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Atti della Giornata di Studio dedicata a

"PAUL-CLAUDE RACAMIER E LA FUNZIONE CURANTE IN PSICHIATRIA"



La funzione curante in psichiatria alla luce dei concetti di Paul Claude Racamier

Marcel Sassolas

(traduzione di Lavinia Calabresi)



Sintomi e processi psichici

Noi non esercitiamo la nostra professione di operatori psichiatrici su un’isola lontana o sulle nuvole, isolati da ogni realtà sociale.

Ora, da qualche anno la psichiatria, come tutte le altre branche del sociale, si deve confrontare con esigenze di rendimento, cioè di efficacia a breve termine. In tale contesto, la cura tende a ridursi al trattamento dei sintomi, sui quali i farmaci hanno un’efficacia sempre più incontestabile, senza peraltro cambiare granchè nei processi psichici patologici soggiacenti a tali sintomi.

Dietro lo schermo dei neurolettici, questi processi continuano i loro attacchi contro la vita psichica del paziente, impoverendo giorno per giorno la sua identità di soggetto e le capacità del suo Io, quali che siano gli interventi di riabilitazione sociale messi in atto per porre rimedio a tale evoluzione.


L’obiettivo della cura: salvaguardare e reintegrare l’attività psichica

E’ dunque essenziale ricordare instancabilmente qual è l’obiettivo della cura in psichiatria: non l’estinzione forzosa dei sintomi, accompagnata o seguita da un reinserimento sociale volontaristico del paziente, ma  la salvaguardia e la reintegrazione della sua vita psichica, attaccata dai processi psicotici.

Questa difesa di una determinata concezione della cura psichiatrica deve essere argomentata, deve appoggiarsi su una riflessione teorica coerente scaturita dall’esperienza clinica. L’approccio psicoanalitico alle psicosi sviluppato da P.C. Racamier possiede questa coerenza, perché P.C. Racamier ha saputo mantenere con talento, per tutta la vita, una doppia familiarità: con la psicoanalisi da una parte, con la psicosi dall’altra – meno peraltro con i disturbi psicotici che con le persone che hanno la sventura di soffrirne.

Io da parte mia, in un lavoro della stessa natura portato avanti da più di trent’anni, ho potuto constatare più volte l’utilità dei concetti introdotti da P.C. Racamier nella cura dei disturbi psicotici. Quello che mi propongo oggi è dunque di condividere con voi  questa esperienza.


I processi psicotici

Per comprendere il vantaggio di questo tipo di approccio ai disturbi psicotici, bisogna andare oltre il livello dei sintomi, per interessarsi ai processi psichici soggiacenti. Questi ultimi si possono ritrovare più facilmente nella quotidianità di queste persone, nel loro funzionamento mentale abituale, che non nel rigoglio spettacolare dei sintomi che esse presentano in alcuni momenti della loro vita: deliri, allucinazioni, ripiegamento autistico, disturbi del pensiero, angosce di frammentazione, disturbi del comportamento, passaggi all’atto suicidari.

La psichiatria per molto tempo ha centrato il suo interesse più su questi disturbi (al momento dei ricoveri) che sul funzionamento psichico delle persone che ne erano affette. La conoscenza delle particolarità del funzionamento mentale psicotico nel lungo periodo è stata acquisita da una parte nell’ambito delle psicoterapie o psicoanalisi intraprese con tali pazienti dai pionieri del trattamento analitico delle psicosi[1], dall’altra nell’ambito delle comunità residenziali dedicate a loro in Europa o negli USA[2].

Benché meno eclatante che nelle manifestazioni sintomatiche prima richiamate, il funzionamento mentale psicotico nel lungo periodo è nondimeno molto particolare. Lo è soprattutto in quanto il suo scopo è la riduzione della vita psichica alla sua più semplice espressione – estinzione degli affetti, impoverimento dei fantasmi, distorsione o estinzione dei pensieri e dei ricordi, dissoluzione di tutto ciò che costituisce l’identità personale nell’anonimato, la confusione, la mancanza di senso, l’oblio. Poiché la vita psichica è vissuta da tali pazienti non solo come fonte di rischio di sofferenza, ma anche come un pericolo mortale di distruzione, i processi difensivi psicotici cercano di proteggerli, falsificandone e impoverendone il contenuto con il diniego fino a distruggerla, o espellendola da sé sotto forma di deliri, di allucinazioni o di vissuti persecutori.

Viene spontaneo chiedersi: perché questa percezione inconscia della vita psichica come fonte di pericolo? E’ qui che appare particolarmente significativa la nozione di lutto originario elaborata da P.C. Racamier.


Il lutto originario

L’iconografia dell’immaginario ha la sua importanza. P.C.Racamier ha arricchito la nostra con la bella rappresentazione del lutto originario: il neonato e la madre vivono uno nelle braccia dell’altra, nell’incanto di un perfetto unisono narcisistico – ma ecco che il bambino si distoglie da questa “madre-atmosfera” con la quale era fino allora confuso, per scoprire una“madre-oggetto”. Perde la prima e se ne lamenta, ma trova l’altra, separata da lui e dunque oggetto di desiderio: è l’atto fondante della sua esistenza di soggetto separato. Lutto originario fondatore della vita psichica, lutto che il bambino può vivere solo a condizione di essere accompagnato da un uguale investimento narcisistico materno, che poco a poco si distoglie dalla sua persona per orientarsi verso i suoi progressi. Non è più lui che sua madre ammira, sono i suoi progressi - che già lo allontanano da lei e lo calamitano verso il mondo degli oggetti esterni.


La seduzione narcisistica e l’impossibile rinuncia all’unisono

Ma a volte questa rinuncia all’unisono narcisistico non ha luogo così semplicemente, una collusione fra i due protagonisti tende a mantenere intatta la bolla narcisistica iniziale, l’aspirazione folle a non formare che un solo corpo non si spegne. Un processo molto attivo si instaura fra madre e bambino in un clima di mutuo affascinamento narcisistico, sotteso da un fantasma di fusione, di plenitudine, di onnipotenza, d’invulnerabilità. Il suo scopo è di mantenere nella sfera narcisistica, o di ricondurcela, questa relazione, suscettibile altrimenti di trasformarsi in una relazione oggettuale desiderante. P.C.Racamier ha dato a questo processo il nome di seduzione narcisistica.

Per il bambino il danno maggiore è l’impasse fantasmatica di cui diviene vittima: non si fantastica su ciò che si ha, non si ritorna verso ciò da cui non si è mai usciti. Così l’eterno desiderio inappagato di fare un solo corpo con l’oggetto d’amore non può essere né vissuto, né elaborato, né rappresentato, perché è una realtà. In questo modo il conflitto edipico viene corto-circuitato.

In tale dinamica si trovano gli elementi costitutivi della problematica psicotica: il pericolo, è la differenza, il riconoscimento di un altro esterno a sé suscettibile di suscitare desiderio, quindi di venire a mancare. Per fronteggiare questo pericolo, l’arma perfetta è il ricorso all’una o all’altra delle due principali negazioni in opera nella psicosi: quella della realtà esterna (cioè dell’esistenza di un altro esterno a sé, suscettibile di suscitare il

desiderio) o quella della realtà interna ( questa vita psichica portatrice di un desiderio, quindi di una mancanza). In tal modo è possibile premunirsi contro quello che P.C. Racamier chiama l’insopportabile “male d’oggetto”, l’attrazione esaltante per l’oggetto associata a una paura di perderlo tanto più terrorizzante, in quanto è vissuto come facente parte di sé. Si può così comprendere la concezione difensiva dei disturbi psicotici: se chi funziona su una modalità psicotica prevalente tende verso lo stato di non-soggetto, non è per incapacità, ma per non mettere in pericolo un altro stato, quello della pienezza narcisistica, vestigio della fusione con una madre onnipotente.

Come abbiamo appena visto, il primo vantaggio di questa problematica del lutto originario è di formulare una ipotesi accettabile riguardo all’origine del processo di distruzione o di espulsione della vita psichica in opera nelle difese psicotiche. Il secondo è quello di introdurre due nozioni secondo me essenziali nella loro applicazione al trattamento dei pazienti psicotici: quella di pulsione verso l’oggetto e quella di anticipazione materna.


Un postulato di base: la pulsione verso la separazione

La prima nozione è un postulato, che senza dubbio l’osservazione attenta delle prime relazioni madre-bambino dovrebbe poter confermare: quello dell’esistenza nel neonato di un movimento spontaneo che lo orienta fuori della sfera della fusione narcisistica con la madre. Si tratta della prima manifestazione dell’istinto di conservazione nella sua componente psichica – in quanto la posta in gioco è la sopravvivenza psichica, non quella fisica. E’ su questo postulato che poggiano tutti i percorsi di cura psichica dei pazienti psicotici, a qualunque livello di regressione siano. Per giudicare la validità di un progetto di cura, è indispensabile individuare preliminarmente il divenire attuale nel paziente di questa pulsione verso la separazione. Esiste in lui solo allo stato di tracce, di vestigia, o è ancora sufficientemente attiva perché sia ipotizzabile una evoluzione intra-psichica? Il più delle volte noi facciamo questa valutazione intuitivamente – attraverso la nostra percezione del modo in cui, fin dai primi contatti, il paziente investe le nostre persone e le nostre strutture di cura. Una erronea valutazione di questo fattore ha sempre tristi conseguenze, perché rischia di trascinare per lungo tempo in un’impasse o le équipes terapeutiche, o il paziente. Nel primo caso, i curanti si sfiancano invano perché hanno sopravvalutato nel paziente l’intensità di questo movimento, in confronto con quella dei meccanismi difensivi che lo trattengono dal lato della fusione, dell’indistinzione, dell’anestesia psichica. Nel secondo caso, il paziente s’impantana in attività di cura di tipo ortopedico, e corre il rischio della disperazione, perché le sue potenzialità di individuazione psichica sono state sottostimate.


Anticipazione materna – anticipazione terapeutica

La seconda nozione è quella di anticipazione materna, che conduce legittimamente a quella di anticipazione terapeutica. Nella scena iconografica che ho prima richiamata, quella del lutto originario, non c’è un cambiamento nella natura e nell’intensità dell’investimento primario materno, ma un cambiamento di oggetto: non è più solo il bambino in sé, ma il bambino in progresso, il bambino e i suoi progressi. Se la madre fallisce questo spostamento tutti e due resteranno imprigionati nel miraggio mortifero dell’unisono narcisistico.

Questa sequenza è trasponibile nel registro terapeutico. Quando un paziente psicotico investe veramente un curante o una struttura di cura, è con questa modalità: narcisistica, intensa, esclusiva, fusionale. E l’approccio terapeutico avrà qualche possibilità di essergli utile solo se questo investimento è condiviso, se i curanti sono pronti anche loro a mettere molto di sé in questa relazione di cura. A partire da tale investimento reciproco, tutto sarà possibile. Ma bisognerà che questo si sottragga all’ebbrezza della seduzione narcisistica e non diventi un fine in sé, per i curanti come per il paziente. Qui interviene l’equivalente dell’atteggiamento di anticipazione materna: un atteggiamento di anticipazione terapeutica presente nella testa dei curanti ma anche inscritto nel funzionamento istituzionale, che privilegi e anticipi i progressi del paziente. Il paziente in divenire, i suoi investimenti esterni alla relazione di cura (nello spazio e nel tempo) sono altrettanti terzi fra il paziente e la struttura di cura, terzi la cui esistenza –anche solo potenziale – attenua il rischio di trappola fusionale.

Fare della partecipazione del paziente uno degli elementi indispensabili per il funzionamento istituzionale, significa mettere l’accento sulle sue potenzialità –anche virtuali. Significa dunque anticipare i suoi progressi, mostrargli che l’oggetto del nostro investimento di curanti non è solo lui, con le sue sofferenze, le sue insufficienze e le sue competenze attuali, ma sono anche le sue potenzialità – vale a dire ciò che a un certo momento gli permetterà di distogliersi da noi, di fare a meno di noi. Questo atteggiamento di anticipazione terapeutica è il necessario antidoto all’inevitabile seduzione narcisistica di cui noi siamo l’oggetto in una relazione di questo tipo. La seduzione narcisistica ci porta a sentirci indispensabili per la sopravvivenza fisica e psichica del paziente che ci ha investito – dunque a considerare una separazione non solo come impossibile, ma come inimmaginabile. Il funzionamento istituzionale imperniato sull’anticipazione terapeutica corregge questa percezione, la smentisce, dando al paziente l’occasione di utilizzare – fosse pure parzialmente e episodicamente – le sue capacità di prendersi cura di se stesso, degli altri e dell’istituzione.

Questo atteggiamento di anticipazione terapeutica istituzionale –senza essere stato finora chiaramente formulato o formalizzato – è una delle caratteristiche delle istituzioni più innovative che hanno marcato la cura agli psicotici negli ultimi trent’anni: la Residenza della Velotte creata da  Racamier a Besançon, le Comunità Terapeutiche d’Arbours a Londra, quelle dell’ associazione “Santé Mentale et Communautés” a Villeurbanne. Le une e le altre, al di là delle loro rispettive particolarità, hanno un punto in comune: rompono radicalmente col funzionamento ospedaliero. Quest’ultimo non è mai altro che la riproduzione, più o meno adattata, del modello della medicina somatica, che fonda il suo funzionamento sulla considerazione delle carenze, sofferenze e handicaps del paziente – e non delle sue capacità. Dobbiamo essere grati a P.C. Racamier per averci dato, con questo concetto di anticipazione materna, un modello teorico che permette di rendere più facilmente trasmissibili le particolarità essenziali a funzionamenti istituzionali concepiti in funzione del loro obiettivo - un approccio psicodinamico ai disturbi psicotici – e non in funzione di criteri pertinenti nella terapia somatica.


Il doppio diniego

In qualunque contesto si eserciti la nostra funzione curante, essa si deve confrontare col meccanismo difensivo più potente in opera nella psicosi, e al quale P.C. Racamier si è molto interessato: il diniego. Egli ha insistito in particolare su una delle sue forme, misconosciuta e tuttavia molto diffusa: il doppio diniego, situazione in cui il diniego si esercita simultaneamente in due direzioni distinte e spesso addirittura opposte. Il migliore esempio ne è senza dubbio quello del diniego simultaneo, da parte del paziente, delle sue capacità e dei suoi disturbi. Questa simultaneità paradossale semina spesso turbamento nella mente dei curanti, e induce anche loro al diniego di uno dei due aspetti. E così le istituzioni psichiatriche spesso negano a priori le capacità del paziente – non solo le sue capacità sociali, ma anche le capacità del suo Io di controllare l’angoscia o i passaggi all’atto, di effettuare un certo lavoro psichico di introspezione. Analogamente l’approccio antipsichiatrico si è basato interamente sul diniego inverso della patologia. La psichiatria biologica, da parte sua, si basa su un diniego che non osa formulare ad alta voce, ma che è percepibile nelle conclusioni della maggior parte dei suoi autori, quella della vita psichica nella sua dimensione inconscia e nelle sue implicazioni relazionali.


Il doppio riconoscimento e gli atti parlanti

Il solo atteggiamento coerente di fronte a questo paradosso del doppio diniego, è quello che P.C. Racamier ha chiamato il doppio riconoscimento, atteggiamento di cui egli dice che costituisce “l’approccio fondamentale della cura, del suo esordio, del suo corso e della sua conclusione”[3], a condizione che ognuno dei due elementi non vada mai senza l’altro. Sottoscrivo volentieri questa affermazione. Si tratta per i curanti di essere convinti dell’esistenza di queste due realtà negate – le capacità e i disturbi – e di esprimere questa convinzione sia con gli atti che con le parole. Soprattutto con gli atti, nella misura in cui per questi pazienti la comunicazione attraverso gli atti è spesso più pertinente di quella verbale.

Si tratta di ciò che questo stesso autore ha designato, già molto tempo fa, col termine di atti parlanti. Così in una comunità terapeutica, lasciare a un paziente il libero uso della chiave della sua camera senza che noi ne disponiamo è un atto parlante che esprime la nostra convinzione che egli sia capace di gestire quello spazio materiale e il suo vissuto all’interno di quello spazio. Allo stesso modo esigere che partecipi al gruppo di verifica che ogni settimana riunisce i residenti della comunità e i curanti che vi intervengono, e eventualmente sanzionarne l’assenza con un’esclusione temporanea, è un altro atto parlante che gli ricorda la dimensione terapeutica di questo soggiorno, dunque indirettamente l’esistenza in lui di disturbi psichici che tale soggiorno ha lo scopo di attenuare.


Essere vigilanti sul fronte del doppio diniego

Non è sempre facile essere vigilanti su questo fronte del doppio diniego. Ogni gesto curante, ognuno degli aspetti del sistema di cura dovrebbero essere esaminati da questo punto di vista, E’ qui che si installa o che si scioglie il nodo della cronicità.

Accettare di farsi intrappolare nel diniego delle capacità, porta a installare la relazione curante sul terreno dell’assistenza e dell’attivismo, valorizzante per il narcisismo dei curanti, disastroso per l’autostima del paziente e per il suo avvenire relazionale. Ma all’inverso il credito accordato alle capacità del paziente ha un prezzo: fa vivere i curanti sul registro dell’apprensione, apprensione paragonabile a quella dei genitori che lasciano i figli liberi di usare le loro capacità. La percezione di questa apprensione da parte dei pazienti è un elemento fondamentale della cura, per due ragioni: 1. quale che sia l’emozione vissuta dai curanti, è sempre positivo per i pazienti esserne testimoni, a condizione che questa emozione sia contemporaneamente detta e messa in relazione con la realtà: viene così smentita la pericolosità della vita psichica. 2. l’esistenza di questo sentimento di apprensione e la sua accettazione da parte dei curanti dà al paziente la prova che i curanti sanno accettare i suoi movimenti verso l’autonomia, senza per questo rimettere in discussione l’investimento nei suoi confronti.

Accettare di farsi intrappolare nel diniego dei disturbi, porta a mantenere un’alleanza terapeutica fittizia che non permette alla vera problematica del paziente di manifestarsi nella relazione di cura, divenuta alla lunga una parodia della cura. Come ci sono dei falsi-sé, ci sono delle false relazioni terapeutiche. L’atteggiamento inverso , il solo che possa essere curante con un tale paziente, consiste nel rintracciare, nel vivo delle situazioni vissute con lui. i suoi atteggiamenti difensivi - il diniego delle emozioni, il rifiuto degli atteggiamenti o delle opinioni dell’altro, la fuga davanti alle situazioni conflittuali, l’intolleranza alle frustrazioni, la proiezione sugli altri dei propri sentimenti. E, poi, osare nominarli, ciò che, anche se detto con le parole più delicate possibili, significa assumere il rischio della contrapposizione e perdere la comodità del consenso.

Questo atteggiamento curante che non fa concessioni apre una possibilità di relazione autenticamente investita, cioè in cui le menti di due esseri umani – affetti, pensieri – comunicano veramente. In queste situazioni di contrapposizione, l’espressione da parte del curante delle proprie emozioni e convinzioni è, come ho appena sottolineato, uno degli elementi essenziali della funzione curante: essa apre il cammino al riconoscimento da parte del paziente della propria vita psichica. Essa richiede nei curanti non solo la capacità di assumere i propri sentimenti, ma anche di accettare che talvolta questi si esprimano davanti a testimoni. Il che rende evidentemente necessaria una totale confidenza negli altri curanti potenzialmente testimoni! Quando un sistema di cura dà a un curante la possibilità di utilizzare in questo modo le proprie capacità psichiche – vale a dire provare sentimenti, metterli in relazione con il vissuto del paziente, utilizzarli come mezzo di comunicazione con lui - si sta realizzando un autentico lavoro di cura. Infatti con la sua risposta il curante ha dato al paziente un’occasione di comunicare con se stesso.


Gli operatori psichiatrici cerniera tra la realtà interna e la realtà esterna.

Non ho esitato ad utilizzare il termine contrapposizione per richiamare certi dialoghi tra i pazienti e noi. In effetti, noi non possiamo essere percepiti da loro come interlocutori neutri. La nostra esistenza e la nostra collocazione nella loro vita li confrontano continuamente con una doppia realtà di cui non riescono a conciliare le esigenze: quella del mondo esterno di cui noi facciamo parte e che non smette di resistere aspramente all’onnipotenza dei loro desideri e dei loro fantasmi, e quella della loro vita psichica che hanno bisogno di neutralizzare attraverso il diniego, la proiezione o l’estinzione. Il nostro lavoro, non consiste solamente nel ricordare loro incessantemente – e non solo con le parole – che queste due realtà esistono, ma anche di aiutarli a vivere la loro coesistenza, senza negare l’una e senza distruggere l’altra.

Gli operatori psichiatrici costituiscono la cerniera tra queste due realtà, quella esterna e quella psichica: essi possono essere utili ai pazienti psicotici solo se rimangono tali, e mantengono incessantemente il contatto con queste due parti del loro universo. E mantenendosi su questa frontiera, essi costituiscono una vera spina irritativa psichica per il paziente, perché si rifiutano di colludere con i processi difensivi psicotici che mettono continuamente fuori giuoco l’una o l’altra di queste due realtà. A volte, però, è necessario colludere con queste difese psicotiche: è quello che facciamo quando prescriviamo i farmaci che modificano la realtà psichica del paziente, o quando gli proponiamo un ricovero in ospedale, che lo mette temporaneamente al riparo dagli stimoli della realtà esterna. Gli operatori impegnati in questa pratica possono mantenere questa rotta sulla grande distanza proprio perché esistono questi due rimedi momentanei, queste due reti di protezione – i farmaci e l’ospedale. Malgrado ciò, questa posizione non è sempre confortevole ed esiste il rischio permanente per gli operatori di divenire complici dei processi psicotici che li sollecitano di continuo verso una posizione aconflittuale, dove una delle due parti del conflitto è messa fuori giuoco.


L’antedipo

Il rischio di aggirare la realtà esterna è particolarmente grande nei pazienti che vivono secondo il registro dell’onnipotenza. P.C. Racamier, proprio prendendo loro ad esempio, ha concettualizzato il funzionamento psichico che prevale nella psicosi ricorrendo al termine di antedipo – che ha una doppia connotazione di anticipazione e di opposizione all’edipo. Egli ha definito l’antedipo come una costruzione psichica destinata a rendere perenne la seduzione narcisistica (quindi l’onnipotenza indivisa dalla madre), a prevenire le angosce di separazione, a proteggersi contro l’eccitazione pulsionale – quindi a chiudere la strada all’emergere dell’edipo. Si tratta, in fondo, di ostacolare le angosce che in ogni essere umano sono attivate dalle tre differenze fondamentali: quelle degli esseri, quelle delle generazioni, quelle dei sessi.

Il fantasma che soggiace a questo tipo di funzionamento è un fantasma di auto-generazione, in cui il soggetto è il suo stesso genitore. Qui si vede l’onnipotenza narcisistica al suo apogeo. La particolarità di questo fantasma è di essere piuttosto vissuto o agito che mentalizzato. Questa particolarità conduce P.C. Racamier a qualificarlo come “fantasma-non-fantasma”. Io trovo più semplice qualificarlo come fantasma non mentalizzato.


Il terzo osservante

Quali sono le implicazioni cliniche del concetto di antedipo e di fantasma-non-fantasma di auto-generazione? Una volta ammessa l’eventualità di un tale fantasma non detto, non pensato, non mentalizzato, ma che impregna tutto il vissuto di un paziente, la sua esistenza può essere percepita da noi sul piano clinico. Che atteggiamento assumere a questo punto? Quello che P.C. Racamier chiama “terzo osservante”: non fuggire, non lasciarci assorbire, non nascondere che vediamo e pensiamo. Insomma, accettare un confronto tra una maniera onnipotente di essere, di agire e di pensare se stessi (quella del paziente) e la nostra. E dopo? Interpretare, per passare dal non-fantasma al fantasma, è raramente possibile e ancora più raramente produttivo.

Non rimane che prendere con discrezione in contropiede attraverso gli atti la posizione onnipotente del paziente, manifestando senza stancarsi un interesse per la realtà che la sua megalomania conduce a negare: gli aspetti materiali della sua vita, il suo corpo, gli avvenimenti piccoli o grandi della sua vita quotidiana. Questi soggetti hanno perduto il senso dell’Io, della vita corporea, del dettaglio della vita, della temporalità: si tratta di mostrare loro il nostro interesse per tutto quello che essi trascurano riguardo alla loro vita. A questo punto, talvolta, si percepisce davanti a noi – dice P.C. Racamier – un fremito, una rottura dell’unisono sia nella famiglia, sia nel soggetto.

La mia esperienza personale mi porta a condividere un tale atteggiamento d’interesse, esplicito e convinto, verso la vita immediata del paziente, associato ad un disinteresse educato ma deciso verso ogni cosa che nel suo atteggiamento esprime o tradisce il suo fantasma di onnipotenza. Non si tratta di rimettere in discussione il diniego della realtà materiale per mezzo di parole – ma attraverso il nostro interesse per ciò che è l’oggetto della negazione.

Questo atteggiamento che privilegia la parte negata della realtà – il corpo in particolare – nei confronti del fantasma di onnipotenza agito con il comportamento, può apparire paradossale venendo da uno psicoanalista. Esso poggia però sulla concezione della cura richiamata precedentemente, di cui uno degli obiettivi è di evitare ogni complicità con i processi di difesa psicotici, che cercano di proteggere il paziente da ogni stimolazione psichica. E’ lo stesso atteggiamento che rende P.C. Racamier circospetto di fronte ai sintomi nel momento in cui affascinano in modo eccessivo i terapeuti.


La funzione di silenziamento dei sintomi

E’ quello che egli chiama la funzione di silenziamento dei sintomi. In quanto psicoanalisti, ricorda lui, noi siamo a giusto titolo impegnati a chiarire l’origine e l’alimentazione dei sintomi – deliri, allucinazioni,stereotipie. E ancora non bisogna dimenticare che una volta costruitisi essi tengono il campo e polarizzano l’attenzione. P.C. Racamier ci propone di essere attenti all’uso relazionale e intersoggettivo che i pazienti ne fanno: i sintomi divengono il passaggio obbligato o il non passaggio verso l’altro, essi finiscono per diventare altrettanti segni che permettono d’identificare il soggetto nella sua relazione con gli altri esseri umani. Quello che P.C. Racamier riassume in questa bella frase: “il delirio diviene uno stendardo piantato su un bastione”. Sta a noi terapeuti sventare questa utilizzazione del sintomo della follia, che tende a respingere e che va contro la relazione – dunque strumento di difesa nei confronti dell’attrazione dell’oggetto – non lasciandoci prendere dalla vana vertigine della decodifica sistematica delle proposizioni deliranti e non cedendo nei loro confronti né alla paura né al fascino.


Quale risposta nei confronti dei sintomi della follia?

Questo non impedisce che ogni sintomo della follia meriti una risposta: che fare quando constatiamo che un tale paziente in un momento del suo percorso e della sua relazione con noi ha bisogno di proteggersi contro la percezione della propria identità, di mettere al riparo la sua sofferenza, la sua problematica vestendole degli stracci presi in prestito dagli stereotipi sociali – in questo caso quelli del folle, ma in altri casi quelli del malato somatico, o del trasgressivo, o del santo? Per prima cosa, interrogarci sullo svolgimento recente della vita del paziente o della sua relazione con noi: si individua, allora, un avvenimento che ha ferito o esaltato fuori misura l’immagine, di solito grandiosa, che egli ha di sé (sul piano narcisistico) o che lo ha portato a confrontarsi con un vissuto di perdita o di eccitamento libidico intenso (sul piano oggettuale).

Nell’uno e nell’altro caso il suo sé si è misurato con un lavoro psichico (di lutto o d’integrazione dell’eccitamento) che va oltre le sue capacità del momento: il ricorso ai sintomi indica questo fallimento. Individuare il momento in cui è stato necessario al paziente ricorrere al sintomo per difendersi, è ciò che serve per lo svolgimento della relazione di cura. Se arriviamo a dare una spiegazione pertinente dell’evento iniziale e delle sue ripercussioni psichiche, noi avremo la possibilità di prendere in conto il sintomo integrandolo con la vita psichica e relazionale del paziente. In questo modo è messo fuori gioco l’uso contro la relazione del sintomo, che è stato richiamato prima. Qualche volta è possibile restituire al paziente il legame tra l’evento reale, la sua ripercussione psichica e il sintomo che è venuto a proteggerlo contro quella. Qualche volta, tuttavia, questa restituzione non può essere udita da lui, ma il nostro modo di comprendere il sintomo modifica il nostro atteggiamento in un senso che favorisce l’integrazione del vissuto doloroso di perdita o di eccitamento.

E’ evidente che comprendere il sintomo come uno degli elementi della vita della relazione del paziente non è incompatibile con una risposta adattata allo stesso sintomo: così se i disturbi comparsi nella vita del paziente – che si tratti di idee deliranti , di allucinazioni, di ripiegamento autistico, di disfacimento fisico o di comportamenti antisociali – mettono in pericolo la sua integrità fisica, mentale o sociale, è legittimo prendere i provvedimenti necessari per la sua salvaguardia, come una terapia farmacologica, un’ospedalizzazione o una protezione sociale momentanea. L’attuazione di questi provvedimenti non è d’altronde inevitabilmente una competenza degli operatori che sono investiti e coinvolti dall’apparizione dei disturbi. E’ essenziale che questi provvedimenti non siano l’unica risposta data alla comparsa di questi sintomi. Accontentarsene, come fa troppo spesso la psichiatria, non interessarsi al senso e alla collocazione dei sintomi, vuol dire squalificare il rimedio messo in atto dalla psiche del paziente, che si confronta con un eccesso di eccitazione pulsionale o narcisistica – rimedio sicuramente inadeguato, pregiudizievole, costoso, ma la cui esistenza testimonia la vitalità della sua vita psichica.


Una miniera inesauribile di concetti.

A questo punto termina questa riflessione sulla funzione curante in psichiatria, sviluppata a partire da qualcuno dei numerosi concetti elaborati da P.C. Racamier a partire dalla sua pratica clinica con i pazienti psicotici.

Quelli tra di voi che hanno familiarità con il suo pensiero, la sua pratica e i suoi libri avranno, spero, l’indulgenza di perdonarmi se con questa relazione avrò richiamato solo una piccola parte della miniera inesauribile di annotazioni cliniche, di osservazioni rivoluzionarie, di innovazioni teoriche.

Auguro agli altri, quelli che ascoltandomi hanno scoperto o riscoperto l’approccio psicoanalitico individuale o istituzionale delle psicosi – oggi troppo spesso trascurato a vantaggio di altri procedimenti di cura ornati da fronzoli scientifici alla moda – di trovare nella lettura dei libri di P.C. Racamier, in particolare nel “Genio delle origini” tutto il piacere, tutto il conforto e tutti gli stimoli intellettuali che io ho personalmente provato.

Piuttosto che deplorare l’attuale prevalere di altri approcci terapeutici – biologico, cognitivista, comportamentale, sistemico - dobbiamo saper trovare le parole per descrivere la nostra concezione della funzione curante in psichiatria, spiegarla, dimostrarne la fondatezza. Per raggiungere questo obiettivo, l’opera di P.C. Racamier è uno strumento insostituibile, per la sua chiarezza e la sua coerenza, la sua fedeltà allo spirito di una psicoanalisi inventiva, esigente e libera da ogni dogmatismo.

Ho tentato oggi di contribuire a questa indispensabile illustrazione e difesa di una certa concezione della cura psichiatrica. Spero che questa modesta relazione abbia assolto la missione che P.C. Racamier, all’inizio del suo “Corteo concettuale” aveva affidato ai suoi concetti: “fare comprendere, fare pensare, fare vedere”.



[1] Come Harold Searles, Hannah Segal, Kohut, Rosenfeld, Bion.

[2] Come le Comunità dell’antipsichiatria inglese rinnovate da Laing e Cooper, la scuola ortogenica di B. Bettelheim a Chicago, la Velotte a Besançon o le Comunità terapeutiche dell’Association Santé mentale et communautés a Villeurbanne.

[3] Corteo concettuale – Edizioni CeRP, 1995, Milano-Trento


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