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Dibattito sulla "metacognizione"
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stimolato dall'articolo di Peter Fonagy
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"Attaccamento,
sviluppo del Sé e sua patologia nei disturbi di personalità"
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e dall'articolo di Giovanni Liotti
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"Il
nucleo del Disturbo Borderline di Personalità: un'ipotesi integrativa"
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avvenuto in Lista "Psicoterapia" di PSYCHOMEDIA
(PM-PT)
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dal dicembre 1999 al febbraio 2000
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(Interventi di Andrea Angelozzi,
Tullio Carere, Davide
Cavagna, Angelo Compare,
Mario Galzigna, Anna
Grazia, Fabrizio Marcolongo, Andrea
Mazzeo, Paolo Migone, Luca
Panseri, Giovanni M. Ruggiero,
Gian Paolo Scano, Ileana
Taddei)
Editing a cura di Paolo
Migone
8-12-99, From: Tullio Carere ("Fonagy e Liotti")
Nell'articolo "Attaccamento,
sviluppo del Sé e sua patologia nei disturbi di personalità"
messo in rete da Paolo Migone, Peter Fonagy discute il concetto di "metacognizione",
o capacità riflessiva, in rapporto alle vicissitudini dell'esperienza
di attaccamento. La metacognizione si distingue dalla semplice cognizione
in quanto quest'ultima è implicita e irriflessa (la troviamo anche
negli animali), mentre la prima prende le distanze dall'identificazione
immediata con gli stati mentali per osservarli e riflettere su di essi.
Grazie alla metacognizione diamo significato e valore all'esperienza, distinguendo
il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto, il reale dall'immaginario.
(Nella relazione terapeutica la metacognizione corrisponde precisamente
a quello che nel mio modello chiamo "vertice K" del campo).
La relazione tra metacognizione e modelli di attaccamento è
duplice. Da un lato, ha mostrato Fonagy, i genitori che hanno una capacità
metacognitiva elevata hanno una probabilità di allevare figli sicuri
da tre a quattro volte superiore ai genitori in cui quella capacità
è bassa. Dall'altro, i bambini che hanno introiettato un pattern
di attaccamento sicuro saranno facilitati nello sviluppo di una buona capacità
metacognitiva. L'implicazione per la terapia è così esplicitata
da Fonagy: "Il trattamento psicoterapeutico in generale, e il trattamento
psicoanalitico in particolare, obbligano il pensiero del paziente a concentrarsi
sullo stato mentale di un altro soggetto che si propone come benevolente,
il terapeuta. L'interpretazione frequente e profonda dello stato mentale
sia dell'analista sia del paziente (ossia l'interpretazione del transfert
nel suo senso più ampio) è quindi auspicabile, se non essenziale,
nel caso in cui si voglia eliminare l'inibizione di questo aspetto del
funzionamento mentale". La chiave della terapia è dunque il lavoro
metacognitivo (interpretazione del transfert in senso allargato).
Non si può non concordare sulla centralità del lavoro
metacognitivo nel processo terapeutico. Ma che posto ha in questo contesto
quell'altro ordine di operazioni che puntano a produrre "esperienze emotive
correttive"? E' strano che Fonagy non ne parli, dal momento che proprio
il modello "dialettico" da lui proposto sembrerebbe richiederlo. Se buone
esperienze affettive facilitano lo sviluppo della capacità riflessiva,
come una buona capacità riflessiva apre la strada a buone esperienze
affettive, nella terapia si dovrebbero considerare entrambe le possibilità,
valutando di volta in volta la maggiore opportunità dell'una o dell'altra:
cioè l'opportunità di partire dalla riflessione (interpretazione)
per giungere a buone esperienze affettive, o da buone esperienze affettive
per giungere alla riflessione (i due livelli corrispondono nel mio modello
rispettivamente all'asse verticale - uncovering - e a quello orizzontale
- remaking). In una terapia realmente dialettica nessuno dei due
livelli dovrebbe essere privilegiato a priori (altrimenti la terapia non
sarebbe più dialettica), ma la loro interazione e combinazione dovrebbe
essere regolata di momento in momento in funzione delle esigenze del processo.
Se poca attenzione riceve il livello "remaking" da Fonagy, come
altrettanto poca gliene aveva dedicata Gill (e Fonagy e Gill sono due analisti
sicuramente più "aperti" della media) una maggiore apertura troviamo
nel cognitivista Liotti, il cui articolo "Il nucleo del Disturbo Borderline
di Personalità (DBP): un'ipotesi integrativa" è pubblicato
da Paolo Migone come contributo alla discussione sul lavoro di Fonagy.
In questo lavoro Liotti mette innanzitutto l'accento sul pattern di attaccamento
disorganizzato (DA), al posto di quello insicuro ipotizzato da Fonagy come
base di disturbi gravi di personalità. Sulla base di un pattern
di attaccamento insicuro (evitante o resistente) si costruirebbero organizzazioni
cognitive certamente disfunzionali, ma non così gravi come i quadri
derivati da DA, in primo luogo il DBP.
L'ipotesi che la DA sia il disturbo nucleare da cui parte lo sviluppo
del DBP permette di unificare in un *unico processo mentale e interpersonale*
gli altri disturbi nucleari ipotizzati dai modelli psicoanalitici e cognitivo-
comportamentali (essenzialmente: rappresentazione frammentata di sé-con-l'atro,
ipersensibilità all'abbandono, scarsa regolazione delle emozioni,
deficit metacognitivo). Il vantaggio, per la terapia, sarà di trovare
in un modello unico e coerente la base per un lavoro sia "mentale" (metacognitivo),
sia "interpersonale" (nuova esperienza relazionale con il terapeuta). Devo
dire, peraltro, che il riconoscimento dell'importanza essenziale per la
terapia di questo secondo livello non lo trovo tanto nel lavoro citato
sopra, quanto piuttosto nell'articolo "Psychoanalysis and cognitive-evolutionary
psychology: an attempt at integration", che Liotti ha scritto assieme a
Migone (International Journal of Psychoanalysis, 1998, 79, 6: 1071-1095;
scaricabile dal sito dell'IJPA), in cui si dichiara esplicitamente che "l'importanza
del concetto di Alexander (et al., 1946) di 'esperienza
emotiva correttiva' dovrebbe essere rivalutata e apprezzata. In un
certo senso, le esperienze emotive correttive, all'interno e all'esterno
della terapia, sono le esperienze che hanno la maggiore probabilità
di essere di aiuto alla persona nel perseguimento dei propri piani adattivi
innati". Il fatto che Migone e Liotti abbiano scritto queste cose, e l'IJPA
le abbia pubblicate, mi sembra un segno molto incoraggiante per l'evoluzione
della psicoterapia, per un altro verso rallentata e frenata da tendenze
corporative, regressive e parrocchiali ancora consistenti.
9-12-1999, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti")
On 08/12/99 Tullio Carere wrote:
> Nell'articolo "Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologia
nei disturbi di
> personalità" messo in rete da Paolo Migone, Peter Fonagy discute
il concetto
> di "metacognizione", o capacità riflessiva, in rapporto alle
vicissitudini
> dell'esperienza di attaccamento. La metacognizione si distingue dalla
> semplice cognizione in quanto quest'ultima è implicita e irriflessa
(la
> troviamo anche negli animali), mentre la prima prende le distanze
> dall'identificazione immediata con gli stati mentali per osservarli
e
> riflettere su di essi. Grazie alla metacognizione diamo significato
e valore
> all'esperienza, distinguendo il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto,
il
> reale dall'immaginario. (Nella relazione terapeutica la metacognizione
> corrisponde precisamente a quello che nel mio modello chiamo "vertice
K" del campo).
Le osservazioni di Carere mi permettono di sollevare alcune questioni
per quanto riguarda la capacità metacognitiva di cui parla Fonagy,
i contorni della quale non sono sempre ben definiti nello scritto, e forse
danno adito a interpretazioni diverse.
Da una parte riprende la definizione di Main (1991) come "comprendere
la natura meramente rappresentazionale del proprio pensiero (e di quello
degli altri)" . La mancanza porterebbe a non essere in grado di "trascendere
l'immediata realtà dell'esperienza e di arrivare a comprendere la
differenza fra l'esperienza immediata e lo stato mentale che potrebbe essere
sottostante".
Più oltre Main fa esplicito riferimento a Dennett e al suo "atteggiamento
intenzionale", dove " Dennett pone l'accento sul fatto che gli esseri umani
sono forse gli unici a cercare di comprendersi in termini di stati mentali:
pensieri, sentimenti, desideri, credenze, al fine di attribuire significato
all'esperienza e poter anticipare le reciproche azioni". A me sembra che per metacognizione Fonagy intenda la capacità
di essere consapevoli non tanto dei propri pensieri (intesi nel loro contenuto)
ma del fatto di "pensare pensieri" e di essere gli artefici di questa operazione
della mente. Sulla base di questa consapevolezza siamo consapevoli del nostro pensare
in quanto pensare e del fatto che anche gli altri producono pensieri.
Questa che Fonagy definisce prima "le rappresentazioni relative al
proprio stato mentale" e più oltre "la capacità di rappresentare
le idee in quanto idee", è stranamente simile a due altre questioni:
La prima è che la modalità per cui " il bambino giunge
a conoscere la mente del genitore così come il genitore cerca di
comprendere e contenere gli stati mentali del bambino" e che a sua volta
deriva dalle capacità metacognitive del genitore, appare molto simile
al modo in cui Husserl fonda la esistenza dell'altro, cioè sulla
capacità di pormi di fronte a me stesso e, in questo essermi opaco
nel mio osservare, nel mio essere duale (osservante ed osservato), scopro
l'altro da me.
La seconda è che la metacognizione sembra molto più interessata
al produrre pensieri che non al loro specifico contenuto. Fonagy parla
di una "attitudine del genitore, una immagine di se stesso come in grado
di mentalizzare, desiderare e avere delle opinioni. Egli vede che il genitore
ha di lui una rappresentazione come essere intenzionale". Il genitore ha
metacognizione che lui è un soggetto con metacognizione!! Quest'aspetto
è molto vicino a quanti hanno sottolineato la importanza della capacità
di disidentificarsi dai contenuti specifici della propria mente, come di
un elemento essenziale per la psicoterapia. Come è vicino al senso
vero della meditazione orientale, cioè le capacità di trovare
in sè l'osservatore, colui cioè che osserva il proprio pensare.
Questi elementi trascinano a loro volta a catena altri aspetti. In
particolare che rapporto esiste fra la metacognizione ed il pensare cui
si riferisce?. In che maniera possono tracciare quasi due identità
al mio interno, ciascuna magari con aspettative, idee, valutazioni diverse?
La questione della metacognizione (che è poi quella della autotrascendenza),
da taluni viene letta in versione radicale, come effettiva testimonianza
della pluralità al mio interno, per altri è solo un aspetto
linguistico che non rivela alcuna effettiva schisi.
Rimane un problema non indifferente: se la metacognizione è
più orientata all'effettivo processo del pensare, mio e degli altri,
e, solo in sede secondaria, al contenuto dei sottostanti pensieri, di cui
coglie più il fluire che non l'oggetto specifico, allora la psicoterapia
non è né una analisi dei contenuti, né quella della
relazione, ma è un costante gioco duale in cui il terapeuta costituisce
il modello dell'osservare il pensiero, un modello prima esterno e poi fatto
proprio dal paziente. Dalla metacognizione esterna a quella interna (non
avviene così per Fonagy con il bambino?). Ed in modo del tutto indipendente
dai contenuti che transitano. L'interpretazione allora non interpreta nulla,
ma è solo un costante richiamare alla osservazione di sé,
qui ed ora, alla stessa stregua del bastone del maestro zen, del koan o
delle gambe che dolgono. Come diceva maestro Dogen: "Fa freddo? Sii un
buddha freddo!; Fa caldo? Sii un buddha caldo". I contenuti variano, ma
quello che devi trovare è la consapevolezza del tuo essere consapevole.
12-12-99, From: Tullio Carere ("Fonagy e Liotti")
On 09/12/99 Andrea Angelozzi wrote:
>Le osservazioni di Carere mi permettono di sollevare alcune questioni
per
>quanto riguarda la capacità metacognitiva di cui parla Fonagy,
i contorni
>della quale non sono sempre ben definiti nello scritto, e forse danno
>adito a interpretazioni diverse. (....)
>A me sembra che per metacognizione Fonagy intenda la capacità
di essere
>consapevoli non tanto dei propri pensieri (intesi nel loro contenuto)
ma
>del fatto di "pensare pensieri" e di essere gli artefici di questa
>operazione della mente.
>Sulla base di questa consapevolezza siamo consapevoli del nostro pensare
>in quanto pensare e del fatto che anche gli altri producono pensieri. Caro Andrea, trovo questa mattina sulla lista della
SEPI:
>Just to throw another idea into the "most important quality for a
therapist:"
>The ability to be happy in the face of all experience
>and, through that, to thoroughly enjoy one's client
>(no matter what the content or valence of the experience and the
>relationship may be at a given moment).
>How can we help alleviate suffering unless we know happiness? (and
>know that happiness does not stand apart from nor reject pain and unhappiness).
Bob
La qualità più importante per uno psicoterapeuta, dice
Robert Rosenbaum, è la capacità di essere felice di fronte
a qualsiasi esperienza, *indipendentemente dal suo contenuto*, che naturalmente
può essere carico di dolore e infelicità. Lo sviluppo di
questa capacità richiede evidentemente una notevole pratica di "autotrascendenza",
per usare un tuo termine. Occorre cioè sviluppare la capacità
di ricollegarsi a una dimensione originaria che non è solo "precategoriale",
ma anche "precognitiva", o "transcognitiva", e trovare in questa un senso
di realizzazione o, come dice Rosenbaum, di "felicità" che prescinde
da qualsiasi contenuto emotivo o cognitivo dell'esperienza "ordinaria".
Ma ti pare che Fonagy, e in genere uno psicoanalista, parlando di "metacognizione"
possa avere in mente questo livello "transpersonale" o "transcognitivo"
di esperienza? A me non sembra. E' più probabile che uno psicoanalista
abbia un atteggiamento scettico e demistificante nei confronti della felicità
di cui parla Rosenbaum, che probabilmente vedrebbe come una fuga dalla
realtà conflittuale, un disimpegno irresponsabile, una regressione
amniotica, o simili. Non per niente Rosenbaum oltre che psicoterapeuta
è anche un buddista praticante e autore di un libro molto interessante:
Zen and the Heart of Psychotherapy (Brunner/Mazel, 1999).
Prendi per esempio il modo in cui Fonagy illustra la capacità
metacognitiva del bambino: "Se il bambino è in grado di attribuire
il comportamento apparentemente rifiutante di una madre distaccata e non
responsiva allo stato depressivo della madre stessa piuttosto che alla
propria cattiveria o incapacità di suscitare attenzione, è
protetto, forse in permanenza, dalle ferite narcisistiche". Come fa il
bambino ad arrivare alla conclusione "non è colpa mia, è
la mamma che sta male"? I passaggi sono più o meno: la mamma non
mi guarda e non mi sorride; però io non ho fatto niente di male
e niente di diverso dalla settimana scorsa, quando mi sorrideva; inoltre
la mamma ha quell'espressione triste anche con mio fratello e quando cucina;
dunque io non c'entro, è la mamma che non sta bene. Sono i normali
passaggi di un processo di riflessione, in cui l'attenzione è naturalmente
sull'oggetto della riflessione.
Tuttavia, rileggendo i passaggi di Fonagy citati da te, penso che per
un altro verso tu abbia ragione, nella funzione metacognitiva si può
intravedere almeno implicitamente anche un orientamento "all'effettivo
processo del pensare... di cui coglie più il fluire che non l'oggetto
specifico", una modalità quindi simile a quella della meditazione
orientale. Affinità anche più esplicite in questo senso si
trovano in Bion (il "mistico", F in O, eccetera) - ma non è un caso
che Bion sia nato in India, ha fatto notare Speziale Bagliacca in un vecchio
lavoro in cui rilevava anche lui le consonanze orientali di Bion. Elementi
di questo genere si trovano sparsi qua e là nella letteratura psicoanalitica
(nella quale peraltro si trova di tutto), ma non si può dire che
siano prevalenti. Non credo sia giusto dire, quindi, che
>L'interpretazione allora non interpreta nulla, ma è solo un
costante
>richiamare alla osservazione di sé, qui ed ora, alla stessa
stregua del
>bastone del maestro zen, del koan o delle gambe che dolgono.
Gli psicoanalisti per lo più si sforzano di essere scientifici,
di produrre conoscenza scientificamente valida. E anche quando sono di
orientamento ermeneutico, per loro la cosa più importante è
costruire "buone storie", buone narrative: anche in questo caso l'attenzione
prevalente è sul contenuto. L'orientamento al processo di cui parli
tu c'è, ma è per lo più implicito, secondario. Esattamente
il contrario accade nelle scuole di meditazione, come sai: in queste è
secondario il contenuto, ed è primaria la consapevolezza senza oggetto,
"satchitananda". La differenza riflette il diverso orientamento della mente
occidentale e di quella orientale. Io però non vedo perché
tra i due orientamenti se ne debba privilegiare uno. Per me l'asse verticale,
"uncovering", della terapia è una linea che congiunge un polo K
(object oriented) e un polo O (process oriented). Per quanto personalmente
possa restare molto al di sotto di questi modelli ideali, il terapeuta
può cercare di muoversi tra i ruoli dello scienziato occidentale
e del saggio orientale, realizzando di momento in momento la migliore integrazione
possibile dei due modi, o dei due mondi.
12-12-99, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti")
Caro Tullio, penso di essere pienamente d'accordo con gran parte delle cose che
dici.
Non sono invece molto d'accordo con quanto dice Rosenbaum:
>La qualità più importante per uno psicoterapeuta, dice
Robert Rosenbaum,
>è la capacità di essere felice di fronte a qualsiasi
esperienza,
>*indipendentemente dal suo contenuto*, che naturalmente può
essere carico di dolore e infelicità.
A parte che questa teoria del terapeuta felice l'ho gia sentita (non
da un buddhista ma da Lai), non mi sembra che questa cosa si possa identificare
con l'autotrascendenza (o per lo meno non è così semplice).
L'osservatore nel buddhismo non ha per così dire "colore", e cercare
l'osservatore (ed eventualmente trovarlo) non implica una qualche felicità;
anzi, se l'osservatore ha ancora una qualche "qualità" vuol dire
che questa deve diventare ulteriormente oggetto per un ulteriore livello
di trascendenza e di autoosservazione· Per così dire, siamo ancora
per strada... Distinguerei la beatitudine dalla ebetudine..:-)). E non
credo esista alcun testo del buddhismo, per lo meno fra quelli classici
in cui viene proposto qualcosa di simile, nella pratica e nello spirito.
Tanto per fare un esempio nel buddhismo non esistono estasi mistiche, ma
esiste invece la ricerca di "chi" prova l'estasi. E' vero che lo stato
di massima autotrascendenza è Ananda, cioè beatitudine, ma
è lo stadio ultimo, quello in cui non vi è né soggetto,
né oggetto, non vi è più nè chi osserva nè
chi è osservato. Il nirvana o la realizzazione non è estasi,
ma la scomparsa dell'Io. Se non c'è nessuno, "chi" può provare
"cosa"?
Ma, a parte questi dettagli, condivido tutte le tue perplessità
nel volere forzare Fonagy e "tutta" la sua metacognizione nella visione
che ho proposto. Credo che, come tu stesso suggerisci, ci siano entrambi
gli aspetti. E' un po' sul confine, in cui da una parte vi è la
tradizione psicoanalitica e dall'altra gli sviluppi dove può portare
la metacognizione (e dove in effetti ha portato, come autotrascendenza,
non tanto nella meditazione, ma nella filosofia del mentale e della identità
personale). Non a caso, a mio parere, la sua definizione di metacognizione
è vaga. E questo è un po' soprendente: che costruisca un
edificio su una definizione che non riesce a dare in modo univoco e rigoroso
ed ho come la sensazione che di fatto non la padroneggi pienamente. Ed
è pienamente comprensibile! Concordo che l'attenzione a queste polarità
della metacognizione non sono prevalenti in psicoanalisi ( e non certo
per un suo amore per la scientificità: in realtà la autotrascendenza
comincia ad avere sviluppi in logica di un rigore che la psicoanalisi può
solo sognare). Ma, mi verrebbe comunque da dire... va bene lo stesso! Il
mio dicorso non è analitico, ma, scusami il gioco di parole, "metacognitivo"
rispetto alla analisi, che dice di operare con determinati meccanismi,
e che pertanto dà maggiormente peso ad alcuni aspetti, e che forse
invece opera la sua efficacia con altri, ai quali paradossalmente da meno
peso.
12-12-99, From: Ileana Taddei ("Fonagy e Liotti")
A proposito della mail di Andrea Angelozzi del 12-12-99, trovo vagamente
(se si mi si passa l'espressione) "egodistonica" questa concezione così
stilizzata di "metacognizione". Anni fa una mia giovane paziente, durante
l'ultima seduta (di lì a poco sarebbe partita da Roma per trasferirsi
in Africa) mi ringraziò dicendo: "Lei mi ha ridato i miei pensieri".
Credo si faccia poca strada, in terapia, con la concezione omeoterma del
maestro Dogen. "I contenuti che transitano", però, caro Andrea,
resta un'espressione azzeccata.
12-12-99, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti")
On 12/12/99 Ileana Taddei wrote:
>Trovo vagamente (se si mi si passa l'espressione) "egodistonica" questa
>concezione così stilizzata di "metacognizione".
>Anni fa una mia giovane paziente, durante l'ultima seduta (di lì
a poco
>sarebbe partita da Roma per trasferirsi in Africa) mi ringraziò
dicendo:
>"Lei mi ha ridato i miei pensieri". Credo si faccia poca strada, in
>terapia, con la concezione omeoterma del maestro Dogen.
"Egodistonica" rispetto a quale concezione o sensazione dell'ego? Quello
dei pensieri, quello di chi cerca il testimone dei pensieri stessi, o quello
di chi coglie il fluire di questo rincorrersi di piani all'interno di quello
che chiamiamo "noi stessi"? Ti garantisco che l'attenzione all'osservatore
è tutt'altro che "estraniante", anzi! Quanto alla concezione di
Dozen non so quanto sia omeoterma. Per trovare il buddha che ha freddo,
devo sentire il freddo e trovare chi lo sente, e così per il caldo.
E non credo nemmeno che la questione del ruolo di tutto ciò in psicoterapia
sia liquidabile con una battuta. In fondo molti degli usuali processi psicoterapeutici
passano attraverso un osservare i propri pensieri (sia che avvenga nella
propria mente, sia che avvenga - ed in genere è più efficace
- comunicandoli ad altri), in una condizione che costringa a non perdersi
in essi, come usualmente fa la mente, ma riporti sempre al qui ed ora,
e reindirizzi la attenzione dall'oggetto al soggetto, dalla cosa pensata
a chi la pensa. Da questo fra l'altro nasce quella disidentificazione che
consente di non rimanere prigionieri dei propri pensieri, della propria
visione del mondo - direbbe Jaspers - e si apre al cambiamento. Se esprimo
quel pensiero, quella convinzione, quello stato d'animo, quella paura eposso
pormi di fronte ad essa, allora non sono quella "cosa". Sono colui che
la osserva e che può esaminarla, criticarla, modificarla. Peraltro
non dico nulla di strano nemmeno per la concezione analitica: fu Sterba,
se non erro, a porre per primo la distinzione fra Io sperimentante ed Io
osservante in analisi, sottoineando il ruolo terapeutico di quest'ultimo.
Alcune concezione fanno riferimento a questa capacità osservante
come una "parte sana", in contrasto con la altra "malata". Questo pone
la questione fra spazi al medesimo livello. La mia convinzione (per fortuna
non solo mia, altrimenti mi sentirei troppo solo..) è che invece
siano appunto "metalivelli". Credo che queste cose - dico giusto le prime
che mi vengono in mente - abbiano molto a che fare con la psicoterapia.
12-12-99, From: Luca Panseri ("Fonagy e Liotti")
Grazie a Carere e Angelozzi per gli splendidi interventi su metacognizione
e autotrascendenza. Nella sua ultima mail Angelozzi critica Rosembaum:
> Non sono invece molto d'accordo con quanto dice Rosenbaum:
> La qualità più importante per uno psicoterapeuta, dice
Robert Rosenbaum,
> è la capacità di essere felice di fronte a qualsiasi
esperienza,
> *indipendentemente dal suo contenuto*, che naturalmente può
esser
> carico di dolore e infelicità.
> A parte che questa teoria del terapeuta felice l'ho gia sentita (non
da un
> buddhista ma da Lai), non mi sembra che questa cosa si possa identificare
> con l'autotrascendenza ( o per lo meno non è così semplice).
L'osservatore
> nel buddhismo non ha per così dire "colore", e cercare l'osservatore
(ed
> eventualmente trovarlo) non implica una qualche felicità;
anzi, se
> l'osservatore ha ancora una qualche "qualità" vuol dire che
questa deve
> diventare ulteriormente oggetto per un ulteriore livello di trascendenza
e
> di autoosservazione..Per così dire, siamo ancora per strada....
> Distinguerei la beatitudine dalla ebetudine..:-)).
Caro Andrea, ma noi siamo ancora per strada... Anch'io condivido una
certa perplessità nell'uso della parola "felicità" che preferisco
sostituire con "fiducia" o "fede" nell'accezione jaspersiana.
In "Psicologia delle visioni del mondo" Jaspers scriveva: " Qual è il punto d'appoggio che emerge nei sovvertimenti che hanno luogo ai punti
di svolta, cos'è la forza che continuamente sostiene e permette
di procedere? Essa è la fede, che in questo senso non è un
contenuto determinato, un principio, bensì una direzione, un incondizionato.
La fede è l' abbracciante, non un fenomeno particolare, non una
forza isolata né qualcosa di specificatamente religioso, bensì
la forza suprema dello spirito. La fede non può mai essere paga,
tranquilla; essa è sempre in un processo.
Alla sua certezza è congiunta l'incertezza, al suo contenuto
particolare è congiunta l'abolizione di questo contenuto ... questo
è anzi il solo processo veramente vivo: fare esperienza di una figura
finita come qualcosa di assoluto e insieme di finito".
Certo non sarà il punto d'arrivo del processo di autotrascendenza
ma per un terapeuta in cammino con il paziente credo che questa "fede"
sia di fondamentale importanza. Grazie ancora per la ricchezza dei tuoi
contributi.
12-12-99, From: Ileana Taddei ("Fonagy e Liotti")
A proposito dell'ultimo scambio tra Luca Panseri e Andrea Angelozzi
del 12-12-99:
"It is proposed that happiness be classified as a psychiatric
disorder and be included in future editions of the major diagnostic manuals
under the new name: "major affective disorder, pleasant type". In a review
of the relevant literature it is shown that happiness is statistically
abnormal, consists of a discrete cluster of symptoms, is associated with
a range of cognitive abnormalities, and probably reflects the abnomal functioning
of the central nervous system. One possible objection to this proposal
remains - that happiness is not negatively valued. However, this objection
is dismissed as scientific irrelevant". (Bentall, citato in: Harris et
al., A proposal to classify happiness as psychiatric disorder, Br
J Psychiatry, 1993, 539-542).
Sospetto che la lettura di questo assai breve articolo risulti più
illuminante del testo citato di Jaspers (che io ovviamente non conosco).
Inoltre, nella mia mail del 12-12-99 avevo scritto:
> >Trovo vagamente (se si mi si passa l'espressione) "egodistonica"
questa
> >concezione così stilizzata di "metacognizione".
> >Anni fa una mia giovane paziente, durante l'ultima seduta (di lì
a poco
> >sarebbe partita da Roma per trasferirsi in Africa) mi ringraziò
dicendo:
> >"Lei mi ha ridato i miei pensieri". Credo si faccia poca strada,
in
> >terapia, con la concezione omeoterma del maestro Dogen.
E Andrea Angelozzi il 12-12-99 aveva risposto:
> "Egodistonica" rispetto a quale concezione o sensazione dell'ego?
Quello
> dei pensieri, quello di chi cerca il testimone dei pensieri stessi,
o
> quello di chi coglie il fluire di questo rincorrersi di piani all'interno
> di quello che chiamiamo "noi stessi"? Ti garantisco che l'attenzione
> all'osservatore è tutt'altro che "estraniante", anzi!
Devo avere una soglia panica differente dalla tua. Leggendoti, intendo;
provando a provare quello che dici, sono già bella che depersonalizzata.
> Quanto alla concezione di Dozen non so quanto sia omeoterma. Per trovare
> il buddha che ha freddo, devo sentire il freddo e trovare chi lo
sente, e così per il caldo.
Sentirlo, non "esserlo".
> E non credo nemmeno che la questione del ruolo di tutto ciò
in psicoterapia
> sia liquidabile con una battuta.
Neanche io.
> In fondo molti degli usuali processi
> psicoterapeutici passano attraverso un osservare i propri pensieri
(sia che
> avvenga nella propria mente, sia che avvenga - ed in genere è
più efficace
> - comunicandoli ad altri), in una condizione che costringa a non
perdersi
> in essi, come usualmente fa la mente, ma riporti sempre al qui ed
ora, e
> reindirizzi la attenzione dall'oggetto al soggetto, dalla cosa pensata
a
> chi la pensa. Da questo fra l'altro nasce quella disidentificazione
che
> consente di non rimanere prigionieri dei propri pensieri, della propria
> visione del mondo - direbbe Jaspers - e si apre al cambiamento. Se
espri-
> mo quel pensiero, quella convinzione, quello stato d'animo, quella
paura e
> posso pormi di fronte ad essa, allora non sono quella "cosa". Sono
colui
> che la osserva e che può esaminarla, criticarla, modificarla.
Peraltro non
> dico nulla di strano nemmeno per la concezione analitica: fu Sterba,
se
> non erro, a porre per primo la distinzione fra Io sperimentante ed
Io
> osservante in analisi, sottolineando il ruolo terapeutico di quest'ultimo.
> Alcune concezione si riferiscono a questa capacità osservante
come una
> "parte sana", in contrasto con la altra "malata". Questo pone la
questione
> fra spazi al medesimo livello. La mia convinzione (per fortuna non
solo
> mia, altrimenti mi sentirei troppo solo..) è che invece siano
appunto "metalivelli".
Non so più cosa osserveresti tu. Contenenti? Colonnelli? A me
sembra che sia i pensieri, sia colui/colei che pensa i pensieri "siano"
dei contenuti. 13-12-99, From: Paolo Migone ("Fonagy e Liotti")
On 08/12/99 Tullio Carere wrote:
>Nell'articolo "Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologia
nei disturbi di
>personalità" messo in rete da Paolo Migone, Peter Fonagy discute
il
>concetto di "metacognizione", o capacità riflessiva, in rapporto
alle
>vicissitudini dell'esperienza di attaccamento. (...)
>Non si può non concordare sulla centralità del lavoro
metacognitivo nel
>processo terapeutico. Ma che posto ha in questo contesto quell'altro
ordine
>di operazioni che puntano a produrre "esperienze emotive correttive"?
E'
>strano che Fonagy non ne parli, dal momento che proprio il modello
>"dialettico" da lui proposto sembrerebbe richiederlo. (...)
>Se poca attenzione riceve il livello "remaking" da Fonagy, come altrettanto
>poca gliene aveva dedicata Gill (e Fonagy e Gill sono due analisti
>sicuramente più "aperti" della media) una maggiore apertura
troviamo nel
>cognitivista Liotti, il cui articolo "Il nucleo del Disturbo Borderline
di
>Personalità (DBP): un'ipotesi integrativa" è pubblicato
da Paolo Migone
>come contributo alla discussione sul lavoro di
Fonagy. (...)
>Devo dire, peraltro, che il riconoscimento dell'importanza essenziale
per la
>terapia di questo secondo livello non lo trovo tanto nel lavoro citato
sopra,
>quanto piuttosto nell'articolo "Psychoanalysis and cognitive-evolutionary
>psychology: an attempt at integration", che Liotti ha scritto assieme
a Migone
>(IJPA, 1998, 79, 6), in cui si dichiara esplicitamente che "l'importanza
del
>concetto di Alexander
(et al., 1946) di 'esperienza emotiva correttiva'
>dovrebbe essere rivalutata e apprezzata. In un certo senso, le esperienze
>emotive correttive, all'interno e all'esterno della terapia, sono
le esperienze
>che hanno la maggiore probabilità di essere di aiuto alla persona
nel
>perseguimento dei propri piani adattivi innati". Il fatto che Migone
e Liotti
>abbiano scritto queste cose, e l'IJPA le abbia pubblicate, mi sembra
un
>segno molto incoraggiante per l'evoluzione della psicoterapia, per
un altro
>verso rallentata e frenata da tendenze corporative, regressive e parrocchiali ancora consistenti.
Intervengo brevemente su questo commento di Tullio, e mi rincresce di
non essere riuscito, a causa di pressanti impegni in questo periodo, a
stare al passo con l'interessante dibattito tra Tullio, Andrea e altri
scaturito dagli articoli di Fonagy e Liotti pubblicati recentemente nella
mia area di Psychomedia.
Tullio dice che Fonagy non presta sufficiente attenzione al concetto
di "esperienza emozionale correttiva". A mio parere questo non è
vero. Casomai è vero che in questo articolo Fonagy enfatizza altre
questioni, dandone per scontate altre. Qualunque terapeuta non può
sottovalutare l'importanza del fattore terapeutico dell'esperienza, anche
inconscia e mai commentata nel corso della terapia. A riprova del fatto
che anche Fonagy non la sottovaluta affatto, anzi la teorizza quasi come
uno dei fattori più importanti se non quello determinante, vorrei
ricordare il suo editoriale scritto sul n. 2/1999 dell'International
Journal of Psychoanalysis (IJPA), dove fa affermazioni a mio parere
radicali e nuove per certa psicoanalisi. Fonagy in quell'editoriale, intitolato
"Memory and therapeutic action", dice che l'idea che il recupero dei ricordi
infantili faccia parte dell'azione terapeutica della psicoanalisi è
purtroppo ancora viva, mentre non ne abbiamo alcuna prova scientifica.
Di fatto questa eredità, di un secolo fa, danneggia il nostro campo,
che nel frattempo si è molto evoluto. Fonagy continua dicendo che
le esperienze infantili sono importantissime, ma non possono essere ricordate
in parole, anche perché avvennero prima che si formasse il linguaggio.
Fanno parte di quel bagaglio di ricordi privi di contenuto (memoria procedurale
e non dichiarativa o esplicita, il "come" del comportamento e non il "cosa",
ecc.), che sono alla base del comportamento, il quale viene modificato
in terapia con eventi altrettanto non verbalizzati (esperienze che potremmo
chiamare correttive), quelle che Fonagy chiama "modi di esperire l'altro",
rifacendosi naturalmente, in modo esplicito, al concetto di "essere con
l'altro" del gruppo di Boston (Daniel Stern e coll.), esposto sempre sull'Intern.
Journal qualche numero prima, nel 1998 (anche questo articolo è scaricabile
dal sito http://ijpa.org/archives1.htm).
Potrei continuare a descrivere le idee di Fonagy e le loro importanti
implicazioni teoriche e pratiche, ma potete ben immaginarle. Voglio però
sottolineare che Fonagy neanche cita Alexander, neppure quando, a pag.
219, sembra che citi una frase di Alexander del 1930 (da me e Liotti opportunamente
citata, per una questione di debito storico, a pag. 1081 del nostro articolo
citato da Tullio), quando dice che se il miglioramento (sintomatologico,
comportamentale) è associato al recupero di nuovi ricordi, ciò
significa che il miglioramento è già avvenuto prima... L'affermazione
di Fonagy inizia in un modo che sembra coraggioso: "Here I would claim
that...", quando però Alexander disse le stesse cose 68 anni prima.
Inutile dire inoltre (e qui mi rivolgo ad Andrea e agli altri che conoscono
meglio la filosofia e il pensiero non psicoanalitico) che, a proposito
della "scoperta" della importanza dell'"essere con l'altro", nessuna menzione
vene fatta alla tradizione antropofenomenologica, la quale, mi sembra,
ben ha esplorato questo tipo di esperienza, di "being with" e "being
there" ecc. Si possono muovere tante accuse ai fenomenologi, ma non
quella di voler interpretare l'inconscio dei pazienti. Quando uscì
quell'editoriale di Fonagy volevo scrivere una lettera al direttore per
segnalare queste cose, ma non ebbi il tempo [questa lettera al direttore
è poi stata scritta, e pubblicata anche su Internet, con una risposta di
Fonagy, al sito http://ijpa.org/letter3apr00.htm]. (riguardo al concetto di metacognizione,
altre cose mi piacerebbe discutere, ad esempio la mia impressione che non
vi sia niente di nuovo sotto il sole - si pensi al concetto stesso di insight,
di "Io osservante" di Sterba del 1934, opportunamente citato da Andrea,
della interiorizzazione della funzione analitica, ecc. - ma ora non c'è
tempo).
P.S.: riporto qui la citazione di Alexander, contenuta a pag. 20 del
suo noto libro del 1946, dove si riferisce ad un suo lavoro del 1930:
"The belief that the recovery of memory is, in itself,
one of the most important therapeutic factors, is still held by many psychoanalysts
and in a sense can be considered to be a residue of the period of cathartic
hypnosis. The persistent emphasis upon intellectual reconstructions of
memory gaps can possibly be traced back to the relatively short period
of waking suggestion; but it was the still greater emphasis during the
free association phase on the intellectual understanding of the past that
made psychoanalytic treatment almost synonymous with genetic research.
As a result, the filling in of memory gaps became crystallized as the therapeutic
goal of psychoanalysis. This exaggerated emphasis has long hampered both
the understanding of why patients remember repressed events and the correct
evaluation of their therapeutic significance. It was not until 1930 (Alexander,
1930) that the recovery of memories was demonstrated to be not the cause
of therapeutic progress but its result, and that recollection of repressed
childhood memories occurs, as a rule, only after the same type of emotional
constellation has been experienced and mastered in the transference situation" (Alexander
et al., 1946, p. 20; italics in the original text).
Bibliografia
Alexander F. (1930). Zur Genese des Kastrationskomplexes.
Internationale Zeitschrift fur Psychoanalyse, 1930, XVI Band (Engl.
transl.: Concerning the genesis of the castration complex. Psychoanalytic
Review, 1935, XXII, 1).
Alexander F., French T.M. et al. (1946). Psychoanalytic
Therapy: Principles and Applications. New York: Ronald Press (trad.
it. dei capitoli 2, 4, e 17: La
esperienza emozionale correttiva. Psicoterapia e
Scienze Umane,
1993, XXVII, 2: 85-101).
(il classico lavoro del 1946 di Alexander sulla "esperienza
emozionale correttiva" è pubblicato sulla mia area di Psychomedia.
Come discussione delle idee di Alexander è pubblicata la lucida
e durissima critica
di Eissler del 1950, che rimane tuttora un esempio dei più alti
livelli di sofisticazione teorica della tradizione classica nel puntualizzare
determinati aspetti della specificità del discorso psicoanalitico).
13-12-99, From: Giovanni Ruggiero ("Fonagy e Liotti, ovvero metacognizione
ed appraisal emotivo")
Cari listers di PM-PT, ho trovato interessante il dibattito sulla metacognizione.
Aggiungo il mio modesto contributo. In primo luogo, il dibattito sullo
psicoterapeuta felice e/o ebete e sulla metacognizione. Mi viene in mente
una affermazione di Cristiano Castelfranchi, che ho da poco ascoltato a
Milano. Parlando della metacognizione, ha accennato a qualcosa della cosiddetta
"metacognizione sana", che dovrebbe essere qualcosa che assomigli alla
consapevolezza da parte del soggetto di poter far fronte/sopportare l'esperienza
della maggior parte degli stati e delle rappresentazioni mentali future
e conseguenti alle decisioni e delle azioni che egli sta intraprendendo
hic et nunc. In altri termini, sarebbe un superamento della credenza-scopo
"per stare bene, devo mantenere il totale controllo di tutti i miei stati
mentali presenti e soprattutto futuri, in quanto prodotti da quelli presenti".
Naturalmente, questa metacognizione disfunzionale è tagliata bene
soprattutto per i disturbi d'ansia. In questa area, poi, si possono individuare
metacognizioni particolari che si adattano a disturbi particolari. Salkovskis,
ad esempio, individua nel concetto di responsabilità personale il
perno attorno al quale ruotano le metacognizioni dei pazienti ossessivi.
Detto questo, mi sembra importante la considerazione di Angelozzi a
proposito del lavoro psicoterapeutico:
>Rimane un problema non indifferente: se la metacognizione è
più orientata
>all'effettivo processo del pensare, mio e degli altri, e, solo in
sede
>secondaria, al contenuto dei sottostanti pensieri, di cui coglie più
il
>fluire che non l'oggetto specifico, allora la psicoterapia non è
nè una
>analisi dei contenuti, nè quella della relazione, ma è
un costante gioco
>duale in cui il terapeuta costituisce il modello dell'osservare il
pensiero,
>un modello prima esterno e poi fatto proprio dal paziente. Dalla
>metacognizione esterna a quella interna (non avviene così per
Fonagy con il
>bambino?). Ed in modo del tutto indipendente dai contenuti che transitano.
>L'interpretazione allora non interpreta nulla, ma è solo un
costante
>richiamare alla osservazione di sè, qui ed ora, alla stessa
stregua del
>bastone del maestro zen, del koan o dell gambe che dolgono.
>Come diceva maestro Dogen: "Fa freddo? Sii un buddha freddo!; Fa caldo?
>Sii un buddha caldo". I contenuti variano, ma quello che devi trovare
è la
>consapevolezza del tuo essere consapevole.
Sono pienamente d'accordo che la psicoterapia è ANCHE gioco duale
in cui il psicoterapeuta (ricito Angelozzi) "costituisce il modello dell'osservare
il pensiero, un modello prima esterno e poi fatto proprio dal paziente".
Tuttavia, precedendo la sicura (e forte) obiezione di Cavagna "può
essere la psicoterapia solo problem solving (in questo caso, problem solving
sul piano delle metacognizioni)?" mi chiedo se non sia il caso di introdurre,
per una più completa comprensione del lavoro psicoterapeutico, il
concetto di appraisal emotivo accanto a quello di metacognizione.
Come è noto, da tempo le emozioni sono di nuovo sotto i riflettori
della ricerca e della riflessione psicologica. Sia in recenti papers e
testi di Power e Dalgleish (1997), sia ancora da Castefranchi e Miceli
in Italia, ho sentito qualcosa di interessante sul cosiddetto "appraisal
emotivo". Esso seguirebbe due possbili strade alternative. La prima, più
connessa alle funzioni cognitive superiori, confermerebbe in qualche modo
la vecchia teoria cognitivistica beckiana, ovvero che le cognizioni "producono"
le emozioni. La seconda via sarebbe, invece, più "irrazionale",
e si formerebbe in seguito a meri algoritmi associativi. Caso tipico: la
fobia semplice.
Tutta questa roba mi è sembrata una rinnovata versione del vecchio
dibattito tra Lazarus e Zajonc. Gli scritti di Zajonc (1980; 1984; ma già
Wundt, 1897; o, addirittura, Baruch Spinoza) erano infatti nati come reazione
alla vulgata prevalente fino a quel momento nel campo della teoria cognitiva
delle emozioni. Questa vulgata, espressa da Lazarus (1991), definiva le
emozioni come segnali valutativi dello stato del sistema "Io" in rapporto
all'ottenimento dei suoi scopi (goals). Naturalmente, questa è una
semplificazione. Lazarus era cosciente delle componenti sensoriali e motorie
delle emozioni. Tuttavia, la sua definizione sottolineava il carattere
valutativo e, in qualche modo, razionale delle emozioni. Per la precisione,
Lazarus sottolineava il carattere razionale-cognitivo della fase iniziale
della emozione, o "appraisal", cioè il riconoscimento dell'evento
rilevante in rapporto al raggiungimento del goal.
A questa teoria Zajonc portava due obiezioni, la prima di tipo fenomenologico,
e l'altra di tipo cognitivo. L'obiezione fenomenologica diceva che, quale
che sia la natura più o meno ragionevolmente fondata di qualunque
appraisal emotivo, la qualità del singolo appraisal emotivo rimane
una esperienza mentale immediata ed in qualche modo irriducibile a qualunque
forma di pensiero complesso e non associativo. L'appraisal non è
valutato, ma sentito, è precisamente un "sentire", un feeling mentale-corporeo.
La seconda obiezione nasceva da questa analisi fenomenologica, nonché
da alcune interessanti osservazioni sperimentali (in parte discutibili,
però), e diceva che l'appraisal emotivo, oltre a non avere i caratteri
fenomenologici "freddi" del pensiero razionale, non ne aveva nemmeno i
caratteri specifici cognitivi: si trattava, cioè, effettivamente
di una valutazione del tutto infondata -almeno in termini logico razionali-
e che nasceva da associazioni mentali semplici ed apprese in esperienze
precedenti analoghe. Si trattava, quindi, di un fenomeno di tipo associativo
"primitivo".
Personalmente penso che le due vie dell'appraisal emotivo siano due
astrazioni polari, tra le quali giace la realtà. L'appraisal emotivo
è sì una "cognizione", una valutazione ipotetica della realtà.
Ma il fatto che sia espressa in termini non-proposizionali ne modifica
radicalmente la natura rispetto alle cognizioni proposizionali. Il soggetto
riceve solo messaggi "estensionali" dalle emozioni, e non "intensionali".
In altri termini, l'emozione "paura" ci dice solo che esistono dei segni
di un pericolo (informazione estensionale), ma non ci dice nulla riguardo
la natura particolare della minaccia in arrivo (informazione intensionale).
Tornando, al lavoro psicoterapeutico, vorrei dire due cose. La prima,
è che è vero che in qualche modo il terapeuta deve mostrare
al paziente, in un gioco duale, le "metacognizoni sane". Ma, aggiungo,
deve soprattutto fargliele sentire! Cioè, riuscire (e qui si vede
la megalomania dell'operare psicoterapeutico!) ad attaccare un apprasial
emotivo positivo alle "metacognizoni sane". Vogliamo dire: una felicità?
E diciamolo pure! Io credo che questo Rosenbaum citato da Carere non sia
uno stupido. E' evidente che non intendeva rendere ebeti i pazienti.
In questo senso, quindi, in parte ha ragione Cavagna quando dice, beffardamente:
"Ma può la psicoterapia essere solo problem solving?". In altre
parole, come riesce lo psicoterapeuta a convincere emozionalmente il paziente
che certe metacognizoni sono "sane" ed altre no? Come funziona il gioco
duale? Quali sono le regole tacite e "sentite" di questo gioco? Forse qui
entra in campo allora la relazione, ovvero, se si preferisce, il transfert
del paziente sul terapeuta e viceversa.
In termini cognitivi: quali sono gli appraisal cognitivi immediati
e "sentiti" che fanno di un determinato psicoterapeuta quello giusto e
convincente verso un certo paziente? Quali sono i "criteri di autorevolezza"
di un paziente in terapia (Sassaroli, 1999)?
Tuttavia, anche verso Cavagna ho le mie obiezioni. Quel che convince
di meno della psicoanalisi è la parte, diciamo così, più
"protocollare" (nel senso proprio carnapiano). Insomma, è vero che
certi appraisal emotivi sono inspiegabili (vogliamo dire inconsci, tanto
per capirci?). Tuttavia, siamo sicuri che la psicoanalisi abbia trovato
l'algoritmo omniesplicativo inconscio di tutti questi appraisal? Parliamoci
chiaro: questo algoritmo proposto dalla psicoanalisi non è altro
che la metapsicologia, la vecchia "strega" inaffidabile. Ancora Kernberg,
in "Le 5 principali teorie della personalità" di pochi anni fa afferma
che egli preferisce il concetto di istinto a quello di emozione. A mio
parere, invece, è proprio lo studio delle emozioni, appaiato a quello
della metacognizione, che può portare ad una buona scienza sperimentale
della psicoterapia senza etichette.
Da altri luoghi della psicoanalisi ci arriva, invece, un sapere clinico-pratico,
procedurale nella sua essenza, di certo migliore, quello del terapeuta-contenitore
di Bion-Winnicot, o quello kohutiano della seconda analisi del signor Z.
Questo, però, mi pare un sapere sicuramente vero, anzi verissimo,
ma artigianale. E questo lo dico davvero con tutto il rispetto: poiché,
in verità, in altre parrocchie non si è andati ancora molto
in là.
Sperando di non aver annoiato alcuno di voi, vostro Giovanni Ruggiero
13-12-99, From: Ileana Taddei ("Fonagy e Liotti, ovvero metacognizione
ed appraisal emotivo")
Due domande a Giovanni Ruggiero:
- un anoressico è assimilabile a un fobico (via irrazionale,
algoritmo associativo);
- per un anoressico l'emozione "paura" (supponiamo relativa all'ingestione
di cibo) dice o no qualcosa "riguardo alla natura della minaccia in arrivo"?
Grazie.
15-12-99, From: Giovanni Ruggiero ("Fonagy e Liotti, ovvero metacognizione
ed appraisal emotivo")
Cara Ileana, è difficilissimo parlare della quota di cognizione
presente nelle emozioni. A mio parere é vero che probabilmente che
esistono due vie diverse di generazione delle emozioni, una più
"ragionevole" e l'altra più "primitiva". Ma queste vie sono diverse
in una maniera più sottile di quella suggerita da Power e Dalgleish.
Io preferirei dire che esistono due modi diversi di selezione e di gestione
delle emozioni. Probabilmente, Zajonc è nel vero quando dice che
gli appraisal emotivi sono sempre degli stati associativi semplici, dei
marcatori sensorio-motori associati agli stati mentali (Damasio, 1994;
Damasio e Damasio, 1996). Ciò che cambia, è la capacità
del soggetto di gestire - con calma - l'onda emotiva immediata, di sospendere
il giudizio per un attimo brevissimo e di effettuare una valutazione rapida
ed intuitiva (quella che Lazarus chiama "secondary appraisal"), ma non
irrazionale. Intuitiva, in quanto, nel pensiero logico-gerarchico, si può
"intuire", cioè intravedere analogicamente i nodi implicazionali
principali del ragionamento, e decidere per la soluzione più conveniente.
Decidere per la soluzione più conveniente significa scegliere per
il matching più conveniente tra interpretazione cognitiva scaturita
dalla valutazione logico-gerachica ed appraisal secondario ad essa associato.
Ma gli appraisal emotivi di ogni singola valutazione cognitiva complessa
(sia pure intuitiva) rimangono di tipo associativo, o "primitivo". In quel
preciso momento, gli appraisal associativi semplici che si presentano alla
mente del soggetto non sono più uno soltanto, ma molteplici.
Tornando alle tue domande:
>- un anoressico è assimilabile a un fobico (via irrazionale,
algoritmo associativo);
>- per un anoressico l'emozione "paura" (supponiamo relativa all'ingestione
>di cibo) dice o no qualcosa "riguardo alla natura della minaccia in arrivo"?
La mia risposta è che l'emozione "paura" in entrambi i casi
esprime solo sé stessa, cioè paura di un qualcosa percepito come pericolo. Il soggetto poi associa questa paura con un determinato
pericolo. Ciò che dà apparentemente alle due paure contenti
cognitivi diversi è precisamente l'associazione con una rappresentazione
mentale ad elevato contenuto cognitivo, come la rappresentazione di "ingrassare"
nell'anoressia.
Aggiungo che è la funzione dell'"inibizione cognitiva" che permette
alle emozioni di essere apparentemente ragionevoli e non meramente associative.
Per inibizione cognitiva (Power e Dalgleish, ibidem), si intende la capacità
del soggetto di bloccare la singola emozione alla fase dell'appraisal,
senza passare allo stadio successivo (anche esso associativo) dell'azione.
Soltanto in rari casi, l'appraisal associativo si presenta in maniera
pura e non gestibile dal soggetto, come ad esempio nelle fobie semplici.
In questo caso, l'associazione agisce in maniera inesorabile senza alcuna
possibilità di blocco inibitorio cognitivo.
19-12-99, From: Tullio Carere ("Fonagy e Liotti")
On 15/12/99 Giovanni Ruggiero wrote:
>... gli appraisal emotivi sono sempre degli stati associativi
>semplici, dei marcatori sensorio-motori associati agli stati mentali
>(Damasio, 1994; Damasio e Damasio, 1996). Ciò che cambia, è
la capacità
>del soggetto di gestire - con calma - l'onda emotiva immediata, di sospendere
>il giudizio per un attimo brevissimo e di effettuare una valutazione
rapida ed
>intuitiva (quella che Lazarus chiama "secondary appraisal"), ma non
>irrazionale. (...)
>Aggiungo che è la funzione dell'"inibizione cognitiva" che
permette alle
>emozioni di essere apparentemente ragionevoli e non meramente associative.
>Per inibizione cognitiva (Power e Dalgleish, ibidem), si intende la
capacità
>del soggetto di bloccare la singola emozione alla fase dell'appraisal,
senza
>passare allo stadio successivo (anche esso associativo) dell'azione.
Caro Giovanni, ho trovato stimolanti le tue riflessioni sulla metacognizione.
La "capacità del soggetto di sospendere il giudizio per un attimo
brevissimo" e l'"inibizione cognitiva" sono, mi sembra, la stessa cosa.
In questa capacità è la chiave della metacognizione.
E' vero, come ha rilevato Angelozzi, che il concetto di metacognizione
non è sviluppato in modo molto chiaro da Fonagy. Vediamo se riusciamo
a fare un po' meglio noi. Se ha senso distinguere una metacognizione dalla
semplice cognizione, è perché questa è implicita o
automatica, quanto quella sospende l'automatismo per osservare, capire
meglio, riflettere. Sospendere il riflesso automatico per riflettere: questa
può essere la formula della metacognizione, se per "riflessione"
intendiamo la funzione della consapevolezza nel senso più vasto,
in cui l'attenzione è diretta all'oggetto per conoscerlo nella sua
"essenza", come nell'epoché fenomenologica, o all'indietro al soggetto
per un'intenzione di autoconsapevolezza, come nelle tecniche meditative
orientali, o fluttua liberamente, "ugualmente sospesa" tra soggetto e oggetto,
come nel modo utilizzato dalla psicoanalisi. E' un elenco rapido puramente
indicativo, perché i tre modi che ho citato a titolo di esempio
sono tutti e tre altamente problematici. Ma questo viene dopo. All'inizio
o alla radice l'atto fondativo della metacognizione è sempre lo
stesso: la sospensione dell'attenzione (sospensione del giudizio, dell'identificazione,
dell'azione, delle motivazioni ordinarie...).
Tu poni due problemi: la distinzione tra una metacognizione sana e
una patologica, e il rapporto con le emozioni. Le due questioni sono collegate.
Prima di tutto si può riflettere "troppo", cioè riflettere
quando sarebbe meglio non riflettere, e agire invece istintivamente, affidandosi
cioè a qualche automatismo. E' stata fatta per esempio una ricerca
sui giocatori di bridge: si è visto che in certe fasi del gioco
ottengono risultati migliori riflettendo, in altre giocando istintivamente.
Si potrebbe parlare di "meta-metacognizione", per indicare un tipo di pensiero
sovraordinato, che decide appunto quando è meglio riflettere, e
quando è meglio non riflettere.
La riflessione comporta poi ovviamente una presa di distanza dalle
emozioni: ma questa distanza può essere eccessiva o impropria o
eccessivamente prolungata. Può comportare anestesia (relativamente
alle emozioni) o paralisi (rispetto all'azione). Il disturbo può
essere quantitativo, come visto sopra, o qualitativo. Anche qui il rimedio
sta, a mio parere, in una meta-metacognizione, che permetta di valutare
quando è meglio riflettere, e quando conviene invece smettere di
riflettere per agire, o per immergersi in qualche esperienza emotiva. L'inibizione
eccessiva dell'azione (e dell'interazione), per esempio, è un disturbo
da cui è affetta quella pratica comunemente indicata come "psicoanalisi
classica". E' un'inibizione che non ha giustificazione terapeutica, se
si considera che in primo luogo una quantità appropriata di azione
o interazione favorisce la stessa consapevolezza (o l'"insight"), come
è stato ripetutamente dimostrato da diversi autori (Wachtel e Hoffman,
per esempio). In secondo luogo solo da nuove interazioni possono derivare
quelle esperienze di cui una persona che ne è stata deprivata in
precedenza ha ovviamente bisogno. Non è facile capire come potrebbe
altrimenti correggere i disturbi che sono derivati da quella mancanza. 21-12-99,
From: Ileana Taddei ("Fonagy e Liotti")
On 15/12/99 Giovanni Ruggiero wrote:
> Cara Ileana, è difficilissimo parlare della quota di cognizione presente nelle
emozioni.
> A mio parere é vero che probabilmente che esistono due vie
diverse di
> generazione delle emozioni, una più "ragionevole" e l'altra
più "primitiva".
> Ma queste vie sono diverse in una maniera più sottile di quella
suggerita da Power e Dalgleish. Per vie diverse intendi diverse strutture cerebrali, o diverse sequenze
di
attivazione di strutture cerebrali, o diverse modalità di "interferire"
con
una o più strutture? Qual è la via suggerita da Power
e Dalgleish?
> Io preferirei dire che esistono due modi diversi di
> selezione e di gestione delle emozioni. Probabilmente, Zajonc è
nel vero
> quando dice che gli appraisal emotivi sono sempre degli stati associativi
> semplici, dei marcatori sensorio-motori associati agli stati mentali
> (Damasio, 1994; Damasio e Damasio, 1996).
Se ricordo bene, nella versione di Damasio la "fonte" sensorio-motoria
di un'emozione non è tanto un "marcatore", quanto una sorta di linguaggio
privilegiato che consente input fulminei e in gran parte inconsci, che possono
portare alla scelta di un percorso di risposta più rapido e più
efficiente di quello "razionale".
> Ciò che cambia, è la capacità del
> soggetto di gestire -con calma- l'onda emotiva immediata, di sospendere
il
> giudizio per un attimo brevissimo e di effettuare una valutazione
rapida ed
> intuitiva (quella che Lazarus chiama "secondary appraisal"), ma non
> irrazionale. Intuitiva, in quanto, nel pensiero logico-gerarchico,
si può
> "intuire", cioè intravedere analogicamente i nodi implicazionali
principali
> del ragionamento, e decidere per la soluzione più conveniente.
"Intravedere analogicamente i nodi implicazionali principali del ragionamento"
mi sembra una funzione molto più "a valle" e pertinente ad un livello
non omologo a ciò che tu, o Lazarus, definite "secondary appraisal".
Tanto più se:
> Decidere per la soluzione più conveniente significa scegliere per il
matching
più
> conveniente tra interpretazione cognitiva scaturita dalla valutazione
> logico-gerachica ed appraisal secondario ad essa associato.
> Ma gli appraisal emotivi di ogni singola valutazione cognitiva complessa
> (sia pure intuitiva) rimangono di tipo associativo, o "primitivo".
In quel
> preciso momento, gli appraisal associativi semplici che si presentano
alla
> mente del soggetto non sono più uno soltanto, ma molteplici.
Intendi: molteplici e in accordo tra loro, o molteplici e potenzialmente
dissonanti?
> Tornando alle tue domande:
> >- un anoressico è assimilabile a un fobico (via irrazionale,
algoritmo associativo);
> >- per un anoressico l'emozione "paura" (supponiamo relativa all'ingestione
> >di cibo) dice o no qualcosa "riguardo alla natura della minaccia
in arrivo"?
> la mia risposta è che l'emozione "paura" in entrambi i casi
esprime solo sé
> stessa, cioè paura di un qualcosa percepitio come pericolo.
Il soggetto poi
> associa questa paura con un determinato pericolo.
É una risposta alla Damasio? Se sì, siamo certi che:
> Ciò che dà apprentemente
> alle due paure contenti cognitivi diversi è precisamente l'associazione
con
> una rappresentazione mentale ad elevato contenuto cognitivo, come
la
> rappresentazione di "ingrassare" nell'anoressia. ?
La rappresentazione di ingrassare non può essere meno forte di
altri
prodotti associativi correlati a: ingerire, accettare, assimilare,
etc,
molto più primitivi? Anche in questi casi il potenziale associativo
può
essere molto forte, non altrettanto quello cognitivo in senso stretto,
specie in assenza di terapia.
> Aggiungo che è la funzione dell'"inibizione cognitiva" che
permette alle
> emozioni di essere apparentemente ragionevoli e non meramente associative.
Che le emozioni siano comunque "ragionevoli" - nel senso che abbiano
le loro buone, o cattive, ragioni - non vedo perché possa essere
spiegato ricorrendo solo a un concetto di inibizione cognitiva. Il telencefalo
è probabilmente un filtro molto meno rustico nei suoi interventi
sulle emozioni, e anch'esso può avere le sue buone, o cattive, ragioni.
> Per inibizione cognitiva (Power e Dalgleish, ibidem), si intende la
capacità
> del soggetto di bloccare la singola emozione alla fase dell'appraisal,
senza
> passare allo stadio successivo (anche esso associativo) dell'azione.
Tu lavori con dei robot, oppure molti dei tuoi pazienti sono cleptomani
:-)?
La vita psichica non si esaurisce mica nella decisione di rubare o
meno un cosmetico in un supermercato.
23-12-99, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti")
Le riflessioni di Carere sono indubbiamente interessanti:
> La "capacità del soggetto di sospendere il giudizio per un
attimo brevissimo"
> e l'"inibizione cognitiva" sono, mi sembra, la stessa cosa. In questa
capacità
> è la chiave della metacognizione.
anche se, a mio parere, andrebbero completate. Il primo aspetto riguarda
la sospensione del giudizio o una inibizione cognitiva. Queste, come mi
sembra intendere Carere - e sono parzialmente d'accordo - riguardano un
piano, ma non necessariamente quello "meta".
--- Sto riflettendo su quanto scrive Carere --- Posso riflettere sul
mio riflettere su quanto scrive Carere e osservare ad esempio la modalità
con cui costruisco le mie argomentazioni, o le sensazioni che mi da il
fatto di riflettere su quanto scrive --- In questo la riflessione su quanto
scrive Carere, certo, subisce una specie di inibizione cognitiva e di sospensione
del giudizio, e questo non mi sembra che avvenga per il "riflettere sul
riflettere" in cui metto in moto meccanismi cognitivi, giudicanti ed emotivi.
L'aspetto interessante è che, a sua volta, questo aspetto "meta",
può aprire la strada ad un ulteriore "meta" rispetto ad esso. ---
Non solo posso riflettere sul mio riflettere circa quanto scrive Carere,
ma riflettere, a sua volta può essere preso ad oggetto da un ulteriore
livello. Posso ad esempio interrogarmi su cosa significhi per me questo
mio riflettere sulle mie modalità di ragionare intorno ai ragionamenti
di Carere...---
Ancora una volta sembra che il giudizio e l'aspetto cognitivo si spostino,
passando ad un ulteriore livello. Non so se tuttavia - ad essere rigorosi
- l'aspetto di inibizione cognitiva del primo livello sia un passaggio
obbligato. In fondo posso proprio riflettere sugli aspetti cognitivi che
compio al primo livello ed osservarli nel loro svolgimento... Il loro essere
soggetto è diverso dal momento in cui sono oggetto? Probabilmente
si, ma in cosa?
Quanti livelli di metacognizione esistono? Difficile dirlo...Vi è
qualcosa di faticoso e di costoso in questa operazione, forse anche di
"pericoloso". Il problema è che ciascun livello può operare
con parametri e misure diversi dagli altri. ---- Posso essere contento
del mio essere arrabbiato e ritenere che questa mia contentezza sia in
fondo una cosa stupida...--- Tracciano diverse identità? Credo che
dire che "siamo tutti quanti questi livelli, che aggreghiamo in una unità"
sia solo una semplificazione, che non aggiunge molto. Così come
credo che la distinzione è troppo soft per creare effettive identità.
Forse è solo uno dei segni delle pluralità al nostro interno,
che si rivelano in questa, come in altre modalità.
La fatica avviene soprattutto se tentiamo di avere presenti i vari
livelli contemporaneamente nel nostro riflettere, cosa che può avvenire
- fra l'altro - solo creando un ulteriore livello "meta" che osservi l'interagire
dei vari livelli. E' un po' forse come quando si installano una Virtual
Machine sul computer, in cui all'interno di un sistema operativo NT
facciamo girare un sistema operativo Linux o Win 95, per eseguire un programma
che gira solo su questi ultimi sistemi ed il PC rallenta terribilmente
"per la fatica"... Il pericolo, per noi umani, è la frammentazione
e la perdita possibile (ma direi non scontata) degli automatismi spontanei
del primo livello, quello "irriflesso". Nel misticismo questa perdita non
è problematica: il processo viene portato alle estreme conseguenze
perché - in maniera però del tutto intenzionale - ad ogni
livello viene perso sempre di più l'aspetto cognitivo e valutativo,
e rimane un puro osservare i vari aspetti, fra cui la spontaneità
con cui opera il livello base. E' come se la non spontaneità degli
altri livelli, non incidesse su quello originario. Una breve osservazione
transitoria: sono due livelli del linguaggio, uno cui affidiamo il mondo
implicito, l'altro cui affidiamo quello esplicito. Forse in questa distinzione
che qualcuno ha anche tentato di descrivere e formalizzare vi sono molti
segreti del gioco della metacognizione.
Il rapporto fra automatismo ed intenzionalità appare giocato
fra più piani, in cui uno prende ad oggetto il precedente, ma non
necessariamente lo modifica. Posso commuovermi guardando un film e posso
osservare il fatto che sono commosso. La commozione rimane, così
come la "parte" che, per niente commossa, osserva il mio commuovermi. Posso
anche però osservare che sto guardando delle pure immagini su un
telo o su uno schermo: questo può inibire la commozione, ma non
forse l'automatismo che scopro in me per cui sono comunque catturato dalle
immagini.
La mia impressione è che questi vari aspetti in realtà
non costituiscano l'essenza della metacognizione, ma suoi eventuali accessori,
che possono essere indirizzati in un senso o in un altro. In fondo credo
che la differenza più marcata fra gli usuali procedimenti terapeutici
e la meditazione sia nella accentazione diversa data al processo metacognitivo:
nelle psicoterapie ci si serve della metacognizione per approfondire le
caratteristiche dell'oggetto di cui ci si occupa; nella meditazione invece
per approfondire le caratteristiche del soggetto che osserva l'oggetto.
E' vero che in psicoterapia questo oggetto siamo noi, per cui prendiamo
per oggetto la nostra soggettività, ma nella meditazione è
come se comunque vi fosse la costante sfasatura dei piani in un gioco in
cui qualunque livello di soggettività diventa a sua volta oggetto
di osservazione "metacognitiva". Il primo è una dinamica "finita"
la seconda apparentemente "infinita".
La mia sensazione è che, alla fine, la radice effettiva della
"metacognizione" sia poi appunto la "autotrascendenza", cioè il
prendere ad oggetto il nostro pensare, anche se questo è più
un processo intenzionale che una effettiva descrizione di situazioni, proprio
per il fatto che ciò che è soggetto, appena prende forma
diventa oggetto, e così via. Ancora una volta ci imbattiamo nel
gioco dell'implicito e dell'esplicito, in cui la intenzione diventa il
motore del disvelamento.
Circa il problema della metacognizione sana e di quella patologica
Carere scrive:
>Anche qui il rimedio sta, a
>mio parere, in una meta-metacognizione, che permetta di valutare quando
è
>meglio riflettere, e quando conviene invece smettere di riflettere
per
>agire, o per immergersi in qualche esperienza emotiva.
Sono pienamente d'accordo: il problema non è la metacognizione,
ma perdere o fermare la capacità di compiere questa operazione.
Per esempio un ossessivo può osservare in maniera patologica ogni
evento del suo esistere, ma difficilmente farà l'operazione di osservare
quanto è rigido e compulsivo il proprio osservare. E' un po' come
la questione della coscienza di malattia: talvolta affermiamo che alcuni
pazienti hanno coscienza di malattia perchè chiedono aiuto, senza
però considerare che tante modalità del loro chiedere aiuto
sono gravemente patologiche, senza che se ne rendano conto...
Mi scuso se queste riflessioni sono un po' contorte· Mi illudo di pensare
che ciò sia dovuto alla complessità della questione, fino
ad ora in fondo non molto esplorata. Credo comnque che non siano discorsi
"bizantini": in fondo ciascuno di noi può metterli alla prova su
sè stesso e riflettere su quanto siano legati ai tanti aspetti del
lavoro che facciamo con i pazienti.
27-12-99, From: Tullio Carere ("Fonagy e Liotti")
On 23/12/1999 Andrea Angelozzi wrote:
> In fondo credo che la differenza più marcata fra gli usuali procedimenti terapeutici
e la
>meditazione sia nella accentazione diversa data al processo metacognitivo:
>nelle psicoterapie ci si serve della metacognizione per approfondire
le
>caratteristiche dell'oggetto di cui ci si occupa; nella meditazione
invece
>per approfondire le caratteristiche del soggetto che osserva l'oggetto. (...)
>La mia sensazione è che, alla fine, la radice effettiva della
>"metacognizione" sia poi appunto la "autotrascendenza", cioè
il prendere ad
>oggetto il nostro pensare
La differenza su cui Angelozzi giustamente richiama l'attenzione è
a mio parere costitutiva della "ricerca di sé". Anche se l'interesse
per l'oggetto è prevalente nella "psicoterapia", e quello per il
soggetto lo è nella "meditazione", una giusta misura di entrambi
si dovrebbe trovare nella Terapia (con la maiuscola, come ha suggerito
Sforza nello SPI-panel). "Terapia" era la filosofia antica, in cui, come
in Platone, conoscenza di sé e cura di sé erano inscindibili.
Può essere utile ricordare in che modo la tematica che oggi chiamiamo
"metocognitiva" è stata affrontata dagli antichi.
Il monito delfico "conosci te stesso" era stato interpretato inizialmente,
in periodo presocratico, nel senso di un'ammonizione a prendere atto della
propria finitezza: "conosci te stesso come mortale e vivi in modo conforme
a questa consapevolezza" (v. Beierwaltes, commentario a Plotino V 3). Un
primo livello di "autotrascendenza" consisteva allora, e consiste tuttora,
nel superamento dell'illusione di immortalità (di onnipotenza, diremmo
oggi). Conosci i tuoi limiti, ammoniva il dio in questa prima parte del
messaggio: conosci i tuoi bisogni, i tuoi desideri, le inevitabili contraddizioni
e frustrazioni che ne derivano, le menzogne e le contraffazioni che metti
in atto per sottrarti al dolore connesso alla finitezza. La maggior parte
di ciò che oggi si chiama psicoterapia o psicoanalisi è la
ripresa e lo sviluppo di questa indicazione.
Ma già con Socrate, e più esplicitamente con Platone
(nell'Alcibiade Maggiore), a questa prima lettura se ne aggiunse un'altra.
Una volta che hai preso atto della tua finitezza, non fermarti qui, dice
il secondo messaggio: procedi oltre, e cerca la tua vera essenza. Una volta
tolta di mezzo la "cattiva infinitezza", scopri la vera infinitezza del
tuo nucleo essenziale, in cui sei simile al dio. Questo è il secondo
livello di autotrascendenza: dopo aver superato l'identificazione, carica
di hybris, con l'onnipotenza infantile, devi superare anche quella, carica
di disperazione, con i limiti della tua corporeità e del tuo mondo.
A questo secondo livello allude Bion (in Attenzione e Interpretazione)
quando dice che l'analista "deve centrare la propria attenzione su O, l'ignoto
e l'inconoscibile", anzi deve diventarlo, deve lui stesso "diventare infinito
grazie alla sospensione della memoria, del desiderio e della comprensione".
Il primo livello di autotrascendenza corrisponde all'attenzione prevalente
all'oggetto ("psicoterapia", vertice K del campo della Terapia), il secondo
all'attenzione prevalente al soggetto ("meditazione", vertice O). Una giusta
dialettica tra questi due poli della ricerca di sé ("uncovering")
mi sembra la sostanza del processo "metacognitivo". Con questa riflessione/meditazione auguro a tutti buon anno.
3-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Fonagy e Liotti")
Con solo un millennio di ritardo, riprendo il discorso della metacognizione.
Vorrei aggiungere un altro aspetto, che proprio nella sua particolarità
e nel portare all'estremo lo sfondo di quanto accade, consente di sottolineare
l'aspetto così peculiare del metalivello cognitivo, in cui si è
consapevoli del fatto di pensare. Mi riferisco al sogno lucido.
A tutti è probabilmente capitato di fare sogni in cui, ad un
certo punto si è pienamente consapevoli del fatto di stare sognando.
Questa situazione conduce a interessanti aspetti, che non si limitano al
fatto di poter, a quel punto, indirizzare gli eventi del sogno nella maniera
in cui si "decide consapevolmente". Dalla improvvisa consapevolezza di
stare sognando, possono originare riflessioni sul sognare, sul significato
ed il modo del risvegliarsi, sulle regole di coerenza interne proprie dei
due mondi (quello della veglia e quello del sogno) di cui questa situazione
è confine ed intreccio. Personalmente ricordo uno di questi sogni
in cui discutevo della struttura interna del mondo onirico, mentre in sogno
ero consapevole di sognare. Discutevo il rapporto fra le due condizioni
e le situazioni di coerenza "logica" necessarie ad ognuno, sia pure possedendo
strutture diverse. Ora, l'aspetto interessante è proprio che la
metacognizione in questo caso riguarda aspetti cognitivi che si riferiscono
a stati di coscienza diversi. Questo già avviene ordinariamente
quando ad esempio al risveglio ricordo un sogno e sono consapevole di avere
sognato. La metacognizione sembra raggiungere un estremo in cui i livelli
non sono separati solo dalla dinamica soggetto-oggetto, ma dal loro appartenere
a mondi diversi. Nel sogno lucido questo è ancora più estremo,
perché la consapevolezza di stare sognando (cioè il nostro
pensare "lucido" che prende ad oggetto il nostro sognare) è all'interno
di una condizione in cui il mio pensare lucido è a sua volta il
prodotto (l'oggetto quindi) di un sogno. Sogno di stare lucidamente osservando
un sogno e, quando mi sveglio, lucidamente osservo come il sognare ha prodotto
una mia lucida consapevolezza all'interno del sogno. Direi che qui gli
aspetti metacognitivi raggiungono il loro estremo e si offrono, ancora
più netti, ad uno studio di cosa significhi essere "meta" rispetto
a se stessi.
Una ultima riflessione. Questi passaggi metacognitivi, proprio nell'attraversare
stati di coscienza diversi, si svincolano da tutto ciò cui usualmente
colleghiamo la identità personale. La storia personale di lockiana
memoria, i vincoli del corpo fisico, la stessa idea che abbiamo di noi,
scompaiono attraverso i giochi dei passaggi fra stati di coscienza e di
passaggi di livello cognitivo. Al fine rimane qualcosa, per cui sappiamo
che vi è sempre un soggetto al metalivello superiore, che sentiamo
che ha a che fare con "noi", anche se è difficile definire in cosa,
se non per un sentirlo in qualche maniera a noi implicito. Buona notte.
Vado a sognare (o a svegliarmi?)
3-1-2000, From: Davide Cavagna ("Sognare lucido", era "Fonagy
e Liotti")
On 03/01/2000 Andrea Angelozzi wrote:
>Mi riferisco al sogno lucido. A tutti è probabilmente capitato
di fare sogni in
>cui, ad un certo punto si è pienamente consapevoli del fatto
di stare sognando.
Pur avendo letto con interesse le precedenti mail sulla metacognizione,
un tema sicuramente affascinante, ho atteso ad intervenire avendo l'impressione
che fosse facile scivolare dal piano della clinica a quello della metafisica,
errore che possiamo correggere grazie a un'attenzione fenomenologica. Perciò
vorrei proporvi le mie osservazioni, a partire l'intervento di Angelozzi
sul "sognare lucido" (espressione che ritengo più corretta della
sua corrispondente sostanzializzazione) perché penso che possa rendere
più accessibili una serie di fantasie teoriche che a mio avviso
impediscono di vedere le cose stesse.
Premessa: sottolineo il fatto che il sognare lucido risulti una esperienza
più comune e meno bizzarra di quanto la sua denominazione sembri
far credere; in effetti, l'ossimoro con cui lo definiamo rivela piuttosto
una difficoltà di comprensione nostra, più che una sua qualità
incomprensibile. Detto ciò, il sognare lucido, proprio per la paradossalità
che ci comunica, permette di togliere di mezzo alcune credenze da psicologia
ingenua che interferiscono proprio con la comprensione degli stati di coscienza.
In primo luogo, il sognare lucido ci costringe a rifiutare l'assioma
che lo stato di veglia coincida con lo stato di coscienza. Il sognare lucido
ci presenta una interazione tra stati di coscienza solitamente separati,
per cui impone di ripensare alla separazione tra questi stati non come
una condizione naturale, ma semmai come una condizione funzionale a una
organizzazione di pensiero evoluta. Questo aspetto toglie di mezzo la convinzione
che lo stato di coscienza sia un processo-prodotto del tipo tutto-o-niente.
Mi sorprende pertanto leggere, tra le righe, un ingenuità del tipo:
>[nel sogno lucido] si è pienamente consapevoli del fatto di
stare sognando
in quanto una caratteristica del sognare lucido è proprio il
fatto di presentare alterata la condizione di "pienezza" dell'esperienza
mentale. In altre parole: per comprendere la fenomenologia del sogno lucido,
occorre falsificare l'assioma che la consapevolezza rappresenta una condizione
unitaria-continuata-coerente, che sottosta all'esperienza personale. E
siamo pertanto a quello che la psicologia dinamica ha da ben più
di un secolo mostrato: quello che chiamiamo mentale, psichico ecc. non
si riduce e non è esaurito dagli stati fisiologici della coscienza,
ma comprende un insieme più vasto di processi e prodotti contraddistinti
dal maneggiamento e dall'organizzazione differenziata dei contenuti intenzionali.
Possiamo cioè cominciare a differenziare stati di coscienza parziali
e quindi paradossali, al limite inaccessibili; occorrerà poi pensare
al continuum lungo il quale posizionarli, continuum che non può
essere semplicemente quello "consapevolezza-coma".
In secondo luogo, tale considerazione conduce a concludere che lo stato
di coscienza cosiddetto "di veglia" non è affatto lo stato di coscienza
più completo e compiuto. E' semmai la configurazione funzionale
più adatta all'azione adattativa, ma ciò non significa che
esso esaurisca o meglio sintetizzi le varie dimensioni processuali dell'attività
psichica. Detto in altre parole: le funzioni sintetiche dell'Io certo rappresentano
un prodotto altamente evoluto della psichicità, ma allo stesso tempo
non esauriscono l'ambito dei processi attuabili dall'apparato psichico.
Come corollario: abbiamo una serie di atti psichici (fantasticare, immaginare
percettivamente, rappresentare illusionalmente ecc.) che eccedono le funzioni
di giudizio ed esame dello stato di veglia. Tali atti psichici costituiscono
modalità di azione adattativa pregressa o alternativa, che tuttavia
l'organismo vivente mantiene tuttora a scopi economici. Ne deriva una inferenza:
quello che noi chiamiamo "consapevolezza" è meglio definibile come
il risultato interattivo di processi e funzioni psichiche differenziate,
che si stratificano, combinano, delimitano reciprocamente ecc. (metaforicamente
parlando) producendo una risultante percepita come "stato di coscienza".
Questo permette di spiegare perché ne possiamo descrivere differenti
dimensioni che rappresentano gli assi dinamici su cui si realizza ogni
singolo stato di coscienza.
>Sogno di stare lucidamente osservando un sogno e, quando mi sveglio,
>lucidamente osservo come il sognare ha prodotto una mia lucida
>consapevolezza all'interno del sogno.
La descrizione di Angelozzi del sognare lucido mostra senz'altro come
la mancata distinzione tra atti psichici e stati di coscienza rende con
difficoltà l'esperienza a noi immediata del sognare lucido (altro
che "pienezza"!). Questa descrizione ha però il vantaggio di mostrare
come "sogno", "mi sveglio", "osservo", siano (ingenuamente parlando) stati
discreti di coscienza che interagiscono con contenuti intenzionali altrettanto
diversificati, quali "un sogno", "il sognare", "l'interno del sogno". Non
c'è dunque un vincolo assoluto tra atto e contenuto, ma semmai sono
possibili deroghe rispetto alle condizioni dell'organizzazione mentale
di veglia. Potremmo divertirci a schematizzare questi processi, vedendo
quali sono le differenti operazioni "contenitore-contenuto", magari per
arrivare a definire ciascun singolo stato di coscienza come una combinazione
di "pensieri" con "pensatori", o, per dirla ancora in altri modo, di particolari
configurazioni mentali con particolari organi psichici. E arriviamo così
alla cosiddetta metacognizione:
>La metacognizione in questo caso
>riguarda aspetti cognitivi che si riferiscono a stati di coscienza
diversi.
Affermazione senz'altro corretta, tranne per il fatto che quel "meta"
finisce per trarre in inganno (vedi sotto). La cosiddetta metacognizione
non è un processo ultrasintetico dell'Io, che rimanda alla fantasia
di una "piramide idealista" che dalla semplice percezione accede a livelli
"superiori" della coscienza. La metacognizione si risolve in uno dei particolari
operatori che concorre alla costruzione di uno qualunque degli stati di
coscienza. Se usiamo l'analogia di una riunione di lavoro, la metacognizione
assomiglia piuttosto a un "segretario" che riferisce "l'ordine del giorno"
e registra a testimonianza del futuro l'andamento della presente sessione
di lavoro. Questo fa pensare forse che il segretario sia il direttore dei
lavori? Io credo di no. Ma veniamo all'elemento a mio avviso più
grave:
>rimane qualcosa, per cui
>sappiamo che vi è sempre un soggetto al metalivello superiore,
che sentiamo
>che ha a che fare con "noi", anche se è difficile definire
in cosa, se non
>per un sentirlo in qualche maniera a noi implicito.
Già, e con ciò siamo punto e daccapo: questa è
a mio avviso la fantasia di un "ente-mente" che domina la materia e che,
grazie a particolari discipline, purificazioni, astrazioni ecc. diventa
lo "spirito" di hegeliana memoria che risolve il reale, ovverosia il corpo,
in una condizione superiore di 'ragione' sempiterna. Un 'Sé' in
noi, un omuncolo interno che, per una sua speciale natura, incorruttibile
e inalienabile, può essere raggiunto e reso "vero", cioè
impersonato. Chissà perché mi viene da pensare alla dissociazione
patologica dall'esperienza corporea. Una bella fantasia, non c'è
che dire: peccato che il sognare lucido sia lì a dirci che anche
la metacognizione può essere facilmente ingannata, e possa finire
con il processare come reale-esterno proprio l'"interno del sogno". Insomma:
che il sognare lucido sia il desiderio di uno scrivano che per una volta
vuol decidere lui come debba lavorare l'assemblea? A presto
3-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Sognare lucido")
Le osservazioni di Cavagna sono molto interessanti, e concordo con
molti degli spunti che ha sollevato. Tuttavia una critica la devo formulare:
mi sembra che di fatto anteponga la teoria all'esperienza; è vero
che gran parte delle nostre esperienze derivano dalle teorie sottostanti,
ma che dire quando l'esperienza è in contrasto con la teoria? Di
fatto mi sembra dia per scontate, all'interno di quella che lui ritiene
una esauriente concezione degli stati di coscienza, elementi che di fatto
rimangono problemi.
Sono perfettamente d'accordo che bisogna distinguere fra "eventi mentali"
e "stati di coscienza" anche se di fatto nel nostro linguaggio ordinario
(e nel pensare quindi ordinario) confondiamo i due aspetti (ad esempio
noi identifichiamo veglia con consapevolezza, cosa che per un orientale
è una bestemmia). Lo stesso Cavagna nel sostenere le sue tesi, opera,
contro la sua volontà, la medesima confusione:
> Il sognare lucido ci presenta una interazione
> tra stati di coscienza solitamente separati
E questa confusione ritorna proprio nel negare, sulla base dello stato
di coscienza, la possibilità di una "pienezza" di un evento mentale.
Peraltro non so cosa farci se questa "ingenuità" (per fortuna che
c'è chi può spiegarci come sono le cose...) non lo convince,
quella è la mia esperienza ( e non solo mia, basta vedere la letteratura
in materia), e le asserzioni teoriche relative ad
>un insieme più vasto di processi e prodotti contraddistinti
dal maneggiamento
>e dall'organizzazione differenziata dei contenuti intenzionali.
non mi sembrano che aggiungano né tolgano nulla a questa "pienezza"
né a ciò che effettivamente si sa. Di fatto anche la lucida
teorizzazione:
>Ne deriva una inferenza: quello che noi chiamiamo "consapevolezza"
è
>meglio definibile come il risultato interattivo di processi e funzioni
psichiche
>differenziate, che si stratificano, combinano, delimitano reciprocamente
>ecc. (metaforicamente parlando) producendo una risultante percepita
come
>"stato di coscienza". Questo permette di spiegare perché ne
possiamo
>descrivere differenti dimensioni che rappresentano gli assi dinamici
su cui
>si realizza ogni singolo stato di coscienza.
che cosa aggiunge al nostro sapere?
>La descrizione di Angelozzi del sognare lucido mostra senz'altro come
la
>mancata distinzione tra atti psichici e stati di coscienza rende con
>difficoltà l'esperienza a noi immediata del sognare lucido
(altro che
>"pienezza"!). Questa descrizione ha però il vantaggio di mostrare
come
>"sogno", "mi sveglio", "osservo"... siano (ingenuamente parlando) stati
>discreti di coscienza che interagiscono con contenuti intenzionali
>altrettanto diversificati, quali "un sogno", "il sognare", "l'interno
del sogno".
Cavagna, affascinato giustamente dalla questione del sogno lucido (di
cui giustamente sottolinea la frequenza, ma tralascia la scarsa letteratura
in materia e il fatto che semplicemente non se ne parli...) dimentica che
la questione era la metacognizione. Proprio le distanze che il linguaggio
usuale (ampiamente criticabile, sono il primo a dirlo!) crea fra gli stati
di coscienza, credendoli erroneamente degli interi distinti, offre il pretesto
per rimarcare ulteriormente la questione del pensiero che riflette su un
evento mentale. Qui la distanza fra questi due eventi sembra (ripeto "sembra")
ancora maggiore. Fra l'altro, per chi interessi, ci sono splendide descrizioni
formali di queste situazioni in Gilles Fouconnier (Mental Spaces, Boston:
MIT Press), dove ci si addentra nelle costruzioni con cui il linguaggio
(e quindi il pensiero) entra in questi eventi, ed in cui viene sottolineato
come, al di là della "ontologia" o meno degli stati di coscienza,
il nostro parlare relativamente ad essi e agli eventi mentali che in essi
avvengono, crea complesse forme relazionali, che devono essere comprese,
senza essere date per scontate.
>La cosiddetta metacognizione non
>è un processo ultrasintetico dell'Io, che rimanda alla fantasia
di una
>"piramide idealista" che dalla semplice percezione accede a livelli
>"superiori" della coscienza.
>La metacognizione si risolve in uno dei particolari operatori che
concorre
>alla costruzione di uno qualunque degli stati di coscienza. Se usiamo
>l'analogia di una riunione di lavoro, la metacognizione assomiglia
piuttosto
>a un "segretario" che riferisce "l'ordine del giorno" e registra a
>testimonianza del futuro l'andamento della presente sessione di lavoro.
>Questo fa pensare forse che il segretario sia il direttore dei lavori?
Io credo di no.
Credo che quanto detto sia indubbiamente interessante, ma non mi sembra
aiuti a risolvere la questione: che rapporto c'è fra il segretario
e gli altri componenti? E' una pura funzione di registrazione per cui la
metacognizione è una forma di memoria? A me non sembra... Cosa significa
dire "uno dei particolari operatori"? Quale è? Con che caratteristiche?
Non è questo che dobbiamo capire?
>Ma veniamo all'elemento a mio avviso più grave:
Addirittura !!!
>Già, e con ciò siamo punto e daccapo: questa è
a mio avviso la fantasia di
>un "ente-mente" che domina la materia e che, grazie a particolari
>discipline, purificazioni, astrazioni ecc. diventa lo "spirito" di
hegeliana
>memoria che risolve il reale ,ovverosia il corpo, in una condizione
>superiore di 'ragione' sempiterna. Un 'Sé' in noi, un omuncolo
interno che,
>per una sua speciale natura, incorruttibile e inalienabile, può
essere
>raggiunto e reso "vero", cioè impersonato.
>Chissà perché mi viene da pensare alla dissociazione
patologica
>dall'esperienza corporea
So perfettamente, nonostante la mia ingenuità, che esistono
mille obiezioni teoriche da prendere in considerazione seriamente e duemila
teorie metafisiche da ritenersi superate e da guardare con sospetto. Però,
di fatto, come sta questa faccenda? Questa è la mia esperienza e
vorrei obiezioni un po' più forti ed argomentate che non la accusa
di spiritualismo (per me che ho simpatia per il misticismo è una
accusa troppo debole...) ed un generico "non può essere così".
Una osservazione a latere: perché viene giustamente ribadito
il continuum fra stati di coscienza e non viene ribadito quello delle transizioni
dal normale al patologico? Nella dissociazione "patologica" non c'è
nulla che possa intrecciarsi in maniera interessante con la dissociazione
"usuale" dei vari stati di coscienza e degli eventi mentali al loro interno?
>Una bella fantasia, non c'è che dire: peccato che il sognare
lucido sia lì a
>dirci che anche la metacognizione può essere facilmente ingannata,
e possa
>finire con il processare come reale-esterno proprio l'"interno del
sogno".
A questo punto però non so se stiamo parlando della stessa cosa.
La metacognizione del sognare lucido non è ingannata, anzi è
appunto perfettamente consapevole del fatto che l'interno del sogno non
è "reale esterno". Il problema è che questa è proprio
in questo non essere ingannata che è l'essenza del sognare lucido!!
Di cosa abbiamo parlato?
3-1-2000, From: Davide Cavagna ("Sognare lucido")
On 03/01/2000 Andrea Angelozzi wrote:
>Di fatto mi sembra dia per scontate, all'interno
>di quella che lui ritiene una esauriente concezione degli stati di
>coscienza, elementi che di fatto rimangono problemi.
E io che pensavo di non avere affatto una teoria compiuta degli stati
di coscienza, per cui racimolavo brandelli di modelli differenti, nel tentativo
di capirci qualcosa! Si vede che non so proprio andare a naso!
>Questa confusione ritorna proprio nel negare, sulla base dello stato
di
>coscienza, la possibilità di una "pienezza" di un evento mentale.
Ben mi sta, così imparo a esprimermi meglio! Credo che vada
tolto un equivoco: ogni stato mentale (veglia, sogno ecc.) ha una sua perspicuità
e autopresenza (che è la sua impronta fenomenologica). Con "pienezza"
mi riferisco invece alla presunzione che uno stato, meglio di altri, possa
"totalizzare" il pensiero. Personalmente ritengo che crei meno problemi
intendere ogni stato di coscienza sempre e comunque come il prodotto di
una organizzazione complessa e sovradeterminata di fattori-operatori (?)
mentali. Dunque, non ritengo che esista uno "stato primigenio della coscienza",
ma che la coscienza sia un processo-prodotto complesso, che può
assumere varie fogge e forme. La cosa che mi sembra interessante è
che in tal modo possiamo cominciare a chiederci: quanti e quali sono gli
"elementi" mentali che operano a produrre i nostri stati di coscienza?
E poi, se proprio vogliamo: esistono processi-prodotti mentali che non
acquisiscono MAI la qualità della coscienza? (ad esempio, il famoso
"senso di colpa inconscio", ma anche complesse operazioni cognitive silenti,
e non ultimo lo stesso insight).
>Di fatto anche la lucida teorizzazione: :
>>Ne deriva una inferenza: quello che noi chiamiamo "consapevolezza"
è
>>meglio definibile come il risultato interattivo di processi e funzioni
psichiche
>>differenziate, che si stratificano, combinano, delimitano reciprocamente
>>ecc. (metaforicamente parlando) producendo una risultante percepita
>>come "stato di coscienza". Questo permette di spiegare perché
ne
>>possiamo descrivere differenti dimensioni che rappresentano gli assi
>>dinamici su cui si realizza ogni singolo stato di coscienza.
>che cosa aggiunge al nostro sapere?
Mi stupisce molto questa domanda. Che qualcosa si possa "aggiungere"
a un sapere mi trova semmai molto perplesso. Pensavo che il sapere fosse
uno spazio di lavoro e di ricerca, magari anche ludica. Se però
il sapere è un sapere ingenuo che riguarda "spiriti nella testa",
allora comprendo perché esso teme di essere esorcizzato.
>Credo che quanto detto sia indubbiamente interessante, ma non mi sembra
>aiuti a risolvere la questione: che rapporto c'è fra il segretario
e gli altri componenti?
L'analogia con il segretario non è certo la più azzeccata,
ma almeno ci permette di pensare a un lavoro gruppale che produce uno stato
mentale (o una trasformazione del lavoro stesso). In più, mi volevo
anche riferire all'elemento del "segreto", che mi sembra possa centrare
in qualche modo. Troviamo una migliore analogia e forse ne capiremo di
più.
Quanto alla metacognizione, raccolgo l'obiezione di "essere andato
fuori tema". In effetti ho volutamente cambiato subject. La mia preoccupazione,
infatti, è che, sotto l'egida della metacognizione, passi una teoria
idealistica, per cui la mente si sviluppa verticisticamente (e vertiginosamente)
fino a uno stato imperturbabile e inattingibile, cosa che trovo paragonabile
solo al ritiro dissociativo. Per questo insisto sul fatto che la metacognizione
non è una funzione "superiore", che chissà come mai compare
anche nei sogni, ma è essenzialmente una funzione superficiale della
mente che presuppone un ingente lavoro "in sordina". Importante quanto
ad adattamento, ma fortemente dipendente dal più ampio lavoro mentale.
>Una osservazione a latere: perché viene giustamente ribadito
il continuum
>fra stati di coscienza e non viene ribadito quello delle transizioni
dal
>normale al patologico? Nella dissociazione "patologica" non c'è
nulla che
>possa intrecciarsi in maniera interessante con la dissociazione "usuale"
>dei vari stati di coscienza e degli eventi mentali al loro interno?
Per quanto riguarda il continuum, accennavo al fatto che andrebbe inteso
diversamente rispetto alla dimensione "consapevolezza-coma". Forse va da
un polo "fluido" a un polo "solido", non so. Credo che dobbiamo trovare
un'altra dimensione lungo cui posizionare i nostri "discreti" stati di
coscienza. Quanto al "patologico" penso che un criterio utilizzabile possa
essere: "ciò che costituisce un impedimento a ogni ulteriore lavoro
mentale". E' una proposta, ovviamente.
>A questo punto però non so se stiamo parlando della stessa cosa.
La
>metacognizione del sognare lucido non è ingannata, anzi è
appunto
>perfettamente consapevole del fatto che l'interno del sogno non è
"reale
>esterno". Il problema è che questa è proprio in questo
non essere ingannata
>che è l'essenza del sognare lucido!!
Mi sa che invece parliamo proprio della stessa cosa; sognando lucidamente
la coscienza si autopresentifica: "eccomi qua che sto sognando, incredibile
ma vero" (potremmo parlare di un sovrainvestimento di una funzione dell'Io?).
La cosa che conta, a mio avviso, è però l'emozione che accompagna
questo stato: la sorpresa di essere disposti a un'esperienza mentale che
si accompagna alla minore paura della libertà del sogno, paura del
pensiero illusionale, paura del nuovo ("sogno o son desto?") ecc. Inoltre,
il sognare lucido si distingue dal sognare "ordinario", perché comporta
una attitudine all'autoconvincimento ("sogno quindi sono") e alla comunicabilità
rispetto a un ambito di realtà separato (il ritiro narcisistico
che produce lo stato di sonno, come si diceva una volta). Comprensibile
dunque che molte culture abbiano inteso i sogni, in particolare quelli
lucidi, come "comunicazione con un'altra realtà". Sennonché
e qui mi duole, ma mi tocca fare il becero materialista quest'altra
realtà cosa "altro" può mai essere, se non una porzione del
continuum percettivo-cognitivo con cui siamo quotidianamente all'opera?
Alla prossima
5-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Sognare lucido")
Ringrazio Cavagna della sua mail e della occasione per riflettere su
queste questioni. In effetti non ci siamo capiti sulla questione della
"pienezza", che non voleva essere nel senso di totalizzante, ma nel senso
di "intenso", "carico", "vivo", con le caratteristiche cioè (ed
anche questo è un atto metacognitivo) che può avere qualcosa
che al contempo sia vivamente vissuto e di cui si abbia intensa consapevolezza.
Anzi, sembra quasi che la particolarità della situazione, per contrasto
con quella usuale del sogno, renda ancora più acuta questa consapevolezza.
Viene in mente Pessoa: " Si, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all'improvviso
si trovi in una città estranea, senza sapere come vi è arrivato;
e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri
per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo, (dalla nascita e
dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume,
sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora.
Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia
senza rimedio. Aspetto dunque, affacciato al ponte, che passi la verità
e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale".
Cavagna parla, a mio parere giustamente, dell'aspetto complesso della
coscienza ordinaria, dove di fatto avvengono eventi mentali spesso in contrasto
fra di loro (si pensi alla questione dell'autoinganno, studiata attualmente
dai logici, dove il soggetto di fatto ha due credenze opposte e contemporanee)
e anche stati di coscienza diversi sono "ospitati" all'interno della stessa
situazione. Senza finire nella ipnosi ericksoniana, che sottolinea il costante
slittamento reciproco degli stati di coscienza ipnotico e di quello ordinario
(cosa rimanga poi di "ordinario" al di là di questa denominazione
usualmente accettata, non si capisce) in situazioni quotidiane, senza specifiche
induzioni, basti pensare al ruolo del fantasticare e del ricordare nella
nostra esistenza. Esistono dei fantasticare, del ricordare, in cui io sono
in quella situazione "della mente" ed oscillo fra i due stati, li mescolo,
posso separarli ma dare quasi vita autonoma a loro e ai loro protagonisti
(me compreso). Ancora una volta lo slittamento fra piani della coscienza
rende più rimarchevole l'evento mentale della metacognizione. Andrea
ora (che è fatto in una certa maniera) ricorda Andrea2 (se stesso)
di dieci anni or sono, i suoi (sottolineo suoi, non miei - questo termine
appartiene più al sapere che al sentire) pensieri, le emozioni.
Posso riconoscermi, ma anche no, o solo in parte. Anche questa è
una forma di metacognizione, solo che è filtrata attraverso il tempo
(ma può essere la fantasia), rifletto sui pensieri di me-allora.
Gilles Fauconnier ha fatto interessanti descrizioni formali di queste che
la logica chiama le "controparti", che acquisiscono senso (identità
forse...) all'interno degli spazi mentali cui appartengono. Si può
arrivare a situazioni di metacognizione molto particolari: se sono un personaggio
molto famoso, mi può capitare di andare al cinema e vedere me stesso
come attore impersonato da me. Pensate se Maradona va a vedere il film
che ha recentemente interpretato dove interpreta sé stesso. C'è
un libro molto bello di Dick (quello di Blade Runner) che si chiama "Un oscuro scrutare", dove il protagonista, agente della narcotici in anonimato,
riceve l'incarico di sorvegliare sé stesso in quanto sospettato
di essere un grosso spacciatore (si era infiltrato fra i tossici) di sostanza
M (che ha come effetto di fare perdere l'identità). Il bello di
queste questioni è che ciascuno può fare tutti gli studi
possibili sul proprio pensare, servendosi in pratica solo del pensiero...
Per tutta una serie di riferimenti, non sono pertanto convinto del
cambiamento nel Subject che ha fatto Cavagna. Credo che anche questa sia
una modalità di parlare della metacognizione (e quindi di Fonagy)
proprio partendo dalla osservazione di Carere che possiamo tentare noi
di entrare meglio in un concetto che Fonagy di fatto non chiarisce.
Di fatto però non so convincermi del tutto che queste varie
metacognizioni, questi riflettere su di sé ed il proprio stesso
pensare, che possono avvenire in questi slittamenti fra situazioni diverse
(io che osservo me nel ricordo, me nella fantasia, me di quando sognavo),
siano la stessa cosa della consapevolezza che in questo momento ho del
mio pensare o della situazione che si viene a creare nel sognare lucido.
Ad esempio mentre nel primo caso sento molto la validità del
concetto di controparti e credo che potrebbero esserci anche le possibilità
di una apertura alle pluralità dell'Io, questo aspetto mi sembra
meno forte nel secondo. Sembra quasi (ma so che rischio di peccare di spiritualismo - e dallo
spiritualismo allo spiritismo il passo è brevissimo...) che mentre
il primo riguardi una metacognizione per così dire orizzontale,
il secondo rimandi a piani sovrapposti.
Adesso però vado. Come nota Pessoa (e qui il cerchio si chiude
e così la mail) "E' stato solo un attimo e mi sono visto. Poi non
so più dire ciò che son stato. E, alla fine, ho sonno, perché,
non so perché, penso che il senso è dormire".
6-1-2000, From: Davide Cavagna ("Sognare lucido")
On 05/01/2000 Andrea Angelozzi wrote:
>sembra quasi che la
>particolarità della situazione, per contrasto con quella usuale
del sogno,
>renda ancora più acuta questa consapevolezza.
>(cosa rimanga poi di "ordinario" al di là di questa
>denominazione usualmente accettata, non si capisce)
Giustamente rilevi l'aspetto perturbante che il sognare lucido solleva
rispetto al sonno/veglia usuale e ordinario. Ciò nonostante, credo
che si possa parlare di ordinarietà nel senso di fitness. La particolarità
è a mio avviso relativa a un tentativo di funzionamento innovativo
e creativo (ma anche catastrofico e delirante) che si può a volte
esprimere nel sognare lucido. A mio avviso, il sognare lucido presenta
la caratteristica di falsificare il pregiudizio che i sogni siano fatti
privati, o, al limite, possano essere raccontati già deformati ad
esempio a un'analista. Mi è capitata sott'occhio una citazione di
Bion:
>>Quando il paziente dice di aver fatto un sogno è sveglio è
"conscio".
>>Allora, sia il paziente che lei [analista] siete nello stesso stato
>>mentale, che non è lo stesso stato mentale in cui ci si trova
quando si
>>dorme. Il paziente sta invitando lei e se stesso ad assumere un
>>atteggiamento pregiudiziale in favore dello stato mentale in cui
ci troviamo
>>quando siamo svegli. (Bion, Seminari clinici)
>Ancora una volta lo slittamento fra piani della coscienza rende
>più rimarchevole l'evento mentale della metacognizione.
>Si può arrivare a situazioni di metacognizione molto particolari:
se sono
>un personaggio molto famoso, mi può capitare di andare al cinema
e vedere
>me stesso come attore impersonato da me.
Rimango critico rispetto all'idea della metacognizione come funzione
separata e "superiore" della mente perché mi richiama un problema
mentalistico già affrontato dalla psichiatra dinamica ottocentesca:
se le "altre parti" della mente siano o meno dotate di una loro coscienza,
quindi siano come dei personaggi di un teatro psichico. Se la risposta
è positiva, è evidente che occorre poi una meta-cognizione
che funga da regista o da produttore dello spettacolo (oppure da soggeritore
nel boccascena): tradotto in linguaggio corrente, è l'ipotesi di
un Sé "forte" come unità d'azione aristotelica della scena
psichica. Da qui l'effetto pirandelliano della mente, o il gioco identitario
di Philip Dick (che, aggiungo, ben si intendeva di stati mentali "replicanti"
o pseudo-umani), o anche, se ti è capitato di vederlo, l'effetto
vertiginoso di "Essere John Malkovich".
Personalmente, credo che intendere le parti di sé come omologhe
alla persona nel suo complesso crei un rimando a un cattivo infinito di
"omuncoli nella testa". Preferisco invece considerare la coscienza come
il risultato complessivo "di superficie" di processi multipli e sovrapposti,
che si "riducono" in uno stato mentale. Questo mi spiega perché,
nella psicologia ingenua, coscienza e consapevolezza sono sinonimi. La
"persona complessiva" (ma anche complessa) che ognuno di noi è ha
sicuramente quelle caratteristiche identitarie di continuità, spontaneità,
azione e coerenza, ma è, fortunatamente, dinamicamente incompiuta
e trasformativa. Sono portato a credere che la meta-cognizione, se viene
considerata come una funzione "superiore" sia quindi una sorta di deus
ex machina, uno di quei personaggi strumentali inventati ad hoc per risolvere
le difficoltà nell'intreccio narrativo.
>Di fatto però non so convincermi del tutto che queste varie
metacognizioni,
>questi riflettere su di sé ed il proprio stesso pensare, che
possono
>avvenire in questi slittamenti fra situazioni diverse (io che osservo
me
>nel ricordo, me nella fantasia, me di quando sognavo), siano la stessa
cosa
>della consapevolezza che in questo momento ho del mio pensare o della
>situazione che si viene a creare nel sognare lucido.
Detto in senso più psicodinamico, la metacognizione potrebbe
avere la funzione di mettere in comunicazione parti di sé che non
sono altrimenti comunicanti - come ad esempio gli stati mentali della veglia
e del sogno. Come è possibile che ciò accada? Forse la metacognizione
origina da una anticipazione cognitiva rispetto ai processi di integrazione
del pensiero; direi quindi che la metacognizione rappresenta l'"effetto"
emotivo dovuto alla percezione di una possibile evoluzione mentale, anziché
essere uno stato mentale autonomo risultante dall'evoluzione stessa. In
tal senso mi sembrerebbe possa assumere anche aspetti antievolutivi rispetto
all'insight. Ritengo che nel sognare lucido abbiamo una "ipotesi di consapevolezza"
rispetto a due stati mentali ordinariamente dissociati, che può
essere avvicinata all'effetto metacognitivo che sperimentiamo nella vita
diurna quando ci accorgiamo dei nostri processi mentali. Ma mi accorgo
di fare un po' troppe congetture, perciò concludo qui. A presto
6-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")
Facciamo il punto. La preoccupazione di Cavagna è che
>sotto l'egida della metacognizione, passi una teoria
>idealistica, per cui la mente si sviluppa verticisticamente (e
>vertiginosamente) fino a uno stato imperturbabile e inattingibile,
cosa che
>trovo paragonabile solo al ritiro dissociativo. Per questo insisto
sul fatto
>che la metacognizione non è una funzione "superiore", che chissà
come mai
>compare anche nei sogni, ma è essenzialmente una funzione superficiale
della
>mente che presuppone un ingente lavoro "in sordina". Importante quanto
ad
>adattamento, ma fortemente dipendente dal più ampio lavoro
mentale.
Il sospetto nei confronti della metacognizione si affianca, mi pare,
a quello verso tutto ciò che è "meta" (metafisica, metateoria).
Il sospetto è sacrosanto, vista tutta la paccottiglia che si autonobilita
con quel prefisso. Ma attenzione a non buttare via il bambino con l'acqua
del bagnetto. Cavagna suggerisce, mi sembra, che del prefisso meta si può
tranquillamente fare a meno, dal momento che i fenomeni cui la metacognizione
si riferisce non sono altro che una "porzione del continuum percettivo-cognitivo
con cui siamo quotidianamente all'opera".
D'accordo: se in questo continuum non c'è alcun salto - se non
siamo in grado di indicare un punto preciso di discontinuità - il
prefisso meta è inutile. Ma io affermo che questo punto esiste,
e la sua esistenza è dimostrata dal fatto che se non esistesse,
la (vera) psicoterapia perderebbe il suo ubi consistam e sarebbe impraticabile.
Tocca a me, psichiatra, ricordare a Cavagna, filosofo, che l'esistenza
di questo punto è stata messa in luce per la prima volta in Occidente
da Socrate. Tutti gli
esseri animati (dotati di anima o psiche) sanno (hanno cognizione),
solo il (vero) filosofo sa di non sapere (ha metacognizione). L'essere
psicologico (uomo ordinario o mucca) si muove nel continuum percettivo-cognitivo
per schemi o pattern, innati o acquisiti. Solo l'essere spirituale è
capace di sospendere deliberatamente schemi o pattern e di soggiornare,
anche se temporaneamente e parzialmente, in un vuoto di sapere.
Anche il terapeuta (o analista) ordinario non si allontana mai dai
modelli appresi sui banchi o i divani della sua scuola, rimanendo, come
la mucca, sul piano puramente cognitivo che contiene tutti i suoi punti
teorici di riferimento. Solo il vero terapeuta, capace di metacognizione,
può aiutare il suo paziente a liberarsi dagli schemi in cui è
rimasto intrappolato (fantasie inconsce o malapprendimenti), grazie al
fatto che, e nella misura in cui, lui stesso per primo ha imparato a liberarsi
dai propri.
Da questo punto di rottura, il pensiero metacognitivo può muoversi,
come fa notare Angelozzi, in due direzioni, o oscillare tra due poli. Nella
prima, "orizzontale" o object-oriented, la riflessione sospende le cognizioni
date solo per tornare all'oggetto e conoscerlo meglio, in modo più
completo, realistico o adattivo. Della seconda, "verticale" o being-oriented,
è difficile parlare, perché l'epoché qui è
più radicale: non è sospesa solo l'adesione a determinati
schemi cognitivi, ma (tendenzialmente) la stessa distinzione tra soggetto
e oggetto. Bene ha fatto Angelozzi a richiamare, a questo proposito, le
ricerche sui sogni lucidi. Ricordo una "Conversation Between Stephen
LaBerge and Paul Tholey in July of 1989", reperibile in rete. LaBerge
e Tholey sono due delle massime autorità nel campo del lucid dreaming,
per niente inclini allo spiritualismo e fieri avversari di spiritismo,
viaggi astrali e simili. Riporto qui sotto un estratto di quella conversazione:
>Tholey: Sometimes it happens that you actually lose
the ego-core
>completely. There is no point of view anymore from which
to look or think.
>There is only seeing left; thinking without any difference
between the
>object and the subject-no difference whatsoever between
the object and the subject.
>LaBerge: This sounds like a dream that I described in
my book, a dream in
>which I decided that I wanted to experience the highest
potential in me. I
>flew up into the clouds, without any other intention
than that. My
>dream-body disappeared and yet I still existed, in a
sense. I could sing,
>for example, although I had no mouth. Yet I had the
sense of a unity with
>the space. There wasn't an I there, yet there was still
some-thing I would call a perspective.
>Tholey: In the state I am talking about, the perspective
is gone. There is
>the state with one perspective and there is the state
with two
>perspectives. This is hard to imagine in the waking
state. There also is
>the state of seeing without a subject, without the ego-core
and without
>seeing. There isn't anybody who sings anymore, but something
like a singing entity.
>LaBerge: Yes, that was exactly the experience!
Può essere uno spunto per un approfondimento di questa difficile,
ma essenziale dimensione del pensiero metacognitivo.
6-1-2000, From: Davide Cavagna ("Metacognizione")
On 06/01/2000 Tullio Carere wrote:
>Solo l'essere spirituale è capace di
>sospendere deliberatamente schemi o pattern e di soggiornare, anche
se
>temporaneamente e parzialmente, in un vuoto di sapere.
Quest'affermazione conferma purtroppo la mia preoccupazione sul valore
dogmatico assegnato all'argomento 'metacognizione'. Mi dispiace che Carere
usi l'espressione "essere spirituale", di cui non ho alcuna esperienza
per poterne discutere consensualmente. Potrei piuttosto ammettere che "spirituale"
sta per "essere in uno stato mentale di disattenzione corporea". Personalmente,
cerco faticosamente di essere "dotato di spirito" e non "abitato da uno
spirito". Mi chiedo, in seconda battuta, se ci si può collocare
"deliberatamente" sempre e comunque in un vuoto di sapere, o se invece
si tratti di un'attivazione fisiologica di fronte a determinato problemi
cognitivi, quale l'affioramento alla coscienza di processi mentali appartenenti
a configurazioni evolutive differenti. Al posto di metacognizione, preferirei
parlare allora di processi di pensiero duttili e plastici (commutabilità
degli schemi?); penso a quello che Green chiama "processo terziario" per
indicare modalità di pensiero capaci di combinare processi primari
e secondari.
>Solo il vero terapeuta, capace di metacognizione, può aiutare
>il suo paziente a liberarsi dagli schemi in cui è rimasto intrappolato
>(fantasie inconsce o malapprendimenti), grazie al fatto che, e nella
misura
>in cui, lui stesso per primo ha imparato a liberarsi dai propri.
Pessima argomentazione: che il "vero" terapeuta ne sappia sempre un
po' di più e un po' meglio del paziente, mi ricorda l'indottrinamento,
non la terapia. Preferisco un falso terapeuta poco maieutico che non "ha
in mente" i propri pensieri-'bambini belli e furbi' da far germogliare
nella testa-'utero
malato' di qualcun altro. E che dire della fantasia pseudopedagogica
di un lavoro "correzionale" per le fantasie-'bambini disobbedienti e poco
studiosi' (leggasi: fantasie inconsce e malapprendimenti)? Saluti
6-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")
On 6-01-2000 Davide Cavagna wrote:
>On 06/01/2000 Tullio Carere wrote:
>>Solo l'essere spirituale è capace di
>>sospendere deliberatamente schemi o pattern e di soggiornare,
anche se
>>temporaneamente e parzialmente, in un vuoto di sapere.
>Quest'affermazione conferma purtroppo la mia preoccupazione sul valore
>dogmatico assegnato all'argomento 'metacognizione'.
Dov'è il dogma? Osservo semplicemente che esistono due livelli
di funzionamento mentale, descritti sin dall'antichità come "credere
di sapere" e "sapere di non sapere", e chiamo "psicologico" il primo (perché
è proprio di tutti gli esseri animati, cioè dotati di anima
o psiche), e "spirituale" il secondo (perché la capacità
di sospendere la validità dei propri schemi cognitivi sta alla base
di ogni attività mentale superiore). Alla coppia psicologico/spirituale
si può sostituire la coppia cognitivo/metacognitivo, o altre. Non
mi formalizzo sui termini, basta intendersi sulla sostanza.
>Mi dispiace che Carere usi l'espressione "essere spirituale", di cui
non ho
>alcuna esperienza per poterne discutere consensualmente. Potrei piuttosto
>ammettere che "spirituale" sta per "essere in uno stato mentale di
>disattenzione corporea".
Al contrario, la sospensione degli automatismi cognitivi è il
presupposto per un'attenzione più profonda e più precisa
agli stati corporei, come è pratica corrente in molte tradizioni
orientali. Cavagna può non saperne nulla, ma dovrebbe conoscere
almeno Nietzsche, nei cui scritti potrebbe trovare una definizione di spiritualità
un po' aggiornata rispetto al materialismo ottocentesco:
"Il genio del cuore che fa ammutolire ogni voce troppo
sonora e ogni compiacimento di sé e insegna a porsi in ascolto,
che leviga le anime scabre e infonde loro un nuovo desiderio da assaporare
- quello di starsene taciturni come uno specchio affinché in esse
si rispecchi il profondo cielo. Il genio del cuore che insegna alla mano
maldestra e precipitosa l'indugio e una maggiore delicatezza nell'afferrare:
che sa divinare il tesoro occulto e obliato, la goccia di bontà
e di dolce spiritualità sotto un ghiaccio torbido e spesso, ed è
una bacchetta magica per ogni granello d'oro, che a lungo sia restato sepolto
nel carcere di molto fango e sabbia..." (F. Nietzsche, Al di là
del bene e del male).
>Mi chiedo, in seconda battuta, se ci si può collocare "deliberatamente"
>sempre e comunque in un vuoto di sapere, o se invece si tratti di
>un'attivazione fisiologica di fronte a determinato problemi cognitivi,
quale
>l'affioramento alla coscienza di processi mentali appartenenti a
>configurazioni evolutive differenti.
Nella misura in cui siamo capaci di collocarci deliberatamente in un
vuoto di sapere, siamo liberi dal credere di sapere. Ma, come ha fatto
notare Bion, è difficile, perché la presa di distanza dall'esperienza
abituale è avvertita, "fintanto che F (fede in O) non sia stato
istituito, come un attacco estremamente grave all'Io". Il fatto che occorra
un atto deliberato di affidamento a un vuoto di sapere (niente a che fare
con "un'attivazione fisiologica") non può che dare fastidio a quegli
psicoanalisti che vorrebbero bonificare l'inconscio a suon di interpretazioni,
come se fosse lo Zuider See.
>>Solo il vero terapeuta, capace di metacognizione, può aiutare
>>il suo paziente a liberarsi dagli schemi in cui è rimasto
intrappolato
>>(fantasie inconsce o malapprendimenti), grazie al fatto che, e nella
misura
>>in cui, lui stesso per primo ha imparato a liberarsi dai propri.
>Pessima argomentazione: che il "vero" terapeuta ne sappia sempre un
po' di
>più e un po' meglio del paziente, mi ricorda l'indottrinamento,
non la terapia.
>Preferisco un falso terapeuta poco maieutico che non "ha in mente"
i propri
>pensieri-'bambini belli e furbi' da far germogliare nella testa-'utero
>malato' di qualcun altro.
L'argomentazione sembra pessima a Cavagna perché non la capisce.
Il vero terapeuta non è quello che sa "di più e meglio",
ma quello che sa di non sapere (nulla di certo), e quindi apre uno spazio
di ascolto e di indagine in cui l'inaudito potrà essere ascoltato.
Esattamente il contrario dell'indottrinamento somministrato inevitabilmente
da chi essendo identificato con le proprie teorie non può sospenderle,
perché se lo fa gli manca il terreno sotto i piedi e non sa più
chi è. Il vero terapeuta non ha nella propria mente 'bambini belli
e furbi' da trapiantare nella testa altrui. Esattamente al contrario, è
quello che sa quanto meno tenerli a bada, in modo che non invadano lo spazio
in cui nuove idee e nuove forme potranno essere generate. L'argomentazione
è rifiutata semplicemente perché è intesa al contrario.
6-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Metacognizione")
La faccenda si ingarbuglia e non poco...
Sogno lucido
Scrive Cavagna:
>A mio avviso, il sognare lucido presenta la caratteristica di falsificare
il
>pregiudizio che i sogni siano fatti privati, o, al limite, possano
essere
>raccontati già deformati ad esempio a un'analista.
Non sarei così certo della cosa. E' vero che esistono situazioni,
quali quelle create da LaBerge (citato da Carere) che mentre viveva il
sogno lucido contemporaneamente stabiliva una comunicazione con i presenti
nel laboratorio del sonno attraverso movimenti palpebrali, creando un ponte
fra le "tre" situazioni; ...tuttavia cosa abbiamo? Il racconto in genere
mediato, più raramente (come in LaBerge) un po' più diretto,
del proprio essere stato consapevole nel sogno. E' uno degli aspetti del
sogno che si aggiunge al sogno, non una cosa diversa. Per lo meno questa
è la mia impressione. Cavagna cita Bion da cui traggo, fra le altre,
la nota considerazione che gli stati di coscienza sono per così
dire "contagiosi". E' una cosa ben nota alla ipnosi di Erickson, la cui
tecnica di induzione più elementare (e complessa) era quella di
andare lui in ipnosi. Perché questo contagio?. Forse vi è
un qualcosa di specifico nella struttura degli stati di coscienza (come
sostiene Tart) per cui proporre elementi di quella struttura è inizializzarla
nell'ascoltatore? Quanto è imparentata la struttura del linguaggio
con quella particolarità?
La questione dei piani
Max Stirner, fondatore dell'anarchismo scriveva: "I nostri atei sono
gente pia", sottolineando il valore di credo, l'aspetto fideistico dell'ateismo
proclamato. Sinceramente, credo che il materialismo sia una metafisica
come tante altre, forse meno argomentata di tante altre. Il materialismo
è infarcito di asserzioni "meta" di cui sembra non accorgersi...
Il problema non è la presenza o l'assenza dei livelli, ma la forza
delle argomentazioni. In fondo anche i materialisti di più stretta
osservanza ragionano, argomentano, valutano, usando lo strumento di un
qualcosa che chiamiamo "razionalità", la cui riduzione materialistica
non ci dice nulla sul perché funzioni e venga di fatto condivisa.
Il problema, al di là dei sospetti, è solo la possibilità
di definire effettivamente se esiste una differenza fra piani orizzontali
della metacognizione e piani verticali, e vedere, in questo caso, di cosa
sia fatta la verticalità. Non so se si arriva agli omuncoli... (in
fondo i vedantini pensano che la consapevolezza sia al di fuori dei singoli),
più che altro non so dove si arriva, ma perché impedirsi
di percorrere la strada con la asserzione metafisica che non esiste?
Una notazione a latere: A mio parere Dick paradossalmente non si occupa
di "replicanti" se non per contrasto, ed il suo problema è piuttosto
definire cosa sia umano e di cosa sia fatta l'identità dell'essere
umano; alcune sue intuizioni sulla natura della empatia credo siano straordinarie.
- >Personalmente, credo che intendere le parti di sé come omologhe
alla
>persona nel suo complesso crei un rimando a un cattivo infinito di
"omuncoli
>nella testa". Preferisco invece considerare la coscienza come il risultato
>complessivo "di superficie" di processi multipli e sovrapposti, che
si
>"riducono" in uno stato mentale.
- Ah le teorie emergentiste!! Tu senti che dicono veramente qualcosa?
Metacognizione
>Sono portato a credere che la meta-cognizione, se viene considerata
come
>una funzione "superiore" sia quindi una sorta di deus ex machina,
uno di quei
>personaggi strumentali inventati ad hoc per risolvere le difficoltà
>nell'intreccio narrativo.
Questo è un problema non da poco. Mi viene da domandare: chi
è che racconta? Il problema è in quel chi. Quando io rifletto
sul mio pensiero, chi riflette sul pensiero di chi, e chi ascolta queste
riflessioni? Per me il problema - ma è il mio problema - è
semplicemente qui.
>Detto in senso più psicodinamico, la metacognizione potrebbe
avere la
>funzione di mettere in comunicazione parti di sé che non sono
altrimenti
>comunicanti - come ad esempio gli stati mentali della veglia e del
sogno.
>Come è possibile che ciò accada?
Sono d'accordo su questa ipotesi, però non parlerei di funzione
(e mi rendo conto che è una differenza che cambia non poco le cose)
ma di "ciò che è": è appunto l'invarianza dell'essere
coscienti (non della coscienza, che muta oscillando fra il suo essere soggetto
ed oggetto) attraverso i vari stati di coscienza. Come è possibile
questa invarianza, cosa è?
Metacognizione e corporeità
Scrive Carere:
>Al contrario, la sospensione degli automatismi cognitivi è
il presupposto
>per un'attenzione più profonda e più precisa agli stati
corporei, come è
>pratica corrente in molte tradizioni orientali.
e devo dire che sono pienamente d'accordo. Come la consapevolezza del
pensiero dà colore al pensiero (anche se la consapevolezza di per
sé non ha colore...) e ci rende vivo il fatto di essere esseri pensanti,
così la consapevolezza del corpo, ne toglie l'aspetto abitudinario
e lo rende vivo.
E' come aiutare un bulimico, che si abboffa di cibo, senza sentirne
il sapore, a essere consapevole del fatto di mangiare e dei sapori che
sente. La dissociazione è la prima, quella senza consapevolezza,
non la seconda. Metacognizione e terapia
>Forse la metacognizione origina da una
>anticipazione cognitiva rispetto ai processi di integrazione del pensiero;
>direi quindi che la metacognizione rappresenta l'"effetto" emotivo
dovuto
>alla percezione di una possibile evoluzione mentale, anziché
essere uno
>stato mentale autonomo risultante dall'evoluzione stessa. In tal senso
mi
>sembrerebbe possa assumere anche aspetti antievolutivi rispetto all'insight.
Il problema è che credo esistano diverse cose che uniformiamo
sotto il nome di insight. L'insight per cui un evento acquista senso all'interno
della sua storia è qualcosa legato all'oggetto; l'insight per cui
sono consapevole del gioco per cui voglio cercare un senso è un
altro; quello per cui sono consapevole dei mille modi con cui la mia mente
gioca con il senso delle cose ed il modo in cui cerco chi sono nel rapportarmi
ad essa e al suo giocare, è un altro ancora. Forse esistono diversi
modi di fare psicoterapia in rapporto a questa questione. Jaspers ad esempio
riteneva una modalità "inautentica" il processo terapeutico basato
sulla modifica della propria visione del mondo (cambiare il senso di un
evento o dargli semplicemente senso) rispetto alla modalità per
cui ci si rende conto che sono comunque "solo" visioni del mondo.
Concordo pertanto con Carere:
>L'argomentazione sembra pessima a Cavagna perché non la capisce.
Il vero
>terapeuta non è quello che sa "di più e meglio", ma
quello che sa di non
>sapere (nulla di certo), e quindi apre uno spazio di ascolto e di
indagine
>in cui l'inaudito potrà essere ascoltato.
e ribadirei che il fatto di essere consapevoli di qualcosa ne toglie
il carattere automatico, implicito rendendomene meno vincolato. Fino a
che non sono consapevole di qualcosa io sono quella cosa. Quando ne sono
consapevole, ci sono io e quella cosa. Posso osservarla (per domandare
ad un pesce cosa è l'acqua bisogna renderla non implicita, distanziarlo,
cioè fargli sentire l'esperienza dell'aria), posso cambiarla, perché
ho creato una distanza fra me e quella cosa. Questo non è estraniazione,
tutt'altro, forse anzi posso accorgermene per la prima volta: io vivo quella
cosa, ma appunto i termini si chiariscono: "io" - vivo - "quella cosa".
Ci sono due elementi, non uno solo: l'accento si sposta dall'oggetto al
soggetto, e questo diventa finalmente oggetto della "mia" ricerca. In questo
sta a mio parere il valore di esprimere i propri pensieri ad alta voce
in psicoterapia: per dirli devo definirli, li dico, cioè li porto
fuori da me, li osservo e posso ascoltarli con le orecchie è cose
se avessi messo quel minimo di distanza focale che mi consente di sentire
veramente quello che dico, cioè quello che penso. Nei gruppi è
ancora più facile: il mio pensiero talvolta lo dice un altro: in
un altro posso osservare ciò che in me è difficile osservare,
perché non ho messo distanza! Non voglio banalizzare meccanismi
che sono infinitamente più complessi, ma sottolineare alcuni aspetti
per entrare in quello che, a differenza di Cavagna, considero un valore
essenziale della metacognizione in terapia. Il terapeuta è solo
colui che può aiutare ad indicare questa strada (se la ha vissuta
come esperienza...).
7-1-2000, From: Ileana Taddei ("Metacognizione")
Non avevo capito l'affermazione di Cavagna e non capisco l'osservazione
di Angelozzi (loro due mail del 6-1-2000). Potete provare a riformulare
questo punto? Grazie.
Vorrei segnalare tre articoli che mi è capitato di leggere qualche
tempo fa, di cui non sono in grado oggi di riassumere il contenuto, ma
che potrebbero interessare, riguardo al tema dei livelli:
- Where is the self? A neuroanatomical theory of consciousness.
Strehler, Synapse, 7: 44-91, 1991;
- How can we find the neural correlates of consciousness?
Block, TINS, 19 (11): 456-459, 1996;
- The functional neuroanatomy of awareness: with a focus
on the role of various anatomical systems in the control of intermodal attention.
Smythies, Consciousness and cognition, 6: 455-481, 1997.
Grazie per i molto interessanti interventi in lista di tutti sul tema
partito - e che personalmente spero torni al - dal "sognare lucido".
7-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Metacognizione")
On 07-01-2000 Ileana Taddei wrote:
>Non avevo capito l'affermazione di Cavagna e
>non capisco l'osservazione di Angelozzi (loro due mail del 6-1-2000).
Provo a riformulare diversamente la mia parte Mi sembrava che Cavagna
negasse l'aspetto "privato", cioè strettamente soggettivo dell'evento
mentale del sogno, sulla base della presenza della lucidità. Ora,
il punto è che tutti i nostri eventi mentali sono soggettivi e gli
altri per conoscerli devono attendere che il soggetto, unico proprietario
ed esperiente, li comunichi. So (è un discorso a latere, che non
ha riferimenti con quanto affermato da Cavagna) che molte teorie psichiche
pretendono di sapere cosa vi è in un soggetto meglio del soggetto
stesso, ma ritengo che siano solo pretese. Certo, in talune situazioni
abbiamo aspetti comportamentali, oggettivi, che possono suggerire, fare
sospettare gli eventi mentali ad essi legati, ma non certo sostituirli
o per questo renderli pubblici. In fondo posso nascondere un mio dolore
o simulare un dolore che non ho. Ma solo io posso dire se sento o non sento
dolore.
Il sogno rimane un evento privato (io sono l'unico testimone degli
eventi del sogno, e gli altri devono fidarsi del mio racconto) anche nella
condizione di lucidità (io sono l'unico testimone anche della mia
coscienza). LaBerge stabiliva delle comunicazioni basate su cenni palpebrali,
con i presenti nella stanza dove stava dormendo e sognando un sogno lucido,
ove era consapevole di sognare e a tratti mandava comunicazioni su quanto
stava vivendo e sognando, ai presenti. E' di fatto diverso dal fatto che
io racconti una mia fantasia?. Compare un qualcosa di oggettivo che sostituisca
il racconto che faccio di un mio evento soggettivo? A mio parere no. A
parte poi le situazioni di LaBerge, noi in genere abbiamo che, al risveglio
(!), ricordiamo di essere stati consapevoli nel sogno. In fondo quell'evento
mentale è avvenuto nello stato di coscienza del sogno, e siamo debitori
a Cavagna della riflessione che non è bene confondere eventi mentali
e stati di coscienza.
Ti ringrazio molto per i tre riferimenti bibliografici.
7-1-2000, From: Davide Cavagna ("Metacognizione")
Lunga risposta, me ne scuso con i lettori. Scrive Ileana Taddei:
>Non avevo capito l'affermazione di Cavagna e non capisco l'osservazione
di
>Angelozzi (loro due mail del 6-1-2000). Potete provare a riformulare
questo punto? Grazie.
Ci provo: quando raccontiamo un sogno "non è più lo stesso,
anche se gli va vicino". Ovvero: abbiamo per lo più la sensazione
che i sogni siano fatti privati che a stento possono essere compresi da
un'altra persona. Per questo, credo dicesse sempre Bion, è una cosa
ben strana che si vada da un analista a raccontarli... Il sognare lucido dà invece l'impressione
che il sogno sia già bell'e preparato per essere riferito tale e
quale, perché è facilmente accessibile la sua verbalizzazione
interiore "io sto sognando questa cosa X". Sognare lucido ha l'effetto
di far pensare: "allora i sogni sono cose comunicabili, non sono inafferrabili,
possono essere trattenuti e ricordati tali e quali ecc.". Di fatto, a mio
avviso, questa convinzione non è scevra dall'illusorietà
propria di tutti i sogni. Illusorio, però, non significa irreale,
ma parzialmente reale. Potremmo dire: c'è uno stato di coscienza
parzialmente desto (?) che riguarda processi sia onirici che lucidi. Tutto
qui.
Risposte ad Angelozzi:
1. Parlando di comunicabilità del sogno, mi riferivo alla *presunzione*
e non alla *realizzazione* di una vera comunicazione. Credo sia esperienza
comune aver la sensazione di poter *afferrare* il sogno e riprodurlo al
risveglio - analogamente al sognare di avere un oggetto materiale tra le
mani e soprendersi al risveglio di non trovarlo più. Credo dunque
che l'esperienza onirica sia comunicabile solo come racconto e che "il
sogno raccontato" sia l'unica esperienza condivisibile che abbiamo durante
la veglia. Quanto al contagio sono perfettamente d'accordo: le mamme contagiano
i bambini quando sono nervose, depresse ecc. Ritengo che il contagio sia
un processo emozionale fisiologico e basilare per la crescita psichica.
Quindi, se accettiamo che gli stati di coscienza sono stati emotivo-cognitivi
complessi ed elaborati (che dipendono cioè da una fitta trama di
processi a vari livelli), possiamo capire perché a volte siamo contagiati
dallo stato emotivo altrui e finiamo per "pensare" a quello che vuole l'altro.
Personalmente, a differenza dell'ipotesi lacaniana, ritengo che l'emozione
non sia propriamente effetto del significante linguistico; semmai assomiglia
di più all'"idioma" di cui parla Bollas. Il linguaggio può
però fare da "mezzo di trasporto" - per questo l'induzione ipnotica
avviene anche con determinate modificazioni del paralinguistico.
2. Materialismo e spiritualismo
Senz'altro d'accordo sul fatto che il materialismo sia una metafisica.
Personalmente ritengo che, per discutere scientificamente di psicologia,
vadano utilizzati esclusivamente i seguenti strumenti (l'ordine è
casuale):
- paradigma evoluzionista come orizzonte di riferimento
- dati tratti dalla ricerca qualitativa e quantitativa
- attenzione fenomenologica all'introspezione
- osservazione clinica.
Entrando nel merito:
Concordo su quanto dici di Dick: come tutti i buoni scrittori ha saputo
esplorare inediti territori della mente. Se la fantascienza nasce dall'inquietudine
per il "non-umano dell'uomo", Dick senz'altro ha saputo cercare una risposta
umana, intuitiva e poetica, a una profonda paura.
>Ah le teorie emergentiste!! Tu senti che dicono veramente qualcosa?
Soltanto che la coscienza non è il momento di inizio, ma un
frutto prelibato, che richiede una complessa e continua maturazione da
un buon albero in un buon terreno.
>Questo è un problema non da poco. Mi viene da domandare: chi
è che racconta?
Personalmente ritengo più semplice pensare che per avere un
"chi" occorre un lavoro di continua mobilitazione degli schemi mentali
e di organizzazione gerarchica degli stessi ecc. Quindi penso che la testa
di ciascuno sia giusto sufficiente per produrre uno di questi chi, e per
lo più (ad esempio di notte) in *modalità provvisoria*, per
usare una espressione informatica.
>Come è possibile questa invarianza, cosa è?
Replico con una domanda: il "sé" è sempre la stessa invarianza,
oppure è un processo in parte ricorsivo, in parte cumulativo, in
parte distruttivo?
>ribadirei che il fatto di essere consapevoli di qualcosa ne toglie
il
>carattere automatico, implicito rendendomene meno vincolato.
Direi meglio: se "sono consapevole" e basta la cosa non si risolve;
se la consapevolezza nasce da una ristrutturazione dinamica profonda che
si traduce magari in un insight, allora si passa ad altro. Per questo non
basta "dire" al paziente che cosa ha perché questo ne faccia a meno.
>Il terapeuta è solo colui che può aiutare ad indicare
questa strada (se la ha
>vissuta come esperienza...).
Ovviamente sono d'accordo sul fatto che il terapeuta ha fatto un po'
di lavoro con se stesso. Ma il problema è un altro: se la mettiamo
così, allora la terapia antropologicamente non si distingue da un
rito di iniziazione. Invece reputo che la terapia, se vogliamo che sia
una pratica scientificamente adeguata, debba essere riconducibile a una
tecnica comunicabile e insegnabile, e non ai misteri eleusini.
Tullio Carere scrive:
>Osservo semplicemente che esistono due livelli di
>funzionamento mentale, descritti sin dall'antichità come "credere
di
>sapere" e "sapere di non sapere", e chiamo "psicologico" il primo
(perché è
>proprio di tutti gli esseri animati, cioè dotati di anima o
psiche), e
>"spirituale" il secondo (perché la capacità di sospendere
la validità dei
>propri schemi cognitivi sta alla base di ogni attività mentale
superiore).
>Alla coppia psicologico/spirituale si può sostituire la coppia
>cognitivo/metacognitivo, o altre. Non mi formalizzo sui termini, basta intendersi sulla sostanza.
Non ho interesse a prolungare oltre la discussione filosofica, perciò
ribadisco solo i problemi a cui faccio riferimento:
- spirituale non mi sembra per nulla coincidente con metacognitivo:
se li usi come sinonimi dai ad intendere che ci sia una similarità
tra i campi di esperienza che designano;
- mi sembra che ci sia la tendenza a omogeneizzare "metacognizione",
"epoché fenomenologica", "meditazione trascendentale" ecc.; a me
sembrano funzionamenti differenti, con qualità descrittive distinte,
che vale la pena di non livellare altrimenti si corre il rischio di perdere
differenze importanti;
- va dunque chiarito a che preciso ambito di esperienza ci si riferisce
con "metacognizione". Il sognare lucido potrebbe essere a mio avviso un
buon esempio paradigmatico della metacognizione in fieri.
Quindi, lasciamo perdere la "psiche o anima", e parliamo dei livelli
di funzionamento. Ipotesi:
- mi sembra che con metacognizione si intenda l'autoosservazione del
funzionamento cognitivo, non del funzionamento fisiologico; per questo
parlavo di "disattenzione corporea";
La mia congettura è che la differenza tra cognizione e metacognizione
non stia nel fatto che nella metacognizione sono presenti funzionamenti
nuovi e diversi dalla cognizione, ma che gli stessi funzionamenti di base
della cognizione siano trattati in modo aspecifico, commutabile e forse
dissociabile. A sostegno di ciò, porto il fatto che il funzionamento
metacognitivo opera su "oggetti mentali" al pari del funzionamento cognitivo;
solo che questi oggetti sono i processi cognitivi stessi che vengono *oggettualizzati*.
Esempio: faccio metacognizione quando mi soffermo a riflettere su "come
penso"; ma per farlo non utilizzo funzioni nuove, bensì applico
e affino le mie strategie che utilizzo per il problem solving "ordinario".
La qualità differente tra cognizione e metacognizione compare a
mio avviso a livello di coscienza, per l'effetto emotivo della temporanea
esclusione dei dati sensoriali (mi penso come "io" e non come "io corporeo"?).
L'autoconsapevolezza risulta affine alla metacognizione in quanto osservo
*a breve distanza* (memoria di lavoro?) alcuni processi attivati, come
il mantenimento dello stato di coscienza. Coscienza e consapevolezza sono
sovente sinonimi per la psicologia ingenua in quanto la percezione di uno
stato mentale ordinariamente non si trova disgiunto dallo stato di veglia.
Al contrario, i sogni si dimenticano. Il sognare lucido è un controfatto
alla teoria ingenua che avvengono processi di autoconsapevolezza e metacognizione
solo nello stato di coscienza diurna.
>Il fatto che occorra un atto
>deliberato di affidamento a un vuoto di sapere (niente a che fare
con
>"un'attivazione fisiologica") non può che dare fastidio a quegli
>psicoanalisti che vorrebbero bonificare l'inconscio a suon di
>interpretazioni, come se fosse lo Zuider See.
Sono d'accordo sulle interpretazioni-idrovore; preferisco però
non sganciare un funzionamento mentale dalla sua ipotetica base neurofisiologica
(sempre che si consideri la nascita psicologica come un momento dello sviluppo
individuale, e non come l'infusione di un'anima dall'alto). Che poi, nell'individuo
adulto, la funzione metacognitiva sia "autonoma" dalla fisiologia, non
significa che sia "incorporea".
Quando alla terapia, ti ri-cito:
>Solo il vero terapeuta, capace di metacognizione, può aiutare
>il suo paziente a liberarsi dagli schemi in cui è rimasto intrappolato
>(fantasie inconsce o malapprendimenti), grazie al fatto che, e nella
misura
>in cui, lui stesso per primo ha imparato a liberarsi dai propri.
Tre cose:
1) Il fulcro della terapia, a quanto capisco, consiste nel "liberare
gli altri dagli errori che hanno nella testa". Se l'idea è che ci
sia una eliminazione di tali errori, penso invece che la realtà
psichica sia "incorreggibile" proprio come si dice di un bambino un po'
discolo. Se invece si tratta di un lasciar da parte schemi obsoleti, allora
sarebbe meglio dire: la terapia può aiutare a pensare soluzioni
non pensate in precedenza. Ma ciò non toglie che i vecchi schemi
permangano, magari "disattivati", meno investiti ecc.
2) Mi sembra eccessivo che la condizione necessaria-sufficiente (tu
dici: "grazie al fatto che e nella misura in cui") della terapia sia che
il terapeuta sia esentato da conflitti, schemi inadeguati ecc. E chi l'ha
detto? Come se i terapeuti fossero tutti sant'uomini, saggi e pieni di
buone intenzioni e ottimi consigli, ehehehe! Non è forse più
realistico pensare che il terapeuta forse è divenuto sufficientemente
in grado di non dare troppo conto ai suoi schemi ed è sufficientemente
disponibile per interessarsi ai processi del paziente per vedere se sono
funzionali o meno?
3) Quanto al paziente, vogliamo dargli anche a lui poverino un po'
di metacognizione sua propria, magari un po' sgangherata? O forse va "a
scuola di metacognizione" dal terapeuta e deve superare l'esame? In fondo,
chissà come mai si usano i sogni del paziente e non (per lo più)
quelli del terapeuta? Se non erro la differenza con gli sciamani che utilizzano
invece i propri sogni per curare sta tutta qui. A presto
7-1-2000, From: Ileana Taddei ("Metacognizione")
Per Andrea Angelozzi (mail del 7-1-2000): Per favore, puoi scrivere
qualcosa di più su LaBerge, che come autore di fantascienza non
conosco? :-) "Stabiliva delle comunicazioni basate su cenni palpebrali"???
"A tratti mandava comunicazioni su quanto stava vivendo e sognando, ai
presenti"??? Scusate l'ignoranza, ma qui devo proprio avere un buco nero.
7-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Metacognizione")
Per Ileana Taddei (mail del 7-1-2000): Come scrittore di fantascienza
è un po' difficile da conoscere, dato che di fantascienza non ha
mai scritto. Più facile come matematico prima e psicofisiologo poi,
che ha lavorato a Stanford e ha collaborato con autori del livello di Dement
sui problemi del sonno e del sogno. In inglese (reperibili alla Amazon)
trovi diversi suoi libri: Lucid Dreaming, Exploring the world of lucid
dreaming, Attentional Processing: The Brain's Art of Mindfulness (Perspectives
in Cognitive Neuroscience). Ha fondato un Lucidity Institute
e in rete trovi parecchi riferimenti a questo istituto e al suo fondatore.
7-1-2000: From: Giovanni Ruggiero ("Metacognizione")
A proposito di metacognizione, dico la mia.
1. La metacognizione è stata dimostrata come un buon indicatore
di "sanità psicoterapeutica", o di buon outcome da almeno 15 anni.
I lavori di Teasdale sono della metà degli anni '80. Considerando
la metacognizione un indicatore di outcome e basta, darei ragione a Cavagna:
la metacognizione non è un "livello superiore" della coscienza,
ma un semplice evento mentale come un altro, sia pure riflessivo. Tuttavia,
proprio perché riflessivo, è comunque indice di capacità
mentale "evoluta", critica.
2. In questo senso, non comprendo assolutamente la confusione tra metacognizione
e dissociazione fatta da alcuni. La metacognizione è invece apparentata
alla capacità critica. Ha ragione Carere quando ci ricorda i greci
e Socrate, come iniziatori della riflessività mentale. Ma è
proprio così? Capacità critica-riflessiva e sanità
mentale sono inevitabilemnte accoppiate? Faccio due esempi messaggeri di
dubbi.
3. Quasi due millenni dopo Socrate, Martin Lutero scrive i Discorsi
a tavola. Tra le tante cose interessanti che troviamo in questo libro,
assistiamo, nel capitoletto "sul peccato", all'autopsicoterapia di Lutero
per il suo gravissimo caso di ossessività, esperienza che lo perseguitò
per circa 15 anni. Il poveretto, all'inseguimento di un impossibile sogno
di purezza, si rendeva conto di non riuscire a non peccare. Poteva astenersi
dagli atti, ma non riusciva mai a non peccare mentalmente. Lutero né
usci fuori di colpo, intuendo che doveva uscire fuori dal campo delle "buone
e cattive opere", incontrollabili dal soggetto umano, per approdare al
campo della "fede".
4. Quel che è secondo me interessante è che Lutero dimostra
- da un certo punto di vista - basse capacità metacognitive. Come
un greco pre-classico Lutero attribuisce i propri "cattivi pensieri" ad
un agente esterno, naturalmente il diavolo. Non dice mai: "Io penso il
peccato X", e nemmeno "Il diavolo mi induce a pensare il peccato X", ma
semplicemente "Il diavolo mi dice X". Sente le voci?
5. La soluzione di Lutero alla propria ossessività è -
apparentemente - non metacognitiva, ma somiglia piuttosto alla tecnica
degli alcolisti anonimi: egli si abbandona ad una entità superiore,
annullando la propria volontà di "guarire", ammettendo la superiorita
del "diavolo", e smettendo il tentativo di disintossicarsi con le proprie
forze. In tal modo, approda alla sanità mentale, dialoga con forza
e sicurezza con il diavolo, e - come é noto - impara anche a mandarlo
a farsi fottere (sic!)
6. Passano un altro paio di secoli, e trovo qualcosa che, a differenza
del "dissociato" Lutero, mi appare estremamente metacognitivo. Parlo delle
Lettere Persiane di Montesquieu. Qui abbiamo un autore, Montesquieu, il
quale immagina di conoscere le lettere di un persiano fuggito per motivi
politici in Francia. In queste lettere il persiano riporta le proprie impressioni
di viaggio. Egli osserva i francesi, ne assorbe i principi filosofici illuministici,
ma rimane stupito e scandalizzato quando osserva il loro modo liberale
di trattare le donne.
7. Usbek (è questo il nome del persiano) "razionalmente" osserva
ed assorbe perfino i principi filosofici dell'occidente, arrivando a criticare
il Corano. E', quindi, molto riflessivo e metacognitivo. Tuttavia, quando
si tratta di andare nel vivo (il rapporto con le donne), "emozionalmente"
non si smuove di un millimetro. Persiano è e persiano rimane. Infatti,
Usbek, accanto alle lettere "illuminate ed illuministiche" ai suoi amici
colti, continua a scrivere mostruose lettere minatorie ai suoi eunuchi,
rimasti in Persia a sorvegliare un harem di 5 donne. Uno spaventoso delirio
di gelosia si sviluppa.
8. In conclusione, Lutero guarisce quasi dissociandosi. Non arriva mai
a cogliere la natura psichica del peccato mentale, ma continua ad attribuirlo
ad un agente esterno. In un certo senso non metacognitivizza. Eppure guarisce.
9. Usbek, invece, con tutta la sua capacità critica in ambito
filosofico, e la sua capacità di oscillare metacognitivamente e
virtuosisticamente tra oriente ed occidente, "emozionalmente" non metacognitivizza
per niente, ed anzi si comporta da sadico a distanza con le sue donne (e
tra l'altro non riesce poi ad evitare corna e ribellione dell'harem. Ben
gli sta). Sembrerebbe, quindi, che ci sia una metacognizione razionale
ed una emozionale, quest'ultima ben più efficace psicoterapeuticamente.
10. Tuttavia, mi contraddico subito. Osservo che la posizione di "fede"
e non di "opere" di Lutero somiglia moltissimo alla sospensione degli automatismi
cognitivi ricordata da Carere:
>Al contrario, la sospensione degli automatismi cognitivi è
il presupposto
>per un'attenzione più profonda e più precisa agli stati
corporei, come è
>pratica corrente in molte tradizioni orientali.
e come dice anche Angelozzi:
>Come la consapevolezza del
>pensiero dà colore al pensiero (anche se la consapevolezza
di per sè non ha
>colore...) e ci rende vivo il fatto di essere esseri pensanti, così
la
>consapevolezza del corpo, ne toglie l'aspetto abitudinario e lo rende
vivo.
>E' come aiutare un bulimico, che si abboffa di cibo, senza sentirne
il
>sapore, a essere consapevole del fatto di mangiare e dei sapori che
sente.
>La dissociazione è la prima, quella senza consapevolezza, non
la seconda.
11. Infine, è altrettanto vero che probabilmente Montesquieu,
con le lettere persiane esorcizzò, pare, la sua indomabile gelosia,
costruendo quindi, con il suo romanzo epistolare, un gigantesco edificio
metacognitivo a più piani di coscienza sovrapposti.
8-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")
On 07/01/2000 Davide Cavagna wrote:
>lasciamo perdere la "psiche o anima", e parliamo dei livelli di funzionamento. Ipotesi:
>- mi sembra che con metacognizione si intenda l'autoosservazione del funzionamento cognitivo
Non ha senso parlare di "meta"-cognizione, se non in funzione di un
livello basale di cognizione, rispetto al quale la metacognizione si pone
a un livello superiore. Questo livello basale è facilmente identificabile,
perché è presente naturalmente in tutti gli esseri animati
o psicologici, cioè dotati di anima o psiche (non è osservabile
nei vegetali). E' il livello della cognizione "implicita" o "procedurale",
che procede automaticamente grazie a schemi e meccanismi innati o acquisiti
(anche l'acquisizione di muovi schemi, come nell'addestramento di un animale,
si appoggia comunque a meccanismi innati). Il superamento di questo livello
basale, allora, non consiste nell'"auto-osservazione del funzionamento cognitivo".
La parola chiave non è "osservazione" (anche nella semplice cognizione
si osserva e ci si auto-osserva), ma *sospensione* del funzionamento percettivo-cognitivo
automatico, dei suoi schemi e meccanismi. In questa sospensione si accede
a un livello superiore di funzionamento, non più automatico, quindi
non più prevedibile. Letteralmente si disinserisce il pilota automatico
e si passa alla guida manuale (cosa che l'essere soltanto animato o psicologico
non è in grado di fare). Che cosa accade in questo stato di sospensione?
I meccanismi del livello cognitivo non sono ovviamente cancellati, ma sono
governati dal soggetto in funzione di un'esperienza che quei meccanismi
ancora influenzano, ma non sono più in grado di condizionare del
tutto. E' questo margine di libertà dal funzionamento cognitivo
automatico che è corretto chiamare metacognizione. Si può
tralasciare di chiamare "spirituale" questo livello (visto che questo termine
sembra un po' sconveniente in circoli "psicologici"), e chiamarlo invece
consapevole, o metacognitivo, o altrimenti. L'importante è che sia
chiaro di che cosa si sta parlando. Questo è il punto di partenza,
da cui si può procedere per indagare che cosa succede, come funziona,
dove si può andare a partire da questa sospensione.
>faccio metacognizione quando mi soffermo a riflettere su "come
>penso"; ma per farlo non utilizzo funzioni nuove, bensì applico
e affino le
>mie strategie che utilizzo per il problem solving "ordinario"
Il "problem solving ordinario", se non consiste semplicemente in una
serie casuale di tentativi ed errori, ma si basa sulla riflessione e sul
pensiero creativo, è già metacognizione: è il lato
"object-oriented" (orizzontale) della metacognizione. Da questo punto di
vista, in effetti, non è rilevante se gli oggetti in questione siano
esterni o interni.
>Il fulcro della terapia, a quanto capisco, consiste nel "liberare
gli
>altri dagli errori che hanno nella testa".
No, non dagli errori che hanno nella testa. L'errore non consiste in
una "idea o fantasia erronea" (tutte le idee o fantasie sono erronee per
un verso o per l'altro), ma nel fatto stesso di essere intrappolati in
una fantasia o idea, cioè nel fatto di non essere capaci di prenderne
le distanze: dunque di non essere capaci di metacognizione relativamente
a questa o quella idea o fantasia.
>Mi sembra eccessivo che la condizione necessaria-sufficiente (tu dici:
>"grazie al fatto che e nella misura in cui") della terapia sia che
il
>terapeuta sia esentato da conflitti, schemi inadeguati ecc.
A) La capacità metacognitiva è necessaria, ma non sufficiente.
La terapia è un'operazione complessa che richiede anche altre capacità.
B) Disporre di una capacità metacognitiva "sufficientemente buona"
non significa essere "esentato da conflitti, schemi inadeguati ecc". Significa
esserne sufficientemente consapevoli, capaci di prenderne le distanze,
di non farsene condizionare.
>Quanto al paziente, vogliamo dargli anche a lui poverino un po' di
>metacognizione sua propria, magari un po' sgangherata?
Altroché. Può ben essere anzi che in certe fasi o momenti
della terapia i ruoli si invertano, e il paziente si dimostri più
consapevole del terapeuta, soprattutto sulle "aree cieche" di questo. Ma
in generale la terapia procede se il terapeuta è "un po' più
avanti" del suo paziente. Se non lo è, o cessa di esserlo, il paziente
di solito se ne accorge e chiude la terapia.
Alla domanda chiave di Angelozzi: "chi è che racconta?", Cavagna
risponde:
>Personalmente ritengo più semplice pensare che per avere un
"chi" occorre
>un lavoro di continua mobilitazione degli schemi mentali e di organizzazione
>gerarchica degli stessi ecc.
Questa mi sembra una risposta "cognitiva". Una risposta "metacognitiva"
potrebbe essere: "non lo o, forse è impossibile saperlo, certo non
lo saprà mai un soggetto che si pone di fronte a un oggetto; invece
è possibile, anche se non è facile, accedere a un livello
di esperienza in cui quella differenza viene temporaneamente meno, come
indicano, senza andare troppo lontano, LaBerge e Tholey; a quel livello
non si 'sa' nulla, nel senso comune del sapere, ma forse si 'sa' qualcosa
in un altro senso".
On 7/01/2000 Giovanni Ruggiero wrote:
>La soluzione di Lutero alla propria ossessività è -apparentemente-
non
>metacognitiva, ma somiglia piuttosto alla tecnica degli alcolisti
anonimi:
>egli si abbandona ad una entità superiore, annullando la propria
volontà di
>"guarire", ammettendo la superiorità del "diavolo", e smettendo il
tentativo
>di disintossicarsi con le proprie forze. In tal modo, approda alla
sanità
>mentale, dialoga con forza e sicurezza con il diavolo (...)
>In conclusione, Lutero guarisce quasi dissociandosi. Non arriva mai
a
>cogliere la natura psichica del peccato mentale, ma continua ad attribuirlo
>ad un agente esterno. In un certo senso non metacognitivizza. Eppure
>guarisce. (...)
>Tuttavia, mi contraddico subito. Osservo che la posizione di "fede"
e
>non di "opere" di Lutero somiglia moltissimo alla sospensione degli
>automatismi cognitivi ricordata da Carere
Ringrazio Ruggiero per averci ricordato la straordinaria autoterapia
di Lutero. Osservo:
1. Si guadagna qualcosa localizzando l'impulso trasgressivo nell' Es,
piuttosto che nella mente del diavolo? Il guadagno, se c'è, è
modesto. In entrambi i casi si prende atto della natura "non-Io" di un
impulso pericoloso per l'Io. Il nome che si vuol dare al territorio non-Io
mi pare poco rilevante, rispetto alla sostanza della questione: che fare
con questo impulso? Cercare di dominarlo cognitivamente o interpretativamente
(con la forza e i mezzi dell'Io), o abbandonare un tentativo destinato
alla sconfitta per passare a un livello che è evidentemente "meta"
rispetto alla cognizione?
2. La fede di Lutero è certamente una posizione metacognitiva,
ma "being-oriented", o "verticale". Anche qui possiamo chiederci: che differenza
c'è tra la fede in Dio di Lutero e la fede in O di Bion? Sono entrambi
simboli dell'ignoto, ignoto in quanto inconoscibile: il noumeno, la cosa
in sé. Lutero e Bion sono "veri terapeuti", in quanto hanno scoperto
il potere generativo, rigenerativo e risanativo dell'essere noumenico.
Il terapeuta che non ha ancora scoperto questo potere, che non sa affidarsi
all'ignoto, tenderà fatalmente ad affidarsi al già noto,
al proprio sapere, alle teorie della propria scuola: perché a qualcosa
bisogna comunque affidarsi. E' la posizione che gli antichi chiamavano "hybris".
>Usbek, invece, con tutta la sua capacità critica
>in ambito filosofico, e la sua capacità di oscillare metacognitivamente
e
>virtuosisticamente tra oriente ed occidente, "emozionalmente" non
>metacognitivizza per niente, ed anzi si comporta da sadico a distanza
>con le sue donne (e tra l'altro non riesce poi ad evitare corna e
>ribellione dell'harem. Ben gli sta).
>Sembrerebbe, quindi, che ci sia una metacognizione razionale ed una
>emozionale, quest'ultima ben più efficace psicoterapeuticamente.
Non sottovaluterei la metacognizione culturale di Usbek: ce ne fosse
un po' di più in giro, staremmo tutti molto meglio. E' solo una
conquista parziale. Io loderei Usbek per quello che è riuscito a
fare e lo incoraggerei a procedere per bonificare anche il suo rapporto
con le donne, visto che gli è riuscito così bene con gli
uomini.
8-1-2000, From: Davide Cavagna ("Metacognizione")
On 08/01/2000 Tullio Carere wrote:
>La parola chiave non è "osservazione" (anche nella semplice
>cognizione si osserva e ci si autoosserva), ma *sospensione* del
>funzionamento percettivo-cognitivo automatico, dei suoi schemi e
>meccanismi. In questa sospensione si accede a un livello superiore
di
>funzionamento, non più automatico, quindi non più prevedibile.
Presumo che la sospensione implichi un particolare dispositivo mentale
in grado di sospendere; come funziona?
>Che cosa accade in questo stato di sospensione? I meccanismi del
>livello cognitivo non sono ovviamente cancellati, ma sono governati
dal
>soggetto in funzione di un'esperienza che quei meccanismi ancora
>influenzano, ma non sono più in grado di condizionare del tutto.
Potremmo dire che il soggetto è servoassistito dai suoi meccanismi,
per cui ha uno spazio di manovra più libero? Questo a mio avviso
non significa che funziona a un livello superiore, ma soltanto che funziona
con maggior discrezionalità.
>L'errore non consiste in una
>"idea o fantasia erronea" (tutte le idee o fantasie sono erronee per
un
>verso o per l'altro), ma nel fatto stesso di essere intrappolati in
una
>fantasia o idea, cioè nel fatto di non essere capaci di prenderne
le
>distanze: dunque di non essere capaci di metacognizione relativamente
a
>questa o quella idea o fantasia.
Quindi concorderai sul fatto che si tratta di un aumento della discrezionalità,
non di un accesso a facoltà presunte superiori.
Sempre Carere:
>Alla domanda chiave di Angelozzi: "chi è che racconta?", Cavagna
risponde:
>>Personalmente ritengo più semplice pensare che per avere un
"chi" occorre
>>un lavoro di continua mobilitazione degli schemi mentali e di organizzazione
>>gerarchica degli stessi ecc.
>Questa mi sembra una risposta "cognitiva" [omissis]
Mi sembra già entusiasmante e emozionante avere una risposta
cognitiva. E poi mi sovviene l'Alighieri...
Passando a Ruggiero, che ringrazio per le gustose vignette quasi-meta-cliniche
:-))
>non comprendo assolutamente la confusione tra
>metacognizione e dissociazione fatta da alcuni. La metacognizione
è invece
>apparentata alla capacità critica.
>Sembrerebbe, quindi, che ci sia una metacognizione razionale ed una
>emozionale, quest'ultima ben più efficace psicoterapeuticamente.
Io uso il termine "dissociazione", non come descrittore psicopatologico,
ma per indicare più in generale una modalità di selezione
degli stati mentali che implichi la separazione e la esclusione dal campo
di coscienza (attenzione e concentrazione). In tal senso la vedrei come
una procedura fisiologica che può assumere però significato
patologico nel momento in cui non è più reversibile. Mi sembra
plausibile supporre che la metacognizione si basi su un siffatto "trascegliere"
di stati mentali, quindi è eminentemente "critica". Se con metacognizione
"emozionale" intendi qualcosa di affine all'insight sono d'accordo. Prorpio
perché riguarda l'"in-sight" (la vista interna) che ritengo che
la metacognizione sia afferente alla auto-osservazione (mentre Carere sembra
non ritenerlo un fattore discriminante).
Carere risponde quindi a Ruggiero:
>Si guadagna qualcosa localizzando l'impulso
>trasgressivo nell' Es, piuttosto che nella mente del diavolo? Il guadagno,
>se c'è, è modesto. In entrambi i casi si prende atto
della natura "non-Io"
>di un impulso pericoloso per l'Io.
L'utilità (o il danno) di posizionare l'impulso dentro o fuori
l'individuo è forse connessa alla reazione emotiva di fronte a una
prospettiva di decentramento del soggetto. Alcune teorie, come la psicoanalisi,
vi fanno riferimento, altre no. Dove stiano in verità gli impulsi
mi sembra una questione metafisica al pari di definire "dove sta l'anima".
>Lutero e Bion sono "veri
>terapeuti", in quanto hanno scoperto il potere generativo, rigenerativo
e
>risanativo dell'essere noumenico. Il terapeuta che non ha ancora scoperto
>questo potere, che non sa affidarsi all'ignoto, tenderà fatalmente
ad
>affidarsi al già noto, al proprio sapere, alle teorie della
propria scuola:
>perché a qualcosa bisogna comunque affidarsi. E' la posizione
che gli
>antichi chiamavano "hybris".
Mah, tutto sommato penso che a volte gli dei siano meno vendicativi
di quello che crediamo... A presto
8-1-2000, From: Ileana Taddei ("Lucidity Institute")
On 07/01/2000 Andrea Angelozzi wrote:
> Ha fondato un Lucidity Institute e in rete trovi parecchi
riferimenti a
> questo istituto e al suo fondatore.
Grazie. Ho trovato il sito del Lucidity Institute e ho letto
alcuni articoli (mentre dallo schermo si sprigionava un sottile profumo
New Age). Mi sono trovata incuriosita ma anche incapace sia di calarmi
nell'entusiasmo per l'ennesima individuazione di una "nuova frontiera",
sia soprattutto di apprezzare il lato pratico-didattico della faccenda.
Ad esempio, non ho capito nulla dei devices impiegati (NovaDreamer,
Supernova, ecc.). Per quanto riguarda questo secondo punto, qualcuno
è così gentile da spiegarmi di cosa si tratta?
9-1-2000, From: Andrea Mazzeo ("Sognare lucido")
Ho seguito il dibattito con molto interesse; vi è qualche punto
che mi piacerebbe approfondire.
Nel caso di LaBerge, che riusciva a stabilire una comunicazione attraverso
movimenti palpebrali mentre sognava, lo stato di sonno REM (fase del sogno)
era verificato con la registrazone polisonnografica?
Trovo strana la possibilità di compiere movimenti muscolari
volontari durante il sogno, poiché in quella fase si ha l'abolizione
fisiologica del tono muscolare in tutta la muscolatura; sono possibili
dei movimenti automatici del viso e degli arti (mioclonie) ma privi di
qualsiasi significato comunicativo.
Potrebbe essersi trattato di uno stato di coscienza particolare, una
sorta di trance autoipnotica, in cui sia possibile sperimentare un'attività
mentale simile a quella onirica, pur potendo mantenere un certo contatto
comunicativo con il mondo esterno.
Fra parentesi, il dato EEG del sonno REM è alquanto curioso:
l'attività elettrica del cervello durante il sonno REM è
simile all'attività elettrica dello stato di veglia; che oscuro
significato ha questo fatto?
Sul cosiddetto "sogno lucido" mi ritrovo in difficoltà: se sogno
di stare sognando sto pur sempre sognando; è un sogno sulla facoltà
di sognare (meta-sogno?) ma è pur sempre un'attività mentale
onirica; al risveglio posso ricordare il sogno, posso ricordare di avere
sognato di stare sognando; ma quel che ricordo corrisponde effettivamente
a quel che ho sognato? Al risveglio ricordiamo frammenti di sogno, cioè
solo quei contenuti dell'attività mentale onirica che trovano "agevole"
integrazione nell'attività mentale della veglia. Ciò sia
con riferimento alla questione freudiana della censura onirica, sia alla
necessità, per poterli pensare (e comunicare), della "traduzione"
dei contenuti non-verbali del sogno (che sono prevalenti) nel linguaggio
verbale; credo che in questo passaggio, da analogico a digitale, si perda
qualcosa.
Certamente, quella "istanza" che ci consente di avere cognizione durante
il sogno di stare sognando è una parte della coscienza, una sezione
molto peculiare della coscienza (sottocorticale?) che, presumo, conservi
anche durante il sonno la capacità, ad es., di registrare eventi
ambientali integrandoli, a volte, nel sogno; probabilmente questa istanza,
in alcuni momenti, riesce ad attivare strutture corticali metacognitive
che, senza svegliarci, inseriscono nell'attività onirica la consapevolezza
di stare sognando.
Pur essendo chiaro il concetto, l'aggettivo lucido rimanda alle valutazioni
psicopatologiche dello stato di coscienza nella veglia (coscienza lucida
come contrario di coscienza confusa, obnubilata, oniroide, crepuscolare)
e si può prestare a qualche fraintendimento. Cordiali saluti
12-1-2000, From: Mario Galzigna ("Il 'barocco', la 'metacognizione'
(MTC) et alia")
Ho seguito con grande interesse il dibattito sulla metacognizione,
portato avanti da qualche tempo in questa lista. Voglio anzitutto congratularmi
con coloro che lo hanno promosso ed alimentato (Carere, Cavagna, Angelozzi,
Ruggiero): l'impegno intellettuale profuso e lo stile adottato (cioè
la capacità di far emergere chiaramente la diversità delle
posizioni nell'assoluto rispetto delle "differenze"), da un lato fanno
ben sperare sul futuro di queste nostre liste, dall'altro lato dovrebbero
servire da esempio per chi ancora privilegia polemiche personali e atteggiamenti
distruttivi ad un franco e civile confronto sui contenuti.
Vorrei portare un mio piccolo contributo al dibattito in corso, cercando
di svolgere qualche riflessione storico-critica sul tema della metacognizione
(MTC): stimolato, tra l'altro, anche dalla generosa e gradita attenzione
che Tullio Carere ha recentemente dedicato al mio articolo "La
trasgressione barocca e il soggetto multidimensionale" (POL.it, "Storia
& Epistemologia").
Procederò schematicamente per punti, senza nessuna pretesa di
completezza e di sistematicità:
1. ASCENDENTI STORICI
Se la parola "metacognizione" è recente, l'attenzione al concetto
che essa designa non è certo nuova nella storia della psicologia.
Si pensi, ad esempio, agli studi sulla consapevolezza dei processi cognitivi
complessi maturati nell'ambito della scuola di Wurzburg e del cosiddetto
"introspezionsimo" (cfr. W. Wundt - e il suo laboratorio di psicologia
a Lipsia (1879) - ed E. Tichener). Prevale qui un atteggiamento "elementistico",
che punta a scomporre i contenuti coscienti nelle loro componenti elementari.
Un contributo importante dell'introspezionismo - tuttora istruttivo, a
mio parere - è la distinzione tra una introspezione simultanea ed
un'introspezione retroattiva: nella prima osservo il contenuto del processo
psichico superiore che mi riguarda (intellettivo e/o emozionale) mentre
esso si svolge; nella seconda ne descrivo la funzione (e gli effetti di
varia natura che tale processo induce in me), ma posso farlo solo "post
festum". In caso contrario, la mia osservazione (la mia MTC, diremmo oggi),
sviluppatasi contemporaneamente allo svolgersi dell'evento psichico, non
può non modificarlo. Se sono sessualmente eccitato, ad esempio,
una mia MTC relativa al mio eccitamento non potrà non produrre una
qualche modifica sulla qualità stessa dell'eccitamento.
A latere di questa breve annotazione storica una doverosa aggiunta:
anche la categoria freudiana di autoosservazione (Selbstbeobachtung) sembra
molto vicina al concetto di MTC. Nella lezione 31 dell'Introduzione alla
psicoanalisi, del 1932 ("La scomposizione della personalità psichica"),
Freud si chiede: "L'Io è il soggetto per eccellenza, come può
diventare oggetto"? E continua: "L'Io può prendere come oggetto
sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi
(...) Così facendo, una parte dell'io si contrappone alla parte
restante. L'Io è dunque scindibile". Questa parte verrà chiamata
Super-io (o coscienza morale), a cui viene attribuita, tra le altre, la
capacità di "auto-osservazione". Questa auto-osservazione che obiettivizza
l'Io potrà anche assumere, nell'ambito della psicoanalisi freudiana,
la caratteristica di un "insight": ma se l'insight è solo intellettivo
- e quindi privo di ogni componente emozionale - sarà anche possibile
vederlo come un meccanismo difensivo, di carattere superegoico, nei confronti
di idee o di affetti che l'Io non riesce a vivere ed a tollerare. Anche
questa idea, credo, non dovrebbe essere trascurata in un dibattito sulla
MTC: una MTC che ha per oggetto un certo vissuto emozionale, dovrebbe,
normalmente, possedere anch'essa una certa coloritura emotiva. In caso
contrario - nel caso, ad esempio, in cui la MTC sviluppatasi a ridosso
di una emozione intensa sia "soltanto" un atto cognitivo (asettico, neutro)
- non sembra illegittimo il sospetto che si tratti, per l'appunto, di un
meccanismo difensivo, o critico, o correttivo: tale, quindi, da alterare
o da filtrare l'emozione di partenza.
2. ANTECEDENTI STORICI
La problematica specifica della MTC - anche se influenzata dall'introspezionismo
- si sviluppa agli inizi degli anni 70, in ambiti molto specifici: la psicologia
del pensiero e dell'apprendimento, le ricerche sullo sviluppo delle strategie
di memoria e gli studi sull'intelligenza artificiale. Si pensi soprattutto
ai lavori di J.H.Flavell, che usa per primo il termine "metamemoria" (1970).
Da questa prima stagione della MTC emerge una sua definizione, complessa
ma precisa, che va tenuta presente: la MTC è sia la CONSAPEVOLEZZA
che il CONTROLLO che l'individuo ha dei propri processi cognitivi. I due
aspetti (conoscenza, da un lato, controllo e regolazione dall'altro lato)
vengono considerati, da molti autori, distinti, anche sa tra di loro collegati.
Emerge, già in questa fase iniziale, quello che mi azzarderei
a definire un *riduzionismo cognitivista*, che tende ad isolare la MTC
dalle sue implicazioni affettive. Non solo: si tende anche a trascurare
il fatto che la MTC stessa può riguardare non soltanto aspetti dell'attività
concettuale, ma anche vissuti ed esperienze di carattere emozionale. Queste
rapide indicazioni storiche dovrebbero, a mio parere, porci il seguente
problema: in quale misura noi, oggi, siamo inclini a riprodurre acriticamente
la curvatura riduzionista di queste prime ricerche?
3. MATRICI FILOSOFICHE
Tra le matrici filosofiche della MTC è stata giustamente evocata
la posizione socratica e, più in generale, tutta la problematica
della *cura di sé*, che tanta parte ha avuto nell'etica e nella
gnoseologia degli antichi. Qualche sintetica annotazione potrà forse
servire allo sviluppo del nostro dibattito. Socrate visto da Hegel: è
colui che "si rinchiude in se stesso per trovarvi il giusto e il buono".
Socrate visto da Merleau-Ponty: "pensava che non si può essere giusti
da soli, che se si è giusti da soli si cessa di essere giusti".
La ricerca storiografica di molti antichisti (tra gli altri: Vegetti, Hadot,
Vernant) e dell'ultimo Foucault (cfr. La cura di sé, Miolano: Feltrinelli,
1985), danno ragione, inequivocabilmente, a Merleau-Ponty. La socratica
cura di sé (che include, al suo interno, una postura metacognitiva),
si coniuga sempre al sentimento di appartenenza ad un tutto, ad un mondo:
il mondo umano (gli altri), il mondo sociale (la pòlis), il mondo
naturale (il cosmo). La cura e la conoscenza di sé si raggiunge
- come dirà più tardi Seneca - "inserendosi nella totalità
del mondo" ("toti se inserens mundo", Lettera LXVI, 6). Non solo: cura
e conoscenza di sé significano, tout court, pratica di un "esercizio
spirituale" (per dirla con Hadot) che è al tempo stesso virtù,
affettività, eros.
Si potrebbe dimostrare dettagliatamente la correttezza di questa interpretazione,
testi alla mano. Mi limito per ora a segnalarla, nella consapevolezza di
quanta distanza (epistemologica e culturale) ci sia tra la cura di sé
socratica e la MTC dei cognitivisti, dalla quale scompare totalmente ogni
riferimento al rapporto tra queste attività "superiori" della coscienza
e il mondo. La MTC "cognitivista" - il più delle volte disincarnata,
destoricizzata, decontestualizzata, vista sovente come puro atto di pensiero,
scisso dalle emozioni - è antropologicamente lontana dalla MTC socratica,
anche se ha in comune con essa la specificità dell'atto conoscitivo:
cioè la capacità di trattare l'Io come un "oggetto" da conoscere.
Anche qui, le cose non sono così semplici. L'anima di Socrate, infatti,
non è l'individuo psicologico dei moderni: è un oggetto interno,
un demone impersonale o addirittura sovrapersonale. Ragionare in termini
di "io" e di "soggetto", significa, di fatto, rimanere fuori dall'orizzonte
culturale e gnoseologico degli Antichi. Il loro pensiero è stato
infatti definito correttamente, da Mario Vegetti, un "pensiero senza soggetto".
In ogni caso, è lecito, credo, porsi il seguente interrogativo:
in qualemisura la curvatura *antiriduzionista* della MTC socratica (ed
antica) può tornare utile alla nostra riflessione attuale?
Mi fermo qui. Avrei voluto sviluppare altre considerazioni, soprattutto
attorno a due punti: il tema della relazione tra cognizione ed emozione
(con qualche cenno al "lascito" del barocco), ed il tema della relazione
tra queste problematiche ed alcune importanti e recenti elaborazioni (a
carattere *non riduzionista*!!!) nell'ambito delle neuroscienze.
Non so se troverò la forza e il tempo di farlo. Le mail troppo
lunghe mi creano qualche problema: quando le scrivo e quando le leggo...
:))) Questa mia mail è comunque troppo lunga, e me ne scuso con tutti
voi. Cordiali saluti
15-1-2000, From: Gian Paolo Scano ("Metacognizione")
Tornando in linea dopo un'assenza assai lunga, ho letto di corsa i
numerosi interventi sulla metacogizione. Mail dopo mail sentivo crescere
l'interesse, ma anche la perplessità; l'idea di metacognizione,
piuttosto che precisarsi mi si confondeva e soprattutto andava perdendosi
dietro quinte molto più interessanti. Forse non è un caso
che la discussione abbia tracimato in territori quali la coscienza, la
coscienza della coscienza, la riflessione, l'autoriflessione, l'osservazione,
l'auto-ossevazione, il sapere e il non sapere socratico sino al problema
del "chi" osserva, metaosserva, conosce o metaconosce "cosa". Dico non
a caso perché ho il sospetto che il termine metacognizione sia il
risultato di una lodevole, ma ingannevole "operazionalizzazione", che tenti
cioè di definire, (rischiando di fattorializzare e di entificare)
ciò che invece a me sembra il prodotto finito dell'operare complessivo
del cervello di homo sapiens sapiens. Da questo punto di vista sono del
tutto d'accordo con le puntualizzazioni e preocupazioni di Cavagna quando
sottolinea che la "cosidetta metacognizione" non può essere intesa
come "un processo ultrasintetico dell'Io, che rimanda alla fantasia di
una "piramide idealista" che dalla semplice percezione accede a livelli
"superiori" della coscienza". D'accordo con lui preferisco considerare,
invece, "la coscienza come il risultato complessivo "di superficie" di
processi multipli e sovrapposti, che si "riducono" in uno stato mentale".
Anch' io credo che pensare alla metacognizione o a qualunque prestazione
"alta" in termini di "funzione" superiore sia un gioco pericoloso che produce
inesorabilmente "enti-menti", "omunculi" e ingombranti "sé". Fatta
questa premessa, vorrei esprimere due riflessioni come contributo alla
discussione.
1) Anzitutto la "coscienza". Ho qualche dubbio che sia utile e conveniente
proiettare in un "inizio" strumentalmente scelto (Socrate e perché non Amenofis IV, Davide o Geremia?...) domande e problemi relativi alla
Coscienza che non sono del tutto chiare nemmeno oggi, interpretando gli
asserti di ieri con le domande di oggi. Dico questo perché la distinzione
tra "coscienza", "coscienza della coscienza" e "autocoscienza", sarà
stata anche chiara per i greci (ma io ho qualche dubbio), è certo,
tuttavia, che non era così chiara all'inizio di questo secolo. Freud
(non il signor Bonaventura, quindi!) , per esempio, sicuramente a livello
descrittivo padroneggiava la distinzione, ma tuttavia confondeva la "coscienza"
con l' "autocoscienza" nelle sue descrizioni dell'emergere dell'Io, tanto
è vero che egli riferisce l'inizio dell'Io e della costruzione della
realtà al momento in cui comincia a definirsi una distinzione tra
corpo e oggetto, tra interno ed esterno, ciò che naturalmente implica
il non riuscire a comprendere la coscienza se non in termini di autocoscienza.
Ma a parte Freud, molta psicoanalisi ancora oggi si rappresenta il neonato
come un piccolo adulto larvale impegnato a costruirsi precocissime rappresentazioni
in qualche modo "proprie" e separate dagli oggetti e talvolta persino complicate
elucubrazioni degne di un Aristotele in sedicesimo. In realtà la
definitiva precisazione di questo punto è molto recente ed è
merito, sul piano filosofico, di sir B. Russel (e di Ryle con la distinzione
tra conoscenza procedurale e conoscenza descrittiva), ma soprattutto è
merito della psicologia animale. E' stato infatti il progressivo chiarirci
le idee sulla "coscienza" animale che ci ha consentito di capire meglio
la nostra coscienza. Un pipistrello (giusto per rendere omaggio a Nagel)
senza occhi e con il suo radar è del tutto vigile e cosciente e
in grado di muoversi nella sua "mappa del mondo" evitando gli ostacoli
e centrando le zanzare. Certo noi non sappiamo "cosa si prova ad essere
un pipistrello", ma nemmeno lui lo sa perché presumibilmente è
troppo impegnato ad essere un pipistrello per perdere il suo tempo in domande,
per lui, inutili. Uno scimpanzé invece sembra proprio che sia in
grado di potersi riconoscere e che in qualche modo si possa considerare
un "agente separato" dunque dobbiamo attribuirgli una sorta di "autocoscienza".
Anche in questo caso sfortunatamente non sappiamo "cosa si prova a essere
uno scimpanzé" e anzi, se vogliamo credere a Gallup, quando è
allevato da umani, tenderebbe a "credersi un umano". Noi invece sappiamo
essere vigili come un pipistrello muovendoci nella mappa del nostro mondo,
siamo "autocoscienti" in quanto sappiamo includere nei stessi nella mappa,
sappiamo descriverci (e già noi parliamo e il linguaggio ci regala
la posizione "meta") le nostre emozioni, rappresentazioni, desideri, scopi
e persino fantasie e sogni, abbiamo una serie di competenze che sappiamo
tranquillamente eseguire, (infatti possiamo parlare senza essere grammatici)
e possiamo descrivere le nostre competenze e lavorando sulla descrizione
inventare nuove competenze e nuove possibilità di descrizione. Ciò
che sto tentando di dire allungando troppo il brodo è la scoperta
dell'acqua calda: la coscienza l'autocoscienza e via dicendo sono problemi
complicati, ma diventano più addomesticabili se ci ricordiamo di
Darwin.
2) la seconda riflessione riguarda il "chi", secondo quanto scrive Dario:
Mi viene da domandare: chi è che racconta?. Il problema è
in quel chi. Quando io rifletto sul mio pensiero, chi riflette sul pensiero
di chi, e chi ascolta queste riflessioni? Cavagna risponde:
>Personalmente ritengo più semplice pensare che per avere un
"chi" occorre
>un lavoro di continua mobilitazione degli schemi mentali e di organizzazione
>gerarchica degli stessi ecc.
Tullio invece dice (a Cavagna):
>Questa mi sembra una risposta "cognitiva". Una risposta "metacognitiva"
>potrebbe essere: "non lo o, forse è impossibile saperlo, certo
non lo saprà
>mai un soggetto che si pone di fronte a un oggetto; invece è
possibile, anche
>se non è facile, accedere a un livello di esperienza in cui
quella differenza
>viene temporaneamente meno, come indicano, senza andare troppo lontano,
>LaBerge e Tholey; a quel livello non si 'sa' nulla, nel senso comune
del
>sapere, ma forse si 'sa' qualcosa in un altro senso". Temo che per la via indicata da Tullio si possa riuscire "in un altro
senso" anche a "pensare i pensieri di Dio". Lo dico con sincera invidia
per quanti sono sicuri della percorribilità di queste vie. Per le
nostre tematiche e i nostri mezzi, penso però che questa risposta
sia off topic. Anche per questo problema penso che Darwin sia più
utile di Kant e di Aristotele. Io provo a dire come la penso e avverto
che si tratta ancora della scoperta dell'acqua calda. Si tratta di scegliere:
o il "chi" è un "prodotto" (dell'evoluzione, del cervello, della
relazione tra il cervello e l'universo semantico intersoggettivo) o è
il "padrone del vapore". Sorvolo sulla possibile terza via, (quella furbetta:
è un prodotto, ma, per vie oscure, è anche il padrone del
vapore e, perciò, restano buone tutte le meditazioni cartesiane!),
salto la seconda, lasciandola a che riesce a crederci, e mi fermo sulla
prima. Parliamo di "Giacomo".
i) Giacomo non ha un "profondo, più profondo, più profondo"
o come dice Dennett, uno "studio ovale" da cui procedono le decisioni,
in cui risuonano i vissuti e i sentimenti "più veri". La sua unità
è costruita e come tale è precaria. Essa poggia: a) sull'organizzazione
biologica dell'organismo; b) sul programma di costruzione e sul funzionamento
del suo "Io-me", che da tale organizzazione si sviluppa; c) sulla "continuità"
soggettiva della sua storia.
ii) Tale programma lo si può intendere come qualcosa di analogo
a ciò che fa si che nascano formiche adatte al formicaio, in modo
tale che esse possano formare il formicaio, il quale a sua volta "produce"
formiche adatte al formicaio: e dunque il programma è ciò
che consente ai membri della specie umana di formare un "Io" adatto all'ambiente
linguistico e semantico intersoggettivo, di modo che tali "Io" possano
continuare a formare l'ambiente linguistico e semantico intersoggettivo.
Presumibilmente questo "programma" non sta materialmente né nel
cervello della formica né nel "cervello del formicaio", ma sarà
piuttosto la "regola di interazione formica-formicaio". Nel caso di Homo
sapiens e del suo territorio semantico e linguistico, saranno le regole
di relazione tra lâ "ambiente semantico" e il cervello. Il cervello con
la sua organizzazione strutturale, la sua progettualità e le sue
modalità operative è in rapporto all'ambiente semantico.
Sul piano filogenetico, tale rapporto, (analogo a quello formica-formicaio,
spinarello-ambiente "spinarellato", lupo-ambiente lupizzato) ha coprodotto
l'ambiente semantico e il cervello sintonico con l'ambiente semantico in
modo circolare e tale che il mondo semantico riflette le modalità
mentali della produzione di senso e le modalità mentali di produzione
del senso riflettono quelle del mondo semantico.
iii) Quando Giacomo nasce non ha un "Io", ma ha tutto quello che serve
per costruirne uno (la psicoanalisi ha sempre equivocato tra l'Io" e la
strumentazione che serve per costruirne uno) in virtù di tale strumentazione
egli si trova scaraventato (e a questo livello egli è comunque già
un "tu" nel discorso) su un terminale virtuale di quella sorta di Internet,
che è il mondo semantico intersoggettivo che lo avvolge. Il cervello
di Giacomo, (come il cervello dello spinarello, dell'oca, o del lupo, al
loro livello), è strutturato per interagire con l'ambiente umano
linguistico e semantico. Tale sincronizzazione si verifica di fatto con
la formazione di un "Io" (che è, a un tempo "modo", "forma", "strumento",
"effetto" e "causa" della sincronizzazione) secondo un programma che rifletterà
la struttura interconnessa di internet e del cervello produttore-prodotto
di Internet.
iv) Presumibilmente, ci fu un tempo in cui un internet rudimentale
già esisteva e funzionava efficacemente da qualche centinaio di
migliaia di anni almeno, senza che ai punti di accesso corrispondesse alcun
"Io" e nemmeno dei "Tu". Impastati come siamo nella semantica e nel linguaggio
è difficile per noi figurarci una tale situazione, che però
dovrà pur esserci stata: l'antenato comune di Lucy e degli scimpanzé
del suo tempo non parlava; è difficile pensare che Lucy parlasse,
forse Homo habilis o erectus: piano piano il linguaggio è nato come
sviluppo delle forme di comunicazione, che già esistevano ed esistono
nei mammiferi. A meno di ipotizzare un demiurgo o un sapiente abitante
di Vega, che sulle rive del lago Turkana, un giorno, inopinatamente, insegnò
agli habilis o agli erectus la grammatica e la sintassi, sembra logico
pensare a un linguaggio compatibile con la semplice coscienza. A quel tempo,
forse ai primordi di homo sapiens, intorno a un bivacco, i nostri progenitori
erano del tutto in grado di progettare un piano di caccia. Del resto anche
i lupi lo sanno fare e senza parlare! Essi invece proto-parlavano e, presumibilmente
erano in grado di prospettare semanticamente le situazioni e le occorrenze
evocando immagini, ricordi e suggerimenti. Secondo una congettura di D.
Dennett, poteva accadere che "quando uno di questi ominidi si trovava in
difficoltà con un progetto "chiedesse aiuto", e in particolare "chiedesse
informazioni". Talvolta l'uditorio presente poteva rispondere "comunicando"
qualcosa, che aveva l'effetto giusto sul richiedente. Anche a quei lontani
sapiens, però, accadeva di star soli e di trovarsi di fronte a difficoltà;
forse, in quelle situazioni, la soluzione o i suggerimenti potevano risuonare
con le parole di un membro del clan, che si era già trovato di fronte
a quel problema. Le parole di un altro nella mente! Oppure secondo la congettura
di Dennett
"un bel giorno... uno di questi ominidi chiese aiuto 'erroneamente'
quando non c'era nessun uditorio utilizzabile a portata di voce - tranne
lui stesso! Quando udì la sua propria richiesta, la stimolazione
lo spinse a produrre proprio quel tipo di vocalizzazione in aiuto di altri
che la richiesta da parte di altri avrebbe provocato. E con grande gioia,
quella creatura scoprì che aveva spinto sé stesso a rispondere
alla sua propria domanda".
Questa naturalmente è una favola, ma la morale è che
l'Io è la parola di un "altro nella mente" che l'Io (l'autocoscienza)
è nato e nasce nella rete della comunicazione linguistica, che è
il linguaggio a creare tutti gli spazi meta, per questo il pipistrello non
sa di essere un pipistrello e uno scimpanzé, pur potendosi riconoscere,
non può dirsi-dirci cosa si prova a essere uno scimpanzé.
Ma a ben guardare nemmeno io so dire bene cosa si prova a essere Gian Paolo
Scano o cosa si provava a esserlo 20 anni fa, dato che se leggo quello
che allora scrivevo, so per certo di essere io quello che scriveva, eppure
ho la fastidiosa sensazione di leggere qualcosa scritta da un altro o quantomeno
devo usare le stesse modalità di interpretazione che utilizzo qaundo
leggo le cose scritte da un altro "Io". Mi sa che l'Io è un prodotto
precario. Avevo avvertito che intendevo parlare della scoperta dell'acqua
calda! Saluto tutti e a tutti porgo, in ritardo, gli auguri per il neonato
anno 2000.
15-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")
On 8/01/2000 Davide Cavagna wrote:
>Presumo che la sospensione implichi un particolare dispositivo mentale
in
>grado di sospendere; come funziona?
Il tentativo di riportare la metacognizione a un "dispositivo mentale",
di cui ti chiedi "come funziona", mi sembra corrispondere all'intenzione
di ricondurla nell'alveo del pensiero meccanicistico. Ma il pensiero metacognitivo
(riflessivo, creativo) è tale perché fa uso di "servomeccanismi"
(come felicemente ti esprimi più sotto), senza essere riducibile
a questi. La sospensione del funzionamento percettivo-cognitivo automatico,
dei suoi schemi e meccanismi, avviene (quando avviene): è un fatto
osservabile. Se questa sospensione fosse a sua volta dovuta all'attivazione
di un qualche meccanismo, la sospensione sarebbe naturalmente solo apparente:
nella grande macchina del cervello si passerebbe semplicemente da un tipo
di funzionamento a un altro. Tuttavia l'evidenza è che la mente
umana è capace di lavorare anche in modo consapevole, cioè
non meccanico, non automatico, non prevedibile. Questa è l'evidenza.
Se tu preferisci pensare che anche la consapevolezza sia il prodotto di
qualche meccanismo ignoto, padronissimo. Ma questa sarebbe appunto una
preferenza, non un'argomentazione.
>Potremmo dire che il soggetto è servoassistito dai suoi meccanismi,
per cui
>ha uno spazio di manovra più libero? Questo a mio avviso non
significa che
>funziona a un livello superiore, ma soltanto che funziona con maggior
>discrezionalità.
Da un funzionamento automatico a uno anche solo parzialmente consapevole
si passa da discrezionalità 0 a discrezionalità diversa da
0: quindi a un livello superiore.
>Se con metacognizione "emozionale" intendi qualcosa di affine all'insight
>sono d'accordo. Prorpio perché riguarda l'"in-sight" (la vista
interna) che
>ritengo che la metacognizione sia afferente alla auto-osservazione
(mentre
>Carere sembra non ritenerlo un fattore discriminante).
L'autoosservazione di per sé non è metacognitiva, anzi
spesso è un atteggiamento patologico, come l'uso prevalente dell'aggettivo
inglese "self-conscious" testimonia. Se l'autoosservazione è governata
da un meccanismo ansioso, o narcisista, o simili, ovviamente è un'operazione
cognitiva e non metacognitiva. L'insight invece è una visione interna
cheavviene grazie al fatto che è stato aperto uno spazio metacognitivo
in cui si può vedere qualcosa che i meccanismi cognitivi oscuravano.
On 12/01/2000 Mario Galzigna wrote:
>Nella lezione 31 dell'Introduzione alla psicoanalisi,
>del 1932 ("La scomposizione della personalità psichica"),
>Freud si chiede: "L'Io è il soggetto per eccellenza, come può
diventare
>oggetto"? E continua: "L'Io può prendere come oggetto sé
medesimo,
>trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi (...) Così
facendo,
>una parte dell'io si contrappone alla parte restante. L'Io è
dunque
>scindibile". Questa parte verrà chiamata Super-io (o coscienza
morale), a
>cui viene attribuita, tra le altre, la capacità di "autoosservazione".
Infatti, la funzione di autosservazione può ben essere, e molto
spesso è, superegoica: nel senso che per lo più l'autosservazione
non è affatto neutralizzata, sospesa, ma ansiosa e autocritica.
>Questa autoosservazione che obiettivizza l'Io potrà anche assumere,
>nell'ambito della psicoanalisi freudiana, la caratteristica di un
>"insight": ma se l'insight è solo intellettivo - e quindi privo
di ogni
>componente emozionale - sarà anche possibile vederlo come un
>meccanismo difensivo, di carattere superegoico, nei confronti di idee
o di
>affetti che l'Io non riesce a vivere ed a tollerare.
Esatto. Se questa autoosservazione superegoica produce un "insight",
non può trattarsi che di uno pseudo-insight: precisamente "un meccanismo
difensivo, di carattere superegoico".
>una MTC che ha per oggetto un certo vissuto emozionale, dovrebbe, normalmente, possedere
>anch'essa una certa coloritura emotiva. In caso contrario - nel caso,
ad
>esempio, in cui la MTC sviluppatasi a ridosso di una emozione intensa
sia
>"soltanto" un atto cognitivo (asettico, neutro) - non sembra illegittimo
il
>sospetto che si tratti, per l'appunto, di un meccanismo difensivo,
o
>critico, o correttivo: tale, quindi, da alterare o da filtrare l'emozione di partenza.
Distinguerei tra "asettico" e "neutro", essendo il primo aggettivo
appropriato per il meccanismo difensivo, il secondo no. La metacognizione
presuppone una sospensione o neutralizzazione di ogni automatismo ("del
desiderio e della memoria"). Lo stato di consapevolezza che ne deriva può
essere detto neutro, in quanto non parteggia per, o non si identifica con,
alcuna motivazione "ordinaria" (non è sospeso il desiderio di conoscere
il vero). Ma questa neutralità non è asettica, o priva di
"coloritura emotiva". Il fatto è che a questo livello nemmeno l'emozione
è più l'emozione ordinaria: è anch'essa una "metaemozione",
come quella che accompagna la "socratica cura di sé":
>La socratica cura di sé (che include,
>al suo interno, una postura metacognitiva), si coniuga sempre al sentimento
>di appartenenza ad un tutto, ad un mondo: il mondo umano (gli altri),
il
>mondo sociale (la pòlis), il mondo naturale (il cosmo)
Così come, si può aggiungere, a questo livello nemmeno
la volontà è più la volontà ordinaria, ma è
anch'essa una "metavolizione": la volontà che vuole il giusto, il
fondamento dell'etica. Qui però bisognerebbe distinguere la vera
etica, basata su questa metavolizione, dalla pseudo-etica di derivazione
superegoica (un impasto di narcisismo infantile e morale convenzionale).
Distinzione troppo ardua per molti psicoanalisti, anche se scrivono libri
sul senso di colpa... Se dunque la metacognizione si accompagna a una metaemozione
e una metavolizione, ci vorrebbe un termine diverso da metacognizione per
evitare il sospetto di un'egemonia cognitiva sulle altre facoltà:
>cura e conoscenza di sé significano, tout court, pratica di
un
>"esercizio spirituale" (per dirla con Hadot) che è al tempo
stesso virtù, affettività, eros
Sì, esercizio spirituale (espressione ripresa da Hadot in un
libro splendido) andrebbe benissimo, se non fosse che è troppo démodé
per molti colleghi. Credo che sarà meglio tenerci la metacognizione,
termine non elegantissimo, ma abbastanza tollerato dalla maggioranza degli
psicantropi.
15-1-2000, From: Davide Cavagna ("Metacognizione")
On 15/01/2000 Tullio Carere wrote:
>Il tentativo di riportare la metacognizione a un "dispositivo mentale",
di
>cui ti chiedi "come funziona", mi sembra corrispondere all'intenzione
di
>ricondurla nell'alveo del pensiero meccanicistico.
>Se tu preferisci pensare che anche la consapevolezza sia il
>prodotto di qualche meccanismo ignoto, padronissimo. Ma questa sarebbe
>appunto una preferenza, non un'argomentazione.
Sarà anche perché siamo al tramonto della metafisica
occidentale, ma per il momento porre domande come "qual è il funzionamento"
e "qual è l'agente" mi sembrano legittime culturalmente e scientificamente.
Altrimenti presupponiamo di avere a che fare con una dimensione della realtà
che non è mostrabile, e come tale non ha valore scientifico.
>L'insight invece è una visione interna che
>avviene grazie al fatto che è stato aperto uno spazio metacognitivo
in cui
>si può vedere qualcosa che i meccanismi cognitivi oscuravano.
L'insight non dipende forse da quella che Bion chiama 'capacità
negativa'? La sospensione non sarebbe allora un più di conoscenza,
ma un meno di conoscenza antievolutiva...
>Infatti, la funzione di autosservazione può ben essere, e molto
spesso è,
>superegoica: nel senso che per lo più l'autosservazione non
è affatto
>neutralizzata, sospesa, ma ansiosa e autocritica.
Utilizzi però in questo caso superegoico come sinonimo di patologico,
cosa su cui mi sembra non si possa concordare. Il problema di Freud è
che l'osservatore interno "deve" permanere come funzione psichica dissociata
per consentire all'Io di operare.
>Il fatto è che a questo livello nemmeno l'emozione è
più
>l'emozione ordinaria: è anch'essa una "metaemozione", come
quella che
>accompagna la "socratica cura di sé":
Ma non è più semplice pensare a questa "sospensione"
non come a una metaemozione, ma semplicemente come all'emozione del sollievo
che subentra alla riduzione della tensione? Ovvero l'effetto di una tonicità
psichica ottimale? Perché ne fai qualcosa che sta su un altro piano,
come se non ci potesse poi essere un sollievo ad esempio misto a rabbia
(cioè un'emozione mista a un'altra emozione?). Altrimenti temo che
finiremo con il pensare che la metacognizione serve al conseguimento dell'atarassia
e non all'azione nel mondo.
15-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Metacognizione")
Vorrei aggiungere qualche altra considerazione, in particolare su una
questione che mi sta sorgendo...: che rapporto esiste fra metacognizione
ed empatia? Fonagy nel suo scritto segnala questo legame, notando come
la possibilità di cogliere sé stessi in quanto pensanti (e
percepenti) è la premessa per poter cogliere gli altri in quanto
pensanti (e percepenti). Sembra un procedere strettamente legato a quello
descritto da Husserl per scoprire, in modo fenomenologico, l'altro: solo
nella opacità che trovo nel mio osservare gli oggetti del mondo,
in cui lo sguardo ad un certo punto incontra me stesso, cioè la
mia esistenza, trovo la possibilità di scoprire l'opacità
rappresentata dagli altri, cioè la loro esistenza. Riflettere su
di me porta a riflettere sugli altri. Scoprirmi, porta a scoprire gli altri.
La questione che si pone è però, a questo punto, di dove
collocare la possibilità di percepire empaticamente l'altro. La
possibilità di attingere ad elementi che sono in me, per scoprire
la loro identità con quanto prova l'altro, e scoprire anche che
è l'altro che li ha attivati, cioè quindi che sta provando
quelle cose, è una vicenda emotiva o cognitiva, anzi, metacognitiva?
La empatia è stata vista talvolta con sospetto per il suo attingere
a elementi poco definibili, legati a vicende emotive, ad un sentimento,
con tutti i rischi che può avere un sapere creato su queste basi.
Nel caso della terapia poi si aggiunge anche il rischio di un agire su
queste basi... Ora il sospetto invece è che sia una operazione in
parte metacognitiva, che richiede proprio la possibilità duale di
osservare sè stessi, di poter riconoscere la esistenza degli altri,
di poter discriminare quanto di me stesso è mio e quanto per risonanza
all'altro, e quindi dell'altro. Come a dire che è una forma della
coscienza, anzi, una forma particolarmente raffinata della coscienza. Non
dunque (o per lo meno, non solo) un elemento del sentimento, ma una complessa
(e molto fragile...) operazione cognitiva su di esso. Giusto per aggiungere
una questione... come se quelle in campo non fossero già abbastanza
:-))
15-1-2000, From: Andrea Angelozzi ("Sognare lucido")
Ho controllato il riferimento che ricordavo a memoria: si trattava
di specifici movimenti oculari che erano stati concordati prima con gli
sperimentatori. Il riferimento si trova in: LaBerge & Rheingold, Exploring
the World of Lucid Dreaming, Ballantine, New York, 1991, pp. 23,24. Gli
esperimenti vennero condotti presso il Laboratori del Sonno alla Stanford
University, sotto controlli poligrafico dell'EEG, del tono muscolare e
dei movimenti oculari. Oltre agli esperimenti con LaBerge, quelli con altre
dozzine di soggetti hanno confermato questa possibilità.
16-1-2000, From: Tullio Carere ("Metacognizione")
On 15/01/2000 Gian Paolo Scano wrote:
>Ho qualche dubbio che sia utile e conveniente
>proiettare in un "inizio" strumentalmente scelto (Socrate e perchè
non
>Amenofis IV, Davide o Geremia?... ) domande e problemi relativi alla coscienza
Non so quale sia stato il contributo di Amenofis IV, ma quello di Socrate
è ancora oggi attualissimo. Come è vero che oggi, come ieri,
c'è una vasta maggioranza di umani che credono di sapere qualcosa
di positivo (per es. che siamo il prodotto dell'evoluzione), e su questo
sapere costruiscono il loro stare nel mondo. E ce ne sono altri, nettamente
in minoranza, che sanno unicamente di non sapere nulla di certo, e su questo
non sapere fondano la loro esistenza.
> noi parliamo e il linguaggio ci regala la posizione "meta"
Magari la posizione meta fosse un dono del linguaggio. Si può
parlare tutta la vita senza mai sfiorare la posizione meta: quella in cui
si sospende la validità di tutto ciò che si crede di sapere.
Se non lo facciamo noi, comunque, lo fa il tempo. Prendi le certezze scientifiche
di cui sei così orgoglioso, come il darwinismo. Fra duecento anni
al massimo, ma credo molto prima, queste cose saranno fiabe per bambini,
come lo sono per noi i miti scientifici del medioevo. Invece la distinzione
tra chi crede di sapere positivamente qualcosa, e chi sa di non sapere
nulla, non ha perso nulla del suo valore euristico nel corso dei millenni.
> è il linguaggio a creare tutti gli spazi meta,
Esattamente al contrario, uno spazio meta si apre quando uno impara
a tacere, almeno per qualche attimo. L'incapacità di tacere (di
sospendere l'incessante verbalizzazione interna) è la migliore dimostrazione
della natura automatica, non consapevole, del meccanismo cognitivo dichiarativo
con cui continuiamo a costruire e a tenere assieme il nostro io e il nostro
mondo. E' vero che Socrate non sta in silenzio a lungo: sospende il sapere
ordinario, ma riparte subito con discorsi spesso pesantemente razionalistici.
Questa maieutica martellante è stata ben vista da Nietzsche come
la parte caduca della filosofia socratica. A questa ricaduta cognitiva
Nietzsche contrappone il momento metacognitivo del "genio del cuore", che
ho citato in una mail precedente: "Il genio del cuore... che insegna a
porsi in ascolto, che leviga le anime scabre e infonde loro un nuovo desiderio
da assaporare - quello di starsene taciturni come uno specchio affinché
in esse si rispecchi il profondo cielo".
> Ma a ben guardare nemmeno io so dire bene cosa si prova a essere.
Gian Paolo Scano
Finalmente un piccolo spiraglio metacognitivo...
>Mi sa che l'Io è un prodotto precario.
Altroché. L'Io nasce nella rete del linguaggio, come giustamente
osservi, e non si regge senza rete. La consapevolezza, invece, esiste solo
al di fuori di quella rete. Ma non dimentichiamo che stiamo discutendo
su una lista di psicoterapia. Qual è la materia prima della psicoterapia?
Non è l'esperienza? Saremo tutti d'accordo che una terapia con tanti
discorsi e poca esperienza è una terapia che non vale niente, no?
E come si ottiene che una persona presa nella rete dei propri discorsi
ripetitivi, sterili, circolari, inizi a fare veramente esperienza? A volte
lo si ottiene con un'interpretazione azzeccata, ma è raro. E' invece
molto più semplice e diretto invitare il paziente, dopo che ha detto
quello che aveva da dire, a tacere e mettersi in ascolto dell'esperienza
elementare, proprio di ciò che sente in questo momento a livello
corporeo, e a parlare solo per descrivere ciò che sente. Con un
po' di pratica il paziente impara a entrare in contatto con quella che
Nietzsche chiamava la "saggezza del corpo", la percezione preverbale, precategoriale
di una situazione o di un problema. Bisogna emanciparsi dal mito della
terapia come "talking cure". Parlare va bene, anzi è necessario,
purché sia un parlare dell'esperienza: un parlare consapevole, quella
parola che è generata dal silenzio, non dalla rete dei significanti
in cui il soggetto, e tutta la cultura in cui è immerso, sono impigliati.
19-1-2000, From: Giovanni Ruggiero ("Emozioni [per I. Taddei]")
Rispondo ad Ileana Taddei a proposito del nostro scambio di messaggi
sulle emozioni (il nostro mini-dibattito si è tenuto finora a latere
a quelo della che finora si è tenuto a latere a quello della metacognizione,
eppure gli è, secondo me, strettamente correlato).
Cara Ileana, ho riflettuto sulle tue obiezioni, e sono giunto alla
conclusione che il problema è sempre la difficoltà a distinguere tra emozione e cognizione. Per questo motivo, chiamerò ora la "cognizione"
con il termine più giusto di "elaborazione dell'informazione", mentre
userò il termine "emozione" solo per indicare una categoria di esperienze
psichiche.
Ora, già al livello della "elaborazione dell'informazione" la
situazione non è semplice. Come è noto, i meccanismi sono
molteplici. Per semplicità, posso limitarmi a citare due gruppi
principali, quello delle cognizioni esplicito-dichiarative, che chiameremo
di tipo A, e che sono elaborate in sequenza, in maniera consapevole, sono
generate in differita ed usando codici combinatori di segni dichiarativi;
e quelle che chiameremo di tipo B, che sono procedurali (quindi non fanno
uso di codici combinatori di segni espliciti), istantanee e continue (e
quindi non differite), non del tutto consapevoli ed elaborate in parallelo
(e non in sequenza).
Ora, l'articolo di Lazarus che rispondeva a Zajonc si intitolava: "On
the primacy of cognition"; la risposta di Zajonc era invece intitolata:
"Feeling and thinking: preferences need no inferences". E' evidente che
Lazarus si riferiva ad un significato molto lato di cognizione, come qualunque
fenomeno mentale di elaborazione dell'informazione, mentre Zajonc si riferiva
soltanto alla manipolazione consapevole di segni dotati di significato
non ambiguo all'interno di codici combinatori logici (Inference).
Veniamo ora a Power e Dalgleish. Essi dicono che, accanto ai due tipi
di elaborazione dell'informazione, vi sono anche due vie alternative di
generazione delle emozioni può seguire due vie fondamentali ed alternative
(Power e Dalgleish, 1997). La prima, legata alle forme di pensiero superiore
e logico-gerarchico, che proviene da una valutazione soggettivamente ragionevole
di una situazione; la seconda, di tipo più primitivo, legata ad
un'associazione diretta.
Ora bisogna tenere ben presente che non bisogna fare confusione tra
i due tipi di generazione delle emozioni ed i due tipi di elaborazione
dell'informazione. In realtà, si tratta di fenomeni differenti.
E' vero che le emozioni sembrerebbero più strettamente collegate
alla cognizione di tipo procedurale. Parrebbe che la componente valutativa
delle emozioni sia in realtà di tipo procedurale: ogni emozione,
infatti, ha una componente di riconoscimento (appraisal) di un evento come
positivo o negativo, ed una componente di generazione di schemi operativi
associati (action readiness). Ora entrambi queste componenti presuppongono
schemi cognitivi procedurali complessi, ma niente affatto obbligatoriamente
associativi (cioè meccanici? bisognerebbe capire bene cosa intendono
Power e Dalgleish).
A questo punto, distinguendo quindi tra almeno due tipi di elaborazione
dell'informazione e due tipi di generazione del segnale emotivo, è
più facile orientarsi. Possiamo tentare una definizione in quattro
punti. 1) Tenendo ferma la definizione di emozione come evento complesso
di tipo valutativo, essa si caratterizza prima di tutto per la sua natura
di esperienza psichica, che contiene una sua quota di informazione intrinseca
sia retroattiva (valutazione di un evento rispetto ai goals) che proiettata
in avanti (ogni emozione implica dei programmi operativi di reazione agli
eventi) (del resto, qualunque evento psichico ha la sua quota di informazione:
ad esempio, le percezioni) 2) Come segnale valutativo, l'emozione può
legarsi a qualsiasi processo mentale di elaborazione delle informazioni:
sia a quelli di tipo procedurale che quelli di tipo esplicito. E' questa
la posizione di la posizione di Damasio (1994) e Damasio & Damasio
(1996). 3) Ha però ragione anche Zajonc quando nota che l'emozione
è una esperienza psichica soggettiva; aggiungiamo che l'emozione
comunque porta con sé una quota intrinseca di informazione che è
di tipo implicazionale, inconsapevole ed assolutamente non esplicita. 4)
E' difficile dire poi quanto questa quota implicazionale sia associativa
o meno. Se per associativo si intende un sottogruppo dell'elaborazione
procedurale dell'informazione particolrmente semplice e diretta, diremo
che la sua forza diminuisce a mo' di gradiente andando da un primo livello
di appraisal primario di mera positività-negatività dell'evento,
al secondo livello delle 5 o 6 emozioni di base, per arrivare poi al livello
delle emozioni complesse, altamente cognitivizzate.
Bibliografia
Lazarus, R.G. (1984). On the primacy of cognition, American
Psychologist, 39, 124-129.
Lazarus, R.L. (1991). Emotion and Adaptation. Oxford:
Oxford University Press.
Lazarus, R.G. (1984). Thoughts on the relations between
emotion and cognition, American Psychologist, 37, 1019-1010.
Mandler, G. (1982). The structure of value: Accounting
for taste. In M.S. Taste and S.T. Fiske (eds), Affect and Cognition, Hillsdale,
N.J.: Lawrence Erlbaum.
Zajonc, R.B. (1980). Feeling and thinking: preferences
need no inferences. American Psychologist, 35, 151-175.
Zajonc, R.B. (1984). On the primacy of affect. American
Psychologist, 39, 117-123.
Zajonc, R.B., Pietromonaco, P. and Bargh, (1982). Independence
and interaction of affect and cognition. In M.S. Clarke and S. T. Fiske
(eds), Affect and Cognition, Hillsdale, N.J.: Lawrence Erlbaum.
27-1-2000, From: Paolo Migone ("forward: Workshop sulla
Funzione Riflessiva")
Mando in lista PM-PT questo forward di Gherado
Amadei dalla lista di Psicologia, dove si pubblicizza un Workshop
sulla Funzione Riflessiva di Fonagy, dato che abbiamo discusso della
metacognizione:
26-1-2000, From: "Angelo
Compare" (Newsgroups: it.scienza.psicologia)
Subject: Workshop sulla "Funzione Riflessiva"
a Milano
Cari colleghi, ho il piacere di segnalarvi che il giorno
29-01-2000 si terrà a Milano il primo Workshop sulla "Funzione
Riflessiva" o "Reflective Function". Questa è una abilità
mentale che è stata definita teoricamente e operazionalizzata, attraverso
un Manuale di valutazione, da Peter Fonagy e dai suoi colleghi dell'UCL
di Londra. Il suo utilizzo riguarda sia gli ambiti della clinica e sia
gli ambiti della ricerca clinica, della ricerca in psicoterapia e della
ricerca in psicopatologia e psicologia dello sviluppo. Il Workshop intende
fornire ai partecipanti le conoscenze teoriche necessarie alla comprensione
della "Funzione Riflessiva" e le conoscenze operative necessarie alla valutazione
del livello di "Funzione Riflessiva" di un soggetto. Il Workshop sarà
tenuto dal "Gruppo Italiano della Funzione Riflessiva" che è certificato
alla formazione dagli Autori e al termine sarà rilasciato un certificato
di frequenza di valore internazionale.
6-2-2000, From: Anna Grazia ("Socrate e Freud")
On 01/02/00 Carere wrote:
>Se, come è stato detto da molti e come mi sembra
>ragionevole credere, Freud si è posto un problema simile a
quello di
>Socrate, 'conosci te stesso', allora è chiaro perché
l'attacco riduzionistico fallisce".
Sulla nascita del concetto di "Psiche" nella cultura occidentale, il
richiamo a Socrate e al "conosci te stesso", viene riproposto da Giovanni
Reale in Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone,
Milano: Raffaello Cortina, 1999. L'autore sottolinea come la dimensione
del concetto di 'psiche' sia in stretta relazione con la presenza di un
"altro" con cui si dialoga e si interagisce. Nell'Alcibiade Maggiore Platone
fa dire a Socrate: "l'anima ci ordina dunque di conoscere colui che comanda
"conosci te stesso". Ora l'invito a conoscere se stessi viene avvertito
non tanto come qualcosa che proviene dall'esterno (oracolo di Delfi), ma
come una "voce interna" che ci parla e alla quale rispondiamo. Nel Carmide
si sottolinea che la psiche altrui (ma anche la nostra) può essere
'spogliata' dialogando con essa. Poiché conoscere la psiche vuol
dire dialogare, si può avanzare l'ipotesi che nell'epoca socratica
si sia realizzata un'epocale interiorizzazione delle forme di comunicazione
e interazione sociale: la tecnica dell'argomentazione e del dialogo, insegnata
dai sofisti come mezzo per le transazioni sociali, viene adottata come
strumento di ricerca e conoscenza per la dimensione interiore: qesto rimanda
ad una corrente detta "psicologia discorsiva" (Harré e Gillet, La
mente discorsiva, 1994). Tale dialogo interiore, sempre secondo Reale,
assolverebbe essenzialmente ad una finalità etica, alla realizzazione
di una psiche che sappia discriminare il bene e il bello e in sostanza,
alla fondazione di ciò che intendiamo nella cultura occidentale
con l'idea di "coscienza morale". All'epoca di Socrate il concetto di psiche
muta radicalmente poiché viene assimilato all'immagine dello "spirito
che pensa", che è capace di decisioni morali e di conoscenza scientifica
ed è la sede della responsabilità morale, e in definitiva
alla "cura dell'anima". Socrate precisa che la cura dell'anima non va perseguita
con i farmaci, ma con "bei discorsi". Si inaugura con la lezione socratica
la direzione di ricerca sulla psiche che insiste sulla dimensione educazione-trattamento
attraverso il dialogo: questo concetto della "cura dell'anima" attraverso
le parole apre la strada ad una tradizione che corre per tutta la storia
dell'Occidente, da Sant'Agostino a Freud.(In fondo il motto "conosci te
stesso" è molto prossimo a quello psicoanalitico di "autorischiaramento").
Questa linea di ricerca correrà parallela all'altro tipo di ricerca
sulla psiche, che viene studiata come 'oggetto' di natura che è
il principio fondativo della c.d. "psicologia scientifica".
La concezione della psiche come oggetto di natura, e non come luogo
socratico che consente il dialogo con altri e con sé stessi, è
stata ripetutamente criticata da Galimberti in Psiche e technè,
all'interno di una linea di pensiero (da Diltey a Jaspers) che ha messo
in evidenza i limiti di una psicologia modellata sui criteri di scientificità
delle discipline fisiche e naturali, fino al punto di mettere in discussione
la concezione di psicologia come "scienza forte", tanto da suscitare dibattito
e polemiche tra gli esponenti della psicologia scientifica contemporanei.
Sappiamo che ogni discorso sulla storicità (e relatività)
sui propri costrutti e dei propri risultati mette in crisi lo scienziato
non
addestrato alla riflessione epistemologica e storica. Quando Galimberti
afferma che la tecnica è nata non come espressione dello "spirito"
umano, ma come "rimedio" alla sua insufficienza biologica, ci troviamo
non solo immersi nel mito di Prometeo, ma a tutto lo sviluppo della psicologia
del secolo scorso(da Vygotski e Meyerson fino a Brumer e Norman).
La conclusione di questa linea di ricerca di Galimberti (e di altri)
è che la psiche occidentale (con tutte le sue protesi tecnologiche)
può essere pensata come lo strumento di cui si è dotata la
specie umana per superare la propria finitezza e instabilità, facendo
perno sulle strategie dell'anticipazione interiore rispetto al mondo esterno,
sia sul piano degli eventi sociali che naturali. 8-2-2000, From: Tullio Carere ("Socrate e Freud")
On 06/02/2000 Anna Grazia wrote:
>Sulla nascita del concetto di "Psiche" nella cultura
occidentale...
Conclusione condivisibile con una premessa. Come ha osservato Beierwaltes
(delle cui opere più importanti Reale ha curato l'edizione italiana),
e come ho ricordato in un recente intervento in questo forum ("Fonagy e
Liotti", 27/12/99) il monito delfico "conosci te stesso" è stato
inteso dagli antichi in due sensi, legati da una relazione dialettica. Il
primo senso (presocratico) di questa autoconoscenza è l'accettazione
della propria finitezza (conosci la tua mortalità, la tua differenza
dagli dei, la tua non onnipotenza). Il secondo senso (esplicitato proprio
nell'Alcibiade Maggiore e nel Carmide) riguarda invece il superamento del
senso di finitezza, grazie alla scoperta, all'interno dell'anima, della
capacità di trascendere ogni identificazione finita. Questo luogo,
in cui non si sa nulla e non si è nessuno, è la sede del
più autentico esser sé stessi, del "vero sé", diremmo
oggi. E' lo spazio della metacognizione, scoperto per la prima volta in
Occidente da Socrate: lo spazio della ricerca del vero e del giusto, il
fondamento dell'etica e della scienza. E' necessario che i due sensi (presocratico
e socratico) del processo di autoconoscenza - e la dialettica tra questi
due poli - siano tenuti ben presenti, per evitare di cadere da una parte
(una identificazione eccessiva con la nostra condizione mortale, che porta
al materialismo) o dall'altra (una disidentificazione eccessiva dalla medesima
condizione, che porta allo spiritualismo).
7-2-2000, From: Mario Galzigna ("Socrate e Freud [e la metacognizione
(MTC)]")
Scusate se vi ripropongo qui sotto l'ultima parte della mia mail del
12 gennaio, nella quale riprendevo alcuni temi del dibattito portato avanti
in lista sulla metacognizione. In questa parte della mail accennavo ad
una caratteristica peculiare della "cura di sé" che mi sembra assente
nelle elaborazioni di parte cognitivista e di parte freudiana. Lo spazio
(socratico) della metacognizione, di cui parla Tullio - ed anche quello
della "anticipazione interiore rispetto al mondo" (di cui parla Anna, riferendosi
a Galimberti) - non erano mai pensati, nel mondo classico, fuori da una
precisa e riconosciuta appartenenza al tutto: all'HOLON, di cui parla Platone
proprio nel Carmide, quando individua, per la prima volta, lo statuto epistemologico
della medicina, intesa come "scienza della salute e della malattia" ed
anche come conoscenza della *totalità* a cui esse appartengono.
Non è inutile, a mio avviso, ripensare la lezione socratica ponendo
attenzione a questa sensibilità nei confronti della relazione che
intercorre tra la cura di sè ed il suo stretto legame con un sentimento
di appartenenza al tutto (mondo umano, mondo sociale, mondo naturale).
Sto attualmente discutendo, proprio con alcuni analisti, il danno inflitto
alle discipline "psi" da questa negazione della storicità, da questa
*perdita del contesto*, che proietta le categorie in una sfera astratta
ed extramondana. L'etnopsichiatria e l'etnopsicoanalisi non sono forse
nate, a ben guardare, proprio come risposta critica a questo movimento
di universalizzazione delle categorie e, al tempo stesso, a questa concezione
astorica della mente, dei suoi costrutti e del suo funzionamento?
[segue l'ultima parte della mail di Mario Galzigna del 12-1-2000
(cap. 3: MATRICI FILOSOFICHE)]
15-2-2000, From: Marcolongo Fabrizio ("Contact")
Scusate, forse non sono proprio in tema su Fonagy, ma forse lo sono?
Leggendo l'articolo "Eyes
wide shut. La psicoanalisi ha contatto con il reale? Scientificità,
ermeneutica e rapporto al reale nella pratica analitica" di Sergio
Benvenuto, pubblicato su Psychomedia, mi è parso un bellissimo
articolo riguardo al problema della scientificità e alla possibilità
di descrivere l'esperienza analitica, ...anch'io ho considerato il film
Contact, ma da un altro punto di vista, quello effettivamente neurobiologico.
Mi piace pensare che il nostro cervello contiene tutto l'universo, ...in
forma di fotoni.
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