"Lo psichiatra e psicoanalista ginevrino Antonio Andreoli ha proposto recentemente un'idea che si muove in controtendenza rispetto
al paradigma dominante all'interno della psichiatria psicodinamica, vale a dire l'idea secondo la quale l'orientamento nosografico empirico inaugurato dalle ultime edizioni del
Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) potrebbe essere più utile della nosografia e della psicopatologia tradizionali per "fare valere l'unicità del singolo paziente e la specificità del tipo di sofferenza che lo ha portato a consultarci"
(Andreoli, 2000)" (ibid., p. 65).
In questa logica erroneamente considerata neo-kraepeliniana, la nozione di disturbo sarebbe, dice
Andreoli, la più adeguata delle rappresentazioni possibili, rendendo la moderna nosografia un attendibile e insostituibile strumento di
dialogo e scambio delle conoscenze.
In realtà, vanno considerati due punti:
1) Nella prassi clinica il DSM non salvaguarda affatto l'unicità e la specificità del singolo paziente, fondandosi su un prototipo-modello, che non possiede i prerequisiti per attribuire un quadro clinico a una data categoria. Ci si trova così in presenza di un incorretto mondo
ipersemplificato.
2) A dispetto di quanto asserito da Carl Hempel (1959/1965 APA), l'impostazione operazionale, volta ad attribuire ad ogni sintomo una definizione semplice e chiara, e a rendere conto delle operazioni per discriminare se una determinata situazione clinica corrisponda o meno alla definizione datane, resta assai problematica e, in più, ha prodotto l'eliminazione di vaste aree dell'esperienza umana, quali le nozioni di Sé e Identità, valutate come non-esistenti in quanto sottratte ad un tentativo di formulazione affidabile. Hempel infatti aveva asserito che la semplice osservazione può essere considerata una operazione, a condizione che si faccia riferimento ad aspetti del comportamento osservabili dall'esterno, eliminando ogni riferimento a operazioni introspettive e di carattere soggettivo; conseguenza: la negazione della soggettività, e rilevanza dell'esperienza interna e dei vissuti del soggetto.
3) Occorre però capire quale importanza e ruolo attribuire alla qualità dell'esperienza soggettiva.
Secondo Andreoli, in ogni disturbo psichiatrico esistono una serie di invarianti epidemiologiche, biologiche, cognitivo-comportamentali super-individuali, specifiche e quantificabili, che configurano il disturbo come malattia. Poi ci sono dei fenomeni discontinui correlati alla qualità dell'esperienza soggettiva, alle motivazioni, comunicazione familiare e interazione socio-culturale, ma questi, secondo
Andreoli, sarebbero aleatori, aspecifici e contingenti, il che fa piazza pulita di un secolo di psicopatologia
fenomenologica, del carattere di specificità e non-contingenza di certe esperienze psicopatologiche che si connotano come configurazioni invarianti dell'esperienza psicotica.
"Pretendere di inserire queste configurazioni di esperienza nell'ambito di una lista di sintomi operazionalizzabili di carattere
politetico, nella quale cioè non si tiene conto del valore gerarchico dei sintomi, significa misconoscere la loro capacità di rappresentare il mondo all'interno del quale vive il paziente psicotico e il modello di funzionamento psicotico della mente."
(ibidem, p. 67)
Ponendosi come obiettivo la classificazione delle malattie, il DSM utilizza sintomi squalificati, cioè privati di ogni qualità psicologica soggettiva, potendo così ordinare in classi qualsiasi manifestazione psichica, senza neppure tener conto che, se la classificazione ha a che vedere anche col progetto terapeutico, dato che non è possibile curare oggetti svalutati, è imprescindibile occuparsi del vissuto, di cui il sintomo costituisce solamente l'epifenomeno. Non basta saper individuare e descrivere un sintomo: bisogna recuperarlo all'interno della relazione, e per far questo è necessario passare attraverso l'individuazione-separazione, sentendo di
avere-qualcosa-di-fronte. Quindi il sintomo va trasformato in vissuto,il che implica un cambiamento di prospettiva, con l'attribuire un senso a ciò che sembra insensato, col ridargli una connotazione soggettiva, "presupposto di ogni operazione terapeutica in senso lato: cogliere questo punto cruciale di transito tra sintomo e vissuto per permettere la presa in carico e la cura del sintomo in quanto espressione di una
sofferenza." (ibidem, p. 68): è questo il presupposto di ogni relazione terapeutica.
E' stato segnalato il rischio che si formi una generazione di psichiatri gravemente carenti sul piano della formazione psicoterapeutica. Si sta dimenticando che la diagnosi di disturbo psichico passa non attraverso la biologia, ma attraverso un rapporto in cui la comunicazione è mediata dal linguaggio, sia verbale che non verbale, e questo avviene solo attraverso la relazione. Invece, nella psichiatria di oggi non si dà valore all'incontro col paziente, o al colloquio, dimenticando che, se i fatti sono quasi sempre gli stessi, la differenza sta proprio nelle parole che non servono solo a individuare i sintomi.
Occorre tenere ben presente che le categorie nosografiche del DSM sono ben poco differenziate e rispondono a un modello di classe radiale, cui manca una organizzazione gerarchica dei sintomi.E' evidente che in tal modo, per esempio, è impossibile, ad esempio, fare una diagnosi differenziale tra malattia mentale e devianza sociale. Nel modello DSM mancano due elementi:
"1) una impostazione gerarchica dei sintomi, che da un lato viene negata e dall'altro si riaffaccia surrettiziamente ad esempio nella nozione di delirio bizzarro nella schizofrenia.
2) una attenzione alla storia evolutiva individuale e alla interazione tra vicende di vita e disturbo, intendendo quest'ultimo come la migliore soluzione possibile che il paziente ha saputo/potuto trovare in quella fase della sua vita."
(ibidem, p. 71). Cioè, il DSM non dà la possibilità di organizzare una serie di dati dispersi,
sicché risulta impossibile considerare la storia individuale come anche un modo previsionale per il futuro di quella data persona.
Quindi, nel rapporto tra diagnosi e progetto la diagnosi non deve essere unicamente
criteriologica, basata solo sui sintomi, ma deve abbracciare una rappresentazione della persona. Per questo , è necessario disporre di un
modello ipotetico del funzionamento mentale, in sé e nella relazione.
A questo punto l'A introduce il termine Visioning, funzione che consiste nel produrre rappresentazioni
visualizzabili, per rendere visibile l'obiettivo, all'interno del compito, da raggiungere per mezzo di strategie idonee e con un'analisi delle caratteristiche dell'ambiente e degli individui. Confrontando realtà attuale e "visione" dell'organizzazione , si attiva una tensione creativa dinamica volta al cambiamento.
Da questa prospettiva, la diagnosi DSM è una diagnosi ateoretica e
astorica, in quanto avulsa da un contesto storico, dinamicamnete evolutivo, non inserita in una visione/progetto complessiva del paziente, quindi scarsamente utilizzabile sul piano
terapeutico-riabilitativo.
Se è vero che "l'esito dei processi riabilitativi correla principalmente con la speranza nel cambiamento del paziente, dei familiari e dei membri della équipe terapeutica, quali speranze può autorizzare una diagnosi basata sull'incrocio di
items come "eloquio disorganizzato", "allucinazioni" o presenza di una disfunzione sociale/lavorativa?"
(ibidem, p. 73).
Invece di limitarci ad accedere ad una serie di informazioni sulla realtà, guardare la situazione con lo "sguardo
fenomenologico" potrebbe svelare aspetti imprescindibili e contribuire a concretizzarli in eventi dotati di senso, prescindendo anche dai supporti diagnostico/statistici strutturati. Avremmo così una clinica
visionana, non arbitraria, ma trascendente, dotata di una capacità poietica che trasfigura le esperienze vissute, costituendole in eventi dotati di senso, una clinica dell'ascolto che conserva in uno spazio protetto, che come tale rende possibile il costituirsi di quella funzione di "spettatore
fenomenologico" di sé che manca nella psicosi.
L'A ricorda a questo punto come la specificità della psicopatologia generale risieda nel cercare di delineare configurazioni di esperienze interne organizzate attorno a un nucleo di significato, indipendentemente dalla loro attribuzione
nosografica.
Un visioning clinico psicopatologicamente orientato permette una rappresentazione del paziente come qualcuno che vive all'interno di un mondo con sue caratteristiche specifiche; rappresentazione che non sarebbe più affidata solo alla visionarietà del clinico, bensì anche "al reperimento di configurazioni di esperienze soggettive che si collocano in maggiore o minore prossimità con gli organizzatori psicopatologici descritti dalla psicopatologia continentale da quasi un
secolo." (ibidem, p. 77).
Così il visioning clinico, oltre a provvedere alla diagnosi, diviene punto di partenza di un iter
trasformativo, con delle mete realistiche, perseguite nella dimensione della relazione, e non in una mera rappresentazione della persona.
Giovanni Foresti,
Appartenente all'AFaR (Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca),
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Mario Rossi Monti,
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