Secondo Goldfried, che ha ascoltato con disappunto il discorso di Jacobson,
è stata fatta un po' di confusione. Per capire che cosa è
l'integrazione, è importante capire che cosa non è. Prima
di tutto, non è una forma specifica di terapia. Inoltre, non è
solo il tentativo di formulare una teoria unificata della terapia, il tentativo
di enumerare i principi transteoretici del cambiamento, o il tentativo
di mescolare diverse procedure d'intervento. L'integrazione è l'insieme
di tutto questo. Essenzialmente è l'incoraggiamento ai terapeuti
a non limitarsi a un solo approccio teorico.
Detto questo, Goldfried sostiene che Jacobson sfonda una porta aperta
quando invita a sviluppare una ricerca orientata alla scoperta, che ci
permetta di scoprire aspetti del processo di cambiamento non originariamente
previsti da chi ha sviluppato un approccio particolare. Ugualmente condiviso
è l'interesse per lo studio di ciò che i terapeuti realmente
fanno: questo è il motivo per cui i terapeuti SEPI amano osservare
le sedute registrate, cosa su cui Jacobson si era soffermato ironicamente.
Peraltro è vero che non abbiamo ancora prove sperimentali dell'efficacia
dell'integrazione. Ma le cose stanno come quando è stata sviluppata
la terapia cognitivo-comportamentale: la necessità di integrare
comportamentismo e cognitivismo è stata sentita dai clinici, e solo
in seguito è venuta la ricerca con gli studi sull'efficacia. Ma
almeno una ricerca esiste sull'efficacia dell'integrazione: quella della
Linehan, autrice di uno dei sistemi integrati più creativi fino
ad oggi prodotti. Ed è strano che Jacobson, che lavora nella stessa
università dello stato di Washington in cui lavora la Linehan, non
se ne sia accorto. Questa è l'ultima stoccata a Jacobson di Goldfried,
evidentemente punto sul vivo. |