Tesi di Laurea di Roberta Ganzetti
GAETANO BENEDETTI: IL SIMBOLO E LA STRUTTURA
DELL'INCONTRO
NELLA TERAPIA DELLE PSICOSI
CONSIDERAZIONI PSICOPATOLOGICHE SULLA RELAZIONE
SIGNIFICANTE-SIGNIFICATO
Dove si colloca, dov'è radicata l'incapacità dello schizofrenico di distinguere tra significante e significato, tra immagine e realtà, tra contenente e contenuto?
Benedetti ci parla di una matrice di confusione dell'identità del paziente con quella altrui, di una confusione tra Io e non-Io. La frammentazione dell'Io e del mondo porta poi, nei pazienti schizofrenici a neoformazioni, processi di neosintesi, nei quali i frammenti dell'Io si ricombinano tra loro in modo patologico. A tal proposito Benedetti scrive: "Il simbolo schizofrenico è dovuto alla fusione di frammenti di concetti diversi in nuove categorie di rappresentazioni psichiche"(1), mettendo in rilievo il fatto che l'Io schizofrenico avrebbe una debole capacità di coesione interna nello strutturare un concetto. Questa bassa tensione integrativa, come la definisce l'autore, fa in modo che concetti molto vicini tra loro si tocchino ed arrivino a fondersi secondo uno schema ipotetico esplicitato anche in questi termini: "Se AB e CD sono due concetti affini e se la coesione interna tra A e B e tra C e D è debole si avrà non solo una frattura tra A e B, tra C e D, ma anche la possibilità di nuove transitorie organizzazioni come ad esempio AC, AD, BC, BD. Queste nuove organizzazioni pseudoconcettuali sono i simboli schizofrenici".()2)
Ora, però, vorrei ritornare alla domanda iniziale ed addentrarmi un po' di più nella descrizione del processo psicopatologico per cui il soggetto psicotico confonde il suo Sé con il non-Sé.
Freud vide nella psicosi una rottura tra l'Io e la realtà esterna, determinata dalla pressione esercitata dalle richieste dell'Es sull'Io. L'Io poi, non essendo capace di rimuovere tali pressioni, soccombe all'Es ed in seguito si recupera, ma solo in modo parziale, nel delirio con la costruzione di una nuova realtà. Freud ha parlato di dissociazione della libido dall'oggetto, quindi di perdita dell'investimento oggettuale che nel caso di un oggetto, per esempio, rifluirebbe alla rappresentazione verbale di esso; quest'ultima aumenta di spessore fino a che la parola diviene la cosa e non più simbolo di essa.
Una tale concezione della confusione tra Io e non-Io viene per esempio superata da Federn, il quale non si riferisce alla libido, bensì ai confini dell'Io ed alla loro erosione e dissociazione. Federn sottolinea il fatto che la disintegrazione dei confini dell'Io esterni porta il soggetto a confondersi con l'oggetto, mentre per ciò che concerne i confini dell'Io interni si prospetterebbe l'emergere di stati psichici arcaici nella coscienza.
Proseguendo con le diverse teorizzazioni, Benedetti cita il contributo della Klein che ipotizzava esserci nella schizofrenia una espulsione attiva da parte dell'Io di rappresentazioni mentali disturbanti (oggetti cattivi) grazie al meccanismo di difesa della proiezione paranoide a cui faceva seguito quello della identificazione proiettiva. Sembrerebbe quindi che i meccanismi proiettivi psicotici siano provocati solo dal bisogno di espellere questi oggetti cattivi o di proteggere quelli buoni minacciati da una distruzione interna.
A questo punto, però, la Mahler sottolinea che tali fenomeni proiettivi sono un aspetto della relazione simbiotica con il mondo e, avvicinandoci alle intuizioni della psicoanalisi più recente, Benedetti riporta alcune osservazioni di D. Stern che si riallacciano al concetto Malheriano di simbiosi.
Il bambino nei suoi sei primi mesi di vita vivrebbe in uno stato di simbiosi con la madre che però non esaurirebbe tutte le sue capacità; infatti egli comincia a disporre di un suo proprio senso di sé. Tale senso di sé è stato da questo autore descritto molto dettagliatamente proponendo una genesi evolutiva a partire da un'età precocissima, dai due mesi. Ciò che è interessante anche per l'allacciamento con il pensiero di Benedetti è il fatto che entro questi sei mesi il bambino svilupperebbe un senso essenziale di sé come separato dalla madre passando da momenti in cui è separato dal sé materno a momenti in cui è in simbiosi con esso.
Qui il modello di Benedetti si inserisce nel discorso psicoanalitico proponendosi di evidenziare come avviene l'integrazione fisiologica tra il Sé simbiotico ed il Sé separato. Tale integrazione, nell'ottica dell'autore avverrebbe attraverso l'inizio dei processi di simbolizzazione, nel momento in cui si rende possibile la formazione di un'immagine speculare del Sé nell'interazione con la madre. L'immagine del Sé si svilupperebbe, poi, passando da protosimbolo, in uno stadio della vita ancora incosciente, fino a diventare il simbolo del Sé, ossia l'Io, al quale Benedetti consegna l'importante funzione di modificarsi nell'incontro con il mondo esterno conservando un nocciolo protetto e invariabile.
L'origine di tale immagine speculare del Sé è rintracciata da Benedetti circa nella fase dello specchio di Lacan, attraverso la quale tra i sei ed i diciotto mesi il bambino arriva alla progressiva conquista dell'identità. Lo stadio dello specchio si configura come il primo abbozzo della soggettività attraverso l'immaginario per cui avviene la prima identificazione tra il bambino e la sua immagine.
Considerando il particolare modo di trattare il simbolo che si osserva in taluni pazienti è possibile ipotizzare che cosa succede nella psicosi. Come ho già sottolineato, il pensiero schizofrenico è stato spesso descritto come pensiero simbolico; ma cosa fa in modo che il simbolismo schizofrenico si distingua da quello normale? Benedetti rintraccia nei suoi pazienti una incapacità di tradurre in forme razionali ciò che essi esprimono attraverso il simbolo appunto senza distinguerlo dalla realtà. Se il simbolo perde la sua capacità di "proteggere" il soggetto, non innestandosi più nella sua vita come il mezzo per superare l'ordine costituito delle causalità, da un lato la realtà diviene tragicamente insuperabile e dall'altro il pensiero immaginario che attinge agli stati profondi dell'affettività e dell'inconscio emerge con tutta la sua forza, non più solo evocativa, ma con statuto di realtà.
Tornando al conflitto predominante nella schizofrenia, che scaturisce anche dall'osservazione di come il paziente utilizza il simbolo, Benedetti rileva che si tratterebbe di un conflitto tra rappresentazioni precocemente separate del Sé e rappresentazioni del Sé fuse con l'oggetto. La declinazione del rapporto simbiosi-separazione viene interpretato nei termini di una non-integrazione dei due stati. Il conflitto, dunque, impedisce la dialettica tra stato separato e stato simbiotico del Sé.
Attraverso una tale concettualizzazione, Benedetti si discosta da coloro che comprendono la schizofrenia come fissazione ad uno dei due momenti del processo di personazione. A differenza di Minkowski, il quale afferma che il paziente non è transitato attraverso la fase simbiotica ed è fissato a quella autistica e a differenza della Mahler per la quale il paziente non si è mai separato, per Benedetti il paziente vive la simbiosi che lo dissolve e vive la separazione che lo pietrifica.
E così, allora, il simbolo da un lato viene immediatamente ricondotto al simbolizzato, la vicinanza semantica si trasforma in identità e, dall'altro assume una struttura rigida, invariabile, per far fronte alla minaccia della trasformazione e della dissoluzione. Quando un' immagine viene usata dal paziente in modo asimbolico, quando non è più figura per qualcosa che in essa si rispecchia senza esserle identica, ci troviamo in una situazione di fusione, ossia di perdita della naturale separazione tra soggetto e oggetto. Il dito suppurato della paziente di Arieti non rappresenta semplicemente il suo Sé malato, ma è lei stessa. Contemporaneamente l'immagine, assumendo tutto il "peso" della realtà e ancor più essendo diventata l'unica realtà per il soggetto, non è influenzabile; come ho detto prima, si irrigidisce e, pur nel suo essere ai nostri occhi non pienamente condivisibile, permette al paziente di esistere come essere separato.
Nell'adulto, quando lo stato separato e quello simbiotico del Sé sono ben integrati vanno a creare un Sé unico ed armonico che è la base dell'incontro interpersonale. Per Benedetti quando due persone si incontrano il Sé separato di una riceve e trasmette informazioni al Sé separato dell'altra; lo scambio è tollerabile se contemporaneamente l'incontro avviene su un piano inconscio attraverso il Sé simbiotico che a tale livello crea l'illusione di essere l'altro. Simbiosi (narcisismo) e relazione oggettuale sarebbero ad un tempo presenti come momenti di un modo sano di entrare in rapporto con gli altri. Nella psicosi Benedetti ipotizza una de-integrazione tra i due stati del Sé e la conseguente perdita dell'immagine inconscia del proprio Sé.
Che rapporto ha tutto questo con il disturbo della simbolizzazione?
La perdita patologica dell'immagine di Sé non permette al paziente di avere il vissuto di un Sé invariabile che si organizza come struttura autonoma. " Il paziente ci dice di sentire come se il suo Io si rompesse in due, tre pezzi; come se esso fosse bucato, traforato, come se qualcuno avesse sparato attraverso di esso"(3)
Mancando la possibilità di sentire questo Sé invariabile, il paziente non è più protetto dalle influenze esterne e la realtà, che naturalmente ricerca, agisce su di lui e lo determina causalisticamente soprattutto per il fatto che i simboli si trasformano in segni.
Il simbolo unisce in sé momenti di separazione e momenti di rapporto ed anche etimologicamente indica la riunione nella separazione. Lo schizofrenico non riesce ad utilizzare una tale modalità di entrare in contatto con i suoi oggetti perché la separazione diviene l'assolutamente altro e la riunione si configura come fusione.
Una catastrofe anche invisibile familiare, sociale o intrapsichica potrebbe aver incontrato un ordine simbolico impreparato a registrarla e ad elaborarla. Un tale evento traumatico non è, quindi, stato trascritto semanticamente nell'inconscio, ma è stato vissuto, sofferto al pari dello "straripamento di un fiume in piena". Il paziente non ha la possibilità di comprenderlo o di rimuoverlo. L'inconscio non lo può trasformare in fantasia.
Da tutto ciò emerge un'immagine; essa non può essere riconosciuta come immagine del sé sofferente, ma diviene allo specchio del mondo un'immagine di esso che potrebbe apparire anche a livello percettivo come allucinazione.
"La Verwerfung dell'esperire, come direbbe Freud, la forclusione, nel linguaggio di Lacan, impedisce la trascrizione degli eventi in un inconscio che potrebbe costituire, dietro la realtà convenzionale e la sua pretesa di essere l'unica possibile, l'Altra Realtà".(4)
Il ponte che fa in modo che per ogni significante esista un significato più azzeccato degli altri è saltato, nella schizofrenia.
Da una parte, allora, si verifica una iperattività della fucina dei significanti (A. Racalbuto) alla ricerca disperata di un senso, di una identità. La vitalità accesa che appare inesauribile e che forse contraddistingue la creatività dei pazienti schizofrenici non è stata "incanalata", ha assunto una forma di esperienza vissuta tragica nel suo non essere condivisibile e non ha potuto essere utilizzata per gettare le fondamenta di quel ponte che collega il sé con il non-Sé, la presenza e l'assenza.
La perdita dell'immagine inconscia del Sé o, in altri termini la perdita del primo simbolo, quello del Sé, mi sembra possa esprimersi anche come perdita di un ipotetico centro nel senso che il significante non ha più la possibilità di riferirsi al "suo" significato. Ma la perdita del Sé è anche qualcosa di insopportabile, di intollerabile, il paziente utilizzerà tutti i suoi significanti come significati per ripararla fino alla costruzione di una realtà privata, il delirio, come esistenza ritrovata, unica possibilità di essere nel mondo. A questo proposito vorrei citare un passo di Salomon Resnik nel quale, questo autore, sottolinea la relazione tra la simbolizzazione e la perdita: "Immaginare, metaforizzare la realtà, simbolizzare, rappresentare il mondo, è fondamentalmente un'esperienza di lutto"(5)
Intorno a questa esperienza di lutto, che nel paziente potrebbe essere fallita, succede qualcosa che va nella direzione dell'annullamento delle distanze, dello spazio tra le cose, le frustrazioni divengono intollerabili; il paziente, se posto davanti alla nostra realtà, nel tentativo di risolvere l'impatto con l'alterità si frantuma o si ristruttura attraverso una costruzione "delirante". La perdita, oltre a non essere elaborata, viene magicamente negata ed al suo posto si ingenera una modalità di pensiero che non lascia più spazio e distanze tra le cose. In tal senso mi pare che si possa dire con Lacan che ci troviamo di fronte ad una "mancanza della mancanza".
"Il symbolon propone un confronto tra l'essere e il non-essere, tra l'essere e il corpo e l'essere del mondo. Uscire nel mondo vuol dire spaziarsi (RAUMHEIT), lanciarsi (BALLEIN), verso l'imprevisto, l'ignoto".
Nascere significa andare al di là dei limiti, accettare l'avventura ed il rischio di dirigersi verso l'altro, di andare verso il mondo; nascere implica il riconoscimento che la morte fa parte della vita, ogni progetto porta in sé, in un certo qual modo, un'esperienza di perdita. Martin Heidegger spingendosi radicalmente in questa direzione scrisse che la vita autentica è essere-per-la-morte, dove la morte non è semplicemente il venir meno di una presenza: essava compresa come quella possibilità ultima che l'esserci assume da quando nasce, come quella "imminenza" che "sovrasta" la sua vita e che coinvolge da cima a fondo il suo essere.(6)
Note:
1) BENEDETTI GAETANO, "Alienazione e personazione nella psicoterapia della malattia mentale", Giulio Einaudi editore, Torino, 1980, p.68
2) BENEDETTI GAETANO, "Alienazione e personazione nella psicoterapia della malattia mentale", Giulio Einaudi editore, Torino, 1980, p.68
3) BENEDETTI GAETANO, "Alienazione e personazione nella psicoterapia della malattia mentale", Giulio Einaudi editore, Torino, 1980, p.29
4) BENEDETTI GAETANO, "Paziente e terapeuta nell'esperienza psicotica", Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pag.43
5) RESNIK SALOMON "L'esperienza psicotica", B. Boringhieri, Torino, 1996, pag. 50
6) HEIDEGGER MARTIN "Essere e tempo" Traduzione a cura di A. Marini, Longanesi Milano, 1970, cit.
"La morte è una possibilità di essere che l'esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l'esserci sovrasta a se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l'esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. La morte è per l'esserci la possibilità di non poter più esserci. Poiché in questa possibilità l'esserci sovrasta a se stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poter-essere più proprio."
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