra parentesi come ogni altra, e quindi non è né più né meno vera della frase "gli asini volano". Nessuna delle due è vera in sé, entrambe possono esserlo se ci si accorda che lo sono. Ogni verità, dunque, non è che un mito intorno al quale si raccoglie una comunità di credenti. La comunità cristiana si raccoglie intorno al mito che la sorgente della verità è il Vangelo. La comunità hitleriana prende come fonte della verità le parole del Fuehrer. Una comunità scientifica si identifica con le verità prodotte dalle procedure che quella comunità definisce scientifiche (e che possono essere del tutto diverse da quelle che altre comunità scientifiche definiscono scientifiche: vedi Kuhn. Il mito freudiano è un mito come tanti altri, osservava Benvenuto, nell'articolo da cui siamo partiti). Naturalmente ogni comunità dimentica che la propria verità è solo un mito, e cerca di giustificarla razionalmente (tra le verità di fede e le esigenze della ragione umana non c'è contraddizione, non si stanca di ripetere il papa). Come conseguenza, ogni comunità pensa che la propria verità sia superiore alle altre. Per esempio, la comunità dei credenti nel mito "la verità è un accordo, non è un dato esistente a prescindere dall'osservatore" pensa che la propria verità sia superiore alle altre perché è basata sulla consapevolezza della sostanza mitica di ogni presunta verità, e quindi sulla tolleranza, mentre chi è privo di questa consapevolezza tende a costruire verità "oggettive" e a diventare intollerante. Ma è facile vedere che questo non è che un altro mito (nel mio mito personale la tolleranza verso un hitleriano non sarebbe un segno di consapevolezza, ma di stupidità). In questo quadro, il dialogo tra aderenti a miti diversi è ovviamente illusorio. Non c'è che scegliere il mito al quale iscriversi, e starsene tranquilli nel tepore della comunità che intorno ad esso si raccoglie. Il confronto tra diverse teorie è invece possibile su un terreno teoreticamente neutro, cioè sulla base del presupposto che l'essere umano sia dotato della capacità di prendere le distanze, mettere tra parentesi o neutralizzare qualsiasi teoria o motivazione (è l'epoché della fenomenologia, l'ascolto "senza memoria e senza desiderio" di Bion). E' una capacità, beninteso, problematica, che consente una neutralizzazione parziale e mai compiuta: ma che consente di aprire uno spazio "sufficientemente neutro" in cui le evidenze "ontologiche" possono mostrarsi (quando questo avviene, abbiamo l'effetto-affetto di verità di cui parla Benvenuto, la meraviglia e la gratitudine di fronte a qualcosa che si svela davanti a noi). Un confronto e un dialogo tra sostenitori di diverse teorie è dunque possibile solo sulla base di un referente ontologico neutro rispetto alle teorie in questione. Con due avvertenze. Prima: referente ontologico non significa "verità oggettiva". L'oggetto è qualcosa che risulta da una spaccatura precedente in un soggetto e un oggetto: conoscere un oggetto indipendentemente dal soggetto è questo sì illusorio, qui sono d'accordo con te. Seconda: l'evidenza noetica (intuitiva) produce un effetto-affetto di verità, ma sarebbe sommamente imprudente affidarsi alla pura verità intuitiva, senza integrarla con il lavoro dianoetico (discorsivo) di analisi critica del "dato". Se si ammette che dalla collaborazione tra facoltà noetica e dianoetica si ottiene almeno un certo accesso al reale (parziale, problematico, provvisorio quanto si voglia), il dialogo è possibile, anzi desiderabile e necessario. Invece tra credenti in miti diversi è una perdita di tempo, come ho detto e ribadisco. 17 maggio 1999, GAETANO GIORDANO: Caro Tullio Carere, hai scritto che ogni verità non è che un mito intorno al quale si raccoglie una comunità di credenti. Bè, è stato calcolato che ogni sette anni, o giù di lì, cambia tutto il sapere medico. In fisica abbiamo avuto rivoluzioni copernicane che hanno ribaltato mondi interi. Una volta si credeva che le sepsi fossero portate da movimenti magmatico-tellurici, poi vennero i microbi e... e tu ne fai una questione di "mito"? Tutta la storia della scienza dimostra che la verità definitiva è un assurdo pericolosissimo. Tu dici anche:
Il nucleo centrale della mia idea di "realtà" è proprio questo. Una volta che dai questo per contato, devi di necessità concludere nell'autopoiesi... Come nel quadro di Escher (Mani che disegnano, o qualcosa del genere) il soggetto disegna l'oggetto quanto l'oggetto dipinge il soggetto che lo crea e che.... (circolo infinito, non continuo) Noi osserviamo l' "oggetto" come un'entità che in sé è ilusoria. Perché risulta da una divisione operata dall' osservatore (o dal soggetto). A questo punto tu puoi trattare l'oggetto come se esistesse in sé, perché lo osservi come tale. In sé non è un errore, se non dimentichi di aver compiuto l'operazione. Ma allora il problema non è la verità in sé. Ed è questo il nocciolo ultimo del mio discorso. La mia impressione è che qui ci sia il tuo errore. Tu non ridai al singolo il compito di essere responsabile di ciņ che fa delle e con le proprie verità, di come le considera e del valore di relativizzazione o di mito con cui le esperisce. Il problema non è dunque qual è la verità "in sé" ma la consapevolezza del suo essere un nostro mito personale. Se il mito viene vissuto, esperito, come "realtà", scoppiano le tragedie mondiali. Il vero problema non è dunque la natura ultiuma della verità - perché sembra che qui, linguaggi espressivi a parte, siamo d'accordo, ma - appunto - la consapevolezza che ogni nostra verità è relativa (come millenni di storia della scienza dimostrano) e la consapevolezza del nostro bisogno di condividere come relativo - e dunque da mettere in comune lo spazio di una verità. 18 maggio 1999, TULLIO CARERE: Caro Gaetano, io avevo scritto che "... Se si ammette che dalla collaborazione tra facoltà noetica e dianoetica si ottiene almeno un certo accesso al reale (parziale, problematico, provvisorio quanto si voglia), il dialogo è possibile, anzi desiderabile e necessario. Invece tra credenti in miti diversi è una perdita di tempo, come ho detto e ribadisco.
Ti ringrazio per questo interessante esempio di autoreferenzialità, disciplina che tu non solo teorizzi, ma pratichi anche con profitto. Mi congratulo per la coerenza e ti confermo la mia simpatia. 19 maggio 1999, GAETANO GIORDANO: Caro Tullio, se non sei d'accordo che non siamo d'accordo, dimmi in cosa. Io sostengo che su questo punto c'è una nostra convergenza: entrambi riteniamo che se la verità viene esperita come tale, cioè le viene tolto il valore di "mito" personale, si perde la possibilità di relativizzarla. Se non sei d'accordo, basta dire da quale punto di vista e perché. Se sei d'accordo, pure. Se ti è difficile percorrere entrambi le strade, comincia a pensare che forse esiste una falla logica proprio nel tuo modo di pensare alla verità. Altrimenti, comincio a pensare che questa scusa dell'autoreferenzialità sia il sistema che si usa quando non si sa cosa rispondermi. 20 maggio 1999, TULLIO CARERE: Caro Gaetano, a me pareva di avere espresso chiaramente il mio disaccordo, ma se tu lo hai preso per un accordo, evidentemente non sono stato chiaro come credevo. Ci riprovo brevemente. Io avevo scritto (16 maggio): "Provo a seguirti nella tua logica...". Se ti seguo nella tua logica, avevo cercato di mostrarti, arrivo alla conclusione che ognuno è chiuso nel proprio mito personale o collettivo. Se questa è la conclusione, "il dialogo tra aderenti a miti diversi è ovviamente illusorio. Non c'è che scegliere il mito al quale iscriversi, e starsene tranquilli nel tepore della comunità che intorno ad esso si raccoglie". Non rimane, in altre parole, che l'autoreferenzialità, che d'altra parte tu coerentemente teorizzi e pratichi. Io invece nel dialogo credo: come vedi non rinuncio a tentare di dialogare nemmeno con costruttivisti radicali e credenti d'ogni risma, che del dialogo sono la negazione personificata. Ma preciso che "un confronto e un dialogo tra sostenitori di diverse teorie è possibile solo sulla base di un referente ontologico neutro rispetto alle teorie in questione", e dunque sul "presupposto che l'essere umano sia dotato della capacità di prendere le distanze, mettere tra parentesi o neutralizzare qualsiasi teoria o motivazione". La conclusione è dunque: "Se si ammette che dalla collaborazione tra facoltà noetica e dianoetica [cioè intuitiva e discorsiva] si ottiene almeno un certo accesso al reale (parziale, problematico, provvisorio quanto si voglia), il dialogo è possibile, anzi desiderabile e necessario. Invece tra credenti in miti diversi è una perdita di tempo, come ho detto e ribadisco". Spero che ora il mio netto dissenso dalla riduzione scettico-costruttivista della verità a mito, che conduce necessariamente all'autoreferenzialità e alla negazione del dialogo, ti sia del tutto chiaro. Se vuoi continuare ad autoriferirti, padronissimo. Ma se vuoi dialogare, le condizioni e i presupposti sono diversi. Non si puņ avere tutto dalla vita. 20 maggio 1999, GAETANO GIORDANO: Caro Tullio, provo a risponderti perché mi sembra che vi siano, nella tua email, alcuni fraintendimenti che vorrei chiarire. Intanto il concetto di autoreferenzialità. Autoreferenziale è qualcosa che si riferisce a sé stesso. Tu lo confondi invece con "dogmatico", o qualcosa di simile: cioè con una affermazione che di sé stessa asserisce di esser vera. Tale confusione - che crea un assunto dogmatico ("ciņ che è autoreferenziale è dogmatico") nasce ammettendo il criterio aristotelico di "verità/falsità" come unico criterio di convalida delle affermazioni. A mio parere, in tale confusione c'è l'evidenza del tuo dogmatismo, un dogmatismo che sintetizzo così: - la realtà esiste perché io dico che esiste - la realtà è esperibile come reale perché io dico che è esperibile come reale, e dunque dobbiamo trovare un punto per descriverla obbiettivamente. Ti ho più volte chiesto una dimostrazione "scientifica" della possibilità di esperire la realtà come oggettiva, e cioè indipendentemente dalla costituzione biologica dell'osservatore, e non l'ho mai avuta. Il fatto che tu creda che esista e mi giuri di vederla a me non basta, perché anche lo schizofrenico sente le voci e non puņ distinguerle dal "vero" come "false": e, anche se l'ho chiesto, non mi hai ancora dato la chiave per capire cosa distingue in sé l'allucinazione dalla percezione. Questa chiave è forse il referente ontologico neutro? E chi giura sulla sua neutralità ? Un altro referente neutro? E come è possiamo accedere dalla allucinazioone a tale referente neutro? Qui emerge il mio circolo: ogni spiegazione è data da un osservatore ad un altro osservatore. Domanda: oltre a dimostrarmi scientificamente la realtà e la possibilità di esperirla come tale rispetto all'osservatore, mi dimostri il criterio di convalida della neutralità del tuo referente ontologico? Ciņ premesso, che tu ti ponga - come fai oltre - come il paradigma della volontà di dialogo e descriva i costruttivisti radicali alla antitesi di tale volontà, mi sembra una asserzione dogmatica. Intanto, perché io ti rispondo, e dunque non credo che - come fra bambini - tu puoi sostenere che la tua volontà sia migliore della mia. Secondo, perché "il costruttivista", negando un'oggettività dell'esperienza del "reale", non puņ esser chiuso al dialogo dal momento che non crede alle posizioni dimostrabili attraverso l'oggettività (per cui sa che non c'è inizio o fine nel proprio punto di vista) Terzo, è che sei tu a chiudere ogni dialogo se non condivido le tue premesse sul referente ontologico neutro. D'altra parte, sostieni tu, se io non do valore di "verità" a ciņ che dico, come puoi parlare con me? E io ti rispondo: - Parlando non della verità di ciņ che dico, ma della sua adeguatezza - Ma tu neghi che l'adeguatezza possa essere un criterio di convalida delle affermazioni, perché secondo te in tal modo si puņ creare un mondo nel quale tutto, compresi Milosevich e Hitler, sono giustificabili perché possono essere considerabili adeguati. Oltre a non dimostrare perché il criterio dio inadeguatezza è inadeguato in una discussione, ignori anche (non so quanto volutamente) il senso della mia risposta alla tua obiezione: io dico che è adeguato ciņ che è Etico. Al contrario, per me è' operando nella presunzione dell'oggettività che si puņ fare a meno dell'Etica, perché "il Vero" è un punto di non ritorno. Come mi sembra fai tu:
Dunque, a proposito del referente ontologico neutro: - Se parli da una posizione scientifica, dunque, dimostrami scientificamente che il referente ontologico neutro esiste ed è conoscibile come tale, cioè come terzo estraneo all'osservatore. - Se non parli da una posizione scientifica, spiegami il criterio di convalida delle tue asserzioni e la natura del loro dominio di esistenza. - Dimostrami perché il dialogo non è possibile negando tale referente. Per me è possibile proprio perché quella che consideriamo "divergenza" di punti di vista sulla "verità", è un operare in diversi domini di esistenza. In assenza di tali dimostrazioni, devo purtroppo concludere che, in nome del dogmatismo altrui, sei tu a chiudere ogni dialogo con chi non accetta le tue premesse, che presenti come "oggettive" e "scientifiche" ma di cui non dai mai una dimostrazione oggettiva e scientifica. 20 maggio 1999, DANIELE TOFFOLETTO: Ho letto da poco un nuovo articolo apparso su Psychomedia (Lorenzo Magnani: "Definire il caos: prevedibilità, determinismo, logica"), non ho potuto resistere dal riportare la presente citazione: Paradossi, fuzzy logic e caos Lo studio dei comportamenti caotici è entrato negli ultimi tempi anche nel campo della logica. Possiamo trovare alcuni esempi rilevanti nell'analisi dei paradossi semantici e degli enunciati autoreferenziali. Prendiamo subito un esempio concreto da uno dei paradossi più famosi e studiati della storia della logica, e della filosofia in generale: il paradosso del mentitore (Stewart, 1993). L'enunciato "questa affermazione è falsa" è autoreferenziale: infatti, se è vero allora è falso, e se è falso allora è vero. Dà a se stesso un valore di verità che in un sistema logico a due valori non puņ essere calcolato senza cadere in contraddizione. Dopo i diversi tentativi di superare l'inconveniente tramite le logiche polivalenti, recentemente si è cercato di applicare la logica fuzzy. In un sistema di logica fuzzy applicata al paradosso del mentitore si puņ partire dall'affermazione che la stessa pretesa di dire sempre il falso è già una mezza verità. Riprendiamo l'enunciato di prima. Questa affermazione è falsa. Indichiamo da adesso l'enunciato con P, e con p il suo valore di verità che in logica a due valori di verità sarà uguale a P = 1 - p Questo perché se P è vero, allora la sua negazione, non-P, è falsa, e il suo valore di verità è 0. Ora, 1 - 0 = 1 e 1 - 1 = 0; pertanto, se il valore di verità di P è p, allora il valore di verità di non-P è 1 - p. Da qui nasce il paradosso: se p = 0, allora P ci dice che p = 1 - 0 = 1; e se p = 1, allora P ci dice che p = 1 - 1= 0; in entrambi i casi c'è una contraddizione. In logica fuzzy possiamo evitare il paradosso dando il valore p = 0,5 e ricorrendo a una formula dinamica possiamo riscrivere la stima del valore di verità: p " 1 - p L'uso di una logica dinamica ci obbliga a correggere di volta in volta la stima del valore di verità dell'enunciato in oggetto. Il valore assegnato prima di p = 0,5 è l'unico che non porta a una oscillazione: se si fosse affermato, per esempio, che P è vera al 30 per cento, avremmo trovato una continua oscillazione di p = 0,3, corretto poi in p = 0,7, nuovamente corretto con p = 0,3, e così via con una successione infinita di valori di verità che oscillano tra 0,3 e 0,7." (Fine citazione).
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