Donne derubate della loro identità Carla Di Francesco
Un notevole numero di persone si confronta nella propria vita con eventi altamente stressanti che possono rappresentare veri e propri traumi. Il confronto con tali esperienze traumatiche può lasciare ferite che si rimarginano o segni indelebili che possono cronicizzarsi, compromettendo la normale funzionalità di un individuo. Quando si parla di trauma possiamo distinguere il trauma fisico e psicologico. Il primo è facilmente riconoscibile, l’individuo o il bambino, sono oggetto di aggressioni e riportano lesioni visibili sul corpo. Il trauma psicologico è più difficile da identificare, se non quando ha già determinato effetti gravi sullo sviluppo della personalità del bambino o ha compromesso la normale funzionalità dell’individuo. Sarà dato particolare rilievo alla tematica del “trauma psicologico”, con riferimento agli effetti sulla mente e sulla costruzione dell’identità, prodotti da un evento fisico, psicologico o sociale altamente stressante, quindi ad eventi oggettivamente estremi. E’ importante ricordare tuttavia, pur se non è trattato in questo articolo, che le osservazioni cliniche hanno mostrato che esistono persone che presentano chiaramente sintomatologie post-traumatiche pur non essendo stati esposti ad eventi oggettivamente estremi. Questo ha permesso di circoscrivere le condizioni in grado di generare traumi psicologici a fattori soggettivi, piuttosto che alle caratteristiche oggettive degli eventi subiti. Di particolare rilievo, tra i fattori che intervengono nella costruzione dell’identità di una persona, riconosciamo il periodo infantile. Può essere quindi attribuito un ruolo centrale alle figure genitoriali e alle loro cure. Similmente diamo un significato traumatizzante quando nella storia di un bambino compaiono segni di non appagamento dei bisogni di dipendenza, oppure riscontriamo il vissuto esperienziale di acute deprivazioni, in cui l’infante sperimenta una minaccia per la propria incolumità fisica e psicologica. Il risultato di tale esperienza traumatizzante è l’angoscia di una frammentazione interna, di una paura terrifica, la quale produce un’esperienza di annientamento e disintegrazione. Secondo questa discriminazione specifica dell’evento in grado di generare un trauma psicologico in età infantile, indicherò con il termine trauma ogni esperienza che causa nel bambino una sofferenza o un’angoscia psichica intollerabile. Quando il trauma colpisce la psiche del bambino in fase evolutiva, si verifica una frammentazione tale che una parte della struttura psichica del bambino regredisce ad un periodo ancor più infantile e un’altra parte progredisce troppo velocemente, si adatta cioè precocemente al mondo esterno, e frequentemente si è potuto constatare, in questi bambini, la formazione di un falso sé, secondo la definizione di Winnicott (1960). Riporterò due esempi clinici per percorrere insieme ciò che accade nel mondo interno di un bambino in conseguenza ad un trauma, le immagini che compaiono e cosa esse rappresentano per lui. I nomi utilizzati nei due esempi clinici sono ovviamente inventati. Il primo riguarda Ambra, sei anni, in trattamento analitico per abuso extrafamiliare, il secondo caso, Marco, nove anni in trattamento analitico per disturbi emotivi e difficoltà relazionali, conseguenti, ma non unicamente, alla separazione, altamente conflittuale dei genitori. Per quanto attiene al trattamento analitico di bambini, ma valido anche per adolescenti e adulti, utilizzo oltre alla terapia verbale e all’analisi del sogno, il metodo del “gioco della sabbia” (Sand Play Therapy). Questo metodo è importante in una prima fase del trattamento, in cui domina il pensiero concreto, quando la coscienza non vuole accogliere ciò che giace nel fondo della memoria, provocando al tempo stesso danni psichici e sofferenza e bloccando un sano sviluppo della personalità. La sabbiera diventa il temenos, il luogo dove possono essere reintegrate tutte le parti scisse della personalità. Il paziente sceglie, tra le numerose miniature a sua disposizione per giocare nella sabbia, quelle che costituiscono delle immagini significative e che rappresentano in quel momento “il linguaggio” della sofferenza psichica, inesprimibile verbalmente. Il quadro di sabbia che ne deriva, è una sintesi di interno ed esterno, di psichico soggettivo e di psichico oggettivo. Questa tecnica non verbale, nella prima fase del trattamento, ha permesso ad Ambra, , di recuperare l’accudimento primario di cui era stata deprivata. La regressione, nella situazione analitica, diventa un ritorno organizzato, in uno spazio protetto, alla dipendenza primitiva. Dal narcisismo primario, dove è l’ambiente a sostenere il bambino, è possibile progredire di nuovo: il vero Sé è in grado di affrontare le situazioni di carenza ambientali senza organizzare difese che si avvalgono di un falso Sé per proteggere il vero Sé. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 1999, nella classificazione delle forme di abuso sui minori, ha riconosciuto nella patologia delle cure, una forma di maltrattamento all’infanzia. Si è concordi nel ritenere che tutte le forme di abuso incidano sullo sviluppo fisco, psicologico, emotivo, comportamentale e relazionale del minore, destabilizzando e condizionando la personalità in formazione di un bambino. I quadri di sabbia realizzati da Ambra, nel corso del primo anno di terapia, erano caratterizzati da immagini genitoriali che accudivano un neonato in culla a cui la stessa forniva nutrimento, calore e protezione. Immagini di piccoli animali domestici, in cui lei stessa si identificava, collocati all’interno di una casa, dove il fuoco e il calore domestico erano scene predominanti. Nella seconda fase del processo analitico Ambra ha potuto reintegrare a livello intrapsichico, ciò che aveva scisso, rimosso e negato, come conseguenza dalla sofferenza della ferita In questa fase del processo analitico, Ambra ha realizzato quadri di sabbia con scene disorganizzate e caotiche, in cui il contenuto narrativo non era in linea con il vissuto emotivo. Cacciatori seppelliti, mostri, personaggi fiabeschi come Pelle d’asino. Immagini demoniche e predominanti proiettate nella sabbiera. Tutto ciò letto in termini simbolici e dinamici ha offerto una fotografia di quel persecutore interno, rappresentativo, del tormentato mondo interno di Ambra. Attraverso le immagini, che via via emergevano nella sabbia, Ambra si è potuta permettere di “incontrare” i fantasmi, persecutori interni, che l’avevano danneggiata a livello intrapsichico. Per Ambra averlo potuto dire, non con le parole, ma con il corpo, con le mani, attraverso la simbolizzazione delle immagini dal mondo interno ferito, le ha permesso di integrare quel non-detto incistato, che impediva all’energia psichica di circolare liberamente e creativamente, liberarsi così anche dall’angoscia devastante causa del suo stato dissociativo. Marco, un bambino di nove anni è figlio unico di genitori separati, la cui relazione è altamente conflittuale. Ha rappresentato, per lungo tempo, nella cassetta di sabbia, scene in cui un grande muro divideva perfettamente a metà la sabbiera, nessuna possibilità di contatto, di comunicazione tra le due scene rappresentate. Rispettivamente nelle due metà, erano collocate abitazioni fatiscenti. Siamo di fronte ad una scissione, quale difesa necessaria a Marco per proteggersi dall’angoscia conseguente al trauma della separazione e a due rappresentazioni genitoriali non integre, non sufficientemente valide per il contenimento angoscioso del bambino. Soltanto attraverso il gioco e la rappresentazione simbolica Marco si è potuto permettere di accedere agli aspetti angosciosi e riparare la ferita che la separazione, ma ancor più, l’alta conflittualità genitoriale avevano provocato, facendo insorgere in lui tratti emotivi particolarmente disturbanti. Ritengo dunque che non sia sufficiente proteggere il bambino dalle carenze di un ambiente che non sostiene, ma è fondamentale recuperarlo psicologicamente, proteggendolo da un mondo interno minaccioso. Sarebbe così possibile prevenire che bambini deprivati, incapaci di autoprotezione, diventino vittime di abusi. Tema centrale di questo articolo è la donna. L’analisi del mondo interno ferito di un bambino, ha permesso di mettere in evidenza come l’evento traumatico costituisca non solo un attacco ai legami esistenti e alla capacità di crearne di nuovi, perniciosi, danneggiando così la funzione di relazione, ma anche come gli eventi della vita di un bambino siano correlati con l’adulto che diventerà. Non di minore importanza, anzi direi fondamentale per un bambino, è ricevere l’accudimento da un genitore empaticamente attento, affinchè egli possa costruire un attaccamento sicuro, quale elemento indispensabile per la base dell’organizzazione del Sé . Leggiamo sempre più spesso di donne maltrattate, storie di violenza e di abusi. I dati sull’argomento mettono in evidenza che si tratta di un fenomeno che riguarda più la vita domestica che non le nostre strade. Si tratta di una violenza che spesso si consuma tra persone che si conoscono, magari da lungo tempo, tra coppie consolidate, tra marito e moglie. Quando incontro una donna ferita da un trauma, per comprendere il dramma che racconta, immagino e penso alla bambina che è stata, alla sua storia e ai legami relazionali che hanno intessuto la sua vita infantile. Come appare evidente dai dati sull’argomento, si tratta quasi sempre di un fenomeno che riguarda donne che hanno introiettato un modello abusante di relazione, e che ha indotto quella donna in età adulta a scegliere inconsciamente dei patners simili all’antica figura abusante, di cui lei stessa è incapace di comprenderne le dinamiche di relazione. Dati clinici ci mettono a conoscenza che la violenza di genere ha un impatto devastante sullo sviluppo psicologico delle donne, le quali mostrano alterazioni fisiologiche, senso-motorie, emotive, cognitive e affettive, livelli maggiori di bassa autostima, scarsa capacità di affermazione e paura del rifiuto. La violenza e l’abuso influenzano, in queste donne, anche la capacità di legarsi e di comprendere e manifestare i propri sentimenti apertamente con la conseguenza di restare coinvolte in relazioni non salutari ed inappaganti. Vi è quindi maggiore possibilità per loro di restare intrappolate in storie d’amore negative e patologiche lungo tutto il corso della vita. Verosimilmente le dinamiche che ho potuto osservare in ambito clinico confermano la messa in atto, da parte di queste donne, di comportamenti contraddittori, come ad esempio la costanza nel perseverare in relazioni dannose, condizione causata dal dolore del trauma mai affrontato e risolto. Nel trattare il tema degli effetti del trauma sulla costruzione dell’identità, non possiamo esimerci dal riflettere anche sulla pratica delle Mgf. Le mutilazioni dei genitali femminili sono una componente fondamentale dei riti di iniziazione attraverso cui si diventa “donna” in alcune società tradizionali. Secondo tali sistemi sociali donna non si nasce e a questo provvedono i riti che trasformano l’appartenenza sessuale, legata all’identità biologica, in una “essenza sociale”: l’essere appunto donna. Le MGF hanno gravi conseguenze sul piano psico-fisico con effetto negativo anche immediato: rischio di emorragie a volte mortali, infezioni, shock, cisti, difficoltà nei rapporti sessuali e nel parto con il rischio di morte per la madre o per il bambino. Oggi qualcosa sta cambiando, le MGF stanno diventando una questione sociale legata al rispetto dei diritti umani e alla salvaguardia della salute delle donne e delle bambine. Donne di origine africana, che nell’infanzia hanno subito la pratica delle Mgf, chiedono aiuto per sintomi psichici, che apparentemente non hanno alcuna correlazione con la pratica subita nell’infanzia e di cui esse stesse non conservano alcun ricordo. Il contenuto traumatico era stato completamento negato e rimosso. Lavorare con queste donne ha permesso di riconfermare quanto sia forte lo scollamento che l’abuso può determinare, non solo nelle relazioni di attaccamento, ma anche tra la vittima e loro stesse, ed inoltre quanto il trauma possa rappresentare un attacco alla funzione psichica della consapevolezza, all’integrità del soggetto stesso e del suo rapportarsi al piano di realtà e quanto esso sia spesso profondamente radicato nella mente. Il trauma non solo si incista nella mente della donna, ma sembra avere radici molto lontane, verosimilmente mitico degli dei, abitanti dell’Olimpo, dove si raccontano storie di donne il cui destino è stato costellato dalla ferita del trauma. Agli dei riconosciamo qualità umane: modi di agire, reazioni emotive, aspetti che ci forniscono modelli corrispondenti a comportamenti e atteggiamenti umani. Chi di noi non ha letto storie di mitologia, e ha potuto sentire una certa familiarità in quei racconti, proprio perchè rappresentano modelli di esistenza che riconosciamo nella nostra storia di vita. Seguendo la mitologia, possiamo riconoscere al trauma un’origine antica. Secondo il pensiero di Jung oltre all’inconscio personale esiste l’'inconscio collettivo, costituito sostanzialmente da schemi di base universali, impersonali, innati, ereditari che lui chiama archetipi, ovvero forme primitive alla base delle espressioni mitico-religiose dell'uomo, tra cui le figure mitiche. Ritroviamo figure mitologiche che narrano storie di donne maltrattate: Efigenia, sacrificata dal padre per poter vincere un combattimento; Era, Demetra e Persefone, tutte e tre violentate, rapite e sottomesse o umiliate da divinità maschili. Ognuna di queste dee pativa sofferenze e manifestava sintomi che richiamavano la malattia psichica. Similmente, anche nella storia dell’umanità la donna è stata spesso oggetto di violenze, denigrazioni e maltrattamenti. Tuttavia, come possiamo leggere nei miti, all’immagine archetipica negativa, il mito offre anche altre direzioni, inerenti al potenziale dell’archetipo che rappresenta. Attivando gli archetipi di altre dee, esso propone anche prospettive diverse facendo esperienze irrazionali arcane o terrificanti, se riesce a trasmettere ciò che in tal modo ha appreso, può diventare guida alle altre e attraverso la sofferenza avere la possibilità di crescita Persefone è una donna che essendo stata nel mondo degli Inferi e avendone fatto ritorno, è capace di mettere in comunicazione le altre dee, donne, con il loro mondo profondo, guidandole alla ricerca del relativo significato simbolico e alla comprensione di quanto scoprono in esso. In alcuni contesti terapeutici, attingere ai miti, come anche alle fiabe presenti nelle più svariate tradizioni culturali, diventa uno strumento interpretativo di grande importanza perché permette la rappresentazione simbolica di streghe e mostri relativi al mondo interno; l’esperienza simbolica può creare così una fessura per la possibile uscita dal “labirinto”. Questo è ciò che una donna può imparare a vedere e riconoscere. Soltanto affrontando il doloroso e faticoso confronto con il trauma, la donna può essere aiutata a scoprire chi è veramente e a liberarsi in tal modo dalla catena della violenza. E’ possibile affermare che analizzando la natura e le conseguenze di grossi traumi psicologici si va oltre la “ferita dell’anima”.
Bibliografia |