L'articolo riproduce la "conferenza magistrale" tenuta al Congresso
SEPI di Toronto, nel 1997. Il discorso, tenuto nello stile paradossale
caro a Jacobson, si compone di due parti. La prima satirica, paradossale
e provocatoria, la seconda contenente una proposta innovativa e di grande
interesse. Nella prima prende bonariamente in giro l'atteggiamento genericamente
fiducioso sulla bontà della psicoterapia in generale e dell'integrazione
in particolare, che è abbastanza facile incontrare nei congressi
SEPI. Su entrambe le cose Jacobson si dichiara scettico. Intanto, dice,
non ho ancora capito che cosa sia l'integrazione psicoterapeutica, benché
decine di colleghi abbiano provato a spiegarmela; in secondo luogo non
è tanto importante stabilire se due teorie sono o non sono compatibili,
quanto capire se la loro combinazione dà risultati migliori delle
terapie di origine. E questo, osserva Jacobson, non mi sembra che sia mai
stato dimostrato. Ma poi, di che cosa stiamo parlando? Di psicoterapia?
Quale psicoterapia? Quella delle sperimentazioni cliniche controllate,
basate su trattamenti manualizzati, o quella vera, di tutti giorni, del
terapeuta che sta "in trincea"? Rischiamo di fare molta confusione se non
ci chiariamo le idee su queste cose fondamentali.
Quasi tutta la ricerca è fatta su protocolli di trattamento che
vengono rispettati nelle condizioni della ricerca, ma non nella vita reale.
E' probabile, osserva Jacobson, che tutta questa ricerca sia sostanzialmente
irrilevante per la pratica clinica. Se poi l'integrazione dovesse significare
mettere assieme queste entità artificiali, che nessuno utilizza
come tali nella realtà, sarebbe meglio lasciar perdere. Meglio poche
cose semplici e chiare, almeno finché non capiremo meglio che cosa
succede realmente nella pratica clinica. E come facciamo a capirlo? Osservando
quello che i terapeuti fanno, naturalmente. Ma quello che fanno "in trincea",
nel loro contesto naturale, non nelle condizioni artefatte delle sperimentazioni
randomizzate.
Se cominciassimo a osservare veramente il fenomeno della psicoterapia,
come viene naturalmente praticata ogni giorno, scopriremmo probabilmente
che qui avviene spontaneamente un certo tipo di integrazione, che non è
quello dei teorici dell'integrazione, ma quello che avviene grazie al fatto
che giorno dopo giorno i clienti plasmano i loro terapeuti rinforzando
certi comportamenti e punendone altri. A patto, naturalmente, che il terapeuta
accetti di farsi plasmare, che sia ciò disposto a modificare il
proprio modo di lavorare in funzione dei risultati (cosa che, poco o tanto,
ogni terapeuta di trincea fa). Ci sono purtroppo anche terapeuti che non
sono rinforzati dai risultati, ma dal restare tenacemente attaccati al
loro paradigma indipendentemente dai risultati: ma questo non produce altro,
ovviamente, che cattiva terapia.
In conclusione, afferma Jacobson, l'integrazione dovrebbe essere qualcosa
di diverso dal combinare trattamenti nello loro forme protocollari nel
tentativo di fare qualcosa di meglio. L'integrazione è piuttosto
la trasformazione che avviene sul campo, prodotta dallo sforzo e dalla
necessità costanti di ottenere il risultato migliore. Ma per saperne
qualcosa, dobbiamo studiare la psicoterapia sul campo, o "in trincea",
non in laboratorio. Dobbiamo capire come, nel loro contesto naturale, i
terapeuti e i pazienti si modificano reciprocamente. Dobbiamo stabilire
relazioni funzionali tra le cose che il terapeuta fa e quelle che fa il
paziente. Ho paura, aggiunge Jacobson, che scopriremmo che troppo pochi
dei nostri colleghi sono sufficientemente rinforzati dai risultati. Troppi
ancora lavorano per sentirsi dire che sono meravigliosi, o per confermare
le loro particolari ideologie. Ma questa è la direzione in cui dovremo
muoverci se vorremo occuparci di integrazione, quella vera. |