PSICOTERAPIA INTEGRATA
Tavola Rotonda Virtuale avvenuta nel Gennaio-Marzo
1998
Editing a cura di Antonio
M. Favero
Interventi di: Adriano
Alloisio, Andrea Angelozzi,
Salvo Capodieci, Tullio Carere,
Davide Cavagna, Diego Chianese,
Gennaro Esposito, Licia
Filingeri, Gianmaria Galeazzi,
Wilfredo Galliano, Marco
Longo, Paolo Migone, Federico
Paolino, Marina Ricci, Albertina
Seta, Ileana Taddei, Emilio
Vercillo,
Gabriele Zanieri
AVVERTENZA
Quel che segue è l'adattamento in forma di dibattito della discussione svoltasi dal gennaio al marzo 1998 nelle liste di
Psychomedia (PM-PT) sul tema "Psicoterapia Integrata".
Il dibattito si apre con un intervento di Tullio Carere che entra subito nel tema dell'eclettismo che, di fatto, caratterizza la pratica clinica di ogni terapeuta. Tale intervento inaugura il
subject di PM-PT denominato "Psicoterapia Integrata". Si è scelto poi di far seguire all'e-mail di Carere quella di Gennaro Esposito su Ellis che, seppure situata nel
continuum di un altro subject ("Psicoterapie: Riflessioni"), viene più volte ripresa nei successivi interventi sull'integrazione in psicoterapia.
Pur seguendo il fluttuante andamento delle libere associazioni, il dibattito assume quindi la piega di un attento studio di quello specifico aspetto dell'integrazione che riguarda il rapporto tra la psicoanalisi (o "le" psicoanalisi) e la cosiddetta
psicoterapia psicoanalitica. Vi sono posizioni diverse che vanno dall'idea che "una" psicoanalisi non esiste se non in quanto espressione più o meno frammentata di "varie" psicoanalisi e, essendo fittizia la distinzione tra queste ultime e le cosiddette psicoterapie psicoanalitiche, chi fa psicoanalisi integra, di fatto, un insieme molto ampio che comprende pratiche e costrutti teorici il cui elemento unificatore può essere il transfert o il riferimento al concetto di inconscio. Al riguardo, ci sarebbe da osservare come, nella sua storia, la psicoanalisi sia stata sempre piuttosto ben disposta ad integrare nel suo corpo dottrinario contenuti propri dell'antropologia, della letteratura o della filosofia, ma non altrettanto disponibile ad operare integrazioni con altre psicoterapie. Tuttavia, l'integrazione può riguardare esperienze e teorie certamente non limitate all'area della più o meno pura ortodossia psicoanalitica. Le cose integrabili sono tante: non solo le teorie "psi" dal comportamentismo alla
gestalt, ma anche l'ultimo film visto in TV o le suggestioni poetiche di uno
chansonnier, senza dimenticare la componente farmacologica che costituisce spesso una rilevante presenza, in quanto anch'essa "terapia", che ora si contrappone, ora si impone, ora si armonizza con il decorso del trattamento psicoterapico. Insomma, come le vie del Signore, anche le vie del cambiamento umano sono infinite e spesso imperscrutabili visto anche il fatto che, come ricorda Wilfredo Galliano, il tasso di successo terapeutico non differisce poi molto da terapia a terapia. Una seria riflessione sull'integrazione dell'atto psicoterapeutico non dovrebbe quindi prescindere dal tenere presente quegli elementi comuni, spesso non visibili proprio perché non definiti, ma che comunque funzionano e generano cambiamento, al di sotto e trasversalmente ad ogni terapia. Se chi cura il malato è il terapeuta, chi ne guarisce veramente i mali è un agente la cui definizione costituisce proprio l'oggetto della sfida a cui il terapeuta integrato ha scelto di non sottrarsi navigando tra la Scilla del fatalistico Dio della visione metafisica (o della Natura dei naturalisti), e la Cariddi di un cieco e fideistico dottrinarismo culturale.
Emerge poi come l'integrazione non abbia tanto a che fare con l'eclettismo di chi usa contemporaneamente tecniche diverse, ma si riferisca alla capacità di operare una sintesi personale tra strategie operative e concetti clinici derivati da vari orientamenti teorici della psicoterapia. Che poi tali orientamenti costituiscano un
cluster il cui elemento unificatore è la persona del terapeuta (nel quale si integra il mistico e lo scienziato nella posizione F in
O, usando il linguaggio di Bion) porta a pensare che, ovviamente, non tutti possono integrare tutto, ma il che cosa e il come integrarlo potrebbe essere semmai il risultato di una più generale teoria della relazione psicoterapeutica che, come ricorda Tullio Carere, si configurerebbe, in un'ipotetica Scuola Integrata, come "lo studio di ciò che accade quando due persone che convengono di definirsi rispettivamente paziente e terapeuta, si incontrano regolarmente in una stanza e interagiscono". Ed è proprio l'attenzione verso l'interagire all'interno della relazione paziente/terapeuta uno dei possibili elementi che unificano varie modalità psicoterapeutiche, dall'analisi del transfert, propria della psicoanalisi, all'utilizzo transferale dell'ipnosi tanto per citare i due opposti ricordati da Paolo Migone. Due opposti che, passando per i tanto vari e quanto necessari parametri di
Eissler
(1953), portano a riflettere sulla sostanziale inapplicabilità di una psicoanalisi "dura e pura" e a considerare la cosiddetta psicoterapia psicoanalitica non tanto come una sua spuria variante o una riduttiva scorciatoia, ma come il necessario effetto di un'indispensabile processo di integrazione. Su questa linea si inserisce poi l'intervento in cui Carere riporta le affermazioni fatte da Glauco Carloni in un
talk-show televisivo, affermazioni secondo le quali la definizione di psicoanalisi si ridurrebbe tutta nella presenza di un elemento estrinseco quale il numero settimanale di sedute. Il dibattito su questo specifico tema si è sviluppato in un parallelo gruppo di discussione, sempre il PM-PT, significativamente intitolato "miserie della psicoanalisi". Infine, alcune considerazioni sullo junghismo chiosano uno stimolante dialogo con preziosi riferimenti filosofici che arrichiscono la discussione su psicoterapia integrata.
Per quanto attiene all'aspetto formale, per rendere più chiara e scorrevole la lettura si è fatto innanzitutto un lavoro di "ripultura" dei singoli testi che, come è consuetudine nelle
mailing-lists, riportano lunghe citazioni virgolettate (>) delle
e-mail a cui si vuole dare risposta. Per fare ciò si sono attuati dei piccoli e isolati adattamenti formali dei singoli testi (uso del discorso indiretto, del vocativo o della terza persona in luogo della prima, o viceversa, a seconda dei casi), adattamenti che non dovrebbero aver in alcun modo alterato i contenuti concettuali trasmessi. Si è scelto inoltre di dare alla discussione un aspetto che desse al lettore, soprattutto a quello meno abituato allo stile e ai ritmi delle mailing lists, l'idea di assistere in diretta al resoconto di un vivace dibattito tra studiosi: insomma, una tavola rotonda virtuale. Si è perciò preferito utilizzare, dove possibile, il verbo "dire" in luogo del verbo "scrivere" e sostituire parole quali "e-mail", "lettera" o "messaggio" con "intervento" o vocaboli analoghi che denotassero più lo svolgimento di un dibattimento verbale che non un mediato scambio epistolare. Ritengo che tale accorgimento abbia reso giustizia soprattutto agli interventi svolti con particolare immediatezza che, se visti come ponderati atti di scrittura, sarebbero potuti apparire quasi approssimativi o affrettati.
Si sono riportati tutti i contributi prodotti sotto il titolo "Psicoterapia
integrata" fatta eccezione per quelli nettamente off topic
e per brevi tranches riguardanti aspetti personali e irrilevanti per
lo svolgimento del dibattito. Infine, salvo evidenti errori di ortografia
o di battitura, non si è in altra maniera intervenuti sui testi,
lasciando anche eventuali ineleganze e piccole improprietà espressive
che hanno contribuito a mantenere quell'effetto di fresca e appassionata
improvvisazione che è tipico delle mailing lists. Buona lettura.
Antonio M. Favero. Venezia, marzo 1999
TULLIO CARERE: E' ben noto che ogni terapeuta pratica occasionalmente o regolarmente interventi non previsti dal metodo che dichiara di applicare - a meno che non si dichiari apertamente eclettico, come peraltro avviene sempre più spesso. Questa
impossibilità di non essere eclettici è un dato di fatto che viene elaborato in modi diversi: lasciando l'intervento in questione alla sua condizione di corpo estraneo, introdotto nel setting per
necessità o fatalità, ma di cui non è il caso di occuparsi ulteriormente per tornare quanto prima a fare della buona analisi; oppure ridefinendolo e reinterpretandolo nei termini e concetti della propria teoria, togliendolo
così alla sua condizione di estraneità; o costruendo degli ibridi tra teorie diverse; o cercando un punto di vista sovraordinato, non analitico
né cognitivo né esistenziale né altro, ma capace di rendere conto di ciò che accade in ogni relazione terapeutica, quale che ne sia l'orientamento.
Traggo dal mio articolo "Il campo della psicoterapia: un modello a quattro vertici", (http://www.psychomedia.it/pm/indther/ptanndx1.htm):
"E' stato spesso segnalato il fatto che le differenze tra terapeuti di scuole diverse sono molto più accentuate nella teoria che nella pratica. E' stato anche osservato che l'esperienza tende a livellare le differenze di scuola: "i terapeuti più esperti sono inclini ad adottare degli orientamenti teorici esclusivi", mentre "la
diversità e la flessibilità vengono con l'esperienza" (Beitman et al, 1989). In altre parole, l'esperienza tende a rendere la pratica clinica sempre
più autonoma dai paradigmi teorici. Questo significa che la relazione psicoterapeutica tende a svilupparsi secondo una propria logica interna, che si afferma e diviene tanto
più evidente quanto più diminuisce il condizionamento esercitato da fattori paradigmatici (la scuola di appartenenza) e personali (l'inesperienza).
A sua volta, la logica interna dell'operazione psicoterapeutica è determinata dai bisogni che in essa sono in gioco. Quanto
più il terapeuta si pone in sintonia con questi e ad essi risponde, affrancandosi dalla dipendenza dai fattori che possono condizionare il suo ascolto, tanto
più emerge la struttura essenziale del campo psicoterapeutico.
Decide il terapeuta se entrare in questo campo, sintonizzandosi con i bisogni (di guarigione, di conoscenza, di crescita) che si esprimono nella relazione, o restare nell'orto chiuso delle preferenze personali e ideologiche. Ma qual
è precisamente il senso di questa alternativa? Non può essere, come molti pensano, che essa sia fittizia, perché in ogni modo la percezione dei bisogni non può che essere filtrata attraverso le teorie che abbiamo in mente? Conviene allora partire dalla questione da cui dipende ogni altra: che cosa significa ascoltare?"
GENNARO ESPOSITO: Albert Ellis sciveva nel suo Ragione ed Emozione in Psicoterapia
(Roma: Astrolabio, 1989): "...Ero convinto che, sebbene i metodi di psicoterapia non analitici fossero spesso giovevoli e molto
più brevi di quelli analitici classici, questi ultimi fossero indubbiamente più profondi,
più penetranti, e dunque, notevolmente più curativi. Così mi sottoposi io stesso assai di buon grado ad una psicoanalisi ortodossa. (...) Tuttavia ben presto dovetti ammettere onestamente che qualcosa non andava. Innanzitutto incontravo spesso nei pazienti una forte resistenza al metodo psicoanalitico. Molti trovavano difficilissimo apprendere la tecnica dell'associazione libera,...alcuni non impararono mai a praticarla efficacemente..." e ancora continua Ellis: "...Allora scivolai gradualmente dall'analisi del
'profondo'...alla psicoterapia ad orientamento psicoanalitico condotta 'faccia a faccia' con frequenza uni- bisettimanale..." "Il principio fondamentale della psicoanalisi
è sostanzialmente identico a quello della teoria psicologica del behaviourismo...gli esseri umani vengono condizionati precocemente nella vita a temere qualcosa (l'ira del padre) se sono minacciati o puniti ogni volta che agiscono in modo
riprovevole...la soluzione
è mostrargli [al paziente], nel corso della terapia analitica, che cosa accadde in origine..." " ...mi resi conto che era poco probabile che l'INSIGHT da solo portasse l'individuo a superare le sue paure e
ostilità profondamente radicate: era necessaria ANCHE una considerevole AZIONE diretta a combatterla...provai a incoraggiarli, a convincerli e a incitarli a FARE le cose che temevano (come rischiare un rifiuto reale da parte dei genitori o di altri) per CONSTATARE concretamente che in
realtà non erano così spaventose. Anziché uno psicoterapeuta a orientamento davvero psicoanalitico, divenni pertanto un terapeuta attivo-direttivo, esortativo-persuasivo, molto
più eclettico..."
Scusate la lunghezza della citazione, ma era da tempo che volevo proporvi (anche per continuare un discorso che si fece interessante con Di Girolamo e Migone) questa mia riflessione sulla
validità degli interventi psicoterapici, citando un autore da cui ho appreso molto: a mio sommesso avviso
è proprio questo spirito esortativo, ottimistico, direttivo che rende viva la relazione tra il Terapeuta e il
Paziente, e rende assai
più probabile il cambiamento in senso positivo. Pensate, cari Colleghi, che l'eclettismo di Ellis possa dirimere le controversie tra orientamenti terapeutici apparentemente
così distanti? Io penso di si.
WILFREDO GALLIANO: Devo dire che io penso di no. La mia sensazione è che l'eclettismo o il desiderio di integrazione (come ultimamente si tende a chiamarlo) non siano una gran cosa. In una recente tavola rotonda a Bologna su questo tema ho espresso l'idea che voler integrare punti di vista diversi o essere eclettici esprime soprattutto ansie di onnipotenza del terapeuta. Il mio altrettanto sommesso avviso è che porsi la questione di un metodo rapido, efficace e indolore è un modo di generalizzare troppo e alla fin fine anche poco ippocratico. Sebbene infatti un medico possa porsi il problema di coscienza di offrire al paziente il modo più efficace ed economico (di tempo, denaro e fatica) per recuperare il benessere, credo che il tipo di realizzazioni pratiche della cura sia piuttosto ampio tanto da rendere sostanzialmente diversi pazienti "curati" con la psicoanalisi da quelli "curati" con una terapia comportamentale da quelli, ancora, "curati" con una terapia di tipo umanistico-esistenziale. In altri termini quello che si oppone
all'eclettismo è, da questo punto di vista, l'irriducibile componente valoriale delle psicoterapie: ognuna pensa e progetta un Uomo diverso, né potrebbe essere altrimenti. Lasciamo quindi che ognuna faccia la sua strada con i suoi tempi e la propria estetica.
GENNARO ESPOSITO: Grazie degli spunti. Pensavo, per dovere di precisazione, non all'eclettismo inteso come uso di tecniche diverse nello stesso momento, né il disconoscere il valore di un orientamento a favore di altri, ma nel considerare il punto di vista epistemologico dei principali orientamenti in una visione di sintesi, magari a tappe, con
gradualità, per poter offrire non una "cura rapida ed efficace", ma strategie terapeutiche pratiche e finalizzate. Ellis (credo di aver capito) non
è uno psicanalista pentito, è semplicemente un terapeuta che ha avuto la sensazione che la sola analisi del profondo, il solo momento interpretativo fosse insufficiente nella sua esperienza clinica) per determinare una svolta nella vita dei suoi pazienti. Forse risulta
più utile offrire strategie concrete al paziente (aldilà dell'immancabile onnipotenza che talora
può albergare nei terapeuti), strategie mirate al "come posso fare adesso che mi sono reso conto che...?". Con questo non voglio dire che un orientamento sia "più efficace" di un altro, ma ho constatato che (come Ellis) non sempre esiste una sola via per giungere ad aiutare un paziente. In questo senso il termine "eclettismo" (ma ci
sarà un termine più appropriato?) può avvicinare concettualmente punti di vista diversi in psicoterapia, rispettandone le posizioni.
TULLIO CARERE: Se è giusta l'idea di Wilfredo Galliano secondo cui la tendenza all'integrazione tra le psicoterapie
è un segno che esprime ansie di onnipotenza del terapeuta, ne consegue che:
1. L'evoluzione generale del campo psicoterapeutico, fortemente caratterizzata in senso integrativo,
è in realtà un'involuzione. Questo vale vale sia a livello generale (circa la
metà degli psicoterapeuti attuali si dichiarano eclettici o integrati, senza contare quelli che lo sono senza dichiararlo), sia a livello individuale (la tendenza all'integrazione prevale tra i terapeuti esperti - Beitman
et al.): ciò che viene spacciato per esperienza è in effetti un segno del rapido deterioramento mentale cui la nostra categoria va incontro, soprattutto nei suoi membri più deboli, non adeguatamente protetti dall'appartenenza a una scuola.
2. Essendo l'integrazione una cosa cattiva, è buono il suo contrario, cioè la polverizzazione del campo psicoterapeutico in centinaia di scuole. Se poi consideriamo che ogni scuola
è divisa in sottogruppi (che cos'hanno da dirsi, poniamo, un kleiniano e uno psicologo
dell'Io?), le entità distinte di cui tenere il conto sono in effetti migliaia. La cosa
è buona, perché come hanno sicuramente mostrato ricerche di cui non sono a conoscenza, il paziente medio non cerca una psicoterapia,
bensì sceglie di sottoporsi ad analisi transazionale, piuttosto che a terapia organismica, orgonica o psicosofica (v. Filippeschi-Celano, Scuole di psicoterapia in Italia), i cui principi ben conosce e condivide. Va da
sé che l'amplissima scelta a disposizione dei pazienti è nel loro esclusivo interesse, e non in quello degli operatori che a quelle scuole appartengono, quando non le hanno fondate o non le presiedono.
3. Certo, restando ogni scuola ben piantata sul proprio paradigma, il dialogo è
problematico, ma non si può avere tutto dalla vita. Il congresso di Roma del 1989 ha cercato, e non ha trovato, un terreno comune agli psicoanalisti dei diversi gruppi. Come in quella occasione ha fatto notare Schafer, tutti gli analisti parlano di transfert e di resistenza, ma danno a queste parole significati
così diversi che "convenire che noi analizziamo il transfert equivale a poco
più che convenire che usiamo le stesse parole per qualsiasi cosa facciamo". Se non si intendono tra di loro gli analisti
dell'International Psychoanalytic Association (IPA) (quelli doc), immaginatevi il dialogo tra un lacaniano e un analista psicosofico. Ma questo
è un bene, la vita è bella perché è varia. Ce n'è per tutti i gusti, e se proprio uno non riesce a trovare la scuola che lo soddisfa a pieno,
può sempre fondarne una nuova, che avrebbe d'emblée la medesima legittimità di tutte le altre. Se non
è democrazia questa... Un problemino, a ben guardare, ci sarebbe: di che cosa possono parlare tra di loro gli psicoterapeuti di diverse scuole e orientamenti iscritti a una
mailing list temerariamente intitolata "Psicoterapia" (al singolare)? Ma niente paura,
c'è fior di temi di palpitante attualità su cui le nostre menti ben addestrate possono esercitarsi. Anche se il dibattito sul caso Di Bella sembra essersi esaurito prematuramente, le cronache recenti offrono nuovi spunti carichi di interesse. Sono un
po' stupito che nessuno abbia proposto una discussione sulle abitudini erotiche del presidente USA, ma confido di leggere quanto prima una mail sul confronto fallico tra il medesimo presidente e il dittatore irakeno. Se poi, mettendo da parte la celia e le scomuniche che l'hanno attirata, qualcuno avesse voglia di discutere seriamente di psicoterapia integrata, io - psicoterapeuta integrato - sono qua per questo.
PAOLO MIGONE: Vorrei riferirmi alle parole di Gennaro Esposito quando dice che "Ellis non
è uno psicanalista pentito, è semplicemente un terapeuta che ha avuto la sensazione che la sola analisi del profondo, il solo momento interpretativo fosse insufficiente (nella sua esperienza clinica) per determinare una svolta nella vita dei suoi pazienti." Ritengo che dell'insufficienza del solo momento interpretativo se ne fosse reso conto bene già Freud, e c'è stato un grosso dibattito a questo proposito quando lui era ancora in vita (Ferenczi ecc.). Sarebbe
interessante capire quale è la novità di Ellis, autore peraltro ritenuto superato da molti dei moderni cognitivisti. Riguardo alla questione se sia più utile offrire al paziente delle strategie concrete e mirate sul "come posso fare adesso che mi sono reso conto che...?", si tratta di una domanda che si pongono tutte le psicoterapie,
in primis da sempre la psicoanalisi... Perché la gente non si muove nonostante "sappia"? Che cosa motiva il comportamento? Perché alcuni sono mossi da "strategie concrete" e altri, al contrario, fanno grandi passi avanti solo se si sentono capiti, ascoltati o interpretati? Chi (se è il caso) "si difende" da qualcos'altro e perché? Sarebbe interessante capire più esattamente qual è l'aspetto di originalità di certe posizioni.
DAVIDE CAVAGNA: Ripenso alle parole di Semi (Trattato di psicoanalisi,
Milano: Cortina, 1988), quando distingue tra dogmatismo settario e eclettismo teorico come due forme opposte ed estremiste di intolleranza per il pensiero. Continuando su questa riflessione, non posso che condividere quanto Semi esprime poi in un recente intervento (in
Differenza, indifferenza e differimento, Milano: Dunod Italia, 1997), dove collega questa impasse al rifiuto per la differenza teorica (per la metapsicologia), il che impone poi di fare il "dentista" della psicoanalisi, come diceva Lacan. In breve: il rifiuto di accettare la nostra esigenza di una stampella teorica per pensare una realtà tout court inconoscibile, ovvero quanto di inconoscibile c'è sempre nella realtà. Mi sembra che questa posizione rappresenti ad un tempo un optimum di libertà (intellettuale quanto meno) e di obiettività. Per quanto concerne la frammentazione del campo psicoterapeutico in centinaia di scuole e la successiva polverizzazione in ulteriori sottogruppi, ritengo che questo sia accaduto perché, a un certo punto della storia della psicoanalisi, probabilmente per il giustificato rifiuto delle "scomuniche" e per il timore di confrontarsi con le altre scienze (vedi
Rapaport), si è abbandonata la dimensione storica della ricerca, cioè si è lasciato passare il principio per cui "la teoria clinica è tutto" (i "dentisti" di cui sopra). Stranamente però, a ben guardare, anche per chi ritiene la psicoanalisi una quasi-scienza
(Grünbaum in testa), appare chiaro che nessuno si è preso la briga di ricostruire la storia del dibattito interno, chiedendosi ad esempio (come farebbe un qualsiasi sociologo della scienza): com'è che la Klein si "inventa" un paradigma alternativo? Non è forse che la Klein "passa" da un paradigma all'altro, e che nelle sue opere c'è la traccia (ben consistente) della ridiscussione dei concetti freudiani? (si veda La psicoanalisi dei bambini e si capirà come la Klein, usando un lessico metapsicologico classico argomenta nuove questioni teoriche, e di fatto amplia la psicoanalisi freudiana). In breve, quello che Lakatos chiama programma di ricerca è ben vivo nella psicoanalisi (che è una scuola a tutti gli effetti), ma è e misconosciuto. Questo ha permesso, ad esempio a Lacan, di fare a pezzi il conformismo analitico, provocando scismi di nuova foggia (e sono sicuro che in futuro ne vedremo delle conseguenze molto pesanti). Quanto alla integrazione: come integrare "la" psicoanalisi con "le" psicoterapie, che non le concordano affatto nello spirito e nella lettera? Non è più plausibile uno stato di non-integrazione (intollerabile certo ai più?).
Tullio Carere ricordava come "il paziente medio non cerca una psicoterapia,
bensì sceglie di sottoporsi ad analisi transazionale, piuttosto che a terapia organismica, orgonica o psicosofica i cui principi ben conosce e condivide". Si tratta di un'osservazione importante, da valutare anche nel senso dell'indottrinamento e delle sue relazioni con la cura (è quanto dicevo sopra
après Lacan). Tuttavia, per quanto concerne il problema se l'ampia scelta delle possibilità psicoterapiche sia un reale vantaggio per i pazienti,
occorre fare una puntualizzazione: qual è il limite tra "competizione sul mercato" e "confusione"? Come insegna ogni manuale, l'attore in un'economia di mercato mira a stabilire (almeno temporaneamente) una situazione monopolistica per avvantaggiarsene. Di fatto è quanto è accaduto nella prima metà di questo secolo alla psicoanalisi. Ora, di fatto, il mercato offre un vasto insieme di prodotti, ma ancora poco
client oriented. Mi chiedo se non sia ora di attuare, anche in campo psico-, una seria politica di posizionamento sociale (quindi, perché no, di marketing). Questo sempre che si voglia appunto posizionarsi nel mercato (un'esigenza comprensibile, mi sembra). Va da sé che c'è anche dell'altro (e non mi sembra del tutto da buttare). Tullio Carere ricordava poi come, secondo Schafer, tutti gli analisti parlano di transfert e di resistenza, ma danno a queste parole significati
così diversi che "convenire che noi analizziamo il transfert equivale a poco
più che convenire che usiamo le stesse parole per qualsiasi cosa facciamo". A mio avviso, l'"appartenenza" non può essere meramente strumentale: ci dev'essere (e Schafer non può non saperlo, se conosce Habermas) una dimensione comunicativa dell'agire sociale, che è quella che appunto "tiene assieme". Altrimenti non si farebbero neppure più convegni. Temo che in questo ci sia un po' il "non voler vedere" che non è di "opacità" ma forse un po' di "ignoranza": mi chiedo allora: che cos'è che fa così resistenza nel "vedere"? Che cosa temono gli psico-? Sarebbe interessante interrogarsi su questo.
Se si tratti o no di democrazia il poter fondare una nuova scuola solo perché quelle a disposizione sul mercato non soddisfano, direi che non mi sembra tanto democrazia: ogni democrazia non può non avere regole, perché sono queste che rendono gli individui liberi. Mi ricorda un po' l'anarchia, purtroppo.
L'ironia con cui Tullio Carere afferma che la difficoltà di poter discutere tra psicoterapeuti di diversa formazione può essere superata ripiegando su temi di attualità quali il caso Di Bella o le abitudini erotiche del presidente USA, mi fa considerare che forse una paura di fondo potrebbe essere proprio quella di apparire "banali", "ingenui", "ridicoli". Che dire di una psicoterapia "ridicola"? Che non "sorprende"? Che non "affascina" per la propria complessità? Non è questo, forse, ancora una volta, una sorda forma di odio per un pensiero che ci mantiene nella frustrazione della nostra onnipotenza mancata?
WILFREDO GALLIANO: Chiedo scusa ma devo aver frainteso. Io credevo che con eclettismo si intendesse "eclettismo" (estensione nel nostro campo del "principio, tendenza o pratica di combinare o accostare varie dottrine filosofiche o teologiche ... quale tentativo deliberato di dare unità a scuole filosofiche discordanti", Runes,
Dizionario di filosofia, trad. it. Mondadori, IV ed., 1982) e con integrazione si intendesse "integrazione" ("Rendere qualcosa più completo, o più valido, più efficace e simili, aggiungendovi ulteriori elementi", Zingarelli,
Dizionario della lingua italiana, Zanichelli, XII ed, 1997). Posso dire a mia discolpa che il fraintendimento era anche causato dal fatto che Gennaro Esposito faceva esplicito riferimento ai modelli psicoterapeutici. Apprendo ora da Tullio Carere che il discorso non riguarda le psicoterapie ma gli psicoterapeuti. Ovviamente la cosa è ben diversa e nel suo attacco da psicoterapeuta integrato a me (psicoterapeuta apocalittico?) Carere usa l'ironia ma avanza argomenti di non poco conto; mi proverò a reagire punto per punto.
1. Circa la metà degli psicoterapeuti attuali si dichiarano eclettici o integrati, senza contare quelli che lo sono senza dichiararlo;
Qui il punto principale mi sembra che gli psicoterapeuti tendono a integrare nella propria prassi pezzi o parti di modelli, teorie, tecniche in cui man mano si imbattono. Ovviamente mi sembra una buona cosa, ma indipendentemente dal fatto che a me o ad altri paia una buona cosa, credo che non possa essere diversamente, sia
perché la psicoterapia è una pratica (più che una procedura) sia
perché, se c'è qualcosa che accomuna gli esseri umani, questa è l'accumulazione di cultura. Questo, tuttavia, è ben diverso
dall'integrazione di una teoria: il fatto che io non possa fare a meno di inserire nella mia prassi l'ultimo libro che ho letto o l'ultimo seminario cui ho partecipato non significa che ho integrato qualcosa al livello del modello teorico, significa "solo" che ho arricchito la mia pratica (scusate se è poco). Questo arricchimento personale si traduce anche in un arricchimento di tutta la comunità degli psicoterapeuti, un arricchimento, però, che non ha le caratteristiche di avvicinarci maggiormente a una modello ideale generale e onnicomprensivo (come dovrebbe essere per una psicoterapia integrata). Si tratta di un accumulo di prassi, modi fare, di pensare ecc. che hanno piuttosto la caratteristica di essere discontinui, frammentari, non necessariamente
né logicamente collegati. Se questa è integrazione (ma non è) io allora sono il suo più strenuo paladino e da questa posizione vorrei dire, non sommessamente, un'altra cosa.
Carere dice: "la tendenza all'integrazione prevale tra i terapeuti esperti" Mi pare chiaro che i terapeuti esperti "integrano" nella propria prassi non solo Kernberg e la Linehan, ma anche l'ultimo romanzo che hanno letto, il saggio di semiotica appena uscito, il bel film visto ieri sera e l'osservazione acuta sulla natura umana colta al volo sul tram (senza contare ciò che hanno appreso nel corso dell'ultima litigata con la moglie). Vorrei dire che sono soprattutto queste ultime cose a rendere esperto un terapeuta esperto, ma mi freno e mi chiedo, però, se vogliamo arrivare anche a una integrazione generale di tutte le esperienze possibili che hanno un effetto formativo e d'esperienza. Non è forse meglio lasciare ai singoli la possibilità di costruirsi questi percorsi idiosincratici e a noi di godere dei risultati in termini di arricchimento di tutta la comunità?
2. Essendo l'integrazione una cosa cattiva, è buono il suo contrario, cioè la polverizzazione del campo psicoterapeutico in centinaia di scuole.
Qui Carere sembra vagheggiare una possibile unica grande Scuola che insegni la Psicoterapia. Mi sembra un ideale illuministico che si basa sull'idea di una sostanziale unicità del genere umano, per cui le differenze culturali e individuali sono orpelli (sovrastrutture) che nulla aggiungono. Se così fosse, allora si potrebbe pensare a una teoria generale della psicoterapia che vada bene ovunque, per chiunque e per qualunque patologia. Mi sembra che così non è e che, semmai, la tendenza è alla valorizzazione delle specificità e delle differenze. In questo caso l'integrazione in un'unica Scuola mi pare parallela ai discorsi sull'identità (individuale, di genere, etnica) che rischiano di irrigidire tutto e di impedire la crescita. Questo ci porta al punto successivo. Non so la polverizzazione in centinaia di scuole sia un male o un bene; può darsi - come insinua Carere - che ognuna esista solo per soddisfare il narcisismo dei fondatori, d'altro canto qual è l'alternativa? Di nuovo un'unica grande scuola che annulli tutte le differenze? Vi è poi un punto particolarmente complesso: Carere dice che il paziente medio "non cerca una psicoterapia ma sceglie di sottoporsi ad un certo tipo di psicoterapia piuttosto che a un'altra".
Non so nulla di pazienti medi, ma, se dovessi immaginarmi questa astratta chimera, penso a qualcuno che cerca uno psicoterapeuta, piuttosto che una psicoterapia e questo ci riporta a quanto dicevo sopra. Dato che comunque non è il paziente medio che va dallo psicoterapeuta, ma una persona specifica con problemi specifici riguardanti la sua vita, credo che non dovremmo essere troppo supponenti circa il modo in cui riesce a trovare sollievo alle sue sofferenze. Il fatto che la ricerca dimostri che un certo approccio sia migliore di un altro per il paziente medio, non ci autorizza a pensare che la scuola psicosofica debba essere cancellata (magari l'analisi transazionale sì, così dimostro la mia purezza ed elimino la risposta al punto successivo). Alla tavola rotonda cui facevo cenno nella mia precedente mail, Rispoli (fautore dell'integrazione) citava una ricerca, credo vecchia ma non credo mai smentita (Migone illuminaci!), secondo cui il tasso di successo di varie psicoterapie è più o meno equivalente. Secondo Rispoli ciò deponeva a favore di un quid di comune che funziona al di sotto di tutte le terapie. Secondo me, ovviamente, ciò significa che le vie del cambiamento umano sono infinite, cosa che del resto è alla base dell'idea stessa di psicoterapia. Certo, se vogliamo possiamo trovare qualcosa di comune che sta alla base di tutte le terapie (per esempio la tendenza degli umani a cambiare in relazione ai propri simili e ai discorsi che con loro fanno) ma questo quid è talmente generale da perdere significato ed è risibile far ricorso ai cosiddetti fattori aspecifici di cambiamento,
poiché avremmo allora cambiamenti simili con ogni tipo di terapia, mentre è sotto gli occhi di tutti che le persone che escono da una terapia psicosofica sono diverse da quelle che escono (provate?) da anni di analisi kleiniana a 5 sedute la settimana.
3. Restando ogni scuola di psicoterapia ben piantata sul proprio paradigma, il dialogo
è problematico: di che "Psicoterapia" (al singolare) possono parlare tra di loro gli psicoterapeuti di diverse scuole e orientamenti?
Certo: Psicoterapia (al singolare), così come Religione o Filosofia: o dobbiamo pensare a una religione integrata, a una filosofia integrata, ecc.? Altrimenti dobbiamo parlare di polverizzazione delle filosofie e di centinaia di disgustanti riti religiosi? So che questa frase mi attirerà gli strali di quanti mi accuseranno di mettere sullo stesso piano psicoterapia e religione e che se, quindi, penso così allora ovviamente non posso che ragionare così
perché sono cieco alla luce della scienza, ecc. Non è questo il punto. Siamo d'accordo che psicoterapia è "cura dei disturbi mentali e dei disadattamenti attraverso una tecnica psicologica fondata sul rapporto tra medico e paziente" (Zingarelli, 1997)? Sicuramente è un po' rozza come definizione ma nella sostanza penso ci possa trovare d'accordo. In questo caso c'è la psicoterapia condotta con vari metodi da vari polverosi psicoterapeuti più o meno legati a varie scuole polverizzate.
La questione del dialogo, poi, mi sembra un po' una scusa. Io e Carere stiamo parlando pur essendo su posizioni diversissime. Non credo che per comprenderci dobbiamo aver tutti lo stesso linguaggio: forse abbiamo bisogno di interpreti. Mi piacerebbe su questo punto tirare in ballo Andrea Angelozzi (scusa Andrea, ma se no a che serve far parte di un gruppo mediatico?) che mi sembra sia, tra quelli che intervengono in lista, quello che ha le basi filosofiche più solide.
Mi sembra che ci sia una florida discussione e riflessione (a partire da Quine, credo) sulla questione del tradurre e sui problemi che questo pone, ma non penso che nessuno si sia mai azzardato a dire che non ci si può intendere. Il fatto che al termine "transfert" si attribuiscano sfumature di significato le più diverse non fa che arricchire la concezione stessa del transfert e certo non impedisce il dialogo. Se poi non ci si mette d'accordo su un senso univoco poco male. Se mai questo succedesse (ma ve la immaginate la formalizzazione del linguaggio psicoterapico, con tutti quei segnetti che usano i logici?), se succedesse che per incanto ci accordassimo sul fatto che transfert vuol dire "X e solo X", questo non vorrebbe dire che gli altri significati sparirebbero, dovremmo trovare delle altre parole per dirli e ci ritroveremmo con un sacco di parole in più e una ("transfert") svuotata di significato.
A questo punto vorrei celiare un po' anch'io. Sono sicuro che Carere - che si definisce psicoterapeuta integrato - si sentirebbe insultato se gli dicessi che è uno psicoterapeuta "integrato" intendendo con ciò che aderisce pedissequamente a una qualche scuola specifica. Ma, se si strutturasse la grande Scuola integrata che vagheggia, la mia ipotetica accusa di psicoterapeuta integrato lo offenderebbe ancora?
LICIA FILINGERI: Sui rapporti psicoanalisi-psicoterapia, e tra le stesse varie forme di psicoterapia, molto è stato detto, e molto si continua a dire: forse sarebbe opportuno non "tramandare" delle definizioni né tantomeno degli "anatemi", ma continuare con pazienza, individualmente e insieme, un'opera direi continua di revisione dei diversi paradigmi. Sarebbe importante chiederci continuamente che significato dare a quello che, lavorando, avviene sotto i nostri occhi,
tenendo sullo sfondo i concetti teorici tradizionali (specie Freud, che in qualche modo costituisce una sorta di nostro superego, sia che "l'accettiamo", sia che "lo neghiamo") , per permettere che entrino in rapporto non invasivo con quanto andiamo via via personalmente osservando. Forse, qualunque sia il paradigma da noi tenuto presente, è essenziale non usarlo come un letto di Procuste, cercando in tutti i modi di farvi rientrare quanto sta avvenendo in quel momento col paziente, ma osservare attentamente e cercare di capire quanto avviene nella relazione nostra con quel dato paziente in quel dato momento.
GENNARO ESPOSITO: Scusatemi se ho lasciato intendere qualcosa che non intendevo dire. E' ovvio che il mio discorso riguardava l'esigenza per lo psicoterapeuta di aprire nella sua mente altre "strade", altre concezioni terapeutiche applicate alla clinica, senza fare un'insalata tra le varie posizioni teoriche. Non so (come ha detto Migone) se Ellis nella fattispecie sia superato, non credo sia questo il punto, ma lo ho citato
poiché dalle sue parole ho tratto proprio questa esigenza di "integrazione" tra tecniche terapeutiche (l'interpretazione, l'analisi del transfert, ma anche la
direttività, la ristrutturazione cognitiva, l'atteggiamento "attivo" del terapeuta e "collaborativo" del cliente a riguardo di specifici obiettivi terapeutici (quindi obiettivi pratici, concreti, efficaci per ridurre la sofferenza...). Nella mia esperienza clinica mi trovo spesso di fronte pazienti che hanno spiccate
capacità introspettive, che ne rendono particolarmente utile un lavoro "profondo" (sia emotivo, sia "associativo") e non vi nascondo che spesso elementi interpretativi possono nascere ed essere preziosi per il paziente stesso. Mi reputo un cognitivista, nel senso che adotto tecniche e
modalità terapeutiche che si rifanno al cognitivismo e al comportamentismo, ma non potrei mai disconoscere l'importanza e il valore delle teorie della psicoanalisi (e sue svariate implicazioni cliniche). Ecco
perché mi son fatto l'idea che "integrare" diverse posizioni (sul piano pratico-clinico) possa dare
più vantaggi che svantaggi.
TULLIO CARERE: Come afferma Galliano, "la tendenza degli psicoterapeuti a integrare nella propria prassi pezzi o parti di modelli, teorie, tecniche in cui man mano si imbattono" è cosa non solo buona, ma inevitabile (quindi l'onnipotenza non c'entra). Qualcuno chiama "eclettismo tecnico" la posizione che egli ha descritto. Credo che sia stato Lazarus (1982) a distinguere per primo un eclettismo teorico da uno tecnico. Il primo è cattivo
perché, accostando modelli radicalmente diversi e incompatibili, produce degli insiemi incoerenti da cui non
può venire che confusione e disorientamento. Il secondo è buono perché le tecniche sono neutrali, potendo funzionare anche per motivi diversi da quelli ipotizzati da chi le ha introdotte. Per questo possono essere trapiantate in approcci diversi da quello in cui sono nate.
L'eclettismo tecnico è visto con generale benevolenza perché consente al terapeuta di fare quello che vuole, senza per questo mettere in gioco il modello teorico da cui dipende la sua identità professionale. Per lo stesso motivo l'eclettismo teorico ha una pessima reputazione.
Ma vediamo più da vicino. Che cosa fa il terapeuta buono, tecnicamente eclettico? Introduce nella sua pratica ogni sorta di cose, da Kernberg al film visto la sera prima. Dato che, per definizione, il modello teorico non
è toccato, ci sono due possibilità:
1) nel suo lavoro convivono due pratiche, una conforme al modello e l'altra libera di scorrazzare a piacimento (se la sera prima il terapeuta ha visto un film sul
voodoo, perché non provare anche quello?).
2) il terapeuta è sì libero di attingere dove gli pare, ma poi è tenuto a reinterpretare o riformulare
ciò che ha pescato altrove nei termini del suo modello, se non vuole somministrare ai suoi pazienti una zuppa indigeribile.
Non dubito, caro Galliano, che il tuo caso è il secondo. Se il tuo modello si chiama, mettiamo, GAB, sono certo che tu mentalmente o esplicitamente ridefinisci tutte le cose che fai nei termini del GAB, in modo da inquadrare ai tuoi pazienti
ciò che fai e dici in una cornice concettualmente coerente. E' l'operazione che Piaget chiamava "assimilazione" : "il processo mediante il quale il bambino incorpora nei propri preesistenti schemi mentali gli oggetti e gli eventi dell'ambiente esterno" (Garzantina), mentre l'"accomodamento"
è "il mutamento che avviene negli schemi mentali del bambino in seguito all'adattamento alle nuove esperienze".
Ciò che vale per il bambino vale naturalmente anche per l'adulto, posto che voglia continuare a imparare.
La mia domanda è: perché fermarsi all'assimilazione e non procedere alternando a oltranza fasi di assimilazione e accomodamento?
Perché fissarsi sugli schemi o modelli acquisiti e non cercare invece di ampliarli e arricchirli progressivamente con l'esperienza? Veramente tu parli di arricchimento culturale, ma
perché mai questo arricchimento dovrebbe limitarsi alla prassi, ed escludere la teoria? Non capisco, del resto, che cosa intendi dire precisamente con "integrare nella propria prassi pezzi o parti di modelli, teorie, tecniche": se io voglio integrare una teoria nella mia prassi, questo per me significa che debbo modificare la teoria che sta alla base della mia prassi. Integrare in una prassi una teoria senza toccare la teoria di quella prassi
è una prassi (o una teoria) di cui mi sfugge il senso.
Al riguardo molto bene si è espressa, a mio avviso, Licia Filingeri: "forse sarebbe opportuno non "tramandare" delle definizioni
né tantomeno degli "anatemi", ma continuare con pazienza, individualmente e insieme, un'opera direi continua di revisione dei diversi paradigmi. Forse, qualunque sia il paradigma da noi tenuto presente, è essenziale non usarlo come un letto di Procuste, cercando in tutti i modi di farvi rientrare quanto sta avvenendo in quel momento col paziente, ma osservare attentamente e cercare di capire quanto avviene nella relazione nostra con quel dato paziente in quel dato momento."
Concludendo, la mia obiezione all'eclettismo "solo" tecnico è che esso si basa su un atteggiamento di assimilazione che corrisponde a un uso procustiano, non euristico, dei paradigmi.
Vorrei ora commentare brevemente un altro punto dell'intervento di Wilfredo Galliano: "Carere sembra vagheggiare una possibile unica grande Scuola che insegni la Psicoterapia". Io non vagheggio, è la legge che prevede, se non sbaglio, l'istituzione di scuole universitarie di specializzazione in psicoterapia per medici e psicologi (che convivrebbero con gli istituti privati, e non li sostituirebbero; sicuramente io non vagheggio alcun regime di monopolio,
né statale né privato). Una scuola statale dovrebbe essere ovviamente aconfessionale:
cioè non freudiana, né junghiana, né altro. In tale scuola si dovrebbero certamente insegnare i principali paradigmi che si sono imposti in questo secolo, ma al di là e al di sopra di questi la disciplina fondamentale dovrebbe essere, penso, Teoria o Fenomenologia della relazione psicoterapeutica: lo studio di
ciò che accade quando due persone, che convengono di definirsi rispettivamente "paziente" e "terapeuta", si incontrano regolarmente in una stanza e interagiscono. Quello che si osserva, o quanto meno io osservo, è che ciascuna di queste due persone cerca, per quanto
può, di imporre i propri paradigmi all'altra, il "terapeuta", di solito, con maggiore protervia. Se tuttavia la relazione si protrae abbastanza a lungo, la presa dei paradigmi tende ad attenuarsi per lasciare spazio a una comunicazione meno condizionata e
più aperta all'ascolto dei bisogni reali (soprattutto del paziente, se questi ha la fortuna di trovare un terapeuta non troppo bisognoso) che si esprimono nella relazione. Questa parziale neutralizzazione della tirannide paradigmatica che tende spontaneamente ad accadere, almeno nei trattamenti che funzionano,
può (e a mio avviso deve) diventare un programma deliberato e consapevole: l'unico, in effetti, in grado di fondare una scienza psicoterapeutica non confessionale. Intendo con questo lo studio dei bisogni basilari che sono in gioco nella relazione psicoterapeutica, e delle risposte che a questi bisogni possono e debbono essere date. Questa disciplina ha già ottenuto qualche risultato al livello dell'integrazione diagnostica, dove si è cercato di stabilire quale trattamento è adatto per quale paziente. E' solo ai primi passi, invece, al livello dell'integrazione terapeutica vera e propria: dove si tratta di stabilire a quale bisogno del paziente deve rispondere il terapeuta in un momento determinato, e in che modo. Sull'utilità, anzi la necessità, di una ricognizione generale del campo psicoterapeutico non penso possano sussistere dubbi. Il timore di un appiattimento delle differenze non mi sembra fondato. Questo rischio è sicuramente più elevato nell'impostazione paradigmatica: dove, ad esempio, il paziente di un analista ortodosso sarà costretto a esplorare il proprio conflitto edipico, il paziente del comportamentista a correggere i propri malapprendimenti, eccetera.
Per finire, Galliano si chiede scherzosamente se l'aggettivo "integrato" mi offenderebbe ancora se esistesse una grande Scuola di Psicoterapia Integrata. In effetti l'aggettivo "integrato" non
è granché. Lo uso solo perché è un po' meglio di "eclettico", dal momento che non
è ammissibile essere uno psicoterapeuta e basta, senza aggettivi. Però, adesso che mi ci fai pensare, chi lo ha detto che
è inammissibile? Intanto posso cominciare ad ammetterlo io, ed è già qualcosa. Se poi qualcuno
approfitterà dell'assenza di aggettivo per appiopparmi quello che nessun terapeuta vorrebbe sentirsi appioppare, pazienza. Tanto, me lo appiopperebbe lo stesso.
Un'ultima nota riguarda quanto dice Davide Cavagna su quella che lui ritiene essere l'impossibilità di integrare "la" psicoanalisi con "le" psicoterapie che non le concordano né nello spirito, né nella lettera. Ebbene, a mio avviso "La" psicoanalisi ha cessato di esistere da tempo. Quello che sopravvive sono "le" psicoanalisi: una congerie di pratiche che impiegano gli stessi termini per dire cose differenti, basate su paradigmi reciprocamente incompatibili e irriducibili l'uno all'altro (Bernardi, 1989, Wallerstein, 1990), accomunate solo dall'"intenzione palesata da ciascuno di continuare Freud o lo spirito freudiano" (Fornaro, 1988). Non vedo come sia possibile differenziare "le" psicoterapie da una cosa che non esiste.
MARINA RICCI: Ho avuto modo di verificare che questo genere di affermazioni appartiene a coloro che non conoscono la psicoanalisi e me lo confermano i riferimenti al pensiero altrui più che alla propria esperienza clinica. Carere, hai mai sentito parlare di analisi come analisi del transfert? Questo, che è solo uno dei tanti argomenti, mi pare basti a differenziare nettamente la pratica analitica dalle psicoterapie. Bada bene, Carere, ho detto differenziare, non innalzare o sminuire. Faccio la psicoanalista, pratico cioè la psicoanalisi senza peraltro bisogno di ricorrere ogni volta al "vangelo", credo che ci sia spazio per differenti modi di operare e anche per un sano confronto. Ma il confronto può avvenire a condizione di accettare l'esistenza di quanto c'è di differente dal rassicurante spazio legittimato dalle ultime tendenze...
DAVIDE CAVAGNA: Sono del tutto d'accordo con Marina Ricci quando, in polemica con le posizioni di Tullio Carere che parla dell'inesistenza di "una" psicoanalisi, sostiene che ci sia lo "spazio per differenti modi di operare e anche per un sano confronto. Ma il confronto può avvenire a condizione di accettare l'esistenza di quanto
c'è di differente dal rassicurante spazio legittimato dalle ultime tendenze..." Penso che occorra considerare ciò come una "opzione metodologica". Solo in questo caso, mi sembra, se ne potrebbe discutere in modo scientifico. D'altronde è l'opzione scelta dal legislatore (psico-albi ecc.), almeno in Italia. Poiché stiamo discutendo di "psicoterapia", mi sembra che la cosa migliore da fare sia stabilire che cosa intendiamo con "psicoterapia psicoanalitica" (nel senso più ampio dato dagli autori). Ad esempio se essa implichi, rispetto ad altre psicoterapie, una "teoria forte" (anche solo una teoria della tecnica). E se, magari, questa teoria deriva da una pratica distinta da quella terapeutica.
Secondo Tullio Carere, "le" psicoanalisi sono accomunate solo dall'intenzione di continuare lo "spirito freudiano". Ma, appunto, che cos'è lo "spirito freudiano"? Un ente metafisico, un'ideologia, un assetto mentale, uno stile? (La successione dei termini, benché rozza, vuol essere un po' "storico-evolutiva"). Strano, perché Freud, opportunamente, rifiutava alla psicoanalisi una
Weltanschauung diversa da quella delle altre scienze. E' evidente che, nel momento in cui la psicoanalisi "perde" il suo statuto scientifico (ciò non toglie che possa "riguadagnarlo"), essa diventa "qualcosa d'altro". Questo è storicamente interessante.
Quanto a chi afferma, dall'interno e dall'esterno (ma soprattutto dall'interno) della psicoanalisi, che "la" psicoanalisi è morta, ha compiuto il suo ciclo ecc. (ricorrendo dunque, di fatto, a una impostazione dialettica di tale questione), non posso non vedervi una funzione "strumentale" (cioè di gestione del potere). Difatti, benché siano praticate "le" psicoanalisi (cioè delle teorie cliniche di portata e estensione differente), rimangono saldamente fermi (per quel che ne so, non escludo eventuali correzioni) i criteri formativi (cioè di accesso al potere) e associativi (cioè amministrativi). Cosa su cui, bontà sua, Lacan riuscì a creare parecchio disagio (un tema
tuttora all'ordine del giorno per una serie di motivi; non dubito che la "inventiva" lacaniana nella didattica e la sua "disinvoltura" tecnica -
timing, ecc. - non siano saldamente - e teoricamente - connesse).
Per quanto riguarda, poi, l'idea di Tullio Carere secondo cui non sarebbe possibile differenziare "le" psicoterapie da una psicoanalisi che di fatto non esiste, la ritengo una strana argomentazione: non parliamo proprio di "cose che non esistono"? In modi e forme differenti: ricordi, ipotesi... Forse è questo lo "spirito" di cui dicevo sopra; nettamente anti-wittgensteiniano, sicuramente.
Vorrei concludere riprendendo un argomento esposto in risposta a Wilfredo Galliano (e la mia è una semplice domanda): visto che l'eclettismo tecnico
è visto con generale benevolenza perché consente al terapeuta di fare quello che vuole, senza per questo mettere in gioco il modello teorico da cui dipende la sua identità professionale e visto che, per lo stesso motivo, l'eclettismo teorico ha una pessima reputazione, qual è la migliore teoria per una teoria della tecnica?
ILEANA TADDEI: Vorrei chiedere a Tullio Carere se ha qualche riferimento bibliografico specifico e significativo riguardo ai risultati "al livello dell'integrazione diagnostica".
EMILIO VERCILLO: Sull'ultimo numero dell'Am. J. Psychiatry c'è un articolo, di cui riporto l'abstract, che forse
può portare qualche elemento alla discussione sul tema
psicoanalisi-psicoterapie.
David J. Lynn, M.D., and George F. Vaillant, M.D.. Anonymity, Neutrality, and Confidentiality in the Actual Methods
of Sigmund Freud: A Review of 43 Cases, 1907-1939. Am J Psychiatry, February 1998;
155:163-171 Obiective: The aim of this historical study was to examine the methods actually used by Sigmund Freud in his practice of psychoanalysis in his mature years (1907-1939) and to assess the relationship between these methods and Freud's published recommendations concerning anonymity, neutrality, and confidentiality. Method: The authors used both published and unpublished sources, including reports or autobiographies by analysands, letters by analysands, interviews of analysands, letters by Freud, published works by Freud, and clinical records of subsequent treatment. Results: Information concerning Freud's actual methods was found in 43 cases, including 10 clinical psychoanalyses, 19 didactic analyses, and 14 with combined clinical and didactic purposes. These 43 cases probably encompassed a majority of Freud's psychoanalytic hours during these years. Deviations from Freud's recommendations were found to the following extent: for anonymity, 43 cases (100%); for neutrality, 37 cases (86%); for confidentiality, 23 cases (53%). In addition, there were significant extra-analytic relations between Freud and 31 of these analysands (72 %). Conclusions: These results show a substantial disparity between Freud recommendations and his actual methods. Freud's prescribed method, as defined by his recommendations, was not tested or used in his practice. Freud's actual method was never explicitly described in his writings and cannot be
replicated.
TULLIO CARERE: "Chi dice queste cose non conosce la psicoanalisi", dice Marina Ricci. E Cavagna
è del tutto d'accordo. Fatemi capire, cari colleghi. L'affermazione incriminata
è: non è possibile distinguere la psicoanalisi dalla psicoterapia, perché per distinguere una cosa da un'altra occorre come minimo che quella cosa esista. E questo non
è il caso della psicoanalisi, che ha cessato di esistere da tempo: al suo posto troviamo "le" psicoanalisi, pratiche basate su paradigmi reciprocamente incompatibili e irriducibili l'uno all'altro.
Sembrerebbe un'evidenza, una cosa sotto gli occhi di tutti e testimoniata dagli stessi psicoanalisti. Invece no. Se Wallerstein (che
è stato presidente dell'IPA) dice che non esiste una psicoanalisi, ma ne esistono molte, vuol dire che non conosce la psicoanalisi. E' possibile, naturalmente, che gli psicoanalisti eleggano un incompetente come loro presidente: e quindi la sua affermazione non dimostra niente. Ma in questo caso, chi mi fornisce un criterio per distinguere un vero analista da uno che non sa quello che dice? Come faccio a stabilire che Wallerstein non conosce la psicoanalisi, mentre Ricci e Cavagna la conoscono? Con rispetto parlando, non potrebbe essere vero anche il contrario? Ma un argomento che taglia la testa al toro
c'è: l'analisi del transfert.
Perdona, Marina Ricci, se indulgo nel mio vezzo di citare gli psicoanalisti. Recito
Schafer: "convenire che noi analizziamo il transfert equivale a poco
più che convenire che usiamo le stesse parole per qualsiasi cosa facciamo". Dunque, dire che l'analisi
è analisi del transfert è dire tutto, per l'analista Ricci, è dire praticamente niente, per l'analista Schafer. Mettiamo anche Schafer nella lista degli incompetenti? Possiamo farlo, ma resta il fatto che
è arduo capire che cosa sia una cosa di cui chi la pratica dice tutto e il contrario di tutto. Non avendo modo di stabilire chi, tra Ricci e Schafer, dice il vero, e prendendo atto che dicono cose incompatibili, non mi resta che concludere:
c'è l'analisi di Ricci e c'è l'analisi di Schafer. Due psicoanalisi, non una. C.v.d.
Mi rendo conto che così argomentando ho aggravato la mia posizione: ho continuato a riferirmi al pensiero altrui piuttosto che alla mia esperienza clinica.
Dirò a mia discolpa: è vero che mi sono riferito al pensiero altrui, ma nel farlo ho fatto lavorare anche il mio, che ha prodotto appunto le argomentazioni che precedono. A fare altrettanto mi permetto di invitare sommessammente la mia gentile interlocutrice, dal momento che in proposizioni come "ho avuto modo di verificare che questo genere di affermazioni appartiene a coloro che non conoscono la psicoanalisi", e in domande come "mai sentito parlare di analisi come analisi del transfert?", se pure di indubbio interesse testimoniale, mi riesce difficile individuare un vero e proprio contenuto di pensiero.
In ogni modo, perché non ti sembri che io voglia eludere la questione, dichiaro che ti
parlerò volentieri della mia esperienza clinica. A patto che tu prima mi chiarisca che cosa c'entra la mia esperienza clinica con l'esistenza o meno de "la" psicoanalisi.
Riguardo alle informazioni bibliografiche richieste da Ileana Taddei, posso dire che su questo tema ci sono due testi importanti: 1. Frances, A., Clarkin, J., Perry, S. (1984).
Differential therapeutics in psychiatry. The art and science of treatment
selection. New York: Brunner/Mazel. 2. Gislon, M.C. (1988). Il colloquio clinico e la diagnosi
differenziale. Torino: Bollati Boringhieri.
Entrambi i testi sono degli anni ottanta. Nell'ultimo decennio questo filone è stato
pressocché abbandonato, a mio avviso perché l'integrazione diagnostica è
stata un momento del cammino verso l'integrazione terapeutica, piuttosto che un'ipotesi valida di per
sé.
Se ti può interessare, discuto questo punto nella prima parte del lavoro "Il campo della psicoterapia: un modello a quattro vertici", di prossima pubblicazione su PM-TR.
PAOLO MIGONE: Carere dice che vi sono troppe definizioni di psicoanalisi, per cui non possiamo più sapere che cosa è la psicoanalisi. In questo senso, popperianamente parlando, non è scienza in quanto non può essere falsificata. Questa comunque non è una novità, e tutti sanno che da molto tempo (dai tempi di Freud, potremmo dire) vi sono molte psicoanalisi. Ciò non impedisce di discutere di quale può essere la essenza della psicoanalisi come uno la intende.
Io concordo con Marina Ricci quando diceva che per lei psicoanalisi
è analisi del transfert. Ma Carere ribatte, ancora giustamente
e citando Schafer, che anche qui vi sono troppe definizioni di transfert.
Allora come procediamo? La mia posizione è quella di adottare
una concezione molto allargata di psicoanalisi, che ha come suo aspetto
centrale l'analisi del transfert, che io preferisco ridefinire "analisi
della relazione" perché appunto si può intendere
il transfert in vari modi. La psicoanalisi cioè sarebbe quella
pratica terapeutica che si propone di analizzare i possibili significati
della relazione, e, se possibile, di trasmettere questi significati
al paziente (cioè di non essere aprioristicamente intenzionati
a tenere il paziente all'oscuro delle cose che si possono scoprire o
pensare - casomai si possono non dire nel caso si valuti che queste cose
["la verità"] possano danneggiare il paziente in vari
modi, ed è scontato che qui centra anche l'etica, cioè
i valori e le preferenze idiosincratiche dell'analista). Si dirà
che allora molte psicoterapie ormai si allineano su questo programma.
Infatti questa definizione allargata di psicoanalisi costringe a riflettere
su quali possono essere le differenze rimaste con altri approcci, non
sempre chiare, al di là delle differenze di tradizioni storiche
ed istituzionali. Sono ormai rare le psicoterapie che non si interessano
al problema della conoscenza, intendendo solo modificare le persone
in vari modi come loro obiettivo primario. Prendiamo ad esempio gli
ipnotisti, nemici numero uno della psicoanalisi. Alcuni di loro sono
così bravi che per determinati scopi riescono a utilizzare l'ipnosi
all'intero di un approccio dinamico, e poi ad analizzarne successivamente
le ripercussioni sul transfert. La stessa cosa vale per certe tecniche
di rilassamento, sessuali, di decondizionamento rispetto a certe fobie
(come faceva già Freud), farmacoterapiche, ecc., cioè
per tutti quei "parametri" (secondo Eissler,
1953) che
inevitabilmente, in misura maggiore o minore, tutti gli analisti sulla
faccia della terra hanno sempre adottato. La tecnica analitica classica
o "pura" è sempre stata una finzione teorica, un modello
ideale, utile nella misura in cui ci serve per chiederci perché
poi nella maggior parte dei casi non riusciamo a seguirlo. E' proprio
questa l'analisi delle difese, cioè la Psicologia dell'Io: chiedersi
perché non si riesce sempre a fare l'analisi dell'Es, perché
non si riesce sempre a "dire la verità". La Psicologia
dell'Io inoltre ci ha insegnato a concepire il comportamento difensivo
del paziente non solo come qualcosa da eliminare con l'interpretazione
(il che tra l'altro potrebbe avere anche un sapore moralistico), ma
come l'unico modo che lui ha per funzionare, in certi casi per esempio
per permettersi di venire in terapia: quindi qualcosa da valorizzare.
Per quale motivo potremmo avere interesse a non dire la verità
- se ve ne è una da dire - a un paziente? Siamo costretti a "non
fare l'analisi", a impiegare parametri (anche massicci, in certi
casi, supponiamo, fino al ricovero coatto!) quando non possiamo farne
a meno, nell'interesse del paziente, sempre pronti però a tornare
a una situazione di dialogo, a una aperta ricerca della verità
appena il paziente se lo può permettere. Ho fatto l'esempio del
ricovero coatto, che sembra provocatorio, perché a ben vedere
è solo un esempio macroscopico di tutte quelle situazioni microscopiche
che si presentano quotidianamente nel lavoro coi nostri pazienti, quando
siamo costretti, sempre a causa del livello difensivo del paziente,
a posporre un approccio interpretativo. La mia definizione di "psicoanalisi"
può sembrare troppo inclusiva, e non corrispondente a quella
che si ha comunemente (si badi bene però che la definizione comune
di psicoanalisi è legata solo ai criteri estrinseci - lettino,
alta frequenza settimanale, ecc. - per cui è una definizione
molto scorretta: rimando qui al mio libro Terapia psicoanalitica,
Franco Angeli, 1995, soprattutto al cap. 4; vedi anche, su Internet,
il mio lavoro "Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e
psicoterapia psicoanalitica?" al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt59pip.htm,
e soprattutto vedi l'articolo di Gill del 1984 "Psicoanalisi
e psicoterapia: una revisione", a cui è seguito anche un dibattito
in rete). Non a caso
Merton Gill propose di trovare un altro termine per questa concezione
allargata di psicoanalisi legata solo ai criteri intrinseci (cioè
al criterio della analisi del transfert): la sua proposta fu di usare
il termine "terapia psicoanalitica" (anche se Gill era consapevole
che ciò presentava il rischio di usare lo stesso termine che
usò Alexander, il quale intitolò il suo famoso libro del
1946 Psychoanalytic Therapy, libro - allora tanto contestato
- che presenta una concezione un po' diversa; tre capitoli di questo libro, in cui presenta il concetto di "esperienza emozionale
correttiva", sono al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/alexan-1.htm). La stessa scelta di usare
il termine "terapia psicoanalitica" fu fatta da Thomä
& Kächele (1985, 1988), che tagliarono la testa al toro intitolando
i loro due volumi Trattato di terapia psicoanalitica (Torino:
Bollati Boringhieri, 1990, 1993). A me sembra che usare un aggettivo
o un sostantivo sia un po' la stessa cosa, di psicoanalisi pur sempre
si tratta (e ritengo un bizantinismo differenziare psicoanalisi da tecnica
psicoanalitica). Inoltre ritengo che sia molto più utile una
definizione legata solo ai criteri intrinseci, in quanto questa è
una soluzione più "rivoluzionaria", ricca di implicazioni
per il training, la professione, gli interessi corporativi delle scuole,
e la teoria stessa.
Il vero problema, ripeto, rimane il motivo, il razionale, per cui non dovremmo comunicare al paziente una cosa da noi eventualmente scoperta o capita. Per non ferirlo? Allora saremmo all'interno della problematica del narcisismo e delle difese, e quindi in piena psicoanalisi. Perché riteniamo che la "verità" sia sempre distruttiva o "faccia male"? Niente di più interessante chiedersi analiticamente il
perché (già il fatto di ritenerla distruttiva è frutto di un ragionamento analitico, nel senso che si ritiene che la conoscenza abbia un effetto - poco importa qui se controterapeutico). La conoscenza è inutile? Lo psicoanalista sa benissimo che con determinati pazienti è inutile trasmettere la verità, e che bisogna lavorare "al di là dell'interpretazione" (anche questo è un dibattito vecchio), ma sa altrettanto bene che in altri case è utile, e mette in moto cambiamenti... Insomma, la mia impressione è sempre stata che non è difficile definire (in questo modo) la psicoanalsisi, ma che è difficile definire i motivi per cui varie scuole hanno voluto differenziarsi (tra i motivi, vi è il fatto che molte scuole hanno voluto differenzairsi da "certi tipi" di psicoanalsisi...). Il discorso si fa lungo e preferisco fermarmi qui.
MARINA RICCI: Tullio Carere dice: "Non avendo modo di stabilire chi, tra Ricci e Schafer, dice il vero, e prendendo atto che dicono cose incompatibili, non mi resta che concludere:
c'è l'analisi di Ricci e c'è l'analisi di Schafer. Due psicoanalisi, non una." Molte, molte di più: ogni analista una psicoanalisi però: 1+1+1+1 etc. può essere = 1 come 1/4+1/4+1/4+1/4 e forse un po' più. Rispetto all'altra osservazione di Carere che ritiene la mia domanda sull'analisi del transfert come priva di un vero e proprio contenuto di pensiero, dirò che più che un pensiero infatti è un'esperienza che mi ha spesso anche ferita. Del resto quella che lui chiama "affermazione incriminata" non era priva di intenzionalità. Che provi a mettersi nei panni di chi, seguito un precorso con amore, se lo trova presentato come un catino pieno di stracci incompatibili, legati tra loro soltanto dall'idea di mantenere in vita un Totem.
Riguardo a quanto afferma Davide Cavagna ("...la cosa migliore da fare è stabilire che cosa intendiamo con "psicoterapia psicoanalitica", ad esempio se essa implichi, rispetto ad altre psicoterapie, una "teoria forte" e se, magari, questa teoria deriva da una pratica distinta da quella terapeutica.") La sua proposta é interessante ma molto, molto impegnativa. Già egli propone una distinzione di senso della parola "psicoterapia" cioé, da una parte quello che ognuno di noi dà e dall'altra quello dato dal legislatore che ha indubbiamente operato una scelta significativa e marcatamente intenzionata dal punto di vista della gestione pratica degli spazi operativi e dell'orientamento culturale. Del resto non oso immaginare lo strazio se al posto o insieme alla parola "psicoterapeuti" avesse messo "psicoanalisti". Ad ogni modo, in questo clima, molte scuole hanno dovuto aggiungere la parola "psicoterapia" per pure ragioni di sopravvivenza. Allora dobbiamo chiederci se la psicoanalisi si possa considerare una forma di psicoterapia. A questo punto già incontriamo un ostacolo dato dal significato che ognuno dà a questa parola. Ma siccome da qualche parte si deve pur iniziare, dico la mia: la parola terapia ha a che fare con l'idea di curare qualcuno che sta male o non sta bene allo scopo di sanarlo, riportarlo allo stato di equilibrio o più genericamente di salute. Quando si parla di terapia entra in causa il binomio: paziente/terapeuta in una prospettiva ontogenetica di malato/medico o in una prospettiva
adattiva di allievo/insegnante. Mi viene in mente la famosa tendenza al "io ti salverò" dalla quale credo ognuno di noi sia stato tentato
almeno una volta. Del resto, la prima cosa che chiedono i nostri pazienti é di tornare a stare come prima che... iniziassero a stare male o che noi diciamo loro come fare per stare bene. Già, ma io non posso e non so rispondere a questa richiesta e subito chiarisco loro in cosa consiste il mio lavoro. L'analisi, in quanto analisi del transfert e controtransfer o
cotransfert provoca cambiamenti nel paziente e anche nell'analista che, in una prospettiva relazionale, volente o nolente é in gioco, nell'ambito di un setting concordato. Per questo ritengo ad esempio che la formazione dell'analista non possa prescindere da un'analisi personale e da preziosi momenti di
supervisione e confronto continuo. Se il lavoro di analisi é sufficientemente riuscito il paziente (chiamiamolo così per intenderci) ne uscirà sicuramente modificato; ma questa é terapia? Se sì, in che accezione del termine? Io non so come sarei ora senza le mie due analisi, sicuramente però molto meno consapevole del mio mondo interno, conflittualità e resistenze comprese. Il cambiamento stesso è il mistero (non l'enigma) che avviene nella relazione analitica. E' terapia? Eppure funziona e fa bene in molti casi.
Mi sembra che, indipendentemente dalla teoria di riferimento (che ritengo indispensabile non come dottrina dogmatica ma come piattaforma da cui partire per potervisi anche differenziare trovando così la possibilità di riportarvi contributi di ri-flessione che la rendano fluida, viva), questi siano alcuni degli elementi fondanti della psicoanalisi che fanno di essa quello che é anche ora, e non un'altra cosa, malgrado la carenza di riconoscimenti più o meno ufficiali. Del resto possiamo sopportare questa frustrazione.
Mi dispiace ma mi accorgo di non aver partecipato in modo scientifico, o sì? Cosa intende Cavagna per scientifico?
PAOLO MIGONE: In merito al dibattito sulla integrazione, avrei varie cose da dire ma per ora devo rinunciare per mancanza di
tempo (per brevità, vedi il mio lavoro "Il problema della integrazione dei diversi approcci psicoterapeutici",
che è anche su Internet). Per contribuire al dibattito, mi limito a mandare, nel caso possa interessare ai colleghi, alcuni passaggi di una relazione che ho tenuto un paio di mesi fa ad un ciclo di seminari su un argomento simile:
(...) Il confronto tra i diversi approcci esistenti nel campo della
psicoterapia è dunque un tema molto attuale ed estremamente interessante.
Oggi, diversamente da solo uno o due decenni fa, sempre più terapeuti
mostrano di sentirsi a disagio quando viene loro richiesto di definirsi
come appartenenti ad una determinata scuola, consapevoli dei continui
progressi della scienza psicoterapeutica; la crisi di precedenti certezze
non è un dato negativo, anzi, è il risultato di una maggiore
sicurezza derivata da una identità più forte dello psicoterapeuta,
che non ha più bisogno di arroccarsi difensivamente dietro le
mura della propria scuola di origine ed è più disposto
a confrontarsi con terapeuti di diverso orientamento, per imparare da
loro, ed eventualmente assimilare o integrare altre tecniche. Ritengo
però che quello di cui abbiamo bisogno non sia un lavoro di semplice
integrazione clinica dei vari approcci, come è stato tentato
da una tradizione di ricerca, peraltro rispettabile, che ha adottato
un approccio "eclettico" o "multimodale" (Lazarus,
1981; Messer, 1986; Norcross, 1986; Giusti, Montanari & Montanarella,
1995; ecc.); né ritengo soddisfacenti formulazioni del tipo "la
psicoanalisi è indicata per certi quadri diagnostici e la terapia
cognitiva (o sistemica, corporea, ecc.) per altri" (secondo le
quali ad esempio la psicoanalisi sarebbe indicata per i disturbi di
personalità, la terapia cognitiva per i disturbi fobico-ossessivi
oppure per certe tecniche riabilitative, la terapia sistemica per i
problemi familiari, ecc.), e neppure del tipo "la psicoanalisi
è indicata come seconda scelta quando altri approcci più
brevi non riescono" o viceversa. Se fosse questa la proposta, allora
forse sarebbe preferibile una differenziazione ancor maggiore di un
modello dall'altro, per portare le loro implicazioni alle estreme conseguenze,
rispettando le singole coerenze interne, allo scopo di raggiungere una
maggiore chiarezza sulle ipotesi sottostanti. Ritengo che il nostro
sforzo dovrebbe invece andare nella direzione della ricerca di un livello
alto di integrazione teorica, di formulazione di specifiche ipotesi
e di modelli che spieghino il dato clinico, come già vari autori,
come ad esempio Dollard & Miller (1950) e Wachtel (1977) avevano
tentato a proposito del rapporto tra psicoanalisi e comportamentismo,
oppure come ha recentemente tentato di fare Wakefield (1992), che ha
rintracciato gli assunti cognitivistici presenti implicitamente nella
cornice metateorica freudiana, trovando interessanti convergenze tra
Freud e il cognitivismo contemporaneo. Ritengo che sia questo il lavoro
che abbiamo di fronte, se vogliamo fare reali passi avanti (un interessante
esempio di un gruppo di ricercatori che si stanno muovendo in questa
direzione è quello che fa riferimento alla Society for the
Exploration of Psychotherapy Integration [SEPI], il cui organo ufficiale
è il Journal of Psychotherapy Integration, sul quale scrivono
alcuni tra i più importanti esponenti dei vari approcci psicoterapeutici).
(...)
Bibliografia
Dollard J. & Miller N.E. (1950). Personality and Psychotherapy.
New York: McGraw-Hill (trad. it.: Personalità e psicoterapia.
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In: Stern R., editor, Theories of the Unconscious and Theories of
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& Gennaro A., a cura di, Inconscio e processi cognitivi.
Bologna: Il Mulino, 1989, pp. 33-73).
Giusti E., Montanari C. & Montanarella G. (1995). Manuale di
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Un approccio sistemico-processuale alla psicopatologia e alla terapia
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e Marco Casonato [1991/2], Valeria Vaccari [1992/1], Antonio Semerari
[1992/2], Lorenzo Cionini e Francesco Mancini [1992/3]; risposta nel
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l'interfaccia concettuale.
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XXVIII, 2: 33-65).
SALVO CAPODIECI: La cosa che mi ha indotto più di tutto ad occuparmi di terapia integrata è stato l'interesse per le disfunzioni e i comportamenti sessuali; ci tengo a precisare che è un interesse di tipo psicoanalitico e non sessuologico essendo questo ultimo aspetto a mio avviso relegato ai soli aspetti "orgasmologici" e non alla completezza di significati che il comportamento sessuale assume. Integrare il lavoro dell'internista, del ginecologo e/o dell'urologo, di chi si occupa di psicoterapie della coppia e di terapie sessuologiche nell'ambito del significato che le varie espressività sessuali assumono all'interno della psicopatologia e degli aspetti relazionali della persona ha una dimensione affascinante e suggestiva al contempo. I lavori di Imbasciati sullo sviluppo psicosessuale rappresentano, inoltre, per me un importante riferimento scientifico. Premesso tutto ciò vengo al mio intervento. Ho da anni l'impressione di assistere nell'ambito del lavoro clinico e di consulenza nei vari reparti ad un'inibizione e ad una diminuzione delle potenzialità diagnostiche e terapeutiche dei singoli professionisti (in campo sia biologico che psicologico) nella loro pratica quotidiana. Questo appare oggi tanto più paradossale quanto più risultano attualmente raffinati e differenziati i vari tipi di intervento diagnostico e terapeutico. La mancanza di una adeguata formazione al lavoro tanto in équipe quanto basato sull'integrare le problematiche teoriche e cliniche, che ogni ambito specialistico pone, porta a processi di semplificazione e di "superficializzazione" del proprio intervento. L'integrazione di forme diverse di intervento terapeutico si può ottenere solo se si assume un orientamento agnostico rispetto alla validità epistemologica del proprio modello teorico, il che si realizza, secondo me, dedicando potrebbe maggior tempo e più spazio alla clinica. L'integrazione mente-corpo, infatti, così difficile da concettualizzarsi nella mente del terapeuta, avviene in modo naturale e ovvio nel paziente che riesce a vivere il proprio corpo e la propria mente come un'entità clinica unica. La modalità integrativa ha per il terapeuta dei "costi" in termini di fatica che questo tipo di lavoro terapeutico richiede. Quando il committente richiede una consulenza o un controllo farmacologico il lavoro terapeutico è molto meno impegnativo di quando è necessario rivestire simultaneamente i panni medici, farmacologici, psicoterapici e spesso dover rivolgere un occhio alle problematiche sociali, ambientali e familiari più o meno pressanti. Anche quando ci si accorge dei propri limiti nel riuscire ad integrare questi aspetti tutti dentro di sè e si rende necessaria l'integrazione con altri membri dell'equipe o con altri specialisti .... la fatica non è poca! Ma questo allarga un po' troppo il discorso.
DAVIDE CAVAGNA: Mi collego alle precedenti osservazioni di Marina Ricci sugli effetti della Legge sulla psicoterapia. Penso che la scelta del legislatore, per quanto discutibile (visto che ha stabilito una rigida definizione di "formazione alla psicoterapia", tuttora carente dal punto di vista statutario), abbia però "imposto" una limitazione realistica, costringendo quindi a pensare! Nel nostro caso, poiché l'accento è posto sulla parola "psicoterapia", questo mi sembra rappresenti:
- la presa d'atto che esiste una professione/alità psicoterapeutica;
- che la psicoanalisi (o gli psicoanalisti, mi verrebbe da dire a questo punto) si rappresentano da sé: ovvero, non sono (più?) detentori di "una sola" pratica, "un solo" sapere (che, come dicevo in precedenza, era appunto positivamente monopolizzato).
Questo, a mio avviso, ci consente veramente di capire "che cosa" è la psicoanalisi (e la critica di Carere, oltre a condurci a un punto morto - non cieco, ahimè) mi sembra eccessivamente ideologica: e mi sembra che la risposta possa essere la seguente. La psicoanalisi come disciplina intercetta sia la fisolofia (vedi Schafer e gli ermeneuti) sia la scienza. Ma, con l'occhio storico, possiamo domandarci:
- esiste "la" filosofia o "le" filosofie"? si tratta di una distinzione tra esterno e interno: la filosofia come corpus cumulativo-ciclico (Vico), e le filosofie che si dibattono il "primato"
- - non esiste più (!) la scienza; ma ogni disciplina scientifica elabora e scorpora metodologie e terminologie (dunque si pone il problema della interdisciplinarietà, ma anche della non confusività tra campi del reale e campi del sapere).
Spero che possa saltare agli occhi come la psicoanalisi condivide questa serie di problemi, per motivi sia di ordine interno (il proprio statuto scientifico, ovvero l'ambizione freudiana di costituire un campo del sapere/del reale inesplorato) che esterno (la differenziazione teorico-pratica da tecniche e interventi affini nella lettera ma non nello spirito).
Marina Ricci si chiede se la psicoanalisi si possa considerare una forma di psicoterapia. Potremmo rovesciare il problema e chiederci: ma quand'è che durante una seduta psicoterapeutica si fa analisi? Gli stessi psicoanalisti utilizzano ogni seduta come un'analisi o come una terapia? Esiste una differenziazione strategica tra le due: la richiami tu, a proposito del
furor sanandi! In breve: psicoterapia e psicoanalisi non sono omogenee. Esempio geometrico: immagina un solido che attraversa una superficie: traccerà un'area più o meno vasta, a seconda della posizione, ma sempre non predittiva della sua tridimensionalità. Qual è la terza dimensione della psicoanalisi rispetto alla psicoterapia? Secondo me che riguarda il "pensare", come dimensione più ampia rispetto al "volere" e al "sapere" (purtroppo mi trovo a usare un lessico forse un po' lacanizzato). Ma c'è anche il "non sapere" che mi sembra faccia la differenza. Diciamo la realtà di un analista che sostiene la realtà psichica del paziente. Ricordo un aneddoto di Sacha Nacht, che di fronte a un paziente "incomprensibile", ormai veterano di psico-operatori che sapevano
"spiegarlo" ma non "pensarlo", ammette la propria incapacità, e così si guadagna la gratitudine del paziente, finalmente a suo agio.
Marina Ricci dice anche: "Se il lavoro di analisi é sufficientemente riuscito il paziente (chiamiamolo così per intenderci) ne uscirà sicuramente modificato; ma questa é terapia?" Già, ma che cos'è che "modifica"? Pensa al problema di una valutazione delle psicoterapie e alle difficoltà che si incontrano nella definizione delle variabili in gioco!!! Non si sa "che cosa" è in gioco! Questo, da un lato, provoca opposizione in chi ammette solo una scienza "oggettiva" e non "oggettuale", per esempio.
Marina Ricci mi chiede anche che cosa io intenda per "scientifico". Una tela di ragno (è una bella metafora di Uexküll, raccontata da Peter Hoeg in "I quasi adatti": la tela è lo strumento sofisticato che il ragno costruisce per valutare la
realtà; ma con essa può percepire solo un piccola parte della realtà; certo, può estendere la sua tela, come fa la scienza fino allo spazio infinito, ma percepirà sempre la stessa realtà, cioè peso, distanza ecc. della sua preda): la scienza è un'estensione dell'apparato sensoriale, nient'altro. E la psicoanalisi? Non è forse una "tela di Penelope"? Una tela dell'attesa e del ricordo? Una tela "di fantasia"?
GIANMARIA GALEAZZI: Alcune considerazioni sull'intervento di Paolo Migone che, come sempre, ho trovato coraggioso e molto interessante. Tuttavia alcuni punti, forse da me male interpretati, mi hanno fatto sorgere alcune perplessità. Quello che mi lascia un po'
perplesso è in primo luogo l'uso disinvolto della parola "verità". Virgolettata o no, mi sembra che il tuo discorso possa essere inteso o frainteso nel senso che c'è un terapeuta che conosce, che è l'esperto della relazione e sceglie o meno di comunicare quello che crede di sapere. A parte il fatto che non condivido una posizione paternalistica con cui si potrebbe leggere questa posizione, non sono d'accordo sul fatto che lo psicoanalista "sa benissimo che con alcuni pazienti è inutile trasmettere la verità". Per prima cosa diffiderei di ogni psicoanalista che "sa(ppia) benissimo" qualsiasi cosa, ma soprattutto mi stupisce questa idea del terapeuta che "trasmette" qualcosa di pronto, in maniera tutta attiva, al paziente ricevente, quasi che tra-mettesse nella testa del paziente (l'allusione al primo rango di Schneider è voluta) quello che
dall'alto/basso/aside della sua competenza ha scoperto. Insomma, parli della centralità della relazione e della riflessione sulla relazione e poi sembra che la relazione scompaia nella uniderizionalità dello psicoanalista osservatore che vede la relazione e che sa, come se non ci fosse dentro fino al collo e di più, e che quindi co-costruisce insieme al paziente e la relazione e la sua interpretazione (di cui anch'essa , ovviamente. fa parte). Questa impressione strana è forse ricavabile anche dall'uso impersonale con cui ti esprimi quando, per esempio, dici che "La psicoanalisi cioè sarebbe quella pratica terapeutica che si propone di analizzare i possibili significati della relazione, e, se possibile, di trasmettere questi significati al paziente". Ma è chiaro che , anche se l'idea della "trasmissione" ti piacesse da morire, converrai con me che non è certo "LA PSICANALISI" o la PRATICA" che cerca di capire e trasmettere ma Paolo Migone, Gian Maria Galeazzi ecc, ecc, in quella particolare relazione con quella particolare persona che ci si rivolge. Forse ti ho frainteso, ma sai anche questo avviene in una relazione. Scusami ancora la pedanteria ma la "verità" (anche con le virgolette) mi fa male, lo so; in compenso mi tengono compagnia molte
probabilità e ancora qualche problema - grazie a Dio -.
ADRIANO ALLOISIO: Riprendo una mail di cui ricordo il contenuto, ma che ho perso, non disponendo
così né del mittente né del subject. Si trattava di un grido di dolore e di allarme rispetto alla pletora di "terapie" non inquadrabili nella psicoterapia prevista dalla legge, di una delle quali (il metodo
Reyki, non so se si scriva così) si dava un breve resoconto desunto da un'esperienza diretta, forse inevitabilmente infelice. Molte di queste si presentano come insegnamento e pratica di certe tecniche (danza, musica, scrittura, pittura, scultura) opportunamente canalizzate ai fini di un'integrazione delle
facoltà del soggetto e dello sviluppo della sua creatività. Non entro nel merito se servano o no, ma anche se si fregiano del suffisso "terapia" in
realtà è in misura variabile il loro pretendere di assolvere alle stesse funzioni. Capita anche che "curino" davvero. Di queste la maggior parte si rivolge a un'integrazione del rapporto con la
corporeità, e si configura come ginnastica (un esempio ne è lo yoga) o intervento diretto sul corpo, e altre - all'opposto - all'ampliamento di
facoltà mentali (meditazione, etc.). Sono per lo più attività di gruppo, a volte
perché non potrebbero essere altrimenti (come la drammatizzazione), a volte
perché teorizzano esplicitamente la necessità del gruppo, per il tipo di energia che si scatena in queste situazioni, o per la particolare
qualità delle relazioni che vi si intessono. In questo campo si trova di tutto, dalla ciarlataneria, all'improvvisazione, alla seria e specifica preparazione. Come ovunque. Credo che ad esempio i gruppi di
auto-aiuto (come gli anonimi alcolisti) spesso coordinati da ex partecipanti, in molte situazioni abbiano ottenuto buoni risultati, certo non inferiori a quelli che otteniamo "noi". Il problema nasce quando queste "terapie" si propongono come totalizzanti del senso, o della soluzione delle proprie dinamiche esistenziali (forse appartengono a questo gruppo Dianetics e il Rebirthing), puntando sulla "full immersion" in contesti facilmente istericizzabili, dove il forte coinvolgimento viene fatto passare per segno di efficacia, e la
fedeltà alla setta - premiata con gli avanzamenti di "carriera" - come equivalente di un ritrovato senso (non abbiamo nessuna garanzia, tra l'altro, che anche psicoterapie legali, e la psicoanalisi, in certi casi non funzionino allo stesso modo, e che certi soggetti non "guariscano"
perché vengono a loro volta promossi psicoterapeuti). Tuttavia non è un problema diverso da altri, come quello del lavaggio del cervello sistematico che la TV esercita su tutti i noi (non
perché è la TV, ma per il modo in cui viene proposta e usata), o l'azzeramento dell'umano esercitato in tanti soggetti dal calcio, etc. Nessuno ha mai misurato quanto "faccia male" un Festival di San Remo? Si tratta di espressioni - nel meglio e nel peggio - delle tendenze e delle contraddizioni di oggi, dove - ad esempio -
l'irrazionalità viene contrabbandata come spiritualità, la corporeità confusa con la regressione, la
normalità proposta nelle vesti dell'adeguamento, la soggettività inseguita come audience che si riscuote. Il senso inteso come benessere, la terapia come strada per raggiungerlo. L'antidoto
è uno solo, sottolineato dall'estensore della mail: la cultura, e spesso, aggiungo, il coraggio di una controcultura (come sta manifestando ora, scusate
l'off topic relativo alla società civile, il PM Gherardo Colombo). Non voglio dunque neppure immaginare un sistema, che solo una cultura di marca totalitaria potrebbe produrre, che filtri a priori, con distinguo, diplomi, normative, controlli istituzionalizzati tutta l'offerta spontanea di intervento (anche se pilotata da interessi di tutti i tipi) e il sapere psicologico non istituzionalizzato -
perché a volte di autentico e nuovo sapere si tratta - emergenti dalla
multiformità del sociale. Certo ci vogliono grande attenzione e abitudine all'esercizio critico, ma ci stiamo arrivando.
PAOLO MIGONE: Già può essere un errore concettuale separare psicoterapia da psichiatria, e se addirittura separiamo psicoterapia da psicoanalisi allora veramente vogliamo proprio applaudire al proliferare della galassia delle psicoterapie e delle paranoie culturali. Alla faccia del bisogno di integrazione!
Vorrei poi rispondere alle osservazioni di Galeazzi su quello che lui
definisce il mio "uso disinvolto" della parola "verità".
Caro Galeazzi, credevo che i problemi che tu sollevi fossero impliciti,
per cui li avevo dati per scontati, e ti ringrazio per avermi fatto
notare che non sono scontati per tutti. Mi sembrava che avrei potuto
annoiare il lettore se specificavo che la "verità"
è relativa, e credevo che il metterla tra virgolette bastasse
ad alludere a questa problematica, di cui peraltro si è tanto
parlato in psicoanalisi da vari decenni. Non ti sei mai chiesto perché
da molto tempo (non da ieri) nessuno cita più l'articolo di Glover
del 1931 sull'"effetto terapeutico della interpretazione inesatta"?
Allora si credeva veramente che fosse la "verità" quella
che cura (verità dell'analista, ovviamente), altrimenti Glover
non avrebbe sentito il bisogno di scrivere quell'articolo quando si
accorse che i pazienti a volte migliorano anche se interpreti in modo
"sbagliato". Negli anni '60, poi, con l'assalto dell'ermeneutica,
si è sviscerata a fondo la cosa. Il concetto che è stato
proposto, comunque, è quello di "funzione" dell'insight,
come processo, anziché l'insight in quanto tale (una "verità"
di oggi magari domani cambia e viene illuminata da un'altra verità,
questo anche nella scienza). Io ho usato comunque la parola verità
per riallacciarmi appunto a questo dibatitto, e per spirito di provocazione
(appunto tra virgolette). E' scontato che la verità dell'analista
ha pari dignità di quella del paziente (altrimenti che significato
avrebbe il termine "analisi del transfert" come lo intende
Gill [1984]? E poi è ovvio che se l'analista - tanto
quanto il paziente - dice una cosa la dice dal suo punto di vista, non
certo dal punto di vista di qualcun altro): ciascuno però è
interessato a conoscere la verità dell'altro, non ultimo il paziente
che decide (magari sbagliando, ma questo è un altro problema)
che "qualcun altro - nella fattispecie, l'analista - deve saperla
più di lui", altrimenti non chiederebbe una terapia (questa
tematica tra l'altro è una ottima occasione di analisi: perché
mai una persona deve ritenere che un altro abbia per forza ragione,
o abbia la verità in tasca? Aprioristicamente, cioè come
forma di "transfert positivo irreprensibile", o magari molto
reprensibile, cioè come forma di dipendenza, paura di usare la
propria testa, ecc.? E se la richiesta di analisi fosse essa stessa
l'unico e vero sintomo, un segno di "malattia", la "malattia"
in se stessa? Ogni esperto analista, cioè attento ai vari significati
della relazione, può accorgersi di questa "verità"
che lui ha l'impressione di vedere nel paziente, e trasmetterla, cioè
discuterla col paziente, pronto a ritenere di essersi sbagliato dopo
averla discussa. In analisi, non c'è niente di più bello
che accorgersi di essersi sbagliati (ottima occasione di analisi: perché
ci siamo sbagliati?). Ma mi fermo qui perché ho sempre l'impressione
che queste cose siano scontate.
Riguardo al tema della centralità della relazione e del fatto che lo psicoanalista la co-costruisce insieme al paziente, direi che il co-costruire insieme non significa diventare irresponsabili e non avere più idee proprie. Non capisco perché dici che la relazione è unidirezionale: in ogni relazione analitica - nel modo come la intendono quasi tutti gli analisti oggi - è scontato che le impressioni o "verità" dell'analista sono solo le sue, e che la cosa più bella è scoprire dopo che magari erano sbagliate (il nostro scopo è quello di far diventare il paziente analista di se stesso). Se l'analista è convinto di conoscere solo lui il "Verbo" (come forse certi lacaniani?), è possibile - controbatterebbero altri analisti di diverso orientamento - che quell'analista è caduto in una reazione controtransferale dovuta alla paura di non sapere niente, di essere poco bravo, di essere impotente di fronte al paziente e così via.
Anche le osservazioni sulla "trasmissione", caro Galeazzi, mi sembravano scontate. Ma forse hai ragione nel far notare che anche le parole hanno importanza, e possono tradire una eccessiva sicurezza dell'analista, che magari spaventa il paziente il quale non se la sente più poi di dire la sua. Ma se questo è vero, andrebbe subito raccolto e discusso, interpretato (con quella che in genere si chiama analisi del transfert, e tu giustamente potresti obiettare che il termine transfert è sbagliato - ma da molti decenni si discute che l'analista fa qualunque cosa solo alla luce del suo transfert...).
Vorrei infine concludere riferendomi alla citazione tratta da Eliot che Galeazzi pone in calce al suo intervento:
"The condition is curable.
But the form of treatment must be your own choice:
I cannot choose for you"
(T.S. Eliot, The Cocktail Party)
Non è un ipocrisia ritenere che il paziente "sceglie", e che noi non abbiamo una pesante influenza sulla scelta della terapia? E' solo partendo dal presupposto che noi sempre e comunque influenziamo e manipoliamo il paziente - se non altro per il fatto che abbiamo il nostro ruolo - che noi possiamo iniziare ad avere qualche possibilità di analizzare la relazione.
MARINA RICCI: Ecco io credo che integrare sia davvero importante, ma che per poterlo fare sia necessario innanzitutto differenziare, altrimenti integrazione diventa con-fusione. Credo che scissione sia stata creata invece dalla legge 56 che ha negato, omettendo, l'esistenza della formazione che, fino al giorno prima si poteva dichiarare necessaria per l'esercizio della psicoanalisi senza con questo destare ironia, sarcasmo e magari anche rabbia. Ben contenti di non essere stati definiti dal legislatore cerchiamo almeno di definirci da noi, altrimenti debbo dare ragione a Tullio Carrere che pur chiedendo integrazione a viva voce ci dichiara inesistenti. In fondo, il tema centrale di
Spaziozero! Questo lo dico, non per sostenere la necessità di un'altra lista di psicoanalisi ma forse il bisogno di fare un po' di chiarezza sulle tante differenze a scopo appunto integrativo.
PAOLO MIGONE: Sono d'accordo con te, infatti lo scopo del mio intervento era quello di tentare (almeno dal mio punto di vista) di dare una possibile definizione di
psicoanalisi che fosse internamente coerente. Chiarito questo, si può esplicitare eventuali differenze con altri approcci.
MARCO LONGO: Il termine "integrazione" in sé non mi è mai piaciuto molto, in nessun contesto dandomi sempre l'idea della ricerca della ricomposizione di un ideale olistico, cosa che ho visto sempre come un po' misticheggiante anche se a volte un po' di misticismo aiuta ... Del resto anche nell'amalgama
più integrato permangono sempre le differenze come tra le molecole dei composti in chimica o tra le miscele di gas in fisica. Se solo le nostre idee, a volte
così diverse, ma attratte da valenze telematiche, sapessero comporsi insieme in modo
così integrato o miscelarsi insieme in modo così leggero ...
DIEGO CHIANESE: Bravo Marco! Avevo da tempo, seguendo gli ultimi dibattiti in lista, la scoraggiante sensazione di ritrovarmi nelle atmosfere degli anni '70. Quando *dovevi* far parte di una 'chiesa' (politica e/o psico-qualcosa) e guai farti scovare a parlare con gli 'infedeli'. Altro che integrazione, si trattava d'integralismo e - penso di dire cosa ovvia - trovo che il secondo sia spersonalizzante, confusivo e 'antiscientifico' ben
più della prima. Ben venga un po' di leggerezza, penso si possa essere rigorosi senza necessariamente essere paludati. La collaborazione mi ha sempre fatto sentire
più a mio agio della competizione, sarà per questo che la parola 'integrazione' non mi fa
più di tanto paura. Ho in mente il significato che vi attribuisce Zapparoli, quando parla della cura degli psicotici cronici. Qualcosa che ha a che fare con la partecipazione di approcci e
professionalità diverse e *distinte* , riunificate o - appunto - integrate dal principio di dover rispondere ai bisogni del Paziente. Piuttosto, penso che il confronto su casi reali potrebbe rendere
più evidente differenze e similitudini dei nostri approcci alla terapia. Il riferimento concreto all'operare quotidiano potrebbe contribuire a tener lontano lo spettro dell'integralismo, senza rinunciare al rigore scientifico.
GIANMARIA GALEAZZI: Caro Paolo Migone, nel rispondere alle mie osservazioni sul tuo intervento, dici che credevi che i problemi che tu sollevi fossero impliciti, per cui li avevi dati per scontati. Mah.. che dire... Anche "implicito" è una parola che si presta ad essere strumentalizzata, quando la si usa per eludere se non epurare nodi centrali e problematici di una discussione su cui si possono avere idee diverse. Io so che tu non lo fai
perché ho avuto la fortuna di ascoltarti spesso, ma forse effettivamente non è per tutti così. Poi, francamente, non mi sembra proprio l'ideale che questi problemi rimangano impliciti, proprio
perché anche tu li chiami - li riconosci - come problemi. E infatti segue la tua bellissima e articolata risposta, su cui io ho idee in gran parte uguali (e questo mi conforta) ma non identiche (mi conforta pure). Ancora (e permettimi il salto di livello) lavorare sull'implicito (premesse, desideri repressi, schemi cognitivi-comportamentali) discuterlo ed eventualmente ristrutturarlo insieme mi sembra uno dei punti unificanti di molte psicoterapie.
Per quanto concerne l'articolo di Glover del 1931 sull'"effetto terapeutico della interpretazione sbagliata" non mi sono chiesto perché da molto tempo non sia più citato, non potevo chiedermelo perchè sono ignorante e non l'ho letto. Però anche adesso che lo so devo ammettere che continuerò a dormire anche senza aver capito come mai nessuno lo cita più. Ma anche questa non è la
VERITA': perché tu lo citi, e l'ho fatto anch'io. Scherzi a parte potrebbe essere che, da come ti esprimi tu, ci si muova ancora in un modello che prevede una interpretazione più aderente, secondo un criterio di arcana collimazione, ad una realtà che l'analista conosce meglio del paziente, e ci si domanda le ragioni di quelle che sembrano le eccezioni al modello. La cosa dovrebbe funzionare, se ricordo bene, che si trova un nuovo modello per cui quelle eccezioni che allora non sono più eccezioni. Ma ti prometto che leggerò l'articolo, se mi dici su che rivista è, così puoi citare un'altra volta l'ingiustamente dimenticato Glover.
Dici inoltre che "...ogni esperto analista, (...) può accorgersi di questa verità che lui ha l'impressione di vedere nel paziente, e trasmetterla, cioè discuterla col paziente, pronto a ritenere di essersi sbagliato dopo averla discussa..." Ma si potrebbe dire che quella "verità" è frutto a sua volta di una discussione precedente. Non è infatti qualcosa che l'analista "vede", a mio parere, ma è il discorso che costruiscono insieme il paziente e l'analista e di cui l'analista è uno dei portavoce e questa discussione non è mai sazia di una verità. Ma adesso temo io di annoiare.
Concludo con una considerazione sul tuo commento sulla frase di Eliot che, da mesi, accompagna i miei interventi.
"The condition is curable.
But the form of treatment must be your own choice:
I cannot choose for you"
(T.S. Eliot, The Cocktail Party)
Prima che il paziente prenda contatto con noi forse sarà influenzato da altri, ma concordo con te. Di questa citazione mi piace soprattutto la prima (come sai sono un ottimista) e la terza riga (come sai sono abbastanza libertario).
TULLIO CARERE: Una volta in un dibattito televisivo una giornalista
incautamente accennò alla propria analisi. Al dibattito partecipava
Carloni, allora presidente Società Psicoanalitica Italiana
(SPI), che la gelò: lei non ha fatto nessuna analisi. Come, cercò
di reagire la poveretta: tot anni sul lettino, tre volte alla settimana,
analista SPI. Appunto, spiegò pazientemente Carloni: per un'analisi
ci vogliono almeno quattro sedute alla settimana; lei ha fatto una semplice
psicoterapia. E chiarì alla costernata signora: ci sono due cose. C'è
la psicoanalisi - quello che fa un analista, quando lo fa almeno quattro
volte alla settimana - e c'è la psicoterapia - quello che fa sempre
un analista, ma lo fa meno di quattro volte alla settimana. Di tutto
il resto non vale la pena occuparsi. La signora abbozza un ultimo disperato
tentativo di salvare l'oggetto d'amore: eppure il mio analista mi ha
detto che la mia è proprio un'analisi. Ma a questo punto la pazienza
di Carloni è finita: le cose stanno come le ho detto io, taglia corto.
Glielo dico io, che sono il presidente della Società di Psicoanalisi.
Nello stesso periodo Arnold Cooper, anche lui presidente di una Società
di psicoanalisi, ma dall'altra parte dell'oceano, tuonava: sarebbe una
follia pensare di definire la psicoanalisi in base a criteri tecnici.
Riporto questo altro piccolo esempio della prassi psicoanalitica di
dire tutto e il contrario di tutto, sempre in nome della Psicoanalisi.
Mi è tornato in mente a proposito dei criteri estrinseci e intrinseci
citati da Migone. Per il presidente italiano i criteri estrinseci sono
vangelo; per quello americano, ancora più mega, il vangelo dell'italiano
è pura follia. Perché occuparci di queste beghe parrocchiali? Perché
il campo psicoterapeutico è ancora largamente attraversato e compartimentato
da queste beghe, e se vogliamo sperare di riuscire anche solo a comunicare
tra di noi la mentalità parrocchiale deve essere implacabilmente smascherata
(con più delicatezza di quanto mi sia riuscito finora, lo ammetto).
Non è anche questo "analisi del transfert", analisi del modo
in cui i terapeuti si relazionano tra di loro e col mondo? Ma vediamolo
bene, questo concetto riproposto da Migone, di analisi del transfert
come analisi della relazione. Ho qui davanti a me l'articolo di Gill
del 1984 (International Review of Psychoanal., 1984, 11:
161-179, trad. it.: "Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione", al sito
Internet: http://www.publinet.it/pol/ital/10a-Gill.htm), con sottolineature e note a
margine d'epoca: per dire che delle idee di Gill io mi sono molto nutrito.
Il punto centrale del suo pensiero è: non c'è solo il transfert come
ripetizione di schemi infantili su uno scenario neutro; c'è anche un'interazione
reale che dà sempre un certo grado di plausibilità al vissuto del
paziente. Ed è questa plausibilità che deve essere riconosciuta in
primo luogo, perché su questo sfondo il paziente possa in un secondo
momento riconoscere quanto lui vi ha eventualmente aggiunto, attingendo
a schemi e fantasmi del passato. Sicché l'analisi di transfert è definita
come "il tentativo di comprendere l'esperienza attuale del paziente
in relazione all'analista, incluse le sue possibili fonti nel qui-e-ora",
anzi a partire da queste, "in modo che le fonti nell'esperienza
passata, i desideri e i conflitti possano essere illuminati". Prima
domanda: perché chiamare "analisi del transfert" questa operazione?
Che cosa non va in "analisi della relazione" (o "monitoraggio
della relazione", come preferiscono i comportamentisti)? Risposta:
per non dover distinguere l'analisi dell'interazione reale dall'analisi
del transfert propriamente detto. Quest'attenzione privilegiata e prioritaria
per l'interazione reale non appartiene evidentemente alla tradizione
freudiana, e rischierebbe quindi di essere definita come "non psicoanalitica"
(e dunque solo "psicoterapeutica"). Ridefinendo invece il
transfert, allargandone il senso per includervi anche l'esperienza realistica
dell'interazione attuale, si può affermare che questo è ancora psicoanalisi
e sperare di restare in tal modo nel salotto buono. Così nascono "le"
molte psicoanalisi (che esistono eccome - mai detto che non esistono
- e non sono affatto stracci - mai detto neanche questo - anzi sono
cose spesso ottime e preziose). Nonostante questa debolezza, il contributo
di Gill resta molto importante, perché corregge e anzi capovolge quell'atteggiamento
pregiudizialmente sospettoso, non esente da venatura paranoica, che
tende a vedere in qualsiasi comunicazione del paziente in primo luogo
una distorsione prodotta e alimentata dal desiderio infantile. In questo
senso io debbo dire (anzi voglio dire e dico sinceramente) a Marina
Ricci: mi dispiace di averti urtata con il mio eccesso polemico e ti
chiedo scusa per la mia mancanza di sensibilità. Avendo io riconosciuto
che il tuo risentimento è giustificato, forse tu potrai vedere quello
che (eventualmente) ci hai messo di tuo. Penso non sia il caso di precisare
che non sto cercando di essere il tuo terzo analista: il "transfert"
(in senso allargato) è ubiquitario, ci ricorda Gill. Se lo si vede, è
meglio per tutti (le scuse sono estese anche a Cavagna e a chiunque
altro io abbia involontariamente offeso con la mia "foga sanguigna").
Seconda domanda: una volta visto che la relazione di terapia è in primo luogo un'interazione tra due persone che di questa interazione hanno entrambe un'esperienza, in parte corretta e realistica e in parte distorta, e stabilito che nessuna delle due
può pretendere a priori che la propria esperienza sia più giusta di quella dell'altra,
perché fermarsi qui? Al contrario, proprio queste premesse obbligano a procedere oltre per trarne tutte le conseguenze di cui sono gravide. Utilizzare l'esperienza realistica del paziente solo come sfondo (in sostituzione dello schermo bianco, che in effetti non
è mai esistito) sul quale interpretare la componente irrealistica proiettata da qualche scena del passato, per tornare a fare qualcosa che si possa ancora chiamare psicoanalisi,
è una cosa che può soddisfare il bisogno di appartenenza del terapeuta (peraltro rispettabilissimo), ma che cosa ha a che vedere con i bisogni reali del paziente? Abbiamo stabilito che la
capacità del paziente di percepire realisticamente la situazione va messa in linea di principio sullo stesso piano di quella del terapeuta? Allora dobbiamo ammettere, come corollario, che la
capacità del paziente di riconoscere i bisogni in gioco nella relazione vale come quella del terapeuta. Di conseguenza, l'affermazione che il paziente "non ha bisogno d'altro" che di prendere coscienza delle sue fantasie infantili o dei suoi conflitti inconsci non
può essere che il risultato di un'operazione paternalistica: "io so di che cosa tu hai bisogno,
checché tu ne dica".
In una relazione autenticamente terapeutica, quindi non paternalistica, il terapeuta non dà mai nulla per scontato. Il bisogno prevalente del paziente, per come posso valutarlo in questo momento,
può anche essere di prendere coscienza del suo inconscio, ma in un altro momento, anche nella prossima seduta, anche in questa stessa seduta,
può essere quello di una "nuova esperienza" nella relazione con me. Come stabilirlo? Solo attraverso il confronto continuo tra la mia e la sua esperienza della relazione, che dunque non
è semplicemente lo sfondo su cui interpretare il transfert (in senso stretto), ma
è molto di più: è un vero dialogo, un legame profondo in cui si costruisce assieme, di momento in momento, un processo di crescita, che in tanto
può avere luogo in quanto i bisogni reali del paziente sono riconosciuti e trovano risposte minimamente adeguate dentro e fuori la relazione terapeutica.
Marina Ricci ha scritto che, affinché l'integrazione non diventi con-fusione, occorre innanzitutto differenziare. Chianese, citando Zapparoli, ricorda come l'integrazione abbia a che fare con la riunificazione di approcci e professionalità diverse. Lungi da me il desiderio di eliminare le differenze per buttare tutto in un calderone unico. Le differenze non solo mi vanno benissimo, ma sono necessarie, se sono messe al servizio di una integrazione guidata "dal principio di dover rispondere ai bisogni del paziente". Non sono necessarie, e anzi a mio avviso sono dannose, quando sono al servizio del senso di
identità del terapeuta e tendono a irrigidire la relazione, in quanto si stabilisce a priori di che cosa
avrà bisogno il paziente per guarire senza dargli la possibilità di contribuire momento per momento a determinare le caratteristiche che la relazione deve assumere per corrispondere per quanto
è possibile a ciò che realmente gli serve.
PAOLO MIGONE: In merito all'intervento di Tullio Carere, mi trovo
d'accordo con tutto quello che ha detto. La sua logica è stringente.
Mi ha fatto piacere anche sapere che conosce l'articolo di
Gill
dell'International Review del 1984, che per me è stato
uno degli articoli che ho letto con maggiore soddisfazione perché
mentre lo leggevo avevo forte la nota sensazione di "leggere cose
che avevo sempre pensato ma che non avevo mai sentito così chiaramente".
Tanti sono i punti che vorrei toccare. Per brevità commento solo
la prima parte (quella riguardo alle logiche istituzionali che si intrecciano
con quelle teoriche - consiglio anche di dare un'occhiata al mio pezzo
al sito http://www.publinet.it/pol/ital/documig2.htm).
La psicoanalisi, come tante cose al mondo, risente di grosse pressioni
economiche, che agiscono pesantemente nell'inconscio di molti analisti,
soprattutto nel momento in cui questi ricoprono cariche di responsabilità
nelle loro associazioni (che loro abbiano fatto una analisi pare che
non li aiuti a questo riguardo). Politica e teoria insomma si intrecciano,
e non è possibile altrimenti capire la storia della teoria della
tecnica (questa non è una caratteristica solo del movimento psicoanalitico,
ovviamente). Per brevità copio un brano di una mia intervista
pubblicata su Legge e psiche, 1994, II, 1/2: 55-60:
"Volendo parlare quindi delle varie modalità anticompetitive,
quali sono le più comuni utilizzate ad esempio dalle associazioni
psicoanalitiche? Vorrei fare quattro esempi di operazioni monopolistiche
comunemente adottate. Una prima operazione è quella di associare,
con varie manovre di propaganda culturale, il marchio "psicoanalisi"
solo a certe associazioni psicoanalitiche, di modo che i membri di altre
associazioni o i terapeuti indipendenti vengano chiamati in altro modo,
ad esempio "psicoterapeuti psicoanalitici" (a ben vedere,
questa è la stessa operazione fatta dallo stato italiano con
la legge 56/1989 per il marchio "psicoterapia", limitandone
l'esercizio dal 1994, dopo la sanatoria, solo a medici e psicologi che
avranno fatto una scuola di quattro anni riconosciuta - preferisco non
entrare in questa sede nel merito di questa legge). Una seconda operazione
è la restrizione delle domande di ammissione a queste associazioni,
o l'adozione virtuale del numero chiuso per gli "psicoanalisti"
tramite per esempio un blocco delle nomine degli analisti didatti, ovvero
una loro lentissima crescita (si pensi che, con tutti i professionisti
esperti e preparati disponibili all'interno della stessa SPI, in una
città come Firenze fino al 1986 i didatti erano tre, a Bologna
due, e sono stati poi aumentati solo a cinque, il che ha comportato
che negli anni centinaia di candidati non fossero ammessi al training).
Una terza e molto potente operazione, quella denunciata negli Stati
Uniti [per la storia dettagliata di questo processo, rimando al cap.
15 del mio libro Terapia psicoanalitica, Franco Angeli, 1995,
e il sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt53-54.htm], è stata l'esclusione dei non medici dal
training (andando contro le stesse direttive di Freud che era favorevole
all'analisi laica); colpisce come questa ideologia della psicoanalisi
solo medica sia stata accettata per anni in modo passivo da molti psicologi
in vari paesi. Sia chiaro però che nulla di sostanziale è
cambiato, si tratta solo di uno spostamento di equilibri (in fondo,
medici e psicologi potrebbero continuare a mantenere alte le tariffe
se fossero pochi rispetto agli eventuali clienti): infatti ora entrambi
medici e psicologi sono uniti contro altre categorie professionali,
come ad esempio gli assistenti sociali, che in America ricevono un training
più qualificato che in altri paesi e molti di loro sono esperti
psicoanalisti (si pensi a figure storiche come Rubin e Gertrud Blanck,
o a Patrick Casement e ad altri che anche grazie al loro ruolo hanno
potuto essere esposti ai casi difficili, alle famiglie, ecc., dando
validi contributi teorici alla Psicologia dell'Io). Gli assistenti sociali
hanno ormai tariffe che si avvicinano a quelle dei colleghi di più
"alto rango" di cui rischiano di conquistare sempre più
fette di mercato (anche gli assistenti sociali, e non solo gli psicologi,
a Manhattan coi loro studi invadono già le strade un tempo territorio
incontrastato degli analisti medici, come la Park Avenue, la
tradizionale "via degli analisti"). Ma vi è una quarta
operazione monopolistica, diversa, più sottile, ma forse la più
importante di tutte: quella di differenziare a livello teorico la "psicoanalisi"
dalla "psicoterapia psicoanalitica", e di riuscire a convincere
pazienti e terapeuti della legittimità di questa divisione, aggrappandosi
magari a criteri formali come il lettino, la frequenza delle sedute,
ecc. Del reale dibattito teorico è rimasto ben poco, si tratta
solo di una questione di mercato: gli uni devono essere di serie A,
gli altri di serie B; le tariffe devono essere diverse, come pure devono
essere diversi i risultati terapeutici. Recentemente mi sono occupato
molto di questo problema, e sono d'accordo con importanti autori (come
Gill) che grazie a una revisione teorica e sulla scia delle intuizioni
avute già molti anni fa da Sullivan e altri, non considerano
più giustificata questa separazione. Ovviamente non posso qui
entrare nel merito di queste questioni [per questa problematica e per
una discussione della posizione di Gill rimando al cap. 4 del mio libro
citato prima; vedi anche Migone, 1992a,
1992b,
1995]. Si badi bene comunque che
io non dico che non vi siano terapeuti meno esperti di altri e che questi
non vadano differenziati, ma non ritengo che, anche per rendere chiari
i termini di una sana competizione, sia questo il modo migliore per
differenziarli."
MARINA RICCI: Mi sembra importante dire che la Marina Ricci quando
fa la psicoanalista non mette tailleurs grigi, non fa astensioni
(astinenze sì, per forza), si cala nella relazione col suo bel
controtransfert o cotransfert (che mi sembra più azzeccato per
trasmettere il senso di reciprocità della relazione) con di diverso
rispetto al paziente qualche strumento in più per poter dare
un senso a quanto vi accade (il che mi sembra auspicabile!). La mia
formazione é avvenuta e avviene, in parte con un'analista della
scuola di psicoterapia psicoanalitica di Cremerius e Benedetti e, per
la parte più consistente, in gruppoanalisi con la SGAI (Società
Italiana di Gruppoanalisi) e con Diego Napolitani che ne ha elaborato
la teoria. Come vedete, niente a che fare con modelli stile Carloni
che onestamente spaventano. Detto questo, a me pare che durante il lavoro
di analisi si intreccino varie dimensioni nella relazione tra analista
e paziente tra cui due si evidenziano con maggiore facilità:
una è quella transferale in cui il paziente porta nella relazione,
riproponendole le proprie acquisite modalità di stare con
qualcun altro:
segni, sintomi, rigide versioni di sé etc. che producono effetti
sull'analista e nel caso di gruppi sugli altri membri del gruppo (controtransfert)
e in una visione più globale appunto cotransfert. Il momento
di analisi sta nella possibilità di dare una senso nel qui e
ora a quanto accade. Questo porta ad un riattraversamento della propria
storia relazionale (anche l'analista spesso ci deve fare i conti, come
è già stato detto). Ecco perché, secondo me, si
chiama analisi del transfert. Forse l'ho messa giù in maniera
un po' troppo elementare ma mi sembra che altrimenti si corra il rischio
di sciorinare teorie più che confrontarsi.
DAVIDE CAVAGNA: Concordo col principio enunciato da Paolo Migone e cioè che politica e teoria si intrecciano. Se vogliamo fare un'analisi seria del "che cos'è oggi la psicoanalisi" non possiamo esimerci dall'affrontare il tema "politico" (politica delle istituzioni, politica culturale ecc., politica - soprattutto - come gestione del potere). Cerco di sintetizzare l'intervento di Migone elencando quelle che chiama le "quattro operazioni monopolistiche":
1) il "marchio di qualità"
2) il "blocco delle nomine"
3) l'esclusione dei non-medici
4) la separazione psicoterapia-psicoanalisi.
In proposito: se 1) e 2) corrispondono all'amministrazione del potere (politica interna: come si gestisce un'Associazione), 3) e 4) mi sembra coinvolgano una "politica estera" (relazioni con operatori presenti sul mercato e discipline concorrenti). A questa andrebbe aggiunto, almeno, un quinto punto, considerando lo stretto intreccio politica-teoria:
5) relazioni interdisciplinari (psicoanalisi + biologia, linguistica, neuroscienze... ovvero psicoanalisi e università), che mi sembra rappresentino una sorta di "relazioni diplomatiche". A questo punto: 1) e 2) rimandano a un problema di democrazia della rappresentatività + autorizzazione alla formazione (chi elegge chi, come avvengono le nomine ecc.) e vanno risolte nell'ambito del diritto: uno Statuto è costituzionale oppure no? (Aneddoto extra-IPA: all'atto dello scioglimento repentino
dell'Ecole freudienne di Lacan, di fronte alla platea di associati sconvolti, Louis Althusser, già da anni gravemente malato, pronuncia un discorso in cui rivendica la "politicità" dello statuto di fronte ai colpi di mano del
maitre-à-penser - ovviamente viene trattato da Cassandra). Quanto a 3) non è forse evidente che il rifiuto dell'"analisi laica" è avvenuto proprio in quei distretti analitici in cui più forte è stato il bisogno di adeguarsi alle "richieste ambientali" (leggi: assicurazioni ecc.), come gli Stati Uniti: come va inteso allora il nesso
politica-teoria? élite di potere medica? Snellimento concettuale? o che altro Infine, per 4), non è forse un po' "buonista" parlare di "grosse pressioni economiche, che agiscono pesantemente nell'inconscio di molti analisti". (A scanso di equivoci non intendo che Migone sia un "buonista", ma che piuttosto la grande confusione attorno a psicoterapia-psicoanalisi sia indotta da chi buonista non è, e vuole magari "non rendere chiaro" lo stato delle cose a chi sarebbe disponibile a un serio confronto. In tal senso forse - mi correggo - c'è anche qualcosa di inconscio all'opera). Insomma: prendendo a prestito un'idea manageriale, mi sembra che il problema da dibattere sia: vogliamo una psicoanalisi "snella", che, come l'azienda snella giapponese, dà "quello che il cliente chiede, nel momento in cui lo chiede, nelle modalità in cui lo chiede"? Questo taglierebbe di netto la contrapposizione psicoanalisi-psicoterapie (rimanendo la formazione psicoanalitica una sorta di "master"?). Ma, e qui sorgono ahimè i miei dubbi: una "psicoanalisi snella" (spero, personalmente, che questo termine non entri mai in uso, ma forse il mio è romanticismo) non significa forse capovolgere (come del resto notavano Migone e Carere sulla scorta di Gill) la nozione di "transfert"? Nel senso che "si finisce per dare al cliente ciò che chiede" (sempre e comunque? non ci sono controindicazioni?) e non astenersi/neutralizzarsi/frustrarlo ecc. (a seconda degli autori di riferimento)? Se è così, allora non è incomprensibile il perché di tanta agitazione pro e contro la psicoanalisi... E' più una questione "ideologica" che altro: o "tutto per il cliente" (il cliente ha sempre ragione) o "nulla per il paziente" (il paziente è una persona no grata)?
ILEANA TADDEI: Tullio Carere si chiede perché utilizzare il termine "analisi del transfert" per definire quell'operazione che può essere anche chiamata "analisi della relazione" o, come preferiscono i comportamentisti, "Monitoraggio della relazione". La mia risposta è: perché non è un'analisi della relazione nel qui-e-ora, ma del transfert nel qui-e-ora. L'interazione "reale" è a mio parere meglio definibile come relazione "attuale". Da ciò la possibilità di servirsene, pescando al di là dell'attuale e del reale. In questa luce mi diventa difficile comprendere ciò che intende Carere quando dice che l'attenzione privilegiata e prioritaria per l'interazione reale non appartiene alla tradizione freudiana e, per farla rientrare nell'ambito psicoanalitico, si è dovuti ricorrere ad un allargamento del significato di "transfert". Rispetto, poi, al fatto che in una relazione autenticamente terapeutica vi sia un legame profondo tra paziente e terapeuta in cui, momento per momento, si costruisce assieme un processo di crescita, devo dire che nella mia esperienza le cose non sono così semplici. A me non risulta che sia così facile un "confronto continuo", e men che meno "tra la mia e la sua esperienza della relazione".
ALBERTINA SETA: Premesso che concordo con l'impostazione di Tullio Carere, vorrei tornare su alcune questioni poste dal suo ultimo intervento, che ha a mio avviso il merito di entrare nel vivo della questione del transfert (o se vogliamo della relazione terapeutica) andando un po' più a fondo. E soprattutto mi trova concorde il fatto di dare (Carere lo fa seguendo Gill, ma ci sono altri autori che hanno questa impostazione) al termine transfert un'accezione estensiva e ben più problematica della semplice ripetizione di vicende infantili. Transfert e relazione terapeutica coinciderebbero, interrogarsi sull'uno sarebbe interrogarsi sull'altra, o meglio, per semplificare, l'analisi del "transfert" in senso classico
(- lei sta trasferendo su di me esperienze infantili negative del rapporto con suo
padre -) non avrebbe senso senza il riferimento più o meno esplicito alla relazione nell' "hic et nunc" con il terapeuta (cioè, andrebbe aggiunto: - e questa è una negazione (io non sono suo padre, ovvero non ho la realtà interna di suo padre). Il terapeuta, in altri termini, nella misura in cui non si ponesse come il rappresentante o il succedaneo di una istituzione, si troverebbe ad affrontare la relazione con il paziente in prima persona ed avendo come strumento di lavoro solo la propria realtà interna, o vogliamo dire inconscia? Naturalmente questo complicherebbe in un certo senso le cose: tutto bene se tale realtà è valida, ma se non lo è? Fondamentale diciamo così l'"analisi di controtransfert", ma il rischio di incorrere nella paranoia rimane notevole. D'altra parte dobbiamo chiederci se tale rischio non è accentuato anziché attenuato dall'appartenenza del terapeuta stesso ad una qualche istituzione. Mi sembra dunque che con queste premesse si potrebbe, come sembra suggerire Carere, riportare la ricerca a ciò che passa tra gli inconsci di due persone tra loro in relazione, senza determinazioni aprioristiche ovvero di ruolo circa l'identità del terapeuta. Il terapeuta, sembra dirci Carere, questa identità deve conquistarsela sul campo, paziente per paziente, seduta per seduta, non basta un training codificato a garantirgliela una volta per tutte. E fin qui siamo perfettamente d'accordo, ma, sgombrato il campo dal paternalismo o se vogliamo da una sorta di investitura che decide una volta per tutte chi nella relazione è l'analista e chi non lo è, esiste un modo per capire chi poi trai due partner (paziente ed analista) di fatto lo sia? (tanto per regolare la questione dell'onorario, come giustamente faceva notare Marina Ricci). E, prima ancora di arrivare a questo, ci interessa in psicoterapia definire questa faccenda dell'identità del terapeuta o dobbiamo limitarci all' integrazione di concetti e/o tecniche per garantire un risultato, senza chiederci quale sia la realtà non solo cosciente ma soprattutto inconscia di "chi" compie questa operazione? E, tanto per essere più espliciti, è in una prospettiva di questo genere ovvero avendo come centro della nostra attenzione la ricerca sull'inconscio che vogliamo parlare di "integrazione", fuori da ogni logica di scuderia o di appartenenza, o gli evidenti fallimenti della/e psicoanalisi freudiana/e e dei suoi/loro modello/i di formazione ci portano lontano da tale tipo di ricerca e ci fanno concepire una lista di psicoterapia come un settore in un certo senso di serie B che fornisce come rimedio della crisi un tranquillizzante relativismo?
ANDREA ANGELOZZI: Volevo inserirmi nel dibattito in corso relativo alle psicoterapie integrate. Mi sembra che vengono sollevati diversi ordini di problemi, i quali, pur strettamente connessi fra loro, si pongono tuttavia su piani piuttosto diversi:
1) Un primo problema riguarda quello dell'eclettismo e della integrazione fra tecniche.
2) Un secondo problema è quello invece della definizione degli
ambiti delle varie terapie: cosa è psicoanalisi, cosa è
psicoterapia, cosa psicoterapia ad impronta analitica?.
3) Vi è un terzo problema che a tratti percorre alcuni interventi e che, per quel che mi riguarda, esercita il fascino maggiore: esiste un qualche filo comune che lega insieme le varie psicoterapie? Esiste uno sfondo comune possibile di quel mutamento terapeutico che comunque tutte ricercano? Confesso che questo problema ha attualmente assunto per me caratteristiche "preoccupanti": i vari modelli psicoterapeutici ai quali mi sono accostato non si sono "integrati", ma hanno alla fine compiuto una sorta di annichilimento reciproco. L'atteggiamento forse ipercritico non ha infatti prodotto commistioni alchemiche, ma ha invece consentito a ciascuna teoria di svelare i limiti profondi dell'altra, impedendo l'uso dei suoi modelli, sentiti come povere prigioni alle quali vorrebbe attaccarsi un qualche impaurito bisogno di certezze. In realtà l'operazione di "sintesi" mi pare difficile e mi sembra quasi tradire il rispetto che si deve ad ogni teoria, di cui vanno forse approfonditi i fondamenti e non giustapposti gli aspetti. Mi accorgo invece che taluni "strumenti" continuo ad usarli, ma sono rimasti orfani delle loro teorie e hanno ormai un che di provvisorio e fittizio. Credo che in questo percorso delle idee vi siano alcuni aspetti dai quali è un po' difficile prescindere:
a) Vi è un numero considerevole di psicoterapie, molte delle quali radicalmente diverse quanto a concezione dell'uomo, della patologia, e di cosa mai sia un processo terapeutico. Di fronte alle differenze che esistono fra quanto fanno, che so, Perls, o Minuchin, o Erickson, o Jung, o
Eisenck, le differenze teoriche e di definizione fra modelli Kleiniani e modelli Freudiani, sembrano ben poca cosa. Tali discussioni rischiano di essere le famose tempeste in un bicchiere d'acqua.
b) Queste terapie hanno alla fine risultati "per certi versi" confrontabili. E' chiaro che bisogna intendersi circa il termine "risultati". Se parliamo di ricostruzione (o costruzione) di una qualche storia personale, certi modelli sono più efficaci di altri (anche se non sarei così certo nemmeno di questo: in fondo ho visto tante volte pazienti trattati con un puro approccio farmacologico, una volta usciti dai sintomi in cui erano immersi, cogliere con incredibili insight taluni aspetti essenziali circa i loro disturbi; ho visto per converso persone tratte in psicoterapia per anni "recitare" l'insight, a loro del tutto estraneo). Se parliamo di "stare meglio" (che va dalla scomparsa di sintomi, alla loro accettazione, alla loro integrazione in un senso che li renda vivibili, etc), siamo poi sicuri che esistano poi grandi differenze fra i vari modelli? Siamo sicuri di poter prescindere da quel "ma funziona"? ma quanto funziona?" che aveva percorso gli scritti sul caso Di Bella?
c) Scrivendo queste note mi sono reso conto che è talmente fragile la base con cui affrontiamo questi modelli ( e forse con cui questi modelli sono fatti), che faccio fatica perfino a definire il "risultato" di una psicoterapia.
d) Il modello non dice tutto: sembra esserci qualcosa che sfugge alla trasmissione di questi saperi, per cui i "maestri fondatori" ottengono risultati molto migliori dei loro allievi. Che essi stessi non sappiano cosa funziona e di conseguenza non siano in grado di trasmetterlo?
e) I modelli teorici ci dicono infatti molto poco sul reale funzionamento di qualcosa. Da premesse false si possono ottenere conseguenze vere, e la sovradeterminazione degli eventi ci può fare imputare ad un fattore, ciò che appartiene a tutt'altro. Esiste una interessante letteratura "sperimentale" sulla psicoanalisi che pone gravemente in dubbio che funzioni per come dice di funzionare (e così per tutte le altre teorie terapeutiche).
f) I vari modelli psicoterapeutici si sono difesi strenuamente dalle critiche. Non parlo tanto della falsificabilità, quanto piuttosto del fatto che nessuno si è posto in una logica da "rompicapo" kuhniano per cui i fallimenti erano visti come fallimenti della teoria ( e non come variabilità e resistenze del singolo paziente) né in una logica di euristica positiva con il bisogno di predire e portare fatti nuovi. Non so più se questo mini la loro "scientificità", ma certo non favorisce una adesione che abbia un minimo di spirito critico e di coscienza metodologica.
Non so come si esca da questa situazione. Personalmente sento il bisogno di "aria nuova", che sto cercando negli approcci linguistici e logici alla mente. (e nel
frattempo?... cerco di fare meno danni possibili al pazienti...).
FEDERICO PAOLINO: Vorrei dare il mio contributo su ciò che mi sembra un aspetto differenziante dell'approccio analitico rispetto ad altri. Mi sia permesso di giungervi a tappe. Vorrei partire dall'intervento di Carere e mi scuso in anticipo per la necessaria lunghezza. Innanzitutto, Carere si pone una domanda: "Prima domanda:
perché chiamare "analisi del transfert" questa operazione? Che cosa non va in "analisi della relazione" (o "monitoraggio della relazione", come preferiscono i comportamentisti)?" La domanda
può essere invertita, visto che esiste una priorità storica del termine "analisi del transfert", a patto che la terminologia comportamentista si riferisca agli stessi fenomeni cui fanno riferimento gli analisti. Nessun fisico quantistico si inventerebbe un nuovo nome per la Legge di Boyle per il solo fatto che lui
è un quantistico e Boyle appartiene ad un'altra "scuola", la Fisica Classica.
A proposito dell'articolo di Gill del 1984 citato da Migone, direi che il problema del rapporto tra relazione di transfert e relazione reale
è antichissimo nella teoria analitica e Gill non è il primo a porlo in questi termini. Vorrei partire da alcune delle molte (non tantissime) concezioni junghiane che condivido. Jung pone la stessa questione di Gill in questi termini:
"Dobbiamo fare però a questo proposito (della proiezione sul terapeuta) una distinzione non trascurabile: distinguere
cioè tra la proprietà che è realmente insita nell'oggetto e senza la quale una proiezione sull'oggetto non sarebbe probabile (Jung ha
già sottolineato che 'la proiezione non avviene nel vuoto'), e il valore o l'importanza... di questa
proprietà... Succede spesso che l'oggetto della proiezione offra...
un'occasione. E'
ciò che si verifica quando la proprietà stessa è inconscia all'oggetto; in tal modo essa influisce sull'inconscio dell'altro. ...l'analista risponde ad una traslazione con una controtraslazione quando la traslazione proietta un contenuto che
è inconscio al medico stesso, ma tuttavia presente in lui."
Pertanto questo incrocio di proiezioni (transfert e controtransfert) "significa
un'identità 'mistica' , ossia inconscia, con l'oggetto." (Considerazioni generali sulla psicologia del sogno, 1916).
Bisogna tenere presente che per Jung la proiezione genera sempre un'identità inconscia e che dunque il suo concetto di proiezione
è strettamente legato al tema del controtrasfert e corrisponde abbastanza da vicino a
ciò che più tardi Klein chiamerà identificazione proiettiva. Jung non sta solo dicendo che le proiezioni transferali non avvengono "su uno scenario neutro", ma che sono attivate, parzialmente, da caratteristiche reali,
benché inconsce, del terapeuta che vanno distinte dalle prime, ma sta facendo un'operazione molto
più importante: sta legando in maniera indissolubile transfert e controtransfert. non esiste
più il fenomeno del transfert, ma quello, inscindibile, di transfert e controtransfert. "Per poter influenzare, bisogna lasciarsi influenzare". Questo
è cruciale, ma lo riprenderò dopo. Jung riconosce anche la centralità del rapporto "reale" tra
paziente e terapeuta: "Anche se le proiezioni sono riportate alle origini...la
richiesta del paziente di avere un rapporto umano perdura e dovrebbe essere soddisfatta,
perché senza rapporti di qualsiasi genere l'uomo si sente precipitare nel vuoto. Per poter soddisfare le richieste che nascono dai suoi sforzi di adattamento, il paziente deve in qualche modo essere in relazione con un oggetto immediatamente presente...egli si
rivolgerà al terapeuta non soltanto come ad un oggetto sessuale (qui Jung intende transferale), ma come al partner di un rapporto puramente umano in cui a ciascuno sia garantita la sua posizione individuale." Questo non
è realisticamente possibile fino al ritiro delle proiezioni, ma poi "...il particolare tipo di rapporto noto come traslazione cessa e comincia allora il problema della relazione individuale. ... questa forma di rapporto personale
è un legame liberamente negoziato, un contratto, l'opposto del vincolo costituito dalla traslazione". (Il valore terapeutico dell'abreazione, 1921). Questo non deve essere inteso come riferito a due stadi distinti dell'analisi, ma come ad una situazione complessa presente in ogni attimo della relazione che, in ogni attimo,
è parzialmente contaminata dalle proiezioni di transfert-controtransfert ed insieme (e via via sempre
più) parzialmente contiene delle aree di rapporto libere cui il terapeuta non deve sottrarsi
perché è in questo confronto da uomo ad uomo "con uguali diritti" che il
paziente
può realisticamente misurarsi e rappresenta, forse, il momento più importante di un'analisi. Ovvero, l'analisi non finisce affatto con il ritiro delle proiezioni, ma continua come relazione tra due persone ed in questo senso
può non avere un termine. Qui siamo già fuori dall'ottica della "cura",
è qualcosa di diverso che non si pone affatto né nelle teorie
cognitivo-comportamentali, nè in quelle relazionali o familiari. Come si vede certe cose erano state corrette 60 anni prima di Gill.
Ritornando alla questione, lasciata in sospeso, del transfert-controtransfert, Jung fa delle osservazioni fondamentali (rimando anche a tutto Psicologia del Transfert):
"Nessun artificio può impedire che la cura sia il prodotto di un'influenza reciproca a cui paziente ed analista partecipano interamente."
TULLIO CARERE: Quando Albertina Seta dice che è "avendo come centro della nostra attenzione la ricerca sull'inconscio che vogliamo parlare di "integrazione", fuori da ogni logica di scuderia o di appartenenza" ha messo a fuoco il punto centrale della questione. Penso anch'io che se vogliamo definire
l'identità del terapeuta al di fuori di ogni logica di scuderia o di appartenenza, e senza ricorrere ad assemblaggi poco
seamless e molto patchwork, occorre partire dal suo rapporto con l'"inconscio". Lo metto tra virgolette
perché nemmeno l'inconscio - come il transfert, come tutto il resto - è più quello di una volta.
Alla questione sollevata da Ileana Taddei (chi paga l'onorario) ho già risposto: il terapeuta si guadagna l'onorario
perché sa di non sapere (se lo sa). Vale a dire, se è in grado di stare nel non sapere, di soggiornare in quel vuoto di sapere in cui si entra sospendendo la memoria e il desiderio. F in O
è la formula con cui Bion definisce la posizione base del terapeuta: vuol dire che
è impossibile lasciare il sapere senza affidarsi a un vuoto di sapere. Il che implica che questo vuoto
è affidabile, perché è vuoto di realtà ma pieno di infinite possibilità. O è
l'originario, il grembo, la matrice, la grande dea, la cosa in sè ignota e inconoscibile. O
è dunque l'ignoto più che l'inconscio - ma mi sta bene usare il vecchio termine, se questo ci
dà un senso di continuità.
Il terapeuta per essere tale deve essere, prima di tutto, un mistico: uno che sa e vuole sospendere memoria e desiderio, quindi la stessa
identità personale, per aprirsi all'inconscio generativo: non con spirito di conquista, non per bonificare lo
Zuider See, ma per consentire al processo terapeutico di svilupparsi secondo la sua logica, realizzando via via le sue proprie
potenzialità, non quelle procustianamente permesse o imposte da un paradigma. In un paradigma sono invece impigliati tutti coloro, pazienti o terapeuti, che non sapendo collegarsi al fondamento ateoretico di tutte le teorie sono obbligati a promuovere una teoria a fondamento, trasformandola in tal modo in metafisica. Una "integrazione" che volesse partire da queste teorie trasformate in
entità metafisiche sarebbe condannata in partenza al fallimento: tali modelli non sono capaci che di annientarsi reciprocamente, come giustamente osserva Angelozzi (ma non
è ancora un buon motivo per darsi alla linguistica, a mio parere). Chi si dà questo fondamento non ha
più bisogno di identificarsi con le idee: al contrario, comincia a vedere che tutte le idee sono false, se sono prodotte da un pensatore (intento a corrompere ogni pensiero per dimostrare la propria esistenza). Le idee vere non sono
più quelle in accordo con l'ideologia, ma quelle derivate da O (K come trasformazione di O): la
verità è ciò che si mostra a chi non cerca più di possederla. L'asse principale della terapia
è dunque quello che congiunge O e K, il noumeno e il fenomeno, l'inconscio generativo e la conoscenza che procede da questo, il mistico e lo scienziato. Io lo chiamo "asse filosofico"
perché qui più che in qualsiasi sede accademica si tenta di rispondere nel nostro secolo al monito di Apollo (conosci te stesso). Corrisponde in ogni modo al lavoro comunemente detto "analitico" o "uncovering". Sull'altro asse ("remaking") si producono le nuove esperienze necessarie a coloro cui
è mancato qualcosa nel processo della crescita (cioè quasi tutti). Questo secondo asse collega i due vertici del campo in cui il terapeuta
è chiamato a far proprie alcune funzioni parentali: ad agire cioè soprattutto come "contenitore" e come "emancipatore". Io chiamo "psicologico" questo asse
perché il lavoro corrispondente ha come obiettivo la crescita psicologica, quella che ha luogo in famiglia quando va bene
(cioè quasi mai). Grazie a questi due assi ortogonali è possibile orientarsi nel campo da essi descritto o, in altre parole, integrare l'infinita
varietà di azioni e modi di essere che la relazione terapeutica richiede.
Un grazie ad Albertina Seta, per averci invitato a prendere posizione sulla questione
dell'identità del terapeuta come premessa per qualsiasi discorso sull'integrazione.
Ringrazio anche Federico per il titolo di junghiano con cui mi onora. Lo metterò senz'altro nel mio medagliere, anche se non sono sicuro di meritarlo. Quanto alle diverse questioni che egli solleva, mi limito per il momento a questi punti:
1. E' incontestabile il fatto che Jung è stato il primo, in ambito psicoanalitico, a rivalutare l'importanza dei problemi attuali del paziente.
2. Col passare degli anni, l'interesse di Jung per i fenomeni di transfert è andato progressivamente declinando, fino ad augurarsi di non incontrarli affatto: "Io mi rallegro ogni volta che la traslazione ha un decorso, diciamo
così, benigno, o quando non si fa praticamente sentire" (Psicologia della traslazione, 1946). La cosa non stupisce, se consideriamo che ne aveva un'idea prevalentemente negativa, come di un'infezione o un contagio, in seguito al quale "medico e paziente si trovano in un rapporto fondato su una comune incoscienza" (ibid). Insomma: se ci ammaliamo curiamoci, ma se
è possibile evitiamo di infettarci.
3. Questa diffidenza verso i fenomeni di transfert/controtransfert è abbastanza strana, se consideriamo che in generale Jung aveva dell'inconscio un'idea molto
più positiva di quella di Freud. Il suo inconscio transpersonale o collettivo, inteso come una dimensione generativa e creativa, anticipa per molti aspetti l'O di Bion. L'approccio a questo inconscio
è risultato tuttavia a molti, me compreso, piuttosto ostico a causa della miriade di
entità "archetipiche" di cui Jung lo ha popolato. Mi pare che la cosa abbia finito per infastidire anche non pochi tra gli stessi junghiani.
4. Sulla questione della "realtà", mi pare che la posizione di Federico Paolino sia quella di un costruttivismo abbastanza radicale. Me ne sto interessando.
ALBERTINA SETA: Credo anch'io che, nella pratica, i tempi siano cambiati da quando l'interpretazione del lapsus o dell'atto mancato potevano costituire l'esercitazione principale di uno psicoanalista. Oggi forse sappiamo che l'inconscio è qualcosa di molto più complesso e questo anche grazie al Bion da Tullio Carere citato con tanta profondità.
E vengo dunque al punto della posizione base del terapeuta: sospensione di memoria e desiderio, ci dice Carere, e la mette in relazione con il sapere di non sapere. Non vorrei assolutamente con ciò scatenare un putiferio di citazioni filosofiche, mi piacerebbe che si cercasse di riflettere così, forse un po' alla buona, su concetti spesso, molto spiacevolmente per tutti credo, abusati. Ora se noi pensiamo che il terapeuta debba mettere da parte tra parentesi, diciamo così, non solo la realtà circostante ma con essa tutte le sue nozioni e paradigmi di riferimento, e non basta, anche quelle che potremmo definire delle immagini precostituite o semplicemente delle immagini mentali perché questo sarebbe di intralcio ad un suo esporsi all'accadere che si darebbe nella relazione, non possiamo che concordare, anche se potremmo in prima istanza chiamare questo tipo di assetto come ci pare (perché non con il vecchio termine di
epoché fenomenologica?) Perché fin qui stiamo parlando di un assetto cosciente, di una sospensione della memoria cosciente, di un atteggiamento che è naturale assumere, anche se non superfluo ribadire. In altri termini è una questione deontologica elementare quella di non stare a pensare ai fatti propri quando si è in seduta, e d'altra parte di non assumere nei riguardi del paziente un atteggiamento sospettoso o coercitivo o prevenuto. Quanto al desiderio è abbastanza ovvio che se il rapporto è regolato da un contratto non è possibile pensare che tra terapeuta e paziente si instauri una relazione diciamo così di desiderio in cui alla fine della... seduta viene corrisposto un onorario: la cosa potrebbe essere molto imbarazzante. Sospendere memoria e desiderio in questo senso sarebbe pertanto un ovvio e dovrebbe risultare più o meno facile ed accettabile a tutti. La sospensione di memoria e desiderio sarebbe dunque solo la premessa necessaria a fare emergere quel mondo sconosciuto denominato anche inconscio.
Ma se la posizione del terapeuta è rappresentata dalla formula F in O, mi chiedo, come ce lo immaginiamo, o meglio, che attributi diamo a questa matrice indifferenziata, a questo vuoto di sapere ricco di potenzialità, pensiamo che essa sia in qualche modo irritabile ovvero atta a rispondere a stimoli provenienti dall'altro? Come distinguiamo un vuoto siffatto che non sarebbe vuoto per niente dal fatto che alcuni, e non sono soltanto i pazienti, se realizzano diciamo così una sospensione di questo genere, in altre parole se provano a lasciare da parte la coscienza razionale, precipitano "realmente" in una situazione di vuoto ed anaffettività o peggio di dissociazione? Come distinguere un assetto capace di sospendere la coscienza e di regredire (mi sembrerebbe di poter parlare di regressione) ad una matrice indifferenziata ricca di libido, per consentire come dici in tal modo l'accesso ad una conoscenza che proceda dall'inconscio, da una posizione difensiva che finisce con il riproporre al paziente nient'altro che una vecchia "neutralità" capace solo di un contenimento dell'angoscia, magari in primo luogo del terapeuta stesso?
Quanto poi scrive Carere nel suo lavoro sui due assi è molto interessante; è soprattutto sul primo di essi (quello che congiunge O e K), almeno mi pare, che si dovrebbe giocare in gran parte il problema del transfert negativo.
Sull'asse del "remaking" forse la questione potrebbe farsi più complessa quando, come mi pare accenna Carere, non ci si dovesse limitare ad un atteggiamento per così dire empatico o di contenimento ma si tentasse una costruzione di immagini. Ma non mi sembra per il momento il caso di dilungarsi su questi argomenti, scusatemi quindi per la sinteticità e forse l'approssimazione con cui vi accenno.
FEDERICO PAOLINO: L'attribuire a Carere il titolo di "junghiano" era un modo per sottolineare quella che mi sembrava una consonanza tra il mio pensiero, il suo e quello, storicamente importante, di Herr Carl Gustav. Le osservazioni di Tullio Carere sono
così stimolanti (anche quelle di Migone, per la verità) che mi permetto un contributo articolato. Per chiarezza di posizioni premetto, a questa e ad ogni discussione a venire, che non mi sento particolarmente
junghiano; forse mi piacerebbe di più essere considerato un fairbairniano. Ma poiché
ci ho messo vent'anni a costruire uno straccio di stile personale in questo impossibile lavoro
- ma é un lavoro? - forse mi piace pensare di appartenere alla scuola dei paoliniani di cui sono, ora e per sempre, l'unico rappresentante.
1. E' incontestabile il fatto che Jung é stato il primo, in ambito psicoanalitico, a rivalutare l'importanza dei problemi attuali del paziente, ma anche quella del controtransfert.
2. Del transfert Jung aveva un'idea prevalentemente negativa. Questo non mi pare corretto. Jung considerava l'inconscio ed i suoi prodotti (sogno ecc.) come un "fenomeno naturale" nei suoi effetti positivi e negativi sull'Io. Lui parla spesso dei fenomeni di
transfert/controtransfert come infezione, contagio, ma anche in termini di unione chimica degli elementi ecc. Parla spesso, anche, dei sentimenti di angoscia ed in genere negativi del terapeuta che si accorge di questo fattore coattivo scattato dentro di lui. Questo
é semplicemente vero. Lui sta parlando, nella sua scrittura piena di emozione, della sofferenza, del pathos implicito in ogni relazione analitica vera (e, se,
é per questo, di ogni relazione umana significativa), nella misura in cui "ars totum requirit hominem". Ma per lui la struttura
transfert/controtransfert é la struttura fondamentale dell'analisi. Senza
transfert/controtransfert semplicemente non c'è analisi, per quanto
l'identità inconscia possa essere sgradevole. In realtà lui sta cercando di sottolineare in ogni modo il
controtransfert e la
necessità dell'impegno umano del terapeuta (il lavoro del terapeuta è veramente un "lavoro"?). Queste cose vanno viste anche storicamente. Jung scrive tra il '15 ed i '50, un periodo in cui
controtransfert voleva dire semplicemente che eri un cattivo analista. Il
controtransfert era negato. Nel '55, quando la Little
rivendicherà il diritto del terapeuta al controtransfert , il commento della Klein sarà che, per scrivere quelle cose, la Little ha ancora bisogno di un'analisi personale - cosa che in quel periodo era il peggior insulto che si potesse rivolgere ad un analista. Jung esprime solo la sua dolente consapevolezza di una
necessità. Lo stesso atteggiamento ambivalente lo mostra nei confronti dell'archetipo, riserva di energia creativa, ma anche potenzialmente distruttiva. No, le vere contraddizioni sono altrove. Ad es., dopo quello che ha detto sul
transfert/controtransfert, come fa poi Jung a proporre implicitamente che possano esistere analisi ove non
c'è transfert? E, due, come fa a proporre una impossibile distinzione tra "interpretazione a livello dell'oggetto e quella a livello del soggetto"? Che senso ha? Va anche rilevato che Jung aveva un atteggiamento molto aperto verso altri approcci al
paziente (io lo sono,
ahimè, molto meno). Più volte, nel corso dell'intera sua opera, ribadisce che l'analisi non
è proponibile a tutti e che buona parte dei suoi pazienti aveva problemi risolvibili con l'ipnosi, la rassicurazione, la "confessione" (???
sic!!!), il sostegno ecc. A suo modo lui era un "terapeuta integrato". Interessante
è il fatto che lui riconosca apertamente che i fenomeni di transfert, l'identificazione col terapeuta, il peso che la
personalità del terapeuta ha nel successo della terapia, hanno a che fare con la suggestione. Questo noi lo dimentichiamo spesso, ma credo che avesse ragione. Non
è che Jung abbia mai abbandonato il tema del transfert/controtransfert. Semplicemente dopo 30 anni dava certe cose per acquisite. Si mise a studiare l'alchimia, interessantissima per altri versi (credo che esistano dei rapporti strettissimi tra l'uso del linguaggio metaforico alchemico e l'O di Bion), ma perse l'occasione storica, io credo, dell'incontro con lo strutturalismo di Levi-Strauss.
3. I rapporti e le convergenze tra il pensiero di Jung e Bion sono affascinanti. Sappiamo che Bion conobbe Jung e
partecipò alle sue conferenze alla Tavistock negli anni '30. Ambedue usano un linguaggio mistico (filosofico-logico-matematico, l'uno; religioso-spiritualistico, l'altro). Ambedue usano una griglia interpretativa dei fenomeni psichici (la Griglia e l'alchimia). Identificano processi psichici sovrapponibili (l'alchimistico "solve et coagula" corrisponde al Ps <<=> D di Bion). Come giustamente rileva Carere ambedue hanno dell'inconscio e del sogno una concezione creativa (che in Jung deriva proprio da quella concezione di emergenza dei significati nella relazione
transfert/controtransfert di cui si parlava, e
così credo anche in Bion. Ma qui si potrebbe scrivere un trattato). Il concetto di archetipo assomiglia molto a quello di preconcezione (una forma vuota non costruita storicamente che si riempie di contenuti storici; un sapere a priori che per essere scoperto -
realizzato - deve essere creato nella relazione ), ecc. Bion
però dispone di una differenziazione concettuale e terminologica che Jung e la scuola junghiana non si sono mai date. Jung
dà, a volte, una definizione piuttosto precisa dell'archetipo (la raccolgono, ad es., Balestrieri e De Martis in: Balestrieri, De Martis,
Siciliani, Etologia e Psichiatria, Bari: Laterza). Ne possiamo discutere. Poi,
però, utilizza questo concetto in maniera vaga e talora contraddittoria. E' vero che questa vaghezza corrisponde
all'ambiguità ed alla cangiabilità di certi fenomeni profondi (Jung si giustifica
così), ma a tutto c'è un limite. In realtà il concetto di archetipo, se si utilizzano certe e non altre definizioni che ne ha dato, mi pare utile anche praticamente
perché offre la possibilità di anticipare e prevedere il comportamento
del paziente.
4. Sulla questione della "realtà" Carere mi attribuisce una posizione di un costruttivismo abbastanza radicale. E' evidente che in una lettera si possono dire solo le cose a pezzettoni. Quando sto dal salumiere so bene se un prosciutto
è "realmente" buono o è "realmente" una sòla (ma per un altro
ciò che per me è sòla può essere ottimo). E' evidente che il
paziente ha già dei significati suoi costruiti storicamente altrove (in altre relazioni), ma penso che i significati
più importanti in analisi siano quelli emergenti dalla relazione, nei modi di cui abbiamo detto, in quanto sono "nuovi". Un grosso problema della teoria
è che essa giustifica la conservazione, la resistenza, la persistenza dei contenuti ecc. (questo compito
è devoluto al concetto di struttura, tra gli altri), ma non giustifica il mutamento. Questo, conseguentemente,
farà dire, ad es., al mio amatissimo Fairbairn che le strutture, una volta create, sono difficilmente mutabili e costituiscono il mondo chiuso della
realtà interna. Bion e Jung cercano di superare l'impasse ricorrendo ad una presunta
creatività dell'inconscio, mentre nelle loro teorie (soprattutto in Bion) vi sono concezioni che permetterebbero di farlo mediante concetti dinamici. Voglio anche accennare al fatto che non tutti i contenuti presentati dal
paziente sembrano avere origine dall'incontro con quelli del terapeuta; anche il setting ci mette il suo. Un esempio. Quasi tutti gli aspetti del setting sembrano devoluti a creare un campo chiuso nella relazione
paziente/terapeuta,
affinché le parti profonde dei due possano entrare, e restare, in contatto (alcuni aspetti falliscono in questo: ad es. il divano, l'uso di tempi medi che reputo troppo lunghi e facilitano le resistenze narcisistiche del
paziente, l'usanza di prescrivere il pagamento delle sedute mancate senza una valutazione caso per caso e
paziente per paziente, ecc.). Paziente e trapeuta si ritrovano imprigionati dentro un "uterum".
C'è da meravigliarsi se l'analisi comincia sempre (e prosegue a lungo) sotto il segno della madre? Ma questa immagine materna pertiene al
paziente, al setting o
è "creata" nel momento in cui quel paziente incontra quell'analista in quel setting?
TULLIO CARERE: Albertina Seta ha detto che sospendere memoria e desiderio sarebbe pertanto un ovvio e dovrebbe risultare più o meno facile ed accettabile a tutti. Certo,
è ovvio che dobbiamo al paziente un ascolto senza pregiudizi, non condizionato dal desiderio di vedere confermati i paradigmi su cui si regge la nostra
identità professionale e personale. Tuttavia, se questo è ovvio, com'è che il freudiano vede conflitti edipici dove lo junghiano vede archetipi e il comportamentista malapprendimenti?
Perché in generale ci sembra molto più ovvio tenere ben fermi i nostri paradigmi, che metterli tra parentesi. Possiamo dire che la bioniana sospensione di memoria e desiderio corrisponde
all'epochè fenomenologica? Certo, a patto di ricordare che l'esercizio
dell'epochè richiede una disciplina severa, una vera e propria ascesi. Non posso concordare con l'opinione che sia cosa facile e accettabile da tutti. Al contrario, la sospensione del pensiero categoriale per giungere all'esperienza precategoriale
è una pratica molto impegnativa: Husserl e Bion ce lo ricordano spesso. Possiamo assimilare allora il precategoriale di Husserl e il protomentale di Bion? Non esattamente. Certo, per entrambi si tratta di giungere a una dimensione originaria, a una sorta di "sorgente della vita" che il "pensatore" (Bion) e la "scienza oggettivante" (Husserl) hanno smarrito. Un tratto del percorso
è comune, ma poi le vie si separano. A Husserl interessa la conoscenza dei fenomeni, che secondo lui si rivelano nella loro essenza originaria a chi pratica
l'epochè. A Bion la conoscenza interessa relativamente: cioè gli interessa in quanto
è una trasformazione della matrice originaria, indifferenziata e inconoscibile. A Husserl interessano i fenomeni in quanto tali,
perché per lui i fenomeni sono la realtà originaria. A Bion il fenomeno interessa solo in quanto proviene dal noumeno e ad esso ritorna, in una
circolarità sempre rinnovata.
A me interessa sia praticare un atteggiamento fenomenologico, che mi permetta di osservare quello che accade riducendo al minimo la distorsione dovuta a pregiudizi e aspettative; sia fare emergere l'ignoto o l'inconscio. Tradizionalmente le due cose sono tenute separate e attribuite alle competenze di figure diverse, gli analisti e i fenomenologi, che si guardano in cagnesco: i primi imputano ai secondi di restare in superficie, i secondi ritorcono sospettando chi li accusa di manipolare la relazione con le loro fantasie teoriche. Invece le due cose sono interdipendenti:
è un'ingenuità epistemologica considerare i fenomeni come se fossero là pronti per essere osservati (e non continuamente generati nel campo cui gli stessi osservatori appartengono); viceversa, lo studio dell'inconscio senza adeguata preparazione fenomenologica - senza una sufficiente pratica
dell'epochè - porta all'utilizzazione acritica dei modelli teorici (tutt'altro che messi tra parentesi) e alla conseguente segmentazione del campo psicoterapeutico in una miriade di scuole impossibilitate a comunicare l'una con l'altra. Il riconoscimento che i due approcci sono complementari e necessari l'uno all'altro (O <=> K)
è il primo passo per la reintegrazione del campo psicoterapeutico.
Se diamo degli attributi alla matrice indifferenziata, introduciamo delle definizioni e delle differenze. Attributi, definizioni e differenze appartengono al mondo dei fenomeni, non all'indifferenziato. Dell'originario (dell'inconscio) non si
può affermare nulla senza contraddirsi. Però, come insegna la teologia negativa, se ne
può parlare in negativo o per metafora. In negativo: indifferenziato, infinito, inconscio, ignoto. Per metafora: originario, matrice (come se fosse una cosa da cui originano altre cose). La parte non
può conoscere il tutto, ma rispetto al tutto può trovarsi in uno stato di connessione vitale o di separazione difensiva.
Albertina Seta si chiede anche: "Come distinguere un assetto capace di sospendere la coscienza e di regredire ad una matrice indifferenziata ricca di libido da una posizione difensiva che finisce con il riproporre al paziente nient'altro che una vecchia "neutralità" capace solo di un contenimento dell'angoscia, magari in primo luogo del terapeuta stesso?" Per metafora: un fiume
può rompere gli argini e allagare e distruggere tutto, ma può essere canalizzato in modo da trasformare e vitalizzare una regione desertica. Stare nella posizione indicata dalla formula "F in O" significa per me confidare nella potenza risanativa e rigenerativa dell'inconscio - e quindi agire in modo da favorire lo scioglimento delle pulsioni congelate o lo scorrimento delle energie bloccate, utilizzando liberamente le innumerevoli tecniche che sono state sviluppate nelle diverse scuole - ma tenere ben presente il potenziale distruttivo delle forze in tal modo liberate, se non trovano il "contenitore" adeguato o se fallisce una appropriata "messa in forma". E' diversa la situazione nel caso di un paziente con un io debole o mal strutturato, nei confronti del quale dobbiamo necessariamente assumere alcune funzioni di "parenting" o "remaking" per fornire (per quanto ci
è possibile) quelle esperienze di base che gli sono mancate in passato, dal caso di un paziente con un io sufficientemente forte, con il quale il lavoro si
può svolgere prevalentemente sull'asse verticale, "filosofico", della relazione, dove si pongono le questioni
dell'identità e della verità. Quasi sempre, nella mia esperienza, c'è da lavorare su entrambi gli assi, spostandosi da un punto all'altro del campo terapeutico in funzione dei bisogni che a mano a mano si affermano. Per orientarmi in questo campo senza smarrirmi, io trovo molto utile usare i due assi (filosofico o "uncovering" e psicologico o "remaking") come due assi cartesiani. Grazie a queste coordinate io posso determinare in ogni momento la posizione che occupo nel campo della terapia.
DAVIDE CAVAGNA: Approfitto dell'incrociarsi di due contributi (Paolino e Carere) per alcune osservazioni che ritengo importanti benché polemiche. Dice Federico Paolino che Jung considerava l'inconscio ed i suoi prodotti (sogno ecc.) come un "fenomeno naturale" nei suoi effetti positivi e negativi sull'Io. Questo è importante, perché sancisce una visione "roussoviana" della psiche, che ha, come cercherò di argomentare, importanti conseguenze sulla teoria della tecnica. Paolino prosegue chiedendosi se il lavoro del terapeuta
è veramente un "lavoro". Questa domanda deriva propriamente dall'impostazione junghiana: da un punto di vista metapsicologico alternativo, invece, sappiamo che con l'inconscio si "lavora", perché esso ha una dimensione economica (cioè crea ostacolo e fatica).
Trovo invece preoccupante l'affermazione secondo la quale il transfert, l'identificazione col terapeuta e il peso che la personalità di quest ultimo nel successo della terapia avrebbero a che fare con la suggestione. Se è così, anche la psicoterapia si risolverebbe in una funzione suggestiva? Come dire: per fare uso delle diverse forme di cura che storicamente sono state sviluppate, allarghiamo i confini della terapia. Ma come capire se una terapia "funziona"? Oppure vogliamo ricadere in un compromissorio: purché faccia qualcosa, val bene qualsiasi cosa?
Ho molto rispetto per gli studi junghiani sull'alchimia, che sono "illuminanti" e suggestivi quant'altri. Ma non sottoscriverei questo avvicinamento di Jung a Bion: il secondo mi pare parta pur sempre da una base materialistica. Quanto a Levi-Strauss, è interessante che Paolino lo citi: mi ricorda la critica feroce di Green a Levi-Strauss che, estrapolando dalla linguistica un modello strutturale che implica la non-pertinenza (non - scusate il gioco di parole - l'im-pertinenza) del soggetto, finisce per cancellare la dimensione dell'inconscio individuale. (Il tutto nell'ambito di una tradizione di pensiero che rifiuta la dimensione "epigenetica" della soggettività). Se questo non è delegittimare un lavoro psicoterapeutico...
Per quanto riguarda i rapporti e le convergenze tra il pensiero di Jung e quello di Bion, beh, se è per questo c'era anche Beckett (paziente) presente a quel ciclo di conferenze, e mi sembra che i rapporti con Jung e Bion siano alquanto problematici! (Cfr. gli studi di Anzieu sui rapporti tra Bion e Beckett). Quanto a dire che Bion usa un linguaggio mistico è come dire che il "mistico" nel gruppo è un santo... Griglia e alchimia sono sì due "griglie interpretative", ma mentre la seconda è "immaginaria" (nel senso dell'immaginazione trascendentale kantiana) la prima è categoriale (nel senso, appunto, "intellettuale" kantiano).
TULLIO CARERE: Non si può attribuire all'inconscio alcuna qualità positiva senza cadere in contraddizione. L'attribuzione all'inconscio di una potenza risanativa e rigenerativa non
è pertanto un postulato, ma una metafora. Affermare che è "come se" nell'inconscio risiedesse una potenza risanativa - una vis medicatrix - equivale a dire: come una ferita del corpo si rimargina per forza propria, posto che sia pulita e i lembi siano accostati,
così immagino che accada anche per le ferite dell'anima, anche se delle forze che producono la guarigione, e in generale alimentano il processo terapeutico, io non so nulla. E' un paragone che vale come ipotesi di lavoro: se esiste una
vis medicatrix, allora il mio compito è quello di attivarla e di metterla in condizione di svolgere la sua azione. Non credo che un terapeuta possa fare a meno di questa ipotesi: se lo facesse, sarebbe obbligato a ergere
sè stesso a portatore di quella vis. Contro questa infausta eventualità metteva in guardia Freud con la celebre metafora del chirurgo: "Je le pansai, Dieu le guerit". Che cosa intendeva Freud, con "Dieu", se non la potenza risanativa inconscia? (Quanto alla
distruttività: ogni farmaco efficace è potenzialmente un veleno).
Chiamo filosofico l'asse della terapia che congiunge i vertici O e K (nei quali il terapeuta si pone rispettivamente come mistico e come scienziato)
perché su questo asse si svolge il lavoro idealmente ispirato alla massima "conosci te stesso". A quale filosofia penso? A quella antica, fortemente caratterizzata in senso terapeutico. Per gli antichi la filosofia era un compito essenzialmente pratico, di "terapia delle passioni" attraverso la conoscenza di
sé (Hadot, 1987). La filosofia ha perso questo carattere vigoroso quando, nel medio evo,
è diventata ancella della teologia e non lo ha riacquistato nemmeno quando si è
affrancata da questa servitù, nell'età moderna. Solo con Nietzsche, secondo Hadot (e secondo me), la filosofia ha ritrovato la sua ispirazione originaria.
Il discorso sulla verità è di quelli che fan tremare le vene e i polsi. Permettimi, caro Cavagna, di cavarmela per il momento ricordandoti quello che ho
già detto in un mio precedente intervento: "Chi si dà questo fondamento non ha
più bisogno di identificarsi con le idee: al contrario, comincia a vedere che tutte le idee sono false, se sono prodotte da un pensatore (intento a corrompere ogni pensiero per dimostrare la propria esistenza). Le idee vere non sono
più quelle in accordo con l'ideologia, ma quelle derivate da O (K come trasformazione di O): la
verità è ciò che si mostra a chi non cerca più di possederla". Questo concetto di
verità, che si trova in Nietzsche e in Bion, è, credo, quanto di più lontano si possa immaginare da una
verità che "suggestiona".
Federico Paolino ha detto che gli piace pensare di appartenere alla scuola dei paoliniani di cui è l'unico rappresentante. Io ho fatto il careriano per anni, ma alla fine mi sono stufato di essere l'unico socio del mio club. Le differenze sono preziose se in primo luogo
c'è una base comune - altrimenti sono solo steccati e incomunicabilità. Siamo d'accordo che
è più importante, in questo momento, costruire un'identità europea che sottolineare la nostra
italianità (lasciamo stare la padanità e giù discendendo)? E allora, nel nostro piccolo, non
sarà meglio darsi da fare per vedere se esiste una cosa come la psicoterapia, o se dobbiamo rassegnarci a usare il termine come un semplice contenitore (tipo Gruppo misto della Camera) per una miriade di
entità, dai freudiani ai paoliniani, da difendere come specie a rischio di estinzione, tra di loro non
più simili di quanto lo siano la foca monaca e l'aquilegia alpina? Paolino, poi ricorda come, per Jung, la struttura
transfert/controtransfert è la struttura fondamentale dell'analisi. Per lui: Jung. Ma esiste un lui-Jung? Io sono
più propenso a credere che Jung sia piuttosto un loro. Se stiamo solo alla questione in esame,
c'è sicuramente uno Jung per il quale "la struttura transfert/controtransfert
è la struttura fondamentale dell'analisi", ma
c'è - incontestabilmente - un altro Jung per il quale la medesima cosa è una fastidiosa infezione che si augura di non contrarre mai. Devo dire, peraltro, che lo studio delle
personalità multiple dei nostri padri mi interessa meno della questione di cui stiamo discutendo: il transfert e il suo dirimpettaio, il controtransfert. Cosa di cui non
è facile discutere serenamente, perché da fenomeno relazionale di cui sarebbe auspicabile definire con un minimo di chiarezza le caratteristiche
è stato trasformato in una bandiera fieramente sventolata da schiere di terapeuti che, grazie a quello sventolio, pensano di riconoscersi ed essere riconosciuti come "analisti". Se per un momento siamo disposti ad ammainare le nostre bandiere, non dovrebbe essere difficile vedere quanto segue. Primo, la relazione psicoterapeutica
è sempre una relazione tra due (o più) persone, anche se una si nasconde dietro il racconto dei suoi sintomi e l'altra dietro gli strumenti che dovrebbero guarirli. Secondo, la relazione che si stabilisce tra queste due persone ha molti aspetti - coscienti e inconsci, affettivi e cognitivi, ripetitivi e innovativi. Terzo, ognuna delle due persone ha un'esperienza di questa relazione:
più o meno cosciente o inconscia, più o meno realistica o distorta. Quarto, pensare di fare terapia senza portare alla luce, chiarire e confrontare continuamente queste due esperienze sarebbe
un'ingenuità comprensibile in qualche medico condotto di montagna, ma non negli iscritti a questa lista, che certamente se la sono lasciata alle spalle da tempo. Quinto: che cosa, in tutto questo, si voglia chiamare analisi del transfert e del
controtransfert, è questione di gusti (che vanno dal tutto al niente), ma non di sostanza: che rimane immutata sia nel caso quelle preziose parole siano utilizzate a man bassa, sia nel caso
siano usate con parsimonia, o niente del tutto. Il mio gusto personale, per quello che
può valere, è al riguardo abbastanza tradizionalista. Preferisco riservare ai termini in questione il significato che gli dava colui che originariamente li ha proposti, di cliché stereotipati e ripetitivi.
Però non mi indigno per l'uso corrente, molto più esteso, e anzi mi adeguo senza
difficoltà, se questa è un'esigenza del mio interlocutore. Di salumi non mi intendo, ma se si trattasse di vini potrei dire a Paolino che sono perfettamente in grado di riconoscere un vino buono da un vino mediocre. Tra due vini buoni,
sarà questione di gusti preferire un Refosco o un Rubesco - però se un vino sia buono o no non
è questione di gusti, ma di capacità di riconoscere una qualità. Come nella questione appena discussa:
sarà questione di gusti appiccicare o meno una certa etichetta all'analisi della relazione; ma che questa analisi si imponga in qualsiasi relazione che voglia essere terapeutica
è, mi sembra, un fatto che appartiene alla realtà.
DAVIDE CAVAGNA: Se ben capisco, ad avviso di Tullio Carere, la distruttività è dialettica, non originaria (una sorta di "potenza del negativo"). Quanto al "Dieu" freudiano, due citazioni aggiuntive: - Groddeck nel suo "Satanarium" (la sua clinica) amava ripetere "Medicus curat, Natura sanat" (la versione "naturalista" della frase che tu citi di Freud); - l'esergo dell'Interpretazione dei sogni e le sue possibili letture: "Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo": c'è un dio che guarisce, ma c'è anche un inferno che può essere mosso/attraversato? e questa discesa agli inferi, non è forse un atto di eroismo/hybris?
Sono d'accordo con Carere quando dice che solo con Nietzsche la filosofia ha ritrovato la sua ispirazione originaria di "terapia delle passioni", distinguerei però tra la filosofia delle Colonie (presocratici) e la filosofia di Atene (socratica e
post-socratica). La seconda obbedisce al "conosci te stesso", ma, proprio nella lettura Nietzsche, si impantana nella negazione intellettualistica delle passioni (portando tra l'altro al teatro psicologico di Euripide!); la prima invece va più nel senso del motto "medico cura te stesso", e incarna lo stesso naturalismo di cui sopra. Il punto di svolta è semmai nella sofistica (in cui Nietzsche relega alla fine lo stesso Socrate!). Tra l'altro, come non pensare all'odierna dispersione "scolastica" della psicoanalisi come a un riproporsi della "dissoluzione dell'Accademia" (ma a quale fine? la mistica di Plotino?)...
Anche che in Nietzsche la verità è figlia della menzogna, potremmo dire "figlia naturale". Il che, tra l'altro corrisponde a una precisa legge logica, formulata (credo, non sono sicuro) solo nel Medioevo: "ex falso sequitur quodlibet". Questa non è la verità che rende liberi, però. E' la verità che fa tremare, come dice Carere. Ciò che rende liberi, almeno in Nietzsche (sulla scorta della filosofia dell'epoca tragica dei greci) è proprio il "pensiero dell'eterno ritorno", il demone meridiano che assale il pensatore, l'enigma. Insomma la Sfinge (di bioniana memoria)... ovvero una "filosofia della menzogna" (che tanto farebbe comodo se diventasse una "psicologia del mentitore": simulazione, finzione, maschera...). Ma che cosa si insinua nell'enigma? La sola potenza del negativo... (la verità terapeutica o la verità negativa?).
ANDREA ANGELOZZI: Il dibattito attualmente in corso circa le psicoterapie integrate sta assumendo una fisionomia che merita una specifica attenzione. Per quanto sia indubbiamente interessante la lettura dei vari interventi e la cultura che da essi emana non possa che produrre un ammirato stupore, non riesco a sottrarmi dalla sensazione di una circolarità di fondo del discorso. Una circolarità che non riesce ad appassionarmi, anche
perché mi sembra che releghi il contendere, e quindi le diverse posizioni, a quelle che definirei "variazioni sul tema". In particolare mi colpisce come comunque, al fondo, determinati concetti, propri di una certa epoca e di un certo modo di intendere e fare psicoterapia, siano dati per acquisito patrimonio universale, ed il dibattito approfondisca le varie sfumature con cui, all'interno di questa specifica visione del mondo, si siano delineate sub-visioni. Io non ho nulla contro un approccio "psicoanalitico" (se non tre-quattrocento obiezioni di tipo epistemologico), tuttavia penso che cosiderarlo "necessariamente" il centro del discorso sulla "integrazione" delle psicoterapie, sia arbitrario e discutibile. Certo, concetti come "transfert", "pulsione", "inconscio", hanno avuto un ruolo essenziale nella storia della psicoterapia e nei modelli della psico (patologia e logia), ma chiedono ormai di essere ricondotti alla loro realtà (che è poi il loro essere collocati in uno specifico momento della storia dell'umano), di essere ridefiniti nei fondamenti, di non essere insomma dati per scontati come qualcosa di indubitalmente acquisito, di essere, in una parola, sottoposti a una critica forse ben più radicale di quella che è emersa nei vari interventi. Le discussioni che abbiamo letto, peraltro, lo ripeto, con interesse, rappresentano un indubbio attingere a diversi campi del sapere (che non so comunque - e mi riferisco soprattutto alle divagazioni filosofiche - se poi possano diventare realmente qualcosa di più che una citazione a latere, in un discorso che è comunque altro); ma sono poi un effettivo attingere alle psicoterapie? E le altre 4000 forme del fare psicoterapia che si sviluppano (o meglio - dicono di farlo) su basi ed analisi completamente diverse? Cosa ne è dell'inconscio e del transfert nella sistemica e nel cognitivismo? Cosa ne è delle scienze della memoria e del tentativo difondare la nostra identità personale sulla base della nostra storia personale e relazionale (che è - mi permetto questa definizione - l'elemento di fondo degli approcci che in qualche modo si richiamano a Freud) nelle cosiddette terapie strategiche di Erickson, o di Haley o in una gestalt di Perls in cui non può essere nominata la parola "perché" e gli unici riferimenti possono solamente essere al qui ed ora? Ma allora, di quale integrazione stiamo poi effettivamente parlando? E parlare della integrazione non è parlare dei fondamenti comuni e quindi accettare di ridefinire e ripesare ogni parola, ogni concetto? Un altro dubbio che mi emerge è questo: ma quanto questa modalità della discussione e impostazione del problema della "integrazione" tiene poi effettivamente conto dei pazienti di cui stiamo effettivamente parlando? Stiamo adattando le risposte (e cioè le tecniche con i modelli da cui originano) ai loro effettivi bisogni, o stiamo inseguendo modelli ideali di pazienti ideali, e ci troviamo pertanto a dover attribuire alla loro realtà (e quindi individualità) il colpevole scollamento rispetto ai modelli,
il limite dei mutamenti, incapaci quindi di valutare effettivamente i risultati e mettere sotto esame i fondamenti delle teorie? E ancora: cosa facciamo effettivamente con i nostri pazienti e quale è la realtà dell'operare psicoterapeutico, intendendo con realtà ciò che si fa effettivamente per comprendere ed indurre il cambiamento nella quotidianità della psichiatria-psicoterapia di oggi? Mi permetto infine un'ultima domanda: siamo davvero certi dei nostri modelli e delle nostre terapie, se consideriamo quante persone ricorrono a strategie e risorse che nemmeno riusciamo a immaginare (e comprendere) per superare i loro problemi senza avere a che fare (per loro fortuna) con psichiatri e psicoterapeuti?
WILFREDO GALLIANO: Non sono, un amante della integrazione - come si è visto spero negli interventi che hanno dato l'avvio a questa discussione - tuttavia sono d'accordo con Andrea Angelozzi sul fatto che se si dovesse parlare seriamente di integrazione probabilmente dovremmo sviluppare un linguaggio nuovo che prescinda dai termini locali (anche se non credo che debba essere un metalinguaggio). Continuo a pensare che non valga la pena e che la babele attuale sia più interessante. Certo è che quelli che hanno provato la strada della "rifondazione" (cfr. per esempio Bandler e Grinder "La struttura della magia" Astrolabio) non hanno avuto dei grossi risultati in questo senso.
Mi pare importante l'ultima domanda di Andrea Angelozzi: "Siamo davvero certi dei nostri modelli e delle nostre terapie, se consideriamo quante persone ricorrono a strategie e risorse che nemmeno riusciamo a immaginare ( e comprendere) per superare i loro problemi senza avere a che fare (per loro fortuna) con psichiatri e psicoterapeuti?"
Perché non integrarci anche con la chirurgia estetica? Ovvio: perché la psicoterapia cura con la "parola". Ma allora ecco che facciamo entrare le differenze e, direi, un elemento estetico.
TULLIO CARERE: Se io dico: in qualsiasi tipo di psicoterapia esiste una relazione tra paziente e terapeuta, esiste un'esperienza che ciascuno dei due ha di questa relazione, e infine esiste la
necessità di chiarire e confrontare queste due esperienze se si vuole fare qualcosa che sia terapia e non indottrinamento: se dico
così, sto facendo un discorso psicoanalitico? Sì, se lo si chiama "analisi del transfert e del controtransfert". No, se lo si chiama "monitoraggio della relazione" (come dicono i comportamentisti, ma molto
più sottovoce). Ma se mi limito a usare parole come "relazione", "esperienza", "chiarire", "confrontare", uso un linguaggio descrittivo elementare che, mi sembra,
è patrimonio comune di qualsiasi terapeuta.
Andrea Angelozzi dice che parlare della integrazione è parlare dei fondamenti comuni e quindi accettare di ridefinire e ripesare ogni parola e ogni concetto. Proprio
così. Si tratta precisamente di individuare i fondamenti comuni e di parlarne in un linguaggio descrittivo e vicino all'esperienza, evitando l'uso di espressioni gergali proprie dell'uno o dell'altro approccio. E' quello che io ho cercato di fare nel lavoro intitolato "Il campo della psicoterapia: un modello a quattro vertici", di cui Marco Longo ha appena annunciato la pubblicazione sulla rivista PM-TR di
Psychomedia
(http://www.psychomedia.it/pm/indther/ptanndx1.htm).
Ho rivisto il testo di questo lavoro, per la pubblicazione su PM-TR, tenendo conto anche del dibattito che in quel momento era in corso su questa lista sull'articolo "Freud e Jaspers" di Fornaro (per inciso, ho molto apprezzato il contributo di Angelozzi a quella discussione). L'ipotesi di base
è che la relazione psicoterapeutica abbia alcune caratteristiche ricorrenti, quale che sia il metodo che il terapeuta dichiara di applicare. Queste "regolarità tipiche" corrispondono alle posizioni che ogni terapeuta si trova occasionalmente o sistematicamente a occupare in risposta ai bisogni fondamentali che i pazienti portano in psicoterapia. In altre parole, secondo la mia ipotesi ogni terapeuta
è collocato dalla richiesta del paziente in quattro posizioni fondamentali, corrispondenti alle figure della madre, del padre, dello scienziato e del mistico. Il ruolo terapeutico risulta dalla combinazione di alcune competenze di queste quattro figure. La terapia
è tanto più "autentica" quanto più il terapeuta risponde ai bisogni fondamentali del paziente, e quanto meno è condizionato dalla
fedeltà a un paradigma di scuola. Sarò molto grato a chi vorrà leggere questo testo, e mi vorrà segnalare se e dove mi sono allontanato dal mio proposito di evitare ogni particolarismo e localismo e di attenermi strettamente alla descrizione di che cosa accade quando due persone, che convengono di definirsi rispettivamente paziente e psicoterapeuta, si incontrano regolarmente in una stanza.
Wilfredo Galliano è d'accordo con Angelozzi quando dice che se si dovesse parlare seriamente di integrazione probabilmente dovremmo sviluppare un linguaggio nuovo che prescinda dai termini locali. Sarei quindi grato anche a Wilfredo, e a tutti coloro che hanno qualche interesse per questo discorso, se volessero leggere il mio lavoro e
verificare se il mio linguaggio corrisponde o meno all'esigenza espressa da Angelozzi.
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