Perché i sintomi e i comportamenti disadattivi e nevrotici persistono
nonostante il dolore che comportano? Perché le persone che ne sono
affette non sono pronte ad abbandonarli, neppure quando sono motivate al
cambiamento e sono entrate in terapia? A queste domande Morris Eagle offre
due risposte. La prima è che le persone non cambiano perché
hanno paura dell'ignoto. Come immortalato dall'osservazione di Amleto,
l'ignoto "ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che incorrere in
altri che non conosciamo". La seconda è che il cambiamento, soprattutto
se è radicale, ci minaccia di perdità dell'identità.
Essendo la seconda risposta una variante o una precisazione della prima,
il punto di vista complessivo di Eagle è che "comune a tutte le
varianti e scuole di psicoanalisi è l'assunto fondamentale che le
persone evitano il cambiamento perché a qualche livello profondo
temono che questo le esporrà a un disturbo e un pericolo ancora
maggiori di quelli che già patiscono".
Le diverse teorie psicoanalitiche sono caratterizzate da diverse concettualizzazioni
delle resistenze. Da Freud la resistenza è intesa come riluttanza
ad abbandonare le gratificazioni istintuali che le formazioni sintomatiche
di compromesso bene o male consentono, e a prendere coscienza dei desideri
infantili togliendoli alla rimozione, con conseguente riattivazione dei
dolorosi conflitti che sono all'origine della rimozione stessa. In altre
scuole psiconalitiche esaminate da Eagle, in particolare la teoria del
controllo-padronanza di Weiss e Sampson e la psicologia del sé di
Kohut, la resistenza è concettualizzata invece come paura di una
ripetizione del trauma nella relazione terapeutica. La vecchia e la nuova
concezione sono accomunate dal comune radicamento nel principio del piacere,
cioè la motivazione è sempre quella di ottenere un piacere
o evitare un dolore, ma il quadro complessivo è cambiato profondamente.
Infatti, la conseguenza della concezione freudiana era che l'analista doveva
persuadere il paziente a rinunciare alle gratificazioni e ad affrontare
i dolorosi conflitti che il desiderio infantile inevitabilmente porta con
sé. Nel nuovo quadro di riferimento rappresentato in particolare
dalle teorie di Kohut e Weiss e Sampson, invece, l'analista non è
più nascosto dietro uno schermo bianco, ma è pienamente in
gioco assieme al paziente sulla scena della terapia. In questa prospettiva
un aumento delle resistenze può significare che il paziente non
si sente al sicuro nella relazione: e questa mancanza di sicurezza è
certamente in rapporto con la qualità della relazione che si è
stabilita. In questo senso il programma di ricerca di Luborsky ha permesso
di stabilire che "non importa quanto accurate o intelligenti siano le interpretazioni
del terapeuta, se il il paziente non sente che il terapeuta lo aiuta, lo
sostiene, ed è impegnato assieme a lui in uno sforzo congiunto,
il cambiamento non avverrà".
In altri termini, nelle nuove teorie psicoanalitiche tende a essere
sempre più in primo piano la relazione terapeutica, come fattore
curativo indipendente da quelli classici dell'interpretazione e dell'insight.
Sempre più si delineano quindi due piani distinti, quello della
"nuova esperienza relazionale" (o "esperienza emotiva correttiva", anche
se ancora oggi pochi analisti osano pronunciare questa espressione che
per decenni è stata severamente condannata), e quello della esplorazione
dell'inconscio. Dopo avere discusso questi due piani come fattori ben separati
e distinti, Eagle osserva, giustamente, che nella pratica essi sono inestricabilmente
legati. Rende invece perplessi l'ulteriore osservazione di Eagle, peraltro
più volte ribadita nei suoi scritti, che la "esperienza emotiva
correttiva" è costituita dai normali ingredienti di una terapia
psicoanalitica efficace: neutralità benevola, interpretazioni accurate,
affidabilità, onestà, integrità. L'esperienza emotiva
correttiva non sarebbe cioè altro che un "sottoprodotto" di un onesto
e accurato lavoro psicoanalitico.
C'è una lunga tradizione di posizioni analoghe, a partire probabilmente
dallo Strachey del 1936. Si parte dal riconoscimento che l'interpretazione,
e la presa di coscienza che ne consegue, non è l'unico fattore terapeutico
in un trattamento analitico. Si riconosce che la nuova esperienza che il
paziente compie nella relazione con l'analista è un fattore altrettanto
importante. Ma si approda alla conclusione che per fornire questa nuova
esperienza non è necessaria alcuna modificazione significativa dell'assetto
analitico. Posizioni del genere indicano la disponibilità ad ammettere
anche fattri relazionali come motori di cambiamento, a patto che tali fattori
siano impliciti" nel setting psicoanalitico classico, e non comportino
un'attività esplicita e deliberata. Colpisce questa sorta di "fobia
dell'attività", in analisti peraltro aperti e critici come Morris
Eagle (e come era Merton Gill). Si direbbe che questi analisti arrivino
al limite massimo di eterodossia consentito, oltre il quale aleggia il
fantasma dell'emarginazione dalla comunità psicoanalitica. E' piuttosto
evidente, in ogni caso, che il rifiuto di ogni attività esplicita
e deliberata non è giustificabile con ragioni che abbiano una parvenza
di scientificità, e meno che mai con ragioni che stiano "dalla parte
del paziente", ma solo con questioni di identità e di appartenenza
del terapeuta a un gruppo. Fintanto che tali questioni faranno aggio su
quelle di sostanza (quali fattori relazionali producono quali effetti in
quali circostanze), non potremo aspettarci un salto di qualità nel
dibattito psicoterapeutico.
Resistance as a problem for practice and theory
Paul Wachtel
Su un punto i terapeuti di ogni orientamento sono tendenzialmente d'accordo:
"i modelli di comportamento che creano problemi al paziente nella sua vita
di tutti i giorni gli creeranno problemi probabilmente anche nella relazione
terapeutica; pertanto proprio le caratteristiche che abbiamo più
interesse a scoprire sono quelle che più facilmente frustreranno
i nostri sforzi". La differenza tra gli psicoanalisti e gli altri terapeuti
sta essenzialmente nel fatto che i primi, a differenza degli altri, tendono
a ritenere universale il processo della resistenza, e a considerare prioritario
il lavoro su di essa.
Per quanto le valutazioni tra terapeuti di diverso orientamento divergano
sull'incidenza e l'importanza dei processi di resistenza (intesi come sopra,
cioè come ripetizione e messa in atto nella relazione di terapia
degli schemi di esperienza e comportamento che sono alla base dei problemi
presentati), c'è un accordo generale, trasversale a tutte le scuole,
sul fatto che gli ostacoli posti dai pazienti sulla strada della guarigione
sono una notevole opportunità che il terapeuta può cogliere,
sia per riconoscere in vivo gli schemi da correggere, sia per la possibilità
di lavorare su di essi nelle condizioni privilegiate del laboratorio terapeutico.
Detto questo, l'attenzione si sposta sul "surplus" di resistenza, cioè
su quella parte della resistenza che non dipende dallo sviluppo intrinseco
del processo, che non è cioè una necessità propria
della terapia, ma rappresenta piuttosto una reazione del paziente ad atteggiamenti
troppo rigidi o meccanici o comunque errati del terapeuta. Il processo
analitico stesso come originariamente inteso da Freud, ricorda Wachtel,
tende a suscitare resistenze iatrogene, in quanto la terapia è fatta
coincidere con la ricerca: se il paziente avverte che il terapeuta ha l'atteggiamento
di uno scienziato che vuole fare delle scoperte, piuttosto che di una persona
umanamente interessata a lui, è del tutto probabile che non collaborerà
al successo delle fantasie scientifiche del suo analista.
In generale, osserva Wachtel, quanto più puro è l'atteggiamento
cognitivo del terapeuta (di orientamento sia psicoanalitico sia cognitivo),
tanto meno utile sarà il suo lavoro per il paziente. Inversamente,
diverse ricerche stabiliscono un legame preciso tra la qualità della
relazione terapeutica e i cambiamenti che produce: le interpretazioni possono
essere accurate e precise, la tecnica terapeutica eseguita in modo impeccabile,
ma tutto questo non porterà a nulla se la qualità dell'alleanza
terapeutica è insufficiente.
Ma quali sono le caratteristiche che la relazione terapeutica deve avere
per ridurre al minimo le resistenze iatrogene, e al contrario attivare
la volontà di collaborazione del paziente? La risposta di Wachtel
è netta: è necessario abbandonare la visione classica, di
origine freudiana, del paziente come bambino recalcitrante ad affrontare
la realtà e avido di gratificazioni, a favore di una visione più
benevola e più corrispondente al vero: quella di una persona che
ha paura di ciò che può emergere se abbandona i suoi schemi
comportamentali di riferimento. Una paura del tutto comprensibile e giustificata,
se pensiamo al dolore e allo smarrimento che attende chiunque osi abbandonare
la sicurezza degli schemi appresi. L'atteggiamento base del terapeuta,
dunque, deve essere di validazione degli sforzi difensivi del paziente,
nel momento stesso in cui lo aiuta a liberarsene. L'atteggiamento classico
di lotta alla resistenza, invece, carico di rimprovero implicito, può
più facilmente portare a un rinforzo della resistenza, che al suo
abbandono.
Questo spostamento di enfasi, dalla lotta cognitiva contro le resistenze
alla loro validazione come mezzi legittimi di protezione da sofferenze
intollerabili, è del tutto condivisibile. C'è solo da chiedersi
se questo spostamento dalla severità alla giustificazione non sia
andato troppo in là. Se cioè dagli eccessi in senso "paterno"
di Freud non si sia giunti a un certo eccesso in senso opposto, "materno".
E se non convenga piuttosto cercare di avere entrambe le frecce a disposizione
del proprio arco, pronti a dosare accoglimento materno e fermezza paterna
nelle proporzioni richieste da ogni singola persona, in ogni momento del
processo terapeutico. |