Contenimento mentale e contenimento fisico:
considerazioni sullâholding in psicoterapia
Dibattito sul concetto di holding (contenimento)
avvenuto sulla lista "Psicoterapia" di Psychomedia
(PM-PT)
nel Febbraio-Marzo 2001
(Interventi di Tullio
Carere, Anna Ferruta, Licia
Filingeri, Gaetano Giordano,
Roberto Goisis, Gianni
Guasto, Marco Longo, Paolo
Migone, Luca Panseri, Maria
Ponsi, Piero Porcelli)
17 Febbraio 2001, From: Tullio Carere
Questa mattina a Milano, nella sontuosa sala del Grechetto, c'era Bollas, in
dialogo con Anna Ferruta e Francesco Barale. Ricopio dalla presentazione:
<<Christopher Bollas, membro della British Psychoanalytical Society,
vive e lavora a Londra. E' uno degli psicoanalisti contemporanei più originali,
autore di libri di ampia risonanza anche in Italia. La sua ricerca si è
sviluppata intorno alla recettività analitica e alla modalità di comunicazione
intuitiva e creativa che avviene tra analista e analizzando, che richiama la
costituzione dell'idioma personale all'interno delle prime relazioni
madre-bambino. Nel suo pensiero il processo della cura è anche un'esperienza
che permette di dare voce e spazio al 'conosciuto non pensato', che entra così
a fare parte della personalità del soggetto e dell'incontro con l'altro. Nella
sua opera è evidente la centralità dell'inconscio come generatore di verità e
di potenzialità curative, che si esprimono attraverso il processo delle libere
associazioni.>>
Nei suoi interventi Bollas insiste molto sulla fiducia nella volontà inconscia
di comunicare la verità, diametralmente opposta alla "cultura del
sospetto" tradizionalmente dominante nel mondo psicoanalitico. L'attività
principale dell'analista, quindi, non è quella di braccare e smascherare un
soggetto che, governato dal principio del piacere, fa di tutto per evitare il
confronto con la realtà, al quale invece l'analista implacabilmente lo
riconduce. Al contrario, la funzione principale dell'analista è quella di
rendersi ricettivo alla comunicazione del paziente, permettendogli di dirgli
(attraverso le libere associazioni) quello che ha bisogno di dirgli, e non di
ingabbiarlo in interpretazioni preconcette che riproducono in modo
autoreferenziale la teoria del terapeuta. In particolare, il vezzo
psicoanalitico di riportare tutto ciò che il paziente dice alla relazione con
l'analista è paragonato da Bollas senza mezzi termini a un delirio di
riferimento.
Musica per le mie orecchie, fin qui. Tuttavia, l'enfasi sulla "centralità
dell'inconscio come generatore di verità e di potenzialità curative"
sembra eccessiva ad alcuni, in particolare a Barale e Imbasciati. Troppo
ottimista. Molti pazienti sono troppo malati o troppo regrediti per un lavoro di
questo tipo, dicono, che sembrerebbe indicato solo per alcuni pazienti con un
inconscio già ben strutturato o un io piuttosto solido. Che fare ad esempio,
chiede Imbasciati, con un paziente che si presenta esteriormente come un adulto,
ma ci parla a livello associativo come un bambino di dieci mesi? Il suo
messaggio dovrà essere decifrato, risponde Bollas, perché il suo codice è
appunto quello di un bambino di dieci mesi: ma in linea di principio il discorso
non cambia, perché sin dall'inizio la funzione dell'inconscio è quella di
comunicare, non di ingannare. Qui mi viene un dubbio. D'accordo sulla funzione
veritativa dell'inconscio, non sufficientemente riconosciuta dalla "cultura
del sospetto" e quindi opportunamente sottolineata da Bollas. Ma un conto
è riconoscere il significato del messaggio (cosa possibile solo sospendendo
"memoria e desiderio", sulla linea psicoanalitica originaria
Freud-Bion tradita, secondo Bollas, dai teorici della psicologia dell'io e delle
relazioni oggettuali); altro conto è poi *rispondere* a questo messaggio. Che
cosa si deve rispondere per esempio a quel bambino di dieci mesi che giustamente
chiede, nel suo linguaggio, di essere preso in braccio? Peccato che non ho tempo
di porre la domanda, il dibattito sta terminando. Sarà per un'altra volta.
Vado a prendere mia moglie e andiamo a pranzo all'Osteria del Laghetto, in via
Festa del Perdono (ve la consiglio, se passate per Milano), dove per
combinazione (o per decisione inconscia: ma giuro che non l'ho pedinato) trovo,
due tavoli più in là, Bollas. Lo lascio pranzare in pace, ma al caffé la
domandina gliela faccio. "Dipende dal modello di riferimento",
risponde lui con mia sorpresa. Lo incalzo: "Ma se leggi nelle associazioni
un bisogno autentico di contatto fisico rivolto a te, glielo dai o glielo
interpreti?". "Glielo interpreto, naturalmente", risponde Bollas,
e la sua seconda risposta non mi sorprende affatto, perché consegue dalla
prima. Infatti dipende dal modello di riferimento. Per un analista neo-reichiano
il contatto fisico "nutritivo" oppure "catalitico" (Malcom
Brown) è normale, di assoluta routine, per un analista "mainstream"
è il peggiore degli acting-out, il primo passo verso l'incesto.
Potenza dei modelli. Abbiamo voglia di dichiararcene liberi, come Bollas,
arrivando persino a indicare nell'adesione dogmatica a un modello la fonte
principale di danni iatrogeni. Fin quando si tratta di ascoltare e interpretare,
sì, la libertà dai modelli è un fatto (abbastanza) compiuto. Ognuno usa
quelli che ha, ma ormai in modo elastico, tollerante verso i modelli altrui e
generalmente ben disposto a incorporare parti di quei modelli nel proprio. Ma
quando si tratta di agire, di agire deliberatamente (non parlo dell'agire
inconscio cui nemmeno il più analizzato degli analisti si può sottrarre), o
addirittura, Dio ci scampi, di agire fisicamente, scatta un riflesso di
appartenenza adamantino.
In un secolo tanti steccati sono caduti. Quanto ci vorrà perché cada anche
questo? Auguri.
18 Febbraio 2001, From: Gianni Guasto
Tullio Carere ha scritto:
>Che fare ad esempio, chiede Imbasciati, con un paziente che
si presenta
>esteriormente come un adulto, ma ci parla a livello associativo come un
>bambino di dieci mesi? (....)
>Che cosa si deve rispondere per esempio a quel bambino di dieci mesi che
>giustamente chiede, nel suo linguaggio, di essere preso in braccio? (.....)
>Per un analista neo-reichiano il contatto fisico "nutritivo"
oppure "catalitico"
>(Malcom Brown) è normale, di assoluta routine, per un analista "mainstream"
>è il peggiore degli acting-out, il primo passo verso l'incesto. (....)
>quando si tratta di agire, di agire deliberatamente
>(non parlo dell'agire inconscio cui nemmeno il più analizzato degli
>analisti si può sottrarre), o addirittura, Dio ci scampi, di agire
>fisicamente, scatta un riflesso di appartenenza adamantino. In un secolo
tanti
>steccati sono caduti. Quanto ci vorrà perché cada anche questo? Auguri
La questione sollevata da Carere, mi sollecita una riflessione. Lo stato
dell'arte psicoanalitica, rispetto al problema dell'"agire
fisicamente", sembra essere frutto, secondo quello che il Collega scrive,
di un accidentato lento percorso di emancipazione da un meccanismo di difesa,
cristallizzato in un'ideologia scientifica. Non so se le cose stiano esattamente
così, ma mi sento sufficientemente "laico" da non considerare
stupefacente l'eventualità di convincermene. Vorrei quindi pensare a che cosa
significherebbe, al di là degli interdetti, rispondere fisicamente al bisogno
di essere preso in braccio di un paziente adulto, che a livello associativo, ci
parla come un bambino di dieci mesi. Nella realtà esterna, quando un bambino di
dieci mesi sente il bisogno di essere preso in braccio, può essere soddisfatto
dalla madre. In questo caso, però la madre condivide (nell'ipotesi che le cose
funzionino, così come vorremmo funzionassero in analisi) il desiderio di
contatto fisico con il bambino. Il desiderio della madre di prendere in braccio
è un elemento succedaneo di un assetto emotivo costituitosi con la gravidanza,
e successivamente andato incontro ad una serie di trasformazioni dovute al
procedere dell'esperienza. A questo elemento occorre aggiungere una serie di input
che derivano dalle caratteristiche fisiche, oltreché emotive, del bambino. Una
cosa è prendere in braccio un bambino di dieci mesi, un'altra è prendere in
braccio un uomo, o un a donna, di cinquant'anni; per non parlare poi del
prendere in braccio un uomo o una donna di venticinque anni. Durante la seduta,
traggo un intenso piacere emotivo dal contatto "mind to mind";
al contrario, provo noia, sonnolenza, fastidio quando questo mi viene sottratto.
Se mi può accadere di essere sorpreso dalla fantasia di voler prendere in
braccio un mio paziente, non mi sento particolarmente attratto dal fare ciò
*realmente*. L'unica modalità di interazione fisica tra adulti che coinvolga
bisogni paragonabili a quelli di essere preso in braccio da parte di un bambino
di dieci mesi, e che susciti desideri in tal senso condivisi tra adulti è, a
mio modo di vedere, l'attività erotica. Ho il sospetto che il timore che un
agito fisico sia qualcosa che avvicina all'incesto abbia qualche fondamento, che
va oltre le cristallizzazioni ideologiche della psicoanalisi "mainstream".
18 Febbraio 2001, From: Anna Ferruta
Intervengo brevemente sulle suggestioni evocate dall'incontro-dibattito con
Bollas proposto dal Centro Milanese di Psicoanalisi, lungo il quale ci siamo
andati interrogando su che cosa è la psicoanalisi e su quale cura della
sofferenza psichica può offrire. Penso che un aspetto essenziale della
psicoanalisi consista nel linguaggio, che caratterizza lo sviluppo e la
costruzione della vita psichica umana rispetto a quella degli altri animali.
Anche le recenti ricerche delle neuroscienze sottolineano il carattere centrale
e strutturato delle aree del linguaggio. Freud fonda il suo metodo sull'uso del
linguaggio (associazioni libere /interpretazione), a partire dalla cura delle
isteriche come Anna O. Che cosa voglio dire? Che il paziente che sente il
bisogno di essere preso in braccio come un bambino di 10 mesi comunque non è un
bambino (vedi Winnicott: precoce non è profondo) e va incontrato con parole che
svolgano la funzione di braccia "mentali" che lo sostengano e che lo
aiutino a iniziare a sviluppare una vita psichica. Forse la sua esperienza è stata quella di essere afferrato da urgenti e meccaniche braccia materiali,
troppo indifferenti a quello che sentiva, o quella di una mancanza di braccia e
quindi di persone interessate alla sua sofferenza soggettiva per questa assenza.
Questo è il lavoro che è richiesto a chi si prende cura della vita psichica
(potremmo parlare di una funzione dell'analista come contenitore vivente di
esperienze emotive a cui cerca di dare forma e senso). Gli interventi diretti
sul corpo, più che ripetere eventi traumatici (seduzioni, violenze o incesti),
riguardano un altro tipo di cure. L'arte della psicoanalisi è questa: un aiuto
da parte di un altro a possedere e a sviluppare una vita psichica che aiuti a
vivere, a fare fronte alle sofferenze inevitabili e a godere dei piaceri che
comunque ci vengono incontro. La vita psichica degli umani ha una stretta
relazione con il linguaggio: anche Bollas sottolinea che il lavoro analitico
trasforma le immagini visive del sogno in linguaggio e così facendo
decostruisce, dissemina, per poi ritrovare altre forme del sogno. Talvolta il
nostro linguaggio "non ha braccia" adatte a accogliere certe
esperienze emotive: le dobbiamo trovare, nel silenzio, o nel dire proprio
questo.
18 Febbraio 2001, From: Licia Filingeri
Tullio Carere ha scritto:
>Che fare ad esempio, chiede Imbasciati, con un paziente che
si presenta
>esteriormente come un adulto, ma ci parla a livello associativo come un
>bambino di dieci mesi? (....)
>Che cosa si deve rispondere per esempio a quel bambino di dieci mesi che
>giustamente chiede, nel suo linguaggio, di essere preso in braccio? (.....)
>Per un analista neo-reichiano il contatto fisico "nutritivo"
oppure "catalitico"
>Malcom Brown) è normale, di assoluta routine, per un analista "mainstream"
>è il peggiore degli acting-out, il primo passo verso l'incesto.
(....)
>quando si tratta di agire, di agire deliberatamente
>(non parlo dell'agire inconscio cui nemmeno il più analizzato degli
>analisti si può sottrarre), o addirittura, Dio ci scampi, di agire
>fisicamente, scatta un riflesso di appartenenza adamantino. In un secolo
tanti
>steccati sono caduti. Quanto ci vorrà perché cada anche questo? Auguri.
Gianni Guasto ha scritto:
>La questione sollevata da Carere, mi sollecita una
riflessione.
>Lo stato dell'arte psicoanalitica, rispetto al problema dell'"agire
>fisicamente", sembra essere frutto, secondo quello che il Collega
scrive,
>di un accidentato lento percorso di emancipazione da un meccanismo di
>difesa, cristallizzato in un'ideologia scientifica.
>Non so se le cose stiano esattamente così, ma mi sento sufficientemente
>"laico" da non considerare stupefacente l'eventualità di
convincermene.
>Vorrei quindi pensare a che cosa significherebbe, al di là degli
interdetti,
>rispondere fisicamente al bisogno di essere preso in braccio di un paziente
>adulto, che a livello associativo, ci parla come un bambino di dieci mesi.
La questione dell'agire attivamente da parte dell'analista, e soprattutto
dell'agire fisicamente, ci riporta alle origini del discorso, alla diatriba tra
Freud e Ferenczi a proposito della cosiddetta "analisi attiva". Prima
di cercare di dare una risposta alla questione posta da Carere, ritengo che
potrebbe essere utile riprenderne le fila, per vedere come nasce il problema,
anche perché il coinvolgimento attivo riemerge non solo nel modello reichiano e
derivati, ma anche nel modello relazionale, che riconosce in qualche modo una
filiazione da un certo , più attivo, Ferenczi. Ferenczi non smise mai di
riflettere sulle resistenze di traslazione. Ripercorriamone sinteticamente le
tappe. In Introiezione e transfert 1909, Ferenczi ricorda che "è stato
Freud ad accorgersi per primo che nel corso dell'analisi ci si imbatte talvolta
in forti resistenze che sembrano rendere impossibile la prosecuzione del
lavoro...e lo arrestano finché non si riesce a chiarire al P che questa
resistenza è una reazione ad inconsci sentimenti di simpatia che, in realtà,
si riferiscono ad altre persone, ma che al momento attuale sono stati messi in
relazione con la persona dell'analista....oppure emerge adorazione per il
medico......oppure odio, paura, angoscia, che il P riversa sul medico, ma che
nell'inconscio non si riferiscono affatto a lui, ma a persone alle quali, al
momento attuale, egli non pensa affatto. Passando allora in rassegna, insieme
con lui, la serie dei personaggi cui in realtà si riferiscono questi sentimenti
di valenza positiva e negativa, ci imbattiamo dapprima...in persone del recente
passato (coniuge ecc.), ...poi della giovinezza (amici, insegnanti),
infine...genitori...riedizioni di tendenze affettive acquisite nei primi anni di
vita (prima della fine del IV anno) e successivamente rimosse
"manifestazioni d'istinti libidici, per lo più trasferiti dai complessi
rapporti bambino-genitori alla relazione medico-paziente...ciò che è
riproducibile appartiene già di solito allo stadio dell'amore oggettuale (Freud).
Quindi torniamo ai genitori.
In Sei Quadri sintomatici passeggeri nel corso dell'analisi (1912) , Ferenczi
dimostra come i cambiamenti nella dinamica pulsione-difesa si verificano
attraverso il processo analitico, precisamente soprattutto attraverso la
traslazione...Mentre Freud poneva l'accento sul carattere ripetitivo di tali
azioni ( parla di riedizioni di conflitti antichi), l'allievo vede soprattutto
all'opera la traslazione, mediante la quale esse furono suscitate, e riconosce
...che le azioni sintomatiche sono state suscitate dalla tecnica individuale
dell'analista (per Freud si trattava di un accadere endopsichico, indipendente
dalla persona e dal metodo dell'analista). Lo psicologo di Budapest non parla
né di pulsioni né di destini pulsionali, ma di influenze ambientali che
agiscono fin dall'infanzia. Egli descrive questi quadri sintomatici come
resistenze di transfert contro il superamento della rimozione, sotto forma di
formazione di sintomi. L'analista deve sempre far notare la natura
trasferenziale di simili atti (anche in caso di violenti agiti a lui diretti) e
comportarsi di fronte ad essi in modo del tutto passivo. Nel trattamento
analitico la situazione del medico ricorda sotto molti aspetti quella
dell'ostetrico, il quale deve comportarsi nel modo più passivo possibile e
rassegnarsi al ruolo di spettatore di un processo naturale, ma nei momenti
critici dev'essere pronto col forcipe in mano per condurre a termine un parto
che non procede spontaneamente, dice Ferenczi. Quando lo psicoanalista ha
faticosamente imparato a riconoscere i sintomi del controtransfert e riesce a
controllare nei propri atti e discorsi nonché nei propri sentimenti tutto ciò
che potrebbe dar adito a complicazioni, lo minaccia il pericolo di cadere
nell'estremo opposto e di divenire troppo brusco e scostante..., così da poter
intralciare o addirittura impedire la formazione del transfert (fase della
resistenza di controtransfert). Egli deve superare questo stadio se vuole
passare al III, cioè al superamento del controtransfert. La terapia analitica
impone quindi al medico richieste a prima vista contraddittorie. da un lato
pretende che egli dia libero gioco alle associazioni e alla fantasia e lasci
fare il proprio inconscio;...dall'altro lato, deve verificare sotto il profilo
logico il materiale prodotto sia da parte sua che da parte del paziente, e nei
suoi atti e comunicazioni deve lasciarsi guidare esclusivamente dai risultati di
questo lavoro mentale.
Con la formulazione della seconda topica, Freud affrontò il nodo complesso del
transfert positivo e negativo. Ferenczi e Rank in quell'occasione scrissero
Prospettive e sviluppo della psicoanalisi,1924, in cui si ritiene che l'oggetto
essenziale dell'elaborazione analitica sia la coazione a ripetere e le varie
manifestazioni di transfert, materiale inconscio. Richiamandosi allo scritto
tecnico di Freud, Ricordare, ripetere ed elaborare (1914)," in cui al
lavoro analitico viene assegnato uno scopo preciso, ricordare, di conseguenza il
voler rivivere, anziché ricordare, è considerato un sintomo di resistenza e,
come tale, un'attività da evitarsi" Ferenczi sottolinea come, "dal
punto di vista della coazione a ripetere, è assolutamente inevitabile che il
paziente ripeta durante la cura intere parti del suo sviluppo; non solo, ma
l'esperienza ha mostrato che la ripetizione concerne proprio quelle parti che
nella forma del ricordo non è possibile far riemergere, di modo che, se al
paziente non resta altra via che il riprodurle, anche l'analista, se vuole
afferrare il materiale specificamente inconscio, non può far altro che seguire
il paziente su questa via. Occorre perciò comprendere anche questa forma di
comunicazione, il linguaggio gestuale, dice Ferenczi, e spiegarlo al paziente.
Del resto, anche i sintomi nevrotici non sono altro, come Freud ci ha insegnato,
che comunicazioni deformate, un modo di esprimersi dell'inconscio inizialmente
incomprensibile" E prosegue che, una volta chiarito questo, ne consegue la
necessità " di non inibire le tendenze alla riproduzione durante
l'analisi, anzi di stimolarle, posto che si sia in grado di padroneggiarle;
altrimenti, il materiale più importante... non sarebbe giunto né a
manifestarsi né a risolversi. Senza contare che la coazione a ripetere incontra
spesso determinate resistenze, anzitutto angoscia e senso di colpa, ...che non
possiamo superare...che con un intervento attivo volto a promuovere la
risoluzione. E' così che ci siamo infine risolti ad attribuire il ruolo
principale, nella tecnica analitica, al ripetere anziché al ricordare....un
passo avanti della "tecnica attiva"....incoraggiamento della
"tendenza a riprodurre" nel corso della cura, tendenza finora
trascurata, anzi considerata come un fenomeno concomitante di disturbo...la
coazione a ripetere, di cui Freud ha nel frattempo stabilito la fondamentale
importanza (Al di là del principio del piacere). "L'inconscio stesso...
non può, dal momento che non è mai stato vissuto, essere neppure ricordato:
bisogna dunque lasciare che l'inconscio si riproduca servendosi di determinati
segni..."
In uno dei suoi ultimi scritti, Fluttuazione della resistenza (1931), Ferenczi
riporta il caso di una paziente con improvvisa interruzione di un periodo
prolungato di fecondità produttiva e riproduttiva (scene fisico-psichiche di
seduzione vissute quasi fisicamente, violenza ad opera del padre all'età di 4
anni), repentino instaurarsi di una resistenza pressoché insuperabile...sintomi
di qualcosa di perso, congestioni, debolezza, ventre sempre più gonfio, finché
una mattina si presenta improduttiva, senza dolori. All'osservazione scherzosa
di Ferenczi se un aborto non abbia interrotto la sua gravidanza, assume per
settimane atteggiamento offeso. L'analista sollecita a produrre liberamente
scene per sbloccare la situazione, e la paziente ha di nuovo sintomi fisici, e
infine parla della seduzione sull'erba da parte del padre.
Nel Diario clinico (1932), Coazione a ripetere il trauma, Ferenczi osserva che
"l'abreazione di quantità traumatiche non basta, la situazione deve
divenire differente da ciò che è propriamente traumatico per rendere possibile
una diversa soluzione favorevole. Il punto essenziale della ripetizione
modificata è l'abbandono della propria rigida autorità [dell'analista] e
dell'ostilità che in essa si nasconde", che l'analista consegue tramite
autoanalisi, mettendolo in grado di formulare le domande giuste che
permetteranno uno sblocco della situazione traumatica ripetitiva.
Siamo quindi giunti all'intervento attivo dell'analista. Negli ultimi anni
Ferenczi, rifacendosi alla teoria della seduzione di Freud, teorizzò (ed agì)
l'importanza di far rivivere al paziente il trauma, e di permettergli, coagendo,
una sorta di esperienza correttiva e di neocatarsi. Su questo, si è accesa (e
prosegue) la discussione tra le varie scuole di pensiero. E' complesso ragionare
sulla questione sollevata da Carere : "Ma se leggi nelle associazioni un
bisogno autentico di contatto fisico rivolto a te, glielo dai o glielo
interpreti?". Anch'io tuttavia risponderei come Bollas: "Glielo
interpreto, naturalmente". Dipende dal modello di riferimento, si, ma
forse, a mio parere, più che dai diversi modelli della mente, dalla teoria
della tecnica di riferimento (che, certo, a sua volta, ha dei modelli di
riferimento), che è fondamento dell'applicazione della tecnica psicoanalitica.
18 Febbraio 2001, From: Tullio Carere
On 18-02-01, Gianni Guasto wrote:
>Nella realtà esterna, quando un bambino di dieci mesi sente
il bisogno di
>essere preso in braccio, può essere soddisfatto dalla madre. In questo
caso,
>però la madre condivide (nell'ipotesi che le cose funzionino, così come
>vorremmo funzionassero in analisi) il desiderio di contatto fisico con il
bambino (...)
>L'unica modalità di interazione fisica tra adulti che coinvolga bisogni
>paragonabili a quelli di essere preso in braccio da parte di un bambino di
>dieci mesi, e che susciti desideri in tal senso condivisi tra adulti è, a
>mio modo di vedere, l'attività erotica.
>Ho il sospetto che il timore che un agito fisico sia qualcosa che avvicina
>all'incesto abbia qualche fondamento, che va oltre le cristallizzazioni
>ideologiche della psicoanalisi "mainstream".
Grazie a Gianni Guasto per avere messo bene a fuoco il punto cruciale della
questione: il contatto fisico tra umani è normalmente legato alla sensibilità
e alla fantasia (*non necessariamente* all'attività) erotica. Non solo quello
tra adulti, ovviamente: la sessualità infantile non è sicuramente da meno
nell'impregnare di sé le relazioni, in particolare quelle a mediazione
corporea. Il bambino (sano) ha una relazione erotica diffusa con il mondo e
tocca tutti coloro da cui si sente attratto, finché può. L'adulto (sano) non
lo reprime né lo violenta (ci sono infiniti modi di reprimere e di violentare),
ma fa il possibile per proteggerlo e mettere il suo gioco, anche quello erotico,
al servizio della crescita. Anche l'adulto (sano) ha una relazione erotica
diffusa con il mondo, oltre a quella propriamente sessuale ben custodita
all'interno della relazione di coppia. Ma l'erotismo diffuso che nella nostra
cultura è considerato legittimo nelle relazioni adulte è solo quello sublimato
nel linguaggio verbale (o nell'arte, o nella religione). Questo significa che
l'erotismo primario, a mediazione corporea, non è più attuale, ed è da
considerarsi segno di immaturità o devianza in un adulto? Dipende. Se è
immaturo o deviante tutto ciò che si discosta da una norma, la risposta è sì.
Altrimenti è no. L'erotismo primario del contatto corporeo è ancora ben vivo
nell'adulto, ma non ha spazi transizionali (ludici, terapeutici) in cui
esercitarsi, o ne ha troppo pochi, per via della malintesa norma di cui sopra,
per la quale l'erotismo del contatto vale solo come preliminare del rapporto
sessuale.
La prova di ciò che affermo? Semplice e alla portata di tutti: l'abbraccio.
Negli Stati Uniti è normale l'abbraccio a tutto corpo (petto contro petto,
pancia contro pancia). Da noi è più in voga l'abbraccio "del pollo"
(guancia contro guancia, petti e pance ben distanti). Perché tanto timore del
contatto di petto e di pancia? Perché ovviamente questo contatto è
intensamente erotico. La gente se ne tiene lontana imbarazzata, perché non sa
che cosa fare di questa energia erotica che si risveglia. La collega al rapporto
sessuale, la giudica sconveniente, e la blocca. Non la sa utilizzare, né per la
vita né (quindi) per la terapia.
Ci sono naturalmente metodiche che usano l'"abbraccio terapeutico", ma
sono guardate con sospetto se non con scherno. L'approccio corporeo è
considerato, dai terapeuti per bene, come una cosa assolutamente e
indiscutibilmente poco seria: ça va sans dire. Parlavo di steccati che a
poco a poco cadono perché due o tre decenni fa lo stesso trattamento era
riservato alla mistica. Non esisteva una mistica, esisteva solo una
pseudomistica. Roba per junghiani, paccotiglia new age. Ieri Barale ha
parlato con competenza e profondità della matrice mistica di Bollas, dei suoi
antecedenti da Meister Eckart a Heidegger. Qualche mese fa Salvatore Freni,
nell'ambito degli incontri promossi dallo stesso (benemerito) Centro Milanese di
Psicoanalisi, aveva presentato, anche lui in modo profondo e competente, un lavoro
sui
rapporti tra psicoanalisi e mistica. Questo steccato dunque è caduto. Anche
l'altro, sul contatto corporeo, a mio parere cadrà, e forse non ci vorrà
molto. Un segno? La rivalutazione di Ferenczi, opportunamente ricordato e citato
da Licia Filingeri. Ne riparleremo.
18 Febbraio 2001, From: Gaetano Giordano
Gianni Guasto ha scritto:
>L'unica modalità di interazione fisica tra adulti che
coinvolga bisogni
>paragonabili a quelli di essere preso in braccio da parte di un bambino di
>dieci mesi, e che susciti desideri in tal senso condivisi tra adulti è, a
>mio modo di vedere, l'attività erotica.
Scusa, forse fraintendo. Ma tu ritieni che anche due amici che si abbracciano,
condividano un desiderio erotico? In altri termini, che il contatto fisico fra
due adulti può essere solo erotico, e non anche solamente intimo, legato cioè
ad una affettività non erotica e non erotizzata ? E in teatro ? Due attori che
si abbracciano non hanno uno sfondo erotico. E dal mio punto di vista la terapia
è una dimensione transcontestuale (G. Bateson, Verso un'ecologia della mente),
dunque una forma di messa in scena. Il che può cambiare la prospettiva del
significato da attribuire al contatto fisico (ovviamente non esplicitamente
erotico).
18 Febbraio 2001, From: Gianni Guasto
Gaetano Giordano ha scritto:
>Ma tu ritieni che anche due amici che si abbracciano,
>condividano un desiderio erotico ?
Intendevo dire che due amici che si abbracciano in assenza di un'intensa
connotazione erotica, non esprimono, a mio avviso, stati mentali paragonabili a
quello di un bambino di dieci mesi che ha bisogno di essere preso in braccio.
Neppure l'abbraccio "americano" di cui parla Carere nella sua
successiva mail mi pare possa esprimere una tale emozione, fermo restando ciò
che egli dice a proposito dell'erotismo diffuso del bambino e dell'adulto sani.
Credo si debba riflettere sul fatto che nel prendere in braccio un bambino
piccolo, lo holding implica anche il tenerne il corpo sollevato da terra, cosa
che poco ha a che spartire con il saluto più caloroso e disinibito. L'unica
interazione fisica fra adulti che può consentire emozioni tanto coinvolgenti,
mi sembra ancora una volta da ricercarsi nell'attività erotica intensamente
vissuta con un partner specifico, più che nell'erotismo "diffuso".
19 Febbraio 2001, From: Tullio Carere
On 18-02-01, Annamaria Ferruta wrote:
>· il paziente che sente il bisogno di essere preso in
braccio come un bambino
>di 10 mesi comunque non è un bambino (vedi Winnicott: precoce non è
profondo)
>e va incontrato con parole che svolgano la funzione di braccia
"mentali" che lo
>sostengano e che lo aiutino a iniziare a sviluppare una vita psichica. (...)
>(potremmo parlare di una funzione dell'analista come contenitore vivente di
>esperienze emotive a cui cerca di dare forma e senso). (...)
>Talvolta il nostro linguaggio "non ha braccia" adatte a accogliere
certe esperienze
>emotive: le dobbiamo trovare, nel silenzio, o nel dire proprio questo.
Parole come "braccia mentali". Certo, il linguaggio nella sua
dimensione illocutoria (pragmatica, interattiva) può essere il veicolo di un
contenimento affettivo. L'holding linguistico può non solo sostituire
egregiamente l'holding fisico, ma essere la risposta affettiva più adeguata a
una relazione adulta. Non c'è dubbio. Ma è sempre e necessariamente così? Non
possono darsi dei casi in cui l'holding fisico, anche in una relazione adulta,
è più efficace, o addirittura è l'unica modalità relazionale in grado di
risolvere un problema? Madame Sèchehaye sarebbe riuscita a raggiungere la sua
schizofrenica senza toccarla fisicamente? Per quanto mi riguarda, io sono
riuscito più di una volta a rimettere in movimento delle situazioni bloccate
grazie a un contatto fisico. In quelle situazioni il mio linguaggio non aveva
"braccia" a sufficienza. Ho usato le braccia del corpo perché quelle
della mente non bastavano. Forse, anzi certamente, in quelle occasioni qualcuno
dotato di un linguaggio più abbracciante del mio sarebbe riuscito dove io non
riuscivo. Ma devo lavorare con quello che ho.
Nella stessa logica, quando non riesco ad aver ragione di sintomi
particolarmente disturbanti (ad esempio nel DOC o nel DAP), non esito a
prescrivere dei farmaci. Per anni non l'ho fatto, nel timore di
"contaminare" il setting. La mia esperienza odierna invece, come
quella di moltissimi psichiatri in tutto il mondo, è che la psicoterapia e la
farmacoterapia si possono integrare egregiamente (all'interno di un unico
trattamento, intendo dire - Paolo Migone si è chiesto recentemente, al convegno
dell'ARP del 20-22/10/2000, se vale ancora la pena parlarne: un altro steccato caduto). Mi
dispiace solo di non avere cominciato a farlo prima. Anche un farmaco è un
intervento fisico, ma molto più grossolano di un holding corporeo (l'azione
degli antidepressivi, secondo gli studi più recenti, equivale a una botta in
testa). Le domande rilevanti allora sono: esistono indicazioni specifiche per un
holding corporeo, o siamo in grado di affermare che l'holding verbale è sempre
adeguato e ottimale in ogni situazione? E se queste indicazioni esistono, siamo
sicuri che il setting viene irreparabilmente leso da questo tipo di intervento?
Permettimi di inserire qui uno scambio che ho avuto ieri back channel con
Maria Ponsi, perché è sulla stessa linea (Maria mi autorizza a pubblicarlo):
Mi ha colpito che domanda che volevi fare a Bollas
("Che cosa si deve rispondere per esempio a quel bambino di dieci mesi
che giustamente chiede, nel suo linguaggio, di essere preso in braccio?")
sia diventata successivamente, al ristorante: "Ma se leggi nelle
associazioni un bisogno autentico di contatto fisico rivolto a te, glielo dai
o glielo interpreti?". Mi ha colpito cioè che la dimensione infantile, o
del bisogno primario, così complicata da gestire nel trattamento (... e ancor
più complicata da descrivere nella comunicazione orale e scritta), sia stata
presa in considerazione da te in una delle sue forme tutto sommato più rare:
e cioè nella richiesta di contatto fisico. A me non è praticamente quasi mai
capitato di aver trovato questa richiesta (... ma naturalmente ciò può
essere successo perché il tipo di risposta che io sono disponibile a dare non
l'ha elicitata). Mentre ovviamente mi è capitato tante volte di entrare in
contatto con bisogni 'relazionali', che equivalgono al - o rimandano al -
bisogno di contatto fisico del bambino piccolo. Mi sembra anche che
l'alternativa che tu poni alla tua domanda sia troppo secca, o estrema (quel
"glielo interpreti" mi sembra anche un po' sinistro). Fra il
"dare contatto fisico" e "interpretarglielo" ci sono molte
cose in mezzo; anche se dire questo non basta, bisognerebbe saperne parlare
adeguatamente.
La mia risposta è stata:
Sono d'accordo, <<Fra il "dare contatto
fisico" e "interpretarglielo" ci sono molte cose in mezzo; anche
se dire questo non basta, bisognerebbe saperne parlare adeguatamente.>> E'
molto probabile - ma non certo - che <<bisogni 'relazionali', che
equivalgono al - o rimandano al - bisogno di contatto fisico del bambino
piccolo>> possano ricevere risposte adeguate anche senza contatto fisico.
La questione può allora essere formulata così: consideriamo l'ampia gamma di
risposte che vanno dal contatto fisico all'interpretazione. Di momento in
momento dovremmo essere in grado di selezionare la risposta ottimale, in
funzione del bisogno del paziente e della nostra capacità di coinvolgimento. Ma
sarà tanto più probabile che la nostra risposta sia ottimale, quanto più
saremo liberi di spaziare in tutta la gamma, da un estremo all'altro. Se invece
noi siamo completamente liberi di interpretare, e completamente non liberi di
stabilire un contatto fisico, è evidente che la nostra risposta sarà
condizionata dal bias. Il quale agirà poi anche nel non farci percepire
eventuali richieste subliminali, o nel farci inviare messaggi, anch'essi
subliminali, che scoraggiano qualsiasi richiesta di contatto colludendo col
timore dell'intimità che già di per sé è abbastanza diffuso.
Maria:
Sì, il bias c'è - per quanto mi riguarda. E penso
anche che ci debba essere, perché si creano facilmente dei corto-circuiti se
non c'è un limite pregiudiziale al contatto fisico. Il "limite
pregiudiziale" non riguarda solo il contatto fisico, ma anche le relazioni
sociali, la condivisione di altri interessi (economici ad esempio) insomma tutto
ciò che si raccoglie sotto il (vituperato?) termine di setting. Ovviamente si
possono avere delle eccezioni - come sempre quando ci sono delle regole. E,
ovviamente, aderire a queste regole non garantisce affatto che un trattamento
sia buono; le regole del setting esterno possono venire ossessivamente osservate
proprio quando quelle interne sono mal assimilate e mal vissute. Ma tutto ciò
non costituisce un buon motivo per trattare tali regole - che io considero come
utili punti di riferimento - come miopi limitazioni della libertà e creatività
terapeutica. A parte quello che dice Gabbard, che io condivido, sulle violazioni
dei confini, ricordo un interessante caso clinico di Casement, mi pare anche
dibattuto da qualche parte...
Io non vitupero il setting, anzi lo tengo in grandissima considerazione. Non
è possibile lavorare senza un insieme di regole. Non ho nulla in contrario ad
applicare anche regole rigide, purché siano sensate. Ad esempio quelle che
citi, riguardanti la condivisione di relazioni sociali e interessi economici, lo
sono indubbiamente. Non credo invece che abbia ancora senso un generico divieto
di "agire", dal momento che, come oggi ormai sappiamo bene, qualsiasi
cosa il terapeuta faccia o non faccia, dica o non dica, parte da un'intenzione
(cosciente o inconscia), è cioè un comportamento finalizzato a un risultato.
Questo non vuol dire che "everything goes". Al contrario, una
relazione può essere detta terapeutica solo in quanto c'è un accordo per
ammettere solo le interazioni dotate di valore e significato terapeutico,
escludendo le altre.
Le prime questioni da affrontare allora sono: [1] Quali sono in generale le
azioni di valore terapeutico, o i "fattori terapeutici" basilari? (Per
esempio voi e io siamo convinti che l'holding sia un fattore terapeutico
fondamentale, Kernberg e molti altri no). [2] Data una categoria generale, come
l'holding, quali sono i modi appropriati di somministrarlo nelle diverse
situazioni cliniche? [3] Dato che un comportamento del terapeuta può essere
vissuto dal paziente in modo molto diverso da come il terapeuta lo aveva inteso,
che utilità può avere un codice che prescriva dettagliatamente che cosa il
terapeuta può o non può fare, se alla fine ciò che veramente conta è ciò
che arriva al paziente? Non avrebbe più senso concentrarsi sui bisogni del
paziente e, disponendo del repertorio più ampio possibile di risposte,
lasciarsi guidare, nella scelta di queste, dai feed-back che riceviamo momento
per momento dal paziente?
19 Febbraio 2001, From: Paolo Migone
On 19-02-2001, Tullio Carere wrote:
>...Per quanto mi riguarda, io sono riuscito più di una volta
a rimettere in
>movimento delle situazioni bloccate grazie a un contatto fisico. In quelle
>situazioni il mio linguaggio non aveva "braccia" a sufficienza. Ho
usato le
>braccia del corpo perché quelle della mente non bastavano...
>...La questione può allora essere formulata così:
>consideriamo l'ampia gamma di risposte che vanno dal contatto fisico
>all'interpretazione. Di momento in momento dovremmo essere in grado di
>selezionare la risposta ottimale, in funzione del bisogno del paziente e
>della nostra capacità di coinvolgimento. Ma sarà tanto più probabile che
la
>nostra risposta sia ottimale, quanto più saremo liberi di spaziare in tutta
>la gamma, da un estremo all'altro. Se invece noi siamo completamente liberi
>di interpretare, e completamente non liberi di stabilire un contatto
>fisico, è evidente che la nostra risposta sarà condizionata dal bias. Il
>quale agirà poi anche nel non farci percepire eventuali richieste
>subliminali, o nel farci inviare messaggi, anch'essi subliminali, che
>scoraggiano qualsiasi richiesta di contatto colludendo col timore
>dell'intimità che già di per sé è abbastanza diffuso...
Caro Tullio, grazie delle tue riflessioni, come sempre stimolanti. Ma quando si
parla di contatto fisico in analisi ho spesso l'impressione che il problema non
sia ben impostato. Mi sembra che il rischio sia quello di ricadere in un certo
realismo ingenuo, cioè di fare lo stesso errore, uguale e contrario, che noi
vogliamo criticare in coloro che hanno un setting classico (solo
verbale/interpretativo). Quello che manca mi sembra sia una corretta
individuazione delle categorie logiche che sottendono i nostri discorsi. Ti
faccio un esempio: quando l'ungherese (poi della scuola di Chicago) e "ferencziano"
Gedo (che più di vent'anni fa faceva gli stessi discorsi che fai tu, mi sembra)
a volte con certi pazienti grida, o canta delle canzoni per
"raggiungerli" meglio, è fisico o psichico? L'urto dell'onda sonora
che colpisce il timpano delle orecchie del paziente non è fisica? E se lui
sbaglia il tuning con un paziente, forse che le sue grida non possono
risultare traumatiche, violente, non empatiche? Ma, se è per questo, forse che
la interpretazione verbale a volte non può essere altrettanto violenta o
sbagliata? Infatti, cosa significa "fisicità"? (Fisicità per chi?
Non è anche questo un giudizio "etnocentico"? Senza contare la
questione del transfert). E se il paziente, per una insufficiente metacognizione
(parola oggi di moda), conosce solo quel livello? E se un altro paziente (tipico
paziente verbal and intelligent di cui parlano gli analisti americani)
conosce meglio o solo il livello cognitivo ma non sa muoversi bene nel livello
emotivo e/o fisico? (Come sappiamo, per certi pazienti ad esempio ossessivi
l'analisi classica è il colpo di grazia, una nuova difesa ben strutturata). Ma
a parte questo, chi detta la norma dei comportamenti e dei modi di relazionarsi
su questa terra? Ecco perché spesso trovo fuorvianti le discussioni sulla
questione del contatto fisico in analisi, perché distolgono la attenzione dagli
altri problemi, dei quali ce n'è a sufficienza e sui quali già possiamo non
essere d'accordo. Ritengo poi che non se ne esce se non si parte da una precisa
teoria della mente (del paziente e nostra) e dell'immagazzinamento della memoria
a lungo termine (tanto per nominarne una, come quella del codice multiplo della
Bucci).
19 Febbraio 2001, From: Roberto Goisis
Brevemente. Può darsi che un giorno ci si trovi tutti a condividere
l'assurdità di una posizione teorico-clinica nella quale il contatto fisico
rimandi a qualcosa d'altro che non sia strettamente psicoanalitico o
terapeutico; per ora, e nell'ora c'è anche il significato culturale e sociale
che il contatto fisico ha qui da noi nella pudica Italia, io credo che esista
ancora una differenza sostanziale e mi piace l'immagine di Anna Ferruta di una
mente che diventi braccia.
A me, credo come a tutti, capita di fare fantasie su di un contatto fisico con i
pazienti. Depurato il tutto da quanto ci sia di agito controtransferale, cioè
mio, penso che se crediamo nella comunicazione inconscia, allora vuole dire che
quel bisogno del paziente è arrivato a me in quel momento e che la mia
disponibilità emotiva a "prendere in braccio" od
"abbracciare" o "accarezzare la testa" a quel paziente in
qualche modo arriverà al paziente stesso, tanto meglio se espresso con delle
parole che diano senso, ma forse anche senza le parole stesse.
Non lavoro con bambini (dove il contatto fisico penso ci sia eccome), ma molto
con adolescenti. Con loro, più piccoli e disastrati sono, specie in fase di
saluto sulla porta, mi trovo ad essere molto affettuoso sia con parole sia con
gesti...ma penso faccia parte di una sorta di 'linguaggio" gergale. In
effetti un adulto che mostra uno sviluppo di 10 o 16 anni non è un bambino od
un adolescente.
19 Febbraio 2001, From: Tullio Carere
On 19-02-01, Paolo Migone wrote:
>Ecco perché spesso trovo furovianti le discussioni sulla
questione del
>contatto fisico in analisi, perché distolgono la attenzione dagli altri
>problemi, dei quali ce n'è a sufficienza e sui quali già posiamo non
essere
>d'accordo. Ritengo poi che non se ne esce se non si parte da una precisa
>teoria della mente (del paziente e nostra) e dell'immaganizzamento della
>memoria a lungo termine (tanto per nominarne una, come quella del codice
>multiplo della Bucci).
Caro Paolo, il problema del dialogo è che di qualsiasi cosa uno parli,
l'interlocutore per lo più pensa che sarebbe meglio parlare di qualcos'altro.
Nonostante questo, io continuo temerariamente a proporre temi di discussione, o
raccolgo quelli proposti da altri, perché mi pare che, come in terapia, si
possa e si debba partire dalla prima cosa che attira l'attenzione, non importa
se banale. Se c'è voglia di indagare, anche partendo da un tema modesto e
marginale si arriva alle questioni di fondo. Proprio come in terapia.
21 Febbraio 2001, From: Piero Porcelli
Credo di conoscere un po' il pensiero di Tullio per la frequentazione
telematica negli ultimi anni ed immagino che il problema posto sia più profondo
di ciò che mi era apparso a prima vista, ossia aggiungere un'altra modalità
tecnica alla psicoterapia. Anch'io ho avuto la sensazione, gia' espressa da
altri, che porre il problema in modo antinomico ("glielo dai o glielo
interpreti?") sia forzato, ma ripensandoci credo che appartenga al modo
fecondamente provocatorio di Tullio di fare domande.
Se capisco bene il suo pensiero, credo che il senso sia: non sappiamo ancora
quali siano i reali fattori terapeutici specifici di qualsiasi tecnica (anzi,
all'opposto, ciò che sappiamo sembra vada nella direzione contraria,
dell'aspecificità o dei fattori comuni o altre cose che comunque non siano una
tecnica specifica), per cui come si fa a "proibire" l'uso di una
modalità tecnica? E' sempre apparso un tabù "toccare" il paziente,
ma questo non vuol dir nulla poiché molti altri tabù (di cui è
particolarmente ricca la storia della psicoanalisi) sono caduti con gran
sollievo di molti. Per quanto riguarda la teoria della tecnica, non ne sono un
raffinato esperto, per cui rischio di dire delle banalità. Dico tuttavia la
mia. Da anni ormai mi riesce difficile far affidamento ad un corpus teorico
unico nel fare psicoterapia, e l'evidenza empirica supporta questa mia
difficoltà. Come tanti e da sempre, ricorro a tecniche prese in prestito da
modelli diversi da quello in cui mi sono formato. Se devo utilizzare una tecnica
alquanto "eterodossa" ed estrema, come ad es. abbracciare o cullare un
paziente adulto o, ancor più difficile, una giovane e bella paziente, mi chiedo
almeno due cose, molto pratiche: 1) serve al/la paziente?, 2) io ne sono capace?
Se la risposta è sì ad entrambe le domande, lo faccio. Andando a ritroso, mi
sarà certamente successo che certe volte accarezzare o abbracciare un paziente
avrebbe potuto servirgli in quel momento, ma io ne sarei difficilmente capace.
Per come sono fatto io, per questioni controtransferali, per inibizione sociale,
non so: per me sarebbe forzato e artificiale. So fare meglio il contrario,
"l'abbraccio mentale" per così dire. Ricordo due casi, così su due
piedi. Una paziente borderline che una volta mi abbracciò, di punto in bianco (a
posteriori, era un "test al terapeuta", per dirla con Weiss e
Sampson) ed io rimasi rigido e bloccato. L'altro era un paziente bipolare a cui
a volte ho dato una pacca sulla spalla salutandolo sulla porta per fargli
sentire maggiormente la mia solidarietà in certi momenti per lui difficili
(a posteriori, era la mia incapacità a farlo in seduta). Non certo a causa di
questi singoli episodi, ma entrambi i pazienti hanno interrotto prematuramente e
unilateralmente la terapia.
21 Febbraio 2001, From: Licia Filingeri
On 21-02-01, Piero Porcelli wrote:
>Per quanto riguarda la teoria della tecnica... Da
>anni ormai mi riesce difficile far affidamento ad un corpus teorico unico
>nel fare psicoterapia, e l'evidenza empirica supporta questa mia
>difficoltà. Come tanti e da sempre, ricorro a tecniche prese in prestito da
>modelli diversi da quello in cui mi sono formato.
Vorrei chiarire il mio pensiero. Capita anche a me di fare ricorso a tecniche
prese a prestito da modelli diversi da quello in cui mi sono formata. Quello che
però ritengo importante, è, in linea di massima ( cioè a meno che non
intervengano drastici cambiamenti strutturali nel corso del processo, quali per
esempio l'ingresso in una crisi psicotica, o, al contrario, l'uscita da una
grave disorganizzazione), non cambiare tecnica col singolo paziente, una volta
"individuata" quella che mi sembra a lui ( e a me) più congeniale ed
utile, onde evitare pericolosi e disorganizzanti disorientamenti. Tuttavia ,
quando parlo di teoria della tecnica, non intendo parlare di metapsicologia, che
pure mi è indispensabile per lavorare, ma di quell'insieme di regole tecniche
che, indipendentemente dal modello di riferimento in quel momento usato, sono
utili ed utilizzabili per non perdersi nel mare magnum dell'affettività, messo
in moto dall'instaurarsi del transfert.
21 Febbraio 2001, From: Maria Ponsi
On 20-02-2001, Tullio Carere wrote:
>Dato che un comportamento del terapeuta
>può essere vissuto dal paziente in modo molto diverso da come il terapeuta
>lo aveva inteso, che utilità può avere un codice che prescriva
>dettagliatamente che cosa il terapeuta può o non può fare, se alla fine
>ciò che veramente conta è ciò che arriva al paziente? Non avrebbe
>più senso concentrarsi sui bisogni del paziente e, disponendo del
>repertorio più ampio possibile di risposte, lasciarsi guidare, nella scelta
di
>queste, dai feed-back che riceviamo momento per momento dal paziente?
Io intendo le regole del setting non tanto come un "codice di
comportamento", quanto come un quadro dentro cui regolare, o negoziare, la
relazione, un contenitore che contribuisce a dare senso al discorso che contiene
(in particolare a un discorso che funzioni da 'braccia mentali' - come dice
efficacemente Anna Ferruta), un contenitore che aiuta - non limita! - il
terapeuta a "concentrarsi sui bisogni del paziente". L'espressione
usata da Carere sembra implicare che egli pensi che da una parte ci sia l'ottusa
rigidità delle regole, e dall'altra la libertà e creatività dell'incontro e
l'attenzione vera ai bisogni del paziente.
21 Febbraio 2001, From: Tullio Carere
On 21-02-01, Maria Ponsi wrote:
>At 0:00 +0100 20-02-2001, Tullio Carere wrote:
>>Dato che un comportamento del terapeuta
>>può essere vissuto dal paziente in modo molto diverso da come il
terapeuta
>>lo aveva inteso, che utilità può avere un codice che prescriva
>>dettagliatamente che cosa il terapeuta può o non può fare, se alla
fine
>>ciò che veramente conta è ciò che arriva al paziente? Non avrebbe
>>più senso concentrarsi sui bisogni del paziente e, disponendo del
>>repertorio più ampio possibile di risposte, lasciarsi guidare, nella
scelta
>>di queste, dai feed-back che riceviamo momento per
momento dal paziente?
Maria Ponsi rispose:
>Io intendo le regole del setting non tanto come un
"codice di
>comportamento", quanto come un quadro dentro cui regolare, o
>negoziare, la relazione, un contenitore che contribuisce a dare senso
>al discorso che contiene (in particolare a un discorso che funzioni
>da 'braccia mentali' - come dice efficacemente Anna Ferruta), un
>contenitore che aiuta - non limita! - il terapeuta a "concentrarsi
>sui bisogni del paziente".
>L'espressione usata da Carere sembra implicare che egli pensi che da
>una parte ci sia l'ottusa rigidità delle regole, e dall'altra la
>libertà e creatività dell'incontro e l'attenzione vera ai bisogni del
paziente.
Non capisco da che cosa Maria Ponsi ricavi il pensiero che mi attribuisce qui
sopra. Nel paragrafo precedente a quello da lei citato avevo scritto:
<<Io non vitupero il setting, anzi lo tengo in grandissima
considerazione. Non
è possibile lavorare senza un insieme di regole. Non ho nulla in contrario
ad applicare anche regole rigide, purché siano sensate. Ad esempio quelle
che citi, riguardanti la condivisione di relazioni sociali e interessi
economici, lo sono indubbiamente. Non credo invece che abbia ancora senso
un generico divieto di "agire", dal momento che, come oggi ormai
sappiamo
bene, qualsiasi cosa il terapeuta faccia o non faccia, dica o non dica,
parte da un'intenzione (cosciente o inconscia), è cioè un comportamento
finalizzato a un risultato. >>
Ribadisco, per dissipare ogni malinteso, che le regole sono necessarie e non
sono affatto in contrapposizione alla libertà e creatività dell'incontro. Al
contrario, la libertà ha bisogno di regole, come le regole di libertà. Ma
proprio su questo punto c'è forse una divergenza di sostanza con la gentile
collega. La libertà ha bisogno di regole: su questo credo non ci sia problema,
siamo tutti d'accordo. Ma anche le regole hanno bisogno di libertà: qui forse
il problema c'è. Infatti Maria Ponsi scrive:
>Io intendo le regole del setting non tanto come un
"codice di comportamento",
>quanto come un quadro dentro cui regolare, o negoziare, la
relazione
Il "quadro" è l'insieme di regole al cui interno la relazione è
regolata o negoziata (giusto, la libertà ha bisogno di regole). Ma il quadro a
sua volta deve essere negoziabile (le regole hanno bisogno di libertà) in
funzione della specificità e della singolarità della situazione e dei bisogni.
Un quadro non negoziabile è un quadro che non deriva da un accordo responsabile
dei soggetti coinvolti, ma è calato dall'alto, espressione di nient'altro che
di una dogmatica istituzionale. La libertà senza regole è anarchia, le regole
senza libertà sono dogmi. Il ripristino di una corretta dialettica tra regole e
libertà permette di evitare entrambi questi perniciosi estremismi.
- 22 Febbraio 2001, From : Tullio Carere
On 21-02-01, Piero Porcelli wrote:
>Se devo utilizzare una tecnica alquanto
"eterodossa" ed estrema, come ad esempio
>abbracciare o cullare un paziente adulto o, ancor più
difficile, una giovane e bella
>paziente, mi chiedo almeno due cose, molto pratiche: 1)
serve al/la paziente?, 2) io
>ne sono capace? Se la risposta è si ad entrambe le
domande, lo faccio.
Sono precisamente queste le domande da porsi. Io dichiaro spesso il principio
generale della negoziazione in termini simili: "Cara signora/caro
signore, lei mi può chiedere, direttamente o indirettamente, quello che
vuole, anche la luna. Se entrambi riterremo che la cosa ha valore terapeutico,
e rientra in ciò che io sono in grado e mi sento di fare o di dare, ben
volentieri la introdurrò nella nostra relazione".
22 Febbraio 2001, From: Licia Filingeri
Lavorando, ho sempre trovato utile tenere ben distinti nella mente il
principio della realtà come dice con efficace sintesi Piero: se "1) serve
al/la paziente?, 2) io ne >>sono capace? Se la risposta è si ad entrambe
le domande, lo faccio.") e il principio di realtà, cioè quel principio
che s'instaura in rapporto alla frustrazione delle pulsioni libidiche e
aggressive. In ogni caso, una domanda che mi serve, quando lavoro, è: quello
che sto facendo ( ma anche: che ho fatto ), ha una funzione per il paziente? Una
funzione progressiva, ovviamente, va sottolineato, visto che stiamo parlando di
un problema specifico, quello del contatto fisico, e non una funzione che
promuova una regressione non al servizio dell'Io.
25 Febbraio 2001, From : Maria Ponsi
On 22-02-2001, Tullio Carere wrote:
>Non ho nulla in contrario ad applicare anche regole rigide,
purché siano sensate.
>Ad esempio quelle che citi, riguardanti la condivisione di relazioni sociali
e interessi
>economici, lo sono indubbiamente. Non credo invece che abbia ancora senso
>un generico divieto di "agire", dal momento che, come oggi ormai
sappiamo
>bene, qualsiasi cosa il terapeuta faccia o non faccia, dica o non dica,
>parte da un'intenzione (cosciente o inconscia), è cioè un comportamento
>finalizzato a un risultato.
Quale è il ragionamento che porta Carere a considerare "sensata" la
regola di non condividere relazioni sociali (o interessi economici) e invece
"non sensata" la regola di non condividere contatti fisici? Forse egli
mantiene la categoria dell'"agire" per i primi comportamenti e non per
i secondi?
27 Febbraio 2001, From: Tullio Carere
On 25-02-01, Maria Ponsi wrote:
>At 0:00 +0100 22-02-2001, Tullio Carere wrote:
>>Non ho nulla in contrario
>>ad applicare anche regole rigide, purché siano sensate. Ad esempio
quelle
>>che citi, riguardanti la condivisione di relazioni sociali e interessi
>>economici, lo sono indubbiamente. Non credo invece che abbia ancora
senso
>>un generico divieto di "agire", dal momento che, come oggi
ormai sappiamo
>>bene, qualsiasi cosa il terapeuta faccia o non faccia, dica o non dica,
>>parte da un'intenzione (cosciente o inconscia), è cioè un
comportamento
>>finalizzato a un risultato.
Maria Ponsi aveva risposto:
>Quale è il ragionamento che porta Tullio Carere a
considerare "sensata" la
>regola di non condividere relazioni sociali (o interessi economici) e
>invece "non sensata" la regola di non condividere contatti fisici?
>Forse egli mantiene la categoria dell' "agire" per i primi
>comportamenti e non per i secondi?
No, io ritengo che la categoria stessa dell'"agire" sia inadatta allo
scopo di stabilire quali comportamenti includere e quali escludere dalla
relazione terapeutica, per il motivo che tutti i comportamenti, sia quelli da
ammettere, sia quelli da rifiutare, sono in ogni caso forme di azione. E' una
categoria sopravvissuta al tempo in cui si credeva che fosse possibile non
agire, cioè non tramutare in comportamenti verbali e non verbali le proprie
intenzioni coscienti e inconsce. Viceversa oggi sappiamo bene che per quanto un
analista si sforzi di assomigliare a uno specchio o a uno schermo bianco, il suo
mondo interno (desideri, bisogni, conflitti, pensieri) traspare inevitabilmente
in tutto ciò che dice e non dice, fa e non fa, ed è di regola abbastanza bene
percepito dal paziente. Nel suo celebre articolo del
1984, Merton Gill suggeriva
infatti di dirigere in primo luogo l'attenzione, nell'analizzare il transfert,
sulle risposte del paziente ai comportamenti correttamente percepiti
dell'analista, e solo in un secondo momento mettere in luce eventuali
distorsioni. Viene da qui la nozione "allargata" di transfert come
sinonimo di "esperienza della relazione" (includente tanto la
percezione realistica, quanto la distorsione) che è oggi di uso comune.
Caduta, in quanto illusoria, la barriera tra agire e non agire, ne è stata
eretta al suo posto un'altra: quella tra azione involontaria/inconscia (ammessa
perché insopprimibile) e azione deliberata/coscientemente diretta a un fine
(non ammessa) [vedi ad esempio il lavoro di Katz sul
Journal of the American Psychoanalytic Association e il dibattito che ne
è seguito due anni fa sul forum JAPA]. Ma la nuova barriera non è meno
illusoria della vecchia. Innanzitutto, questa barriera sottintende ovviamente
un'eccezione: sono ammessi i comportamenti dell'analista deliberatamente
finalizzati all'interpretazione. Ma già questa eccezione apre una crepa
notevole. Infatti Hoffman (collaboratore di Gill) aveva buon gioco
nell'osservare che molte volte il processo analitico è favorito dalla decisione
dell'analista di far propri in qualche misura i ruoli che il paziente gli chiede
di svolgere, mentre può essere ostacolato da quella di rifiutarsi rigidamente e
sistematicamente di farlo (perché grazie a questa messa in scena si guadagna un
accesso a materiali inconsci meno facilmente evocati da un terapeuta troppo
passivo). Su questa stessa linea Wachtel osservò che non solo l'insight può
sbloccare l'azione, ma anche determinate azioni possono favorire l'insight molto
più di un comportamento sempre passivo e riservato dell'analista (cosa che lo
portò a formulare la sua Cyclical Psychodynamics). In definitiva, se lo
scopo fosse quello, e solo quello, di portare alla coscienza l'inconscio, che
senso avrebbe escludere quelle azioni che ne facilitano il raggiungimento?
D'altra parte, siamo sicuri che lo scopo della terapia è quello, e solo quello?
No, non lo siamo. Perché se lo fossimo non parleremmo di holding e
"braccia mentali", come invece facciamo. Introducendo l'azione
deliberata di "abbracciare mentalmente", apriamo un'altra crepa nella
barriera, quella che la fa crollare del tutto. Infatti, perché abbracciare
mentalmente un paziente? Forse perché la nostra pulsione di abbracciare
traspare inevitabilmente nella relazione, colorando le nostre pur controllate
verbalizzazioni? Può essere, ma non è in questo senso che parliamo di holding.
Ne parliamo in riferimento all'azione deliberata di contenere, messa in atto
quando riteniamo che il paziente abbia bisogno precisamente di questo abbraccio
mentale, perché pensiamo di rispondere in tal modo a un suo bisogno autentico.
Ma una volta ammesso che noi siamo qui in primo luogo per *rispondere, come
meglio possiamo e sappiamo, alle esigenze del processo* che abbiamo messo in
moto, e non per obbedire alle regole dell'istituzione di riferimento o applicare
un manuale, la domanda rilevante non sarà più "i miei supervisori mi
avrebbero permesso di fare questo?", ma "la logica del processo mi
chiede di fare questo?" (Madame Sèchehaye, da terapeuta libera, si chiede:
"il processo mi chiede di abbracciare fisicamente questa ragazza?" -
non si chiede "che cosa ne penseranno il direttore e il
supervisore?"). Io non ho difficoltà a spiegare perché il coinvolgimento
sociale o economico con il paziente è potenzialmente dannoso per la terapia e
quindi da evitare (penso sia ovvio), mentre una vasta gamma di interazioni
verbali e non verbali in seduta sono potenzialmente, ma non necessariamente,
terapeutiche. Se siamo d'accordo - e lo siamo, mi pare - che la terapia si
svolge sui due livelli della riparazione (remaking) e della scoperta (uncovering),
cadono le barriere tra agire e non agire e tra agire intenzionale e non
intenzionale, mentre l'unica distinzione che conta è tra *agire terapeutico e
agire non terapeutico*. Molto semplicemente, è terapeutica ogni interazione che
favorisce la riparazione e/o la scoperta.
Stabilito che nella seduta non si fa sesso, né si ammettono comportamenti
violenti, che senso avrebbe porre a priori altri limiti, oltre a quelli di tempo
e luogo, quando la qualità terapeutica o non terapeutica non appartiene
all'azione di per sé stessa, ma al significato che questa riceve nella
relazione (e deve quindi essere monitorato in permanenza)? Un'interpretazione
può essere, a seconda del momento e del modo in cui è effettuata e del modo in
cui è ricevuta dal paziente, riparativa o euristica, terapeutica o dannosa. Lo
stesso vale per un abbraccio, mentale o corporeo che sia (perché mai mentale
sì e corporeo no?). Io intraprendo un'azione perché ipotizzo o intuisco che
possa essere terapeutica, ma capirò se lo è davvero solo osservandone momento
per momento gli effetti. Non è questa la regola aurea di ogni terapia, inclusa
quella farmacologica?
28 Febbraio 2001, From: Luca Panseri
L'obbiezione di Maria Ponsi a Tullio Carere mi offre lo spunto per esprimere
la mia opinione. Credo che sia utile proseguire la riflessione sull'*agire* in
campo psicoterapeutico, soprattutto se riusciremo a ripulire il termine dalle
connotazioni negative ad esso associate e a esplorare in modo non pregiudiziale
l'argomento. Anch'io, come altri, ho trovato molto efficaci e condivisibili le
osservazioni di Piero Porcelli perché portano direttamente al cuore del
problema. << Se devo utilizzare una tecnica alquanto
"eterodossa" ed estrema, come ad es. abbracciare o cullare un paziente
adulto o, ancor più difficile, una giovane e bella paziente, mi chiedo almeno
due cose, molto pratiche: 1) serve al/la paziente?, 2) io ne sono capace? Se la
risposta è si ad entrambe le domande, lo faccio. >>. Prenderò in esame
la prima domanda di Piero : 1) Serve al/la paziente ? E' chiaro che non sappiamo
mai a priori cosa serve a un paziente e per capirlo utilizziamo i suoi messaggi
e l'insieme dei pensieri , intuizioni, emozioni che nascono dall'incontro con
lui. E' anche chiaro che la nostra esperienza personale e professionale
influiscono continuamente nel nostro lavoro di comprensione. Personalmente sono
portato a ritenere *utili* alcune regole, come quella di non condividere
relazioni sociali (o interessi economici), perché penso che esse, in generale,
*servono* al paziente (e anche al terapeuta). Astenersi dalla condivisione di
esperienze relazionali al di fuori delle sedute evita, a mio parere,
l'intrusione di materiale che sarebbe *problematico* gestire all'interno della
relazione terapeutica. Ho detto problematico e non *impossibile* perché
sappiamo che ogni esperienza può essere analizzabile. Sarebbero quindi
analizzabili anche pensieri, emozioni o quant'altro, paziente e terapeuta,
possono aver sperimentato, per esempio, cenando allo stesso tavolo durante una
serata al ristorante. Ma ritengo che spesso ci sia gia' abbastanza carne al
fuoco tra paziente e terapeuta anche limitandosi al rapporto che si crea dentro
la stanza di terapia. Introdurre quindi deliberatamente altre variabili,
renderebbe ancora più complicata l'analisi delle percezioni/proiezioni del
paziente, rischiando, soprattutto nella fase iniziale della terapia, di rendere
difficile, se non impossibile, la creazione di un'alleanza terapeutica che
permetta la prosecuzione del lavoro. Quanto detto, può valere anche per l'
introduzione in terapia di azioni che comportino il contatto fisico tra
terapeuta e paziente. Si potrebbe infatti rischiare di scatenare un
"fuoco" che, invece di riscaldare e risanare, distrugge il rapporto
terapeutico. Alla luce di questo pericolo, si potrebbe, come del resto spesso si
fa, accantonare la questione e decidere di non prendersi questi rischi,
giustificando la propria rinuncia con argomenti di ordine teorico.
La questione però non è così semplice. Ci sono infatti fior di teorici e
ricercatori, che, con riflessioni sempre più approfondite e convincenti, ci
mostrano come risulta poco giustificabile, anche dal punto di vista teorico,
accantonare a priori la questione dell'intervento corporeo durante una terapia.
Prendiamo ad esempio George Downing, ricercatore di alto livello e autore del
libro intitolato Il corpo e la parola. Downing sostiene che per
lavorare in profondità con il paziente, spesso non è sufficiente tener conto
solo delle categorie del pensiero e dell'emozione ma è necessario utilizzare
una mappa che consideri cinque differenti livelli. Essi sono 1) il livello
verbale-cognitivo 2) il livello dell'immagine 3) quello dell'emozione 4) il
livello della sensazione e infine 5) il livello motorio. Secondo Downing è possibile giungere a una più profonda comprensione e cura dei pazienti gravi se
si ammette che " le 'trasformazioni' vanno attuate a tutti i livelli, non
solo a quello cognitivo-emotivo". Il passato preverbale può infatti essere
rivissuto attraverso l'esperienza corporea, ma per tradurre un'espressione
motoria in una verbale, spesso sono necessari passaggi intermedi in cui il
paziente, ancora privo di parole, comunica con il terapeuta attraverso il corpo.
Gradualmente, mobilitato dal contatto corporeo, potrà essere messo in moto
anche il canale comunicativo verbale.
Concludo questo mio intervento, non proponendo rigidi schemi che includano o
escludano il contatto corporeo. Il mio intento è quello di mantenere aperta la
riflessione sul problema, poiché, come scrive Downing a conclusione del suo
testo: " Il nostro essere nel corpo ci è dato come un dono, come un peso,
come una prigione, ma anche come un crocevia dove confluiscono occasioni.
Ciascuno di questi significati credo che debba essere riconosciuto. A nessuno di
questi significati dovremmo permettere di mascherarne altri ".
28 Febbraio 2001, From : M@rco Longo
On 27-02-2001, Tullio Carere wrote:
>In definitiva, se lo scopo fosse quello, e solo quello, di
portare
>alla coscienza l'inconscio, che senso avrebbe escludere quelle
>azioni che ne facilitano il raggiungimento?
M@rco Longo: perché (almeno secondo Bion e i suoi estimatori) lo scopo non è
solo questo, cioè l'indagine e la *presa di coscienza*, ma anche quello di
favorire lo sviluppo di nuove *funzioni mentali*, che il paziente potrà poi
utilizzare nella sua vita.
>D'altra parte, siamo sicuri che lo scopo della terapia è
quello, e
>solo quello? No, non lo siamo. Perché se lo fossimo non parleremmo
>di holding e "braccia mentali", come invece facciamo. Introducendo
>l'azione deliberata di "abbracciare mentalmente", apriamo un'altra
>crepa nella barriera, quella che la fa crollare del tutto. Infatti,
>perché abbracciare mentalmente un paziente? Forse perché la nostra
>pulsione di abbracciare traspare inevitabilmente nella relazione,
>colorando le nostre pur controllate verbalizzazioni? Può essere,
>ma non è in questo senso che parliamo di holding. Ne parliamo in
>riferimento all'azione deliberata di contenere, messa in atto quando
>riteniamo che il paziente abbia bisogno precisamente di questo
>abbraccio mentale, perché pensiamo di rispondere in tal modo a un
>suo bisogno autentico.
M@rco Longo: non saprei... ma io tendo a credere che in analisi l'holding
(termine che, ricordiamolo, nacque dall'osservazione della relazione
madre-bambino e poi è stato utilizzato solo metaforicamente anche nella
relazione terapeutica con l'adulto) abbia lo scopo di fornire al paziente,
all'interno della relazione terapeutica, quel *contenimento mentale* di cui il
paziente non è al momento capace, in modo che possa prendere più facilmente
contatto con l'inconscio ed elaborare senza timore ed in modo evolutivo i suoi
contenuti mentali; e quindi, direi, gradualmente *apprendere dall'esperienza* di
sŽ e della relazione con l'altro che può compiere anche grazie alla *presenza
e al contenimento mentale dell'analista* all'interno della relazione
terapeutica, e dunque divenire sempre più in grado di attivare ed utilizzare
una *propria funzione di contenimento mentale* non mi sembra del resto che il
*bisogno autentico, reale ed attuale* del paziente (adulto) sia (a parte rari e
specifici casi) quello di un contenimento e/o di un abbraccio fisico; e d'altra
parte mi sembra che la formazione analitica ci fornisca strumenti sufficienti
per elaborare anche ogni nostro personale bisogno di ricevere e/o dare abbraccio
fisico
ma soprattutto mi sembra che, anche quando si utilizzano metaforicamente termini
(come holding) che in parte riportano al periodo dello sviluppo fisico e
psichico del bambino (che dall'abbraccio fisico e psichico della propria madre,
se tutto *funziona* nella relazione primaria, apprende *funzioni di
contenimento*) questo significhi che anche nella relazione terapeutica con il
paziente adulto dobbiamo *agire* il ruolo della madre: il paziente non è il
nostro bambino, ma un adulto in difficoltà che chiede aiuto ad un altro adulto;
e non certo sta a noi soddisfare un suo eventuale bisogno di abbraccio fisico
infantile rimasto beante, quanto fornirgli la possibilità di apprendere
qualcosa di e su se stesso (inconscio + sue modalità relazionali) ed attivare
le funzioni mentali di cui non è capace
non so se sono stato sufficientemente chiaro nel riferire ciò che mi è venuto
da pensare in proposito; attendo con piacere eventuali commenti, anche critici.
28 Febbraio 2001, From: Tullio Carere
On 28-02-01, M@rco Longo wrote:
> io tendo a credere che in analisi l'holding
>(termine che, ricordiamolo, nacque dall'osservazione della relazione
>madre-bambino e poi è stato utilizzato solo metaforicamente anche nella
>relazione terapeutica con l'adulto) abbia lo scopo di fornire al paziente,
>all'interno della relazione terapeutica, quel *contenimento mentale* di cui
>il paziente non è al momento capace, in modo che possa prendere più
>facilmente contatto con l'inconscio ed elaborare senza timore ed in modo
>evolutivo i suoi contenuti mentali...
>·non mi sembra del resto che il *bisogno autentico, reale ed attuale* del
>paziente (adulto) sia (a parte rari e specifici casi) quello di un
>contenimento e/o di un abbraccio fisico
A te non sembra, ai terapeuti di formazione psico-corporea sembra. In generale a
ogni terapeuta sembra che il paziente abbia bisogno delle cose che la sua
formazione lo ha addestrato a riconoscere, e non di altre. C'è modo di uscire
da questo circolo autoreferenziale? Se c'è, il primo passo credo sia quello di
non seguire il riflesso di rifiuto per ciò che ci è stato insegnato a
considerare eretico. Se il corpo è "un crocevia dove confluiscono
occasioni", come scrive Downing, felicemente citato da Luca Panseri, io
capisco che un terapeuta non sappia come utilizzarle, perché non è stato
addestrato a farlo. Capisco che tema di mettere in movimento coinvolgimenti che
non saprebbe come gestire, per lo stesso motivo. Capisco che non abbia tempo, o
voglia, o interesse di allargare i suoi orizzonti. Capisco quindi che per
l'insieme di questi motivi si tenga lontano da quel crocevia. Ma perché avrà
poi anche bisogno di svalutare la cosa che non è alla sua portata, dichiarando
che il contatto fisico non è un *bisogno autentico, reale ed attuale* del
paziente (adulto)? Ci vorrà una competenza psicoanalitica per capirlo o
basterà Esopo?
1 Marzo 2001, From: M@rco Longo
On 28-02-2001, Tullio Carere wrote:
>On 28-02-01, M@rco Longo wrote:
>> io tendo a credere che in analisi l'holding
>>(termine che, ricordiamolo, nacque dall'osservazione della relazione
>>madre-bambino e poi è stato utilizzato solo metaforicamente anche nella
>>relazione terapeutica con l'adulto) abbia lo scopo di fornire al
paziente,
>>all'interno della relazione terapeutica, quel *contenimento mentale* di
cui
>>il paziente non è al momento capace, in modo che possa prendere più
>>facilmente contatto con l'inconscio ed elaborare senza timore ed in modo
>>evolutivo i suoi contenuti mentali...
>>·non mi sembra del resto che il *bisogno autentico, reale ed attuale*
del
>>paziente (adulto) sia (a parte rari e specifici casi) quello di un
>>contenimento e/o di un abbraccio fisico
Carere aveva risposto:
>A te non sembra, ai terapeuti di formazione psico-corporea
sembraS In
>generale a ogni terapeuta sembra che il paziente abbia bisogno delle cose
>che la sua formazione lo ha addestrato a riconoscere, e non di altre. C'è
>modo di uscire da questo circolo autoreferenziale? Se c'è, il primo passo
>credo sia quello di non seguire il riflesso di rifiuto per ciò che ci è
>stato insegnato a considerare eretico. Se il corpo è "un crocevia dove
>confluiscono occasioni", come scrive Downing, felicemente citato da
Luca
>Panseri, io capisco che un terapeuta non sappia come utilizzarle, perché
>non è stato addestrato a farlo. Capisco che tema di mettere in movimento
>coinvolgimenti che non saprebbe come gestire, per lo stesso motivo. Capisco
>che non abbia tempo, o voglia, o interesse di allargare i suoi orizzonti.
>Capisco quindi che per l'insieme di questi motivi si tenga lontano da quel
>crocevia. Ma perché avrà poi anche bisogno di svalutare la cosa che non è
>alla sua portata, dichiarando che il contatto fisico non è un *bisogno
>autentico, reale ed attuale* del paziente (adulto)? Ci vorrà una competenza
>psicoanalitica per capirlo o basterà Esopo?
Caro Tullio, forse è vero che per molti colleghi è proprio così, ma bisogna
fare attenzione a non ritenere a priori che sia così sempre e per tutti; per
quanto mi riguarda infatti (e non credo di essere una mosca bianca) io non
rifiuto (quasi) nulla a priori e soprattutto non rifiuto nessuna cosa solo
perché qualcuno vorrebbe insegnarmi a farlo... sarà perché sono un tipo
curioso (in tutti i sensi, probabilmente)
si da' il caso infatti che in passato, quando ero specializzando, io abbia
frequentato diversi corsi di aggiornamento tenuti da vari e prestigiosi docenti
e/o rappresentanti di diverse scuole e tecniche (analisi transazionale,
psicodramma, sistemico-relazionale, gruppoanalisi, bioenergetica ecc.), tra cui
anche un corso di alcune settimane tenuto a Roma da George Downing (che fu
organizzato proprio per gli specializzandi in psichiatria e psicologia clinica e
si tenne presso il mio precedente studio, che si trovava in centro ed aveva dei
locali adeguati), al quale parteciparono anche una quindicina di colleghi che
ora sono membri della SPI; imparai molto da George, ma non era quello il mio
stile di lavoro preferito; ci vorrà una competenza particolare per capirlo o
basterà avere più fiducia negli altri?
1 Marzo 2001, From: Tullio Carere
On 01-03-01, M@rco Longo wrote:
>caro Tullio, forse è vero che per molti colleghi è proprio
così, ma
>bisogna fare attenzione a non ritenere a priori che sia così sempre e per
>tutti; per quanto mi riguarda infatti (e non credo di essere una mosca
>bianca) io non rifiuto (quasi) nulla a priori e soprattutto non rifiuto
>nessuna cosa solo perché qualcuno vorrebbe insegnarmi a farlo... sarà
>perché sono un tipo curioso (in tutti i sensi, probabilmente).
>Si da' il caso infatti che in passato, quando ero specializzando, io abbia
>frequentato diversi corsi di aggiornamento tenuti da vari e prestigiosi
>docenti e/o rappresentanti di diverse scuole e tecniche (analisi
>transazionale, psicodramma, sistemico-relazionale, gruppoanalisi,
>bioenergetica ecc.), tra cui anche un corso di alcune settimane tenuto a
>Roma da George Downing (che fu organizzato proprio per gli specializzandi
>in psichiatria e psicologia clinica e si tenne presso il mio precedente
>studio, che si trovava in centro ed aveva dei locali adeguati), al quale
>parteciparono anche una quindicina di colleghi che ora sono membri della
>SPI; imparai molto da George, ma non era quello il mio stile di lavoro
>preferito; ci vorrà una competenza particolare per capirlo o basterà
>avere più fiducia negli altri?
Caro Marco, ti ringrazio della tua risposta, che rimette le cose a posto. Se un
collega mi dice: il lavoro corporeo non mi interessa, non è il mio stile, io
non ho la minima obiezione, purché lui non ne abbia al fatto che invece a me
interessa e l'ho integrato nel mio. Non ho mai detto né pensato che *tutti*
debbono integrare l'approccio corporeo nel proprio modo di lavorare. Ho anche
avanzato l'ipotesi che io debbo a volte usare l'abbraccio corporeo per
insufficienza del mio abbraccio mentale, aggiungendo però che, una volta
ammessa la risposta di holding, nulla autorizza a pensare che l'holding verbale
sia sempre sufficiente, e che in determinati casi l'holding corporeo non sia
più indicato o addirittura l'unico in grado di sbloccare un'impasse (come a me
è accaduto in alcune occasioni).
Una cosa dovrebbe essere chiara: quanto più ampio è il repertorio di risposte
che un terapeuta è in grado di dare al paziente, tanto maggiore sarà la
possibilità di scegliere, in quel repertorio, la risposta appropriata per una
data persona in una data seduta. D'altra parte, l'ampiezza del repertorio non
deve andare a scapito della coerenza e del rigore. Di conseguenza, ogni
terapeuta dovrebbe avere un repertorio teorico-tecnico ottimale, non troppo
ristretto (carente di risposte appropriate), né troppo ampio (ecletticamente
disinvolto, confusionario). Stabilito questo, quando un collega parla di un suo
approccio che non rientra nel nostro repertorio, noi possiamo rispondere in
diversi modi, che vanno dall'interesse entusiastico al disinteresse più
completo. Ma dovremmo stare attenti a non dare risposte del tipo "secondo
me i pazienti non hanno bisogno di questa cosa" (direttamente derivate da
quel gioiello che era "questa non la chiamerei analisi", che usava in
un tempo non molto lontano in cui al di fuori dell'analisi c'era solo il deserto
dei Tartari).
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