Strategie di cura per la sopravvivenza psichica [1] Simona Taccani Le riflessioni che oggi vi comunico risentono tutte di interrogativi di fondo: che cosa succede di differente in
coloro che nella malattia e nella catastrofe/pericolo/difficoltà
arrivano ad elaborare dei processi di sopravvivenza psichica, quando altri non ce la fanno?
Sopravvivenza
è un termine complesso, polisemico, e in definitiva ambiguo in italiano,
ancor più che in francese, lingua che dispone sì di un unico
verbo survivre, ma di due sostantivi: “survivance” e “survie”;
di quest’ultimo termine potremmo forse tentare la traduzione con il
sopravvivere, perdurare, persistere. In
uno scritto del 1991, “Souffrir et
survivre dans les paradoxes” PC. Racamier affronta il tema sia dal punto di vista
metapsicologico che clinico. “Quanto alla fonte delle forze in gioco, la nostra teoria conosce meglio quelle che lavorano al servizio del piacere che quelle che lavorano al servisio del sopravvivere (survie): va da sé che per questo sono all’opera l’istinto di conservazione, l’autoerotismo, la libido dell’Io, il narcisismo di vita, ma la questione è troppo vasta per essere dibattuta qui.” Riprenderà e specificherà il concetto in Cortège: La sopravvivenza designa un principio fondamentale della vita psichica finalizzato ad assicurare e mantenere la perennità narcisistica dell'essere. Tale principio di organizzazione delle forze narcisistiche e dell'istinto di conservazione mira alla perpetuazione dell'essere corporeo e psichico di fronte alle forze psichiche e fantasmate che lo minacciano di morte o di qualsiasi altra forma di scoparsa. La sopravvivenza ha dunque il suo contrario e complemento, la scoparsa. Il doppio principio di sopravvivenza e di scomparsa... sta alla necessità narcisistica come il principio... del piacere e dispiacere sta al desiderio libidico. Si può presumere che la sopravvivenza si organizzi prima del piacere; è quella che organizza le massicce difese... che prevalgono in maniera schiacciante non solo nelle organizzazioni psicotiche, ma anche marginali o ultranevrotiche, ed altrettanto negli stati critici... (p.70, Corteo)
I grandi traumatismi universali quali l’alterità, la differenza dei sessi, la differenza delle generazioni, o quello del lutto originario chiave di volta della teorizzazione di PaulClaude Racamier che tutti li comprende sono affrontati da ciascun individuo in modi, luoghi e tempi infinitamente diversi anche a seconda della prevalente mobilizzazione dell’energia di sopravvivenza o di quella di annientamento o scomparsa. E' qui essenziale anche un'altra precisazione: quando la psiche non ha troppo sofferto, questo principio bifronte, doppio, lavora agilmente, l’oggetto s’inventa, la realtà si costituisce, il piacere si fa strada, i limiti e i legami si stabiliscono; quando invece la psiche è in stato di sofferenza, i meccanismi difensivi si esacerbano e si irrigidiscono, i limiti si perdono, i legami si ingranano o si decostruiscono, l’onnipotenza narcisistica con la sua carica paradossale prende il sopravvento. La teorizzazione metapsicologica di PC.Racamier si pone qui nella linea che partendo da Freud raggiunge i lavori di Bion (l’attacco ai legami),; Winnicott (Fear of breakdown), Green (la madre morta), Tustin (buco della psiche), Vernant (la mort dans les yeux), Aulagnier.
Questa digressione metapsicologica mi permette di inoltrarmi nel vivo dell’esplorazione clinica, il cui obiettivo è di contribuire a meglio conoscere questi soggetti (e queste famiglie) in cui la dinamica sopravvivenzasopravvivere; nel senso di perdurare, sussistere, mantenersi in vita costituisce il quotidiano dell’esistenza e il cui riconoscimento, la cui comprensione, valutazione e cura richiedono da parte nostra strategie attente, mirate, adeguate e oltre tutto non solo individuali, proprie, ma gruppali, condivise nella comunità scientifica, messe a punto e discusse in un corpo collegiale allargato e aperto al confronto. Esiste
tutta una fascia di pazienti di difficile e sfumata collocazione diagnostica
non necessariamente non nevrotici ma neanche sfrontatamente psicotici, che
giungono nei nostri ambulatori, centri di salute mentale, consultori, centri di
consultazione per adolescenti, nelle scuole, dai medici di base, dagli
specialisti più vari, in Pronto soccorso: sono persone che a fronte di
una richiesta poco chiara, ambigua, a volte addirittura paradossale (“non ho nulla, ma
sto male” o “l’angoscia mi attanaglia, ma non accetto di
prendere alcun farmaco, perché se no mi sento malato”), ci turbano per il loro malessere, il
disagio quotidiano a procedere non dico creativamente, ma a procedere tout
court nelle tappe del
ciclo vitale. Ascoltiamone alcuni. Ho scelto di tratteggiare queste due situazioni cliniche senza peraltro addentrarmi in considerazioni e approfondimenti che potremo riservare alla discussione, per evocare più concretamente attraverso questi pazienti il tema della “sopravvivenza psichica”, sperando anche che possano in voi suscitare associazioni sui vostri pazienti, che come dicevo costituiscono un contingente numeroso della popolazione che incontriamo nei contesti più diversi e le cui problematiche tentiamo di affrontare in setting anch’essi diversificati.
Ciò
che spicca nel funzionamento mentale di questi soggetti mi sembra sopra tutto essere sul versante intrapsichico: Sul
registro intersoggettivo operano: Siamo
quindi nel territorio di quella che PC.Racamier ha definito la terza topica, la
topica interattiva, transpersonale. In particolare i pazienti di cui vi ho portato alcuni flash possono almeno per certi aspetti essere visti entro la configurazione suicidosica. Le suicidosi, sono così state chiamate da P.C. Racamier con un felice neologismo. Egli
designa come suicidosi: Poiché
la suicidosi non è una di quei processi che si sviluppano come la melanconia
a circuito chiuso, essa costituisce una modalità relazionale e in un
duplice modo, ovvero come "difesa massiccia contro qualsiasi vissuto di
lutto" e "qualsiasi attrazione libidica" e come
"imposizione all'ambiente di dilemmi fondamentalmente insolubili". Leggendo
Racamier, riflettendo sui nostri casi, la suicidosi ci appare comeuna strategia di sopravvivenza patologica. A questo proposito, lo scrittore Thomas Bernhard così si esprime con prodigiosa immediatezza:
Parlo di cura nell’accezione di PaulClaude Racamier. Cura come “l’attenzione vigile che noi consacriamo a mantenere e rinforzare la capacità di sopravvivenza fisica e psichica delle persone che noi trattiamo”. Vorrei
tra parentesi sottolineare che con questa definizione PC.Racamier lascia
intendere (e come non dargli profondamente ragione?) che non necessariamente trattare significa curare. Penso
appartenga alle strategie di cura conoscere la nostra soglia di
tollerabilità all’indifferenza che fa loro invulnerabili e noi del tutto inanizzati nel gioco transferale controtransferale. Vediamo un altro rapido flash clinico. (omissis)
Penso proprio sia indispensabile, in molti casi. Tanto quanto il mobilitare energie per neutralizzare la collera impotente di cui alcuni pazienti caricano le nostre spalle terapeutiche. E’
qui quindi il dilemma: non cambiare è morire, ma cambiare è
ugualmente morire. L’alleanza
di lavoro è sempre un punto cruciale. Per parte mia ritengo che dare implicitamente per scontato che l’alleanza del terapeuta singolo o della coppia terapeutica o del gruppo terapeutico (istituzione) vada da sé, non solo derivi da una posizione preliminare acritica e decisamente narcisistica, ma che soffra anche di grande miopia e riduttività nei confronti della strategia terapeutica, processo di vasto respiro dai cangianti orizzonti che necessita (da parte nostra) di una continua analisi del terreno in cui ci muoviamo. La prudenza. La strategia di cura con questi pazienti che abbiamo chiamato sopravviventi (il participio presente, più che il participio passato sopravvissuti, sembra rendere maggiore giustizia alla loro presenza, ai loro tentativi, alla loro richiesta di aiuto, ma anche alla loro intensa attività espulsiva del conflitto, del dolore, della colpa), esige prudenza sempre e comunque, anche quando si sia in una situazione di emergenza, anche quando si sia chiamati a prendere dei rischi, per esempio nel caso di un affiorante vissuto suicidario in un paziente suicidosico, configurazione patologica piuttosto frequente in genere e in particolare entro il contingente di pazienti che qui abbiamo preso in considerazione. Prudenza
nello stabilire una relazione e nel portarla avanti, l’ossigeno
narcisistico così carente in questi pazienti va somministrato a piccole
dosi, così come il lavoro sul sistema difensivo. Prudenza, quindi, per le possibili conseguenze di un lavoro che aiuti il paziente ad avvicinarsi alle inevitabili problematiche di lutto e alle difese antilutto che si sono costruite negli anni e a volte nel tempo delle generazioni. In questi pazienti il corpo assume un’importanza assolutamente primordiale come spazio di scarica di un plenum eccitatorio violento con possibili conseguenze disorganizzanti, ove alla già scarsa attività di mentalizzazione si associano fenomeni sintomatici veri e propri, sino alla comparsa di veri e propri eventi patologici, minacciosi non soltanto per la salute, ma per la vita stessa. E’
questo un capitolo di grande portata in epigone alla teorizzazione di
PC.Racamier sul lutto originario e la sua mancata elaborazione, quindi su tutta
la patologia inerente al lutto e sui problemi suicidosici . Indubbiamente il lavoro che stiamo portando avanti, lo facciamo insieme, le strategie le andiamo via via cercando in quella cocreazione che PC. Racamier riteneva indispensabile di ogni processo di cura. Lavoriamo
per allentare la stretta dei dilemmi del registro “voglio morire per
vivere o voglio essere curato perché la cura fallisca”. Le strategie di cura che noi mettiamo in atto si scontrano, come abbiamo visto, con mezzi difensivi pesanti, se malgrado tutto riusciremo a farcela avremo in alcuni casi sventato qualche suicidio, in altri impedito una carriera di cronicità dentro e fuori dai Servizi, in altri ancora evitato che processi espulsivi fuori dalla psiche non prendano di mira il corpo provocando pericolosi circuiti psicosomatici. Qualora poi il nostro compito non fosse che parzialmente riuscito non dimentichiamo l’affermazione di PC.Racamier che, nonostante tutto, i dilemmi, i paradossi e anche l’ambiguità nel suo versante nefasto, sono e restano nel territorio del legame, del pensiero sia pure per non pensare, o del pensare senza fantasmi; al di là, oltre, si aprono gli spazi del non pensabile, della non vita, del non legame, là dove le nostre strategie non hanno corso. [1] Mi scuso con il lettore: per ragioni di riservatezza non compaiono qui i casi clinici.
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