Tesi di Laurea di Laila Fantoni
Il minore sessualmente abusato: vicende processuali e trattamento terapeutico
Conclusioni
A conclusione del mio studio sull'accertamento e l'intervento delle istituzioni italiane di fronte ai casi di minori presunte vittime di abusi sessuali emerge chiaramente come, nonostante vi sia stata una maggiore attenzione al "problema sommerso" dei maltrattamenti, delle violenze e negligenze nei confronti dell'infanzia, ancora vi siano varie problematiche da risolvere.
Il documento Proposte di intervento per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del maltrattamento, elaborato nel 1998 dalla Commissione nazionale per il coordinamento degli interventi in materia di maltrattamenti, abusi e sfruttamento sessuale di minori, segnala in particolare alcuni problemi che anch'io ho riscontrato, attraverso la mia ricerca, nella realtà italiana.
1) Manca, nelle varie realtà territoriali italiane, un coordinamento tra i vari professionisti che operano di fronte ad un caso emerso, al fine di evitare inutili sovrapposizioni di attività e per prevenire disarticolazioni dell'intero processo d'intervento: è importante, dunque, progettare un modello operativo comune, su base nazionale (oggi presente solo in alcune realtà territoriali come protocollo regionale), che unifichi il lavoro degli operatori e far sì che tale progetto venga poi utilizzato effettivamente nella prassi; è necessario anche favorire una specializzazione comune tra i vari operatori affinchè essi possano avere una conoscenza condivisa dell'oggetto di cui si devono occupare. Devono essere inoltre realizzati "canali di comunicazione" che facilitino la segnalazione dei casi di sospettata violenza su un minore e, nello stesso tempo, la richiesta di aiuto non solo da parte della vittima ma anche delle persone a lui vicine. Dobbiamo prendere atto, infatti, che ci sono molte remore a rivolgersi ai servizi pubblici ed i motivi sono molteplici: perché il servizio non è facilmente individuabile; perché il servizio pubblico, una volta contattato, è obbligato a fare rapporto all'autorità giudiziaria e si ritiene dai più che un intervento penale non sia sempre vantaggioso per il minore; perché si teme una burocratizzazione dell'intervento; perché i servizi pubblici sono ritenuti più strumenti di controllo che di aiuto.
Tutto questo deve portarci a concludere che sono necessarie strutture specializzate, ben collocate sul territorio, che sappiano fornire l'aiuto adeguato al caso proposto e che riescano a collegarsi con gli altri operatori in modo da formare una vera "integrazione tra servizi".
2) Manca, inoltre, una procedura univoca per raccogliere e valutare la testimonianza del minore presunta vittima di abuso: non soltanto la figura dello psicologo non è stata ancora accolta in tutte le realtà territoriali come soggetto che pone le domande al minore nell'interrogatorio, essendovi un dibattito (come ad esempio vi è a Potenza) sulla legittimità di tale procedura che pone tale operatore come "filtro" rispetto alla valutazione del giudice, ma non sono utilizzati ovunque neanche i criteri per valutare la veridicità del resoconto testimoniale del minore (CBCA e SVA). Questo però comporta che un fatto simile è valutato diversamente a seconda del luogo in cui vengono compiuti l'accertamento e l'intervento conseguente.
È auspicabile, dunque, la predisposizione di protocolli d'intervento per la raccolta e la valutazione della testimonianza del minore, su base nazionale e specifici per i vari settori, che siano validati dalle ricerche e dal lavoro dei vari esperti sul campo e che riescano a tutelare gli interessi del minore coordinandoli con quelli dell'imputato. Oggi infatti esistono in Italia solo linee-guida generali sull'argomento, come quelle elaborate in Gran Bretagna, che nella prassi vengono seguite in varie realtà territoriali ma non perché ciò sia imposto da una regola di procedura a base nazionale.
È necessario superare l'emotività.
Oggigiorno la collettività sta prendendo coscienza dei molti abusi fisici e psicologici che vengono compiuti a danno dell'infanzia, ma tutto ciò, insieme anche all'attività di stampa e televisione, crea un "clima emotivo" che rischia di rendere del tutto sterile questa presa di coscienza del problema. Vi è il forte rischio che l'emozione e l'indignazione restino "epidermiche" se si fermano ad osservare il fenomeno dal punto di vista esteriore. Questo potrebbe portare, alla fine, a considerare la violenza sui minori come una delle tante notizie che appaiono sui nostri giornali e, quando anche la nostra indignazione morale sarà satura, allora nessuno più si scandalizzerà di sentire che un minore è stato abusato da un genitore.
È dunque necessario un'approfondimento culturale ed un impegno di indagine riguardo a tale problema: dovrebbero essere attivati, nelle varie parti d'Italia, degli osservatori sull'infanzia in collegamento tra loro, i quali dovrebbero cercare di realizzare un'attività di prevenzione (soprattutto nei confronti dei bambini a rischio), creando anche adeguate strutture territoriali che si occupino del problema dal punto di vista pratico.
4) Bisogna riuscire ad abbattere la "cortina del silenzio" che ancora esiste sui casi di abuso sessuale ai minori, facendo emergere dal sommerso i tanti casi di abuso non denunciati esplicitamente. Questo significa innanzitutto mostrare una sensibilità più profonda nei confronti di questo problema. È infatti facile esprimere indignazione di fronte ad un episodio eclatante di violenza presentato dai mezzi di comunicazione, ma poi quando il fenomeno si presenta in forme più nascoste oppure quando è proprio vicino alle nostre case allora il cosiddetto "rispetto della privacy" si traduce in sostanziale omertà.
Far crescere la sensibilità delle persone su questi problemi - perché siano più capaci di rendersi conto delle violenze di cui sono vittime molti minori - significa, in primo luogo, diffondere una corretta informazione sui temi della identificazione e della prevenzione delle violenze all'infanzia. Tale informazione deve essere rivolta, da una parte, a tutti (e perciò i mezzi di comunicazione sono chiamati a svolgere un ruolo educativo essenziale, abbandonando sensazionalismi controproducenti) ma, dall'altra, specificamente a coloro che hanno quotidiani contatti con i bambini (pediatri, insegnanti, operatori sociali) e che possono accorgersi per primi di un loro cambiamento d'umore o di segni fisici sospetti.
Far crescere la sensibilità implica anche un'adeguata diffusione della conoscenza reale del bambino e dei suoi bisogni e questo dovrebbe essere l'obiettivo dell'attività svolta dai media, dalla scuola e dalle varie strutture di assistenza sociale (in particolare dei consultori familiari).
Non va enfatizzato l'intervento penale.
Di fronte alle ricorrenti notizie di violenza all'infanzia l'immediata conseguenza è la richiesta, da parte dell'opinione pubblica, di un inasprimento della sanzione penale, ritenuta la più idonea a contrastare tale fenomeno.
La previsione di una sanzione penale per certi comportamenti evidenzia - da una parte - come, per la collettività, alcuni beni della vita abbiano una tale rilevanza da esigere una pesante sanzione come quella connessa alla responsabilità penale e - dall'altra - pone dei precisi limiti, che devono ritenersi invalicabili alla libertà dell'individuo. Si realizza così una rilevante funzione pedagogica nei confronti del costume collettivo.
Ma non possiamo per questo enfatizzare ed incrementare l'intervento penale. In primo luogo perché, nella società attuale, si riconosce sempre più che il diritto non ha, come si riteneva in passato, soltanto la funzione di proteggere gli atti leciti tramite la repressione degli atti illeciti, ma tende sempre più a stimolare ed incentivare l'esercizio degli atti conformi, cioè di quegli atti che possono dare risposte appaganti ai problemi della persona.
In secondo luogo perché, in un ambito così complesso e delicato come quello dello sviluppo delle persone e della funzione educativa, sanzionare un comportamento illecito non significa affatto che il comportamento auspicato sia realizzato. E questo sia perché ci sono dei comportamenti illeciti che non possono rientrare in specifiche norme incriminatrici (ad esempio molte attività educative di genitori, caratterizzate da forti condizionamenti e deprivazioni del minore), sia perché la mera possibilità di una sanzione penale non scoraggia la commissione di reati posti in essere nei confronti di persone che non sono in grado di esprimere adeguatamente la propria sofferenza. Questi comportamenti, inoltre, vengono compiuti in un ambiente come quello familiare che resta impermeabile al controllo sociale e quindi alla possibilità di portare alla luce l'illecito.
Infine perché l'irrogazione di una pena non solo non ripara l'ordine violato, ma è a sua volta motivo di drammatiche conseguenze proprio per la vittima del reato.
Con tutto ciò non si vuole però bandire ogni intervento penale a tutela del minore: si vuole invece incentivare una tutela del minore "reale e costruttiva" da parte dell'ordinamento, principalmente attraverso interventi di sostegno, recupero e prevenzione.
Bisogna uscire da un'ottica puramente assistenziale.
La violenza all'infanzia non è un problema autonomo rispetto a quello più generale della violenza presente nella nostra società. Dunque, per poter combattere il primo fenomeno non si può prescindere dall'individuazione delle cause sociali, psicologiche e culturali dalle quali deriva l'aggressività umana.
La violenza sui minori costituisce, sicuramente, il segnale di una profonda alterazione della normale dinamica della vita familiare e sociale. È necessario, quindi, realizzare una ristrutturazione delle relazioni che la famiglia di oggi possiede e realizza nel suo ambiente. Questo implica un intervento coordinato tra momento politico e momento assistenziale, ma anche un coinvolgimento in questa azione comune di tutti i servizi di socializzazione e di sostegno del minore e della sua famiglia e di tutte le risorse comunitarie che spontaneamente operano sul territorio. Non dobbiamo infatti pensare che la violenza all'infanzia possa essere contrastata solo operando una migliore distribuzione dei servizi o una loro maggiore specializzazione e privatizzazione. Questo perché un'eccessiva specializzazione dei servizi nei confronti dei bambini maltrattati se da un lato forma operatori con un'adeguata competenza, dall'altro rischia di frammentare l'unitarietà di un intervento complesso che deve, invece, prendersi in carico tutti i problemi connessi alla vita di relazione del nucleo familiare in cui il minore vive.
Dunque, se si vuole prevenire la violenza all'infanzia è indispensabile uscire da "un'ottica meramente assistenzialistica" che rischia di esaurirsi in un intervento sulle situazioni patologiche individuate, senza risolvere veramente i problemi. Non è perciò sufficiente moltiplicare i servizi, istituzioni educative e risorse comunitarie: certo è auspicabile una migliore organizzazione dei servizi esistenti, ma nessuna "ingegneria sociale" potrà da sola realizzare risposte veramente esaustive.
Quello che dovrebbe essere fatto consiste nella creazione di una significativa "rete di solidarietà" tra i membri della comunità, che potrà fornire al minore tutto ciò di cui ha bisogno: dunque, deve essere predisposto un "progetto" sostenuto e condiviso da tutta la comunità.
È necessario costruire e diffondere una "nuova cultura dell'infanzia", in cui il bambino venga considerato come "valore" da proteggere. Nella società di oggi, infatti, vi sono numerose sub-culture riduttive della sua personalità e delle sue esigenze: ad esempio è ancora forte la sub-cultura "della Grande madre", in cui il bambino è simbolo di massima espressività femminile e per questo ad essa ricollegabile, oppure anche quella di tipo patriarcale-autoritario, la quale impone rilevanti limitazioni alle possibilità di espressione del bambino. È dunque necessario il superamento di tutte le varie sub-culture esistenti nella nostra società in quanto sono radicate su aspetti limitati della realtà globale del bambino; dovremmo riscoprire, invece, i bisogni della sua personalità nel suo complesso e quindi non solo riconoscere le sue reali esigenze, ma anche riconoscerlo come protagonista della sua esistenza.
Costruire una simile nuova cultura dell'infanzia non può, però, essere un compito esclusivo degli specialisti delle varie discipline che si occupano del minore e delle sue esigenze; è necessaria anche la partecipazione della collettività nel suo complesso. E questo non solo per rompere quella progressiva deresponsabilizzazione che impedisce agli "adulti senza qualità e senza ruolo" di sentire come proprio il problema; ma principalmente per essere aiutati a scoprire la realtà del bambino da chi, vivendo quotidianamente il suo normale percorso di crescita, può più facilmente intuirne le esigenze e valorizzarne le potenzialità.
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