I casi comunemente diagnosticati come "disturbo paranoico" sono caratterizzati
da un insieme di credenze e convinzioni tanto irrealistiche quanto tenacemente
sostenute. Il tentativo di mostrare a questi pazienti l'illogicità
o l'anacronismo delle loro convinzioni, per mezzo di interpretazioni psicoanalitiche
o di un'analisi logica condotta secondo i principi della terapia cognitiva,
sono generalmente inefficaci o controproducenti. In un caso presentato
dagli autori sono state applicate sequenzialmente una terapia cognitiva
e una psicoanalitica, ma il buon risultato ottenuto in entrambe non sembra
attribuibile in primo luogo alle modalità specificamente cognitive
o psicoanalitiche impiegate. Il "segreto" del successo, in questo e consimili
casi, non sta nelle tecniche volte a correggere l'irrazionalità
delle convinzioni, o a portare alla luce conflitti pulsionali infantili,
anche se entrambe queste modalità di lavoro possono contribuire
al buon esito del trattamento. La chiave della terapia, soprattutto in
questi casi difficili, ma non solo in questi, consiste nello stabilire
innanzitutto una buona "alleanza terapeutica". Metto questa espressione
tra virgolette, perché il termine "alleanza" può non essere
il più preciso (ed è infatti rifiutato da molti psicoanalisti)
per indicare una relazione caratterizzata da sentimenti di fiducia e sicurezza:
sarebbe infatti difficile, a questo livello, distinguere "alliance" da
"compliance", e anche da "complicity". Più che una buona alleanza,
sarebbe forse meglio dire che occorre stabilire una buona intesa, termine
che sta a indicare il fatto che il paziente si sente capito, non minacciato,
e corrisposto nei bisogni specifici che porta nella relazione.
Come si stabilisce, con questi pazienti gravi, ma non solo con questi,
una buona intesa (o una buona alleanza, se si preferisce mantenere questo
termine entrato nell'uso)? La risposta di Zapparoli e Gislon è improntata
a sano buon senso: dobbiamo avere una comprensione genuina dei bisogni
del paziente, evitando di imporgli qualsiasi posizione predeterminata,
teorica o tecnica. Ma possiamo capire quali sono i veri bisogni del paziente,
senza una teoria generale dei bisogni umani? E se abbiamo una teoria del
genere, non ricadiamo nuovamente nella posizione che abbiamo cercato di
evitare, quella di inquadare il paziente nei termini della nostra teoria
preferita? Il paradosso è questo: per un ascolto genuino dobbiamo
essere in grado di mettere da parte le nostre teorie, ma se non usiamo
le nostre teorie rischiamo di non vedere più niente. Come si risolve,
o almeno come si affronta questo paradosso? Zapparoli e Gislon non ce lo
dicono, ma offrono comunque un importante contributo alla comprensione
della relazione terapeutica mettendo a fuoco uno dei bisogni fondamentali
di cui occorre tenere conto nella costruzione di un'intesa o alleanza sufficientemente
buona. Si tratta del basilare bisogno di mantenere l'illusione di onnipotenza,
autosufficienza o controllo della relazione che è così caratteristico
dei pazienti più gravi, ma che gioca un certo ruolo anche in molti
casi di minore gravità. Per mantenere e proteggere questa illusione,
di importanza vitale per il paziente fino a che non sarà pronto
ad affrontare la disillusione, può essere necessario che "il terapeuta
accetti il ruolo inanimato di 'persona non qualificata': qualcuno che è
a disposizione del paziente, senza imporgli le sue capacità tecniche,
cosa che trasformerebbe la relazione in uno scontro di potere". Infatti
"essere un terapeuta competente rappresenterebbe per il paziente una controsfida
onnipotente alla sua sfida onnipotente". Non si può apprezzare abbastanza
il valore di questa "autocancellazione" del terapeuta, tanto difficile
e faticosa, quanto in molti casi indispensabile per la costruzione di una
valida relazione di fiducia. |