Da Freud in poi, gli analisti, tesi al benessere dei loro pazienti,
si sono sempre trovati davanti ad un conflitto relativo all'influenzamento.
E' difficile che gli interventi analitici non siano significativamente
determinati da qualche fattore personale che resta al di fuori della consapevolezza,
perciò occorre stabilire dei principi di tecnica che tengano
in considerazione questo fatto. Uno di questi è il concetto di neutralità
analitica.
Secondo Renik, esso "è pieno di buone intenzioni ma non riesce
comunque a svolgere il compito per il quale è stato formulato: esso
non ci fornisce un obiettivo utile sul quale basarci mentre svolgiamo il
nostro lavoro di analisi clinica" (ibid., p. 6).
Il concetto è stato creato per contenere l'indebito influenzamento,
ma ci ha poi incoraggiato a perpetuare le illusioni sul ruolo dellanalista
nel processo psicoanalitico. Renik propone una revisione del concetto
di neutralità analitica che proceda lungo tre linee: 1) il concetto
non tiene conto delle modalità di apprendimento in analisi e quindi
non riesce a descrivere la relazione ideale tra giudizi dellanalista e
conflitti del paziente; 2) vede da un altro punto di vista il ruolo
delle emozioni dellanalista nella tecnica analitica; 3) fa parte di una
concettualizzazione non corretta del campo della tecnica analitica.
Da molti e da tempo si è mostrata l'impossibilità della
neutralità, per lanalista. Renik si propone di dimostrare che essa,
quandanche possibile, non sarebbe neanche utile. LA ricorda come Anna
Freud raccomandasse all'analista di mantenersi equidistanti da Io, Es e
Super-Io, onde non comunicare le personali opinioni, e salvaguardare l'imparzialità
rispetto ai conflitti del paziente (ammesso che l'analista riesca a discernere
correttamente quali siano i conflitti, e in particolare quelli da tener
presenti, del paziente). Non è cosa semplice: come nota Raphling
(1995), secondo cui qualsiasi linea interpretativa favorisce un aspetto
del conflitto a spese di un altro, sicché, appena lanalista interpreta,
si è già allontanato dallatteggiamento di neutralità.
In altre parole, lunico modo per lanalista di essere neutrale è
quello di essere inattivo! Non sembra dunque avere il minimo senso aspirare
alla neutralità in quanto obiettivo tecnico. Shapiro (1984) aveva
fatto la medesima osservazione. Altri (Poland, Kris, Hoffer) si sono pronunciati
sulla neutralità, e Renik li ricorda brevemente.
AllA le diverse elaborazioni del concetto di neutralità
appaiono macchinose, e si chiede se non sarebbe più semplice concettualizzare
lanalista al meglio delle sue possibilità operative come figura
non neutrale. Inoltre, Renik ritiene che la neutralità non costituisca
un ideale per cui lanalista debba sentirsi in dovere di lottare, tanto
più che la neutralità ostacola il progresso di unanalisi
produttiva, in cui talvolta un analista può e deve esprimere
giudizi riguardo a quale possa essere la risoluzione migliore di un conflitto,
ma a volte invece lanalista non dovrebbe formarsene alcun giudizio, nè
comunicarlo.
Perciò il concetto di neutralità è improbabile
e nocivo. Più utile sarebbe occuparsi di quando e di come lanalista
forma o non forma, comunica o non comunica al paziente i propri giudizi
circa la risoluzione di un conflitto.
Dopo aver riportato un caso clinico, l'A fissa la sua attenzione sull'apprendimento
da parte del paziente nel contesto dell'analisi, il che avviene in modo
dialettico, dato che egli presenta al paziente dei punti di vista nuovi,
che ne mettono in crisi i vecchi : "Analista e paziente trovano una loro
strada comune per giungere a un incontro cruciale tra tesi e antitesi,
per così dire, e quindi lo risolvono attraverso un processo di negoziazione
(Pizer, 1992)" (ibid., p. 16).
Talora si ha un confronto, non necessariamente un contraddittorio,
l'importante è comunque che ci sia sempre consapevolezza, e che
l'apprendimento avvenga attraverso una serie di esperienze emozionali
correttive inavvertite, se possibile, riesaminate retrospettivamente,
il che costituisce un nuovo enactment delle motivazioni inconsce
di entrambi .
Tuttavia, secondo Renik, la neutralità dellanalista non facilita
l'instaurarsi di un processo dialettico di apprendimento. E' lanalista
che deve saper cogliere lessenza degli sforzi del paziente considerando
il suo punto di vista .e comunicando qualche valore o giudizio specifico,
dato che l'assoluta neutralità -seppure esista - porta lanalista
fuori campo: "per lo sviluppo di un processo dialettico di apprendimento,
è necessaria la partecipazione attiva e personalmente motivata dellanalista."
(ibid., p. 17), il movimento verso quello che Ehrenberg (1992) chiama
"il margine intimo". Pertanto lapprendimento costituisce un processo attivo
che va ben al di là dellintrospezione guidata dal paziente, ma
si muove verso lapertura di un punto di vista differente da quello di
partenza, anche se non necessariamente più valido di quello del
paziente , bensì alternativo e stimolante.
Renik aggiunge che il cuore dellattività analitica dell'analista
sta nel far conoscere al paziente il proprio punto di vista su questioni
centrali e su come sta gestendo il conflitto.
Varie formulazioni da parte di psicologi di scuole diverse sono essenzialmente
versioni rivedute e corrette della neutralità analitica, ribadendo
il concetto per cui nellattività analitica al paziente non vengano
offerti punti di vista personali dellanalista, che si mantiene imparziale,
mirando a trovare i punti di vista del paziente.
Il concetto di neutralità viene impiegato nel linguaggio comune
per denotare il non coinvolgimento emotivo. Freud usava il
termine indifferenza, ma esiste una linea di pensiero, a partenza proprio
da lui, secondo cui esiste una relazione cordiale tra analista e paziente.
Ma questo si configurerebbe nell'extra-analitico: nel lavoro analitico,
Freud intendeva il concetto di neutralità come assunzione
di un atteggiamento di distacco emotivo, sottoscritto anche dal gruppo
viennese , e protrattosi fino ai giorni nostri.Oggi invece si tende ad
una condizione di base di equanimità affettiva, le cui deviazioni
vengono usate ai fini di un lavoro autoanalitico chiarificante sull'intreccio
transfert-controtransfert, poi utilizzabile da parte di un analista tornato
di nuovo neutrale.
Ormai sappiamo che i nostri migliori pensieri si manifestano mentre
sperimentiamo sentimenti di qualità e di intensità completamente
diverse; le neuroscienze (Damasio, 1994; Edelman, 1993) ci indicano
come obsoleta la dicotomia tradizionale tra affetto e cognizione . Quindi,
non sussiste più alcun motivo per considerare la neutralità
affettiva come condizione facilitante e produttiva per il pensiero analitico,
né che la comunicazione da parte dell'analista del proprio coinvolgimento
emozionale al paziente crei ostacolo allindagine analitica, anzi: linterscambio
affettivo è il vero cuore dellincontro analitico.
A proposito dellautonomia del paziente e del campo della teoria analitica,
Renik ritiene che lautonomia del paziente sia favorita quando gli interventi
dellanalista sono proposti per quello che sono: "giudizi personali, spesso
ispirati dalla teoria, ma comunque sempre formati nel contesto del coinvolgimento
emotivo dellanalista. In questo modo, vengono scoraggiate la sopravvalutazione
irrazionale dellesperienza dellanalista e la sua assunzione di unautorità
indebita." (ibid., p. 21).
In rapporto all' autodisvelamento dellanalista e alla prospettiva
intersoggettiva, sembra che il concetto di neutralità analitica
si muova in direzione opposta, favorendo la erronea persuasione che gli
interventi analitici debbano essere liberi da giudizi e sentimenti
personali.
Così pure, la teoria della tecnica, se pure limita l'influenza
dellanalista in modo più utile e meno restrittivo, non può
tuttavia trasformarla in qualcosa di meno personale, poiché continua
a comunicare anche i punti di vista individuali dellanalista, dato che
non ci permette di determinare quale sia il contenuto che essi dovrebbero
avere o il timing della comunicazione. "Una teoria della tecnica può
tenere conto della soggettività dellanalista, ma non può
eliminare tale soggettività dallinfluenza che lanalista intende
esercitare nel trattamento." (ibid., p. 22).
Inoltre, essa può formare i giudizi personali dello psicoanalista,
come nel caso dei disturbi narcisistici, concettualizzati da Kohut,
precedentemente considerati condannabili da un punto di vista morale.
Secondo Renik, la riluttanza degli analisti ad abbandonare il concetto
di neutralità analitica, nasce dal timore di essere accusati di
usare una terapia non basata su fondamenta scientifiche, connotando l'analista
in un consulente-confessore.
In realtà, secondo l'A, la non neutralità giace nel cuore
stesso del nostro metodo clinico, permettendo di rifiutare l'alone indebito
di autorità. Le attuali discussioni sul narrativismo, sullintersoggettività
dellincontro psicoanalitico e i temi ad essa collegati mettono sempre
più in luce la natura altamente personale del nostro lavoro e una
visione veramente scientifica della psicoanalisi clinica come dialettica
tra due partecipanti non neutrali.
Altro rischio, se non si rispetta la neutralità, è una
sorta di "tutto fa brodo", che può facilitare lo sfruttamento dei
pazienti da parte degli analisti. Rispetto a questo, la tecnica non può
funzionare con modalità preventiva, ma bisogna ricorrere alle indispensabili
norme etiche stabilite nelle comunità professionali.
Renik conclude: "Se non la neutralità, allora cosa? Come potremo
caratterizzare la partecipazione ottimale dei giudizi personali e dei sentimenti
dellanalista nel lavoro dellanalisi clinica? Il tentativo di rispondere
a queste domande costituisce il compito che si trova di fronte a noi" (ibid., p.
25).
E, dato che aumenta la nostra fiducia nella scienza psicoanalitica
, possiamo riconoscerne i limiti e i punti di convergenza tra il nostro
lavoro e quello di altri terapeuti. Per questo, è necessario lasciarci
alle spalle lidea della neutralità, concettualizzando in modo più
utile linfluenza costruttiva dellanalista.
Qualche perplessità di chi recensisce riguardo a questo
scritto.
A dire di Renik, il concetto di neutralità analitica non
è più utile, né tanto meno costituisce una linea direttiva
tecnica. Fermiamoci su questo punto per qualche spunto di riflessione.
Innanzi tutto, non credo che si possa negare né sottovalutare
che la neutralità sia una di quelle qualità imprescindibili
che definiscono l'atteggiamento dell'analista nella cura, impostasi
fin dagli inizi della psicoanalisi, proprio in contrapposizione ai metodi
basati sulla suggestione, a cominciare dalla stessa ipnosi, da cui peraltro
Freud ha mosso i primi passi.
Se Freud inizialmente usava il termine indifferenza, ad intendere il
guardarsi da ogni influenza intenzionale e cosciente, è pur vero
che subito dopo gli psicoanalisti cominciarono a parlare di neutralità.
Pregnante al proposito l'immagine di Ferenczi (1912), che avvicina la situazione
dell'analista al lavoro a quella dell'ostetrico, spettatore di un processo
naturale, e attivo solo nei momenti critici, il che credo che tutti noi
facciamo, quando assistiamo allo scorrere del processo sull'onda della
emozionalità del paziente, pronti ad intervenire solo quando questo
flusso vitale si arresta.
Qui mi pare di vedere che c'è una separazione soggetto-oggetto,
che garantirebbe la neutralità, anche se bisogna riconoscere che,
entrando nel campo dell'intenzionalità, cioè di un obiettivo
perseguito dall'analista, è possibile che ci si collochi comunque
al di fuori della neutralità.
Questione molto complessa, quindi. Queste sfaccettature sembrano estranee
a Renik, che riduce il concetto tecnico di neutralità ad un
residuato della nozione ampiamente screditata di un processo analitico,
in cui il paziente proietta sé su uno schermo assolutamente bianco
e neutro.
La lezione di Hartmann (1966), poi, ha mostrato come sia importante
il concetto di "attività di neutralizzazione" da parte del terapeuta,
che implica una progressiva distanza dal conflitto, dando luogo ad un processo
dinamico, che raggiunge e costruisce neutralità , continuando a
neutralizzare il conflitto, per cui una eventuale regressione si configura
come una regressione al servizio dell'Io e della sua funzione integratrice.
Già Alexander (1956), nel suo famoso articolo che sfortunatamente
ha dato luogo a non pochi fraintendimenti, aveva sottolineato che
quello che va salvaguardato è l'esame di realtà del paziente.
In tempi più recenti, Friedman ha sottolineato come l'atteggiamento
tradizionale di neutralità faciliti l'indagine del paziente, in
quanto gli mette a disposizione "un oggetto umano quanto più
semplice e generico possibile, consentendogli al contempo di ricevere un
feedback coerente e minimo" (Friedman, 1993, p. 88).
E' veramente il caso di pensare di mettere il concetto di neutralità
analitica nell'armamentario delle cose obsolete da buttare via, o si tratta
di un concetto altamente complesso, tutto da ripensare
Bibliografia aggiuntiva del recensore:
ALEXANDER F., FRENCH T.M. (1946), Psychoanalytic Therapy: Principles
and Applications, New York, Ronald Press (trad. it. dei capitoli 2, 4 e 17: ALEXANDER F,
La esperienza emozionale
correttiva, Psicoterapia e
Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 85-101).
FERENCZI S. (1912), Sei quadri sintomatici passeggeri nel corso dell'analisi,
Opere, I, p. 30, Guaraldi
FRIEDMAN L. (1993), Anatomia della psicoterapia, Boringhieri,
Torino
HARTMANN H. (1966), Psicologia dell'Io e problema dell'adattamento,
Boringhieri, Torino
Questo articolo è comparso col titolo "The perils of neutrality"
sulla rivista The Psychoanalytic Quarterly, 1996, 3: 495-317. Ringraziamo
lautore per avercene concessa la pubblicazione. Traduzione di Fabiano Bassi.
Owen Renik, 244 Myrtle Street, San Francisco, CA 94109, USA
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