Franca Pezzoni1, Giacinto Buscaglia2 1Psichiatra, Dipartimento di Salute Mentale N.3 Genovese 2Psichiatra, Dipartimento di Salute mentale N. 2 Savonese
Era già vestita con i panni dell’Istituto, un abito color topo. Rapide domande sul nome, la nascita, il luogo di provenienza. ... “Perché l’hanno portata qui, in manicomio?”. “Per via di un sogno”. ... “Un giorno dalla finestra vidi un uomo entrare nel nostro orto, un vicino di casa, un giudice... Colse alcune foglie di bietola.” “Ebbene?”. “Due foglie di bietola sono una pochezza, non costano niente. Ma era già un furto? Quel giudice era nel peccato? Non importava il costo, era la purezza che non c’era più. Come facevo a credere in lui, che continuava a passare davanti casa con la borsa sotto il braccio? Poi ci furono le bugie. Mi accorsi che mio zio e anche mio padre spesso dicevano bugie, piccole, meno piccole. Erano piccole, ma quegli stessi potevano dirle di più grosse, più grandi. E allora?”. “Dunque è il sospetto, che se uno commette un piccolo male, è anche capace di uno grande”. Questo dialogo fa parte di un episodio descritto nel romanzo di Mario Tobino “Per le antiche scale”: lo psichiatra insieme con un’infermiera parla per la prima volta con una ragazza appena arrivata in Ospedale Psichiatrico, per diagnosticare se è affetta o meno da un disturbo psichico. In un primo tempo la paziente appare molto adeguata, proviene da un ambiente religioso, si esprime con proprietà. Lo psichiatra, per tutto il corso del colloquio, spera fino all’ultimo di trovarsi davanti ad una persona sana. “Allora, posso dire il sogno? E’ per quello che sono qui”. “Dica. L’ascolto”. “Lo zio nel sogno mi lusingava”. “Niente di male. Si può sognare tutto. Non c’è imputabilità. Il sogno è veramente libero, non lo può arrestare nessuno”. “Lo zio mi sorrideva e si avvicinava”. ... “Finché una notte avevo sognato che era venuto in camera mia, dentro il mio letto. Io avevo partecipato e la mattina dopo trovai le macchie... il sangue, ha capito? Le regole”. “Un fatto della natura, regolare. Tutte le ragazze ogni mese”. “Cominciò una furia nella mia testa. Se quel sangue non era del periodo ma perché ero sottostata, avevo condiviso, avevo partecipato. Se non era un sogno e mio zio era venuto, davvero era entrato nella mia stanza? Mio zio, quello stesso che diceva le bugie; di giorno non era onesto, così la notte”. La ragazza continua ad aggiungere particolari sempre meno verosimili e lo psichiatra, pur continuando a sperare che non sia pazza, rimane sempre più perplesso e a disagio. ... “Addio, si svela” mormorò dentro di sé il dottore che si era affezionato. “Addio, svela il delirio, le allucinazioni”. La ragazza ebbe una titubanza ma era chiaro non per pudore, per ipocrisia, un’incertezza che non riguardava se stessa. Con gli occhi interrogava il medico come per domandargli: “Se la sente che io parli davvero chiaro?”. “Dica pure, signorina. Siamo abituati. ... Ne abbiamo sentite di ogni colore”. La ragazza con quella strana voce annunciò: “Sono i bambini che hanno corrotto Gesù”. “Come?”. “Li ho visti io” e alla sua voce si aggiunse qualcosa di metallico. “Li ha visti?”. “Gesù era sulla croce, non si poteva muovere, era inchiodato. I bambini si avvicinarono, slacciarono ai fianchi la seta, lo snudarono. Si gettarono avidi”. La ragazza continuò tranquilla, assoluta, a dare ogni particolare. La caporeparto abbassò la testa, poi volse gli occhi al medico come dicesse: “E’ il nostro mestiere”. Lo psichiatra non aveva più voglia di ascoltare, voleva distrarsi, pensare ad altro: “Ma sì! Una matta, una folle come tante altre, una delirante, erotica, allucinata”. Avrebbe voluto allontanarla, dire alla Luciana che la riaccompagnasse in reparto. Invece rimaneva immobile, privo di ogni iniziativa, vinto da un’angoscia, uno smarrimento e, contro la sua volontà, si muoveva dentro di lui un’interrogazione, assurda, avversa ad ogni propria convinzione: “E se fosse proprio così? se fossero i bambini ad avere annidato il male? ingannandoci con la loro sembianza? Se fossero loro a spargere i semi delle tristi passioni, delle perversità?”. ... Non l’ascoltava più. Adesso era tutto intento a riudire le parole di quel suo amico... quando una sera... come a farsi perdonare per il suo peccato, disse:” “Credimi, credimi, non sono io, sono i bambini che mi cercano, sono loro a propormi, a provocarmi, a trascinarmi, sono loro perversi che mi gettano il seme del vizio”. Percorsi simmetrici del paziente e del medico di fronte all'abusoI nostri scopi nel riportare questo episodio, descritto con grande umanità e coraggio, sono tre:
La paziente e il medico nel corso del dialogo percorrono lo stesso iter: la ragazza passa da 1) descrivere con grande esattezza la perdita di fiducia negli adulti e l’abuso, a 2) invalidare tutta la credibilità del proprio racconto con evidenti deliri, a 3) incolpare i bambini di essere perversi e seduttori nei confronti di un adulto sommamente innocente e impossibilitato a difendersi. Lo psichiatra a sua volta: 1) simpatizza con la persona e dà credito alla veridicità delle sue parole; 2) mosso dai contenuti deliranti passa a considerare tutte le sue comunicazioni deliri privi di valore e utili solo a una diagnosi di pazzia e a una decisione di internamento; 3) arriva a dubitare, anche sulla base delle idee di un amico artista e pedofilo, che i bambini siano effettivamente perversi. A questo punto lo psichiatra è arrivato a formulare una teoria che non riguarda la sola paziente ma tutta la realtà (i bambini sono tutti perversi). La vittima è diventata colpevole sempre e comunque, perché così dice la teoria. Non è un fatto casuale ed estemporaneo, ma un fenomeno costante, accertato scientificamente una volta per tutte. I bambini sono perversi, in generale, e sono loro, in generale, a tentare gli adulti. In pratica tutti e due, sia la paziente che lo psichiatra, ritrattano le loro precedenti credenze, arrivando a rincarare la dose, cioè ad accusare le vittime di essere particolarmente abbiette e le vere colpevoli. Sembra che non basti semplicemente lasciar cadere l’ipotesi dell’abuso come non vera ma che si debba anche con molta violenza ribaltare la situazione, facendo apparire particolarmente negativa e moralmente riprovevole o addirittura pazza la presunta vittima, al punto da giudicarla pericolosa e a rinchiuderla in un ospedale psichiatrico. Notiamo che la diagnosi viene descritta da Tobino come un processo e non con un’azione puntuale, consistente nel tracciare crocette su una lista. Al processo partecipano entrambi, medico e paziente, interagendo e influenzandosi a vicenda. Ci si chiede come mai la paziente non solo non sia in grado di riferire esattamente e al momento giusto l’abuso subito, ma anzi cominci a delirare staccandosi nettamente dalla realtà. Gli abusi del Presidente SchreberA questo interrogativo possono rispondere alcune osservazioni contenute nel libro “La famiglia che uccide” (1973) di Morton Schatzmann, che descrive le torture inflitte al Presidente Schreber dal padre, tradotte dal paziente stesso in deliri e allucinazioni ritenuti da tutti prove della sua follia. Niederland (1959) è stato il primo a non discettare sul quadro clinico del figlio, bensì ad andare a cercare i documenti, cioè gli scritti di Schreber padre, scritti che fanno inorridire, ma che dall’epoca della loro comparsa (1858) fino al 1973 sono stati ritenuti universalmente meritevoli testi di pedagogia. Le Associazioni Schreber per l’educazione fisica contavano in Germania nel 1958 due milioni di iscritti e lo stesso Freud dichiarava: “I suoi sforzi diretti allo sviluppo armonico della gioventù …hanno esercitato un’azione duratura sui suoi contemporanei. Della sua fama quale fondatore in Germania della ginnastica terapeutica testimoniano ancora le numerose edizioni della sua Ärtzliche Zimmergymnastik assai diffuse nei nostri ambienti.” Pare oltre tutto che Schreber padre avesse impulsi omicidi. I mezzi educativi fisici proposti da Schreber padre sono cinghie per legare al letto i bambini, cinghie da portare sulle spalle per evitare di incurvarsi, pali di ferro che costringono i bambini a stare dritti (raddrizzatore di Schreber), macchine metalliche schiacciatesta che obbligano a tenere la testa dritta, bagni gelati a partire dai sei mesi di età, affinamento sistematicamente pianificato (parole sue) degli organi di senso svolto tramite esercizi e bagni gelidi ecc. E’ difficile pensare che solo un cambiamento del gusto faccia apparire oggi questi sistemi come torture, mentre alla loro epoca risultassero a tutti pienamente accettabili. Ancora più spaventosi sono i metodi psicologici. Schreber padre è mosso da alcuni assunti e da questi parte con perfetta coerenza per il suo sistema pedagogico, applicato ai suoi figli per primi (è superfluo sottolineare l’analogia con le analisi compiute dai primi psicoanalisti sulla loro prole). Gli assunti sono: 1) la sua teoria è assolutamente giusta; 2) i bambini hanno sempre torto, cioè sono cattivi, sono esseri che vanno controllati in ogni momento della loro vita perché vanno salvati dalle loro naturali tendenze perverse alla debolezza e all’indolenza. Le componenti cattive della mente vanno sradicate e sterminate spietatamente e crudelmente (parole sue). “Sopprimete tutto nel bambino, tenete lontano da lui tutto ciò che non dovrebbe fare da solo e guidatelo con perseveranza in tutto ciò a cui dovrebbe abituarsi.” Secondo Schreber padre l’educazione deve fare sì che il bambino non solo non abbia volontà propria e sia abituato all’obbedienza assoluta, ma ma non si permetta nemmeno di poter pensare di disobbedire. Deve arrivare a un’obbedienza inconscia (parola sua). “Ogni desiderio proibito – che sia o no a svantaggio del bambino – deve venire fermamente e immancabilmente ostacolato da un rifiuto incondizionato. Tuttavia il rifiuto di un desiderio non è di per sé sufficiente; bisogna dare importanza a che il bambino accolga questo rifiuto con calma e, se necessario, bisogna trasformare questa calma accettazione in ferma abitudine.” “L’educatore intelligente non sarà soddisfatto finché l’azione non sia compiuta come richiesto e non ne sia allontanata la causa perversa (cioè la volontà propria del bambino).” Il genitore deve fare qualcosa di più che controllare le azioni del bambino, deve controllare i suoi sentimenti e le sue motivazioni interne. “I genitori saranno ricompensati dall’insorgere di una meravigliosa relazione in cui il bambino è quasi sempre comandato da semplici movimenti degli occhi dei genitori.” I figli non devono obbedire per ottenere ricompense o elogi, che sarebbero “veleno” per un desiderio “degenerato” (sempre parole sue, sarebbe difficile inventarsele), e neppure devono obbedire desiderando segretamente di disobbedire, devono obbedire credendo che l’obbedienza parta da loro stessi, cioè in pratica devono negare gran parte della propria esperienza emotiva. Lo scopo del padre è dominare il bambino per sempre, di diventarne padrone anche solo con uno sguardo di minaccia. In circostanze come queste il bambino non può che delirare. Il rancore e la rabbia provati dalla vittima di trattamenti del genere devono essere negati perché contrastano con gli ammaestramenti ricevuti. Sono non solo proibiti ma inammissibili alla stessa coscienza. Il bambino in questi casi conserva molto vivido il ricordo delle esperienze subite, sa tutto quello che deve sapere ma non sa di saperlo. La regola inculcata impedisce di vedere che c’è qualcosa da negare o che si stia negando qualcosa. Il genitore o chi per esso impedisce di vedere la verità, di percepire sentimenti proibiti, di mettere in discussione l’immagine del genitore stesso o di vedere in lui l’origine delle proprie sofferenze. Queste teorie per circa centovent’anni sono state liberamente espresse senza discussione. Ciò fa pensare che corrispondessero a idee generali diffuse sulla natura degli esseri umani e sul modo di trattarli, altrimenti avrebbero suscitato un certo clamore. Schreber padre non ha avuto alcun problema a pubblicarle, non ha avuto paura di passare per sadico o per pazzo. Ovviamente l’idea che i bambini siano angelici e che non vadano contrastati in alcun modo nell’espressione delle loro pulsioni (peraltro di base sempre ugualmente perverse) non è che la caricatura speculare di tali teorie. In pratica semplificando nella teoria psicoanalitica si incontrano analoghi assunti non messi in discussione: 1) la teoria scientifica a cui si aderisce è assolutamente giusta e va perciò applicata coerentemente “senza eccezioni” (ultime due parole di Schreber padre); 2) i bambini sono perversi; 3) nelle persone vanno modificati sentimenti e motivazioni prima ancora che i comportamenti esterni. Anche ulteriori orrori di cui si parlerà più avanti (operazione al naso di Emma Eckstein, castrazione delle donne isteriche, trattamenti dei malati di mente di Henry Cotton e di Coda, psicofarmaci somministrati guarda caso ai bambini) si giustificano tutti con l’applicazione rigorosa di teorie scientifiche esistenti al momento e ritenute acriticamente valide e cogenti. Tornando al racconto di Tobino, già l’internamento a vita di una persona vittima di un abuso sembra orribile. Cure psichiatriche risolutive e all’avanguardia, non psicoanalitiche né pedagogiche nello stile di Schreber padre, si incontrano con una certa frequenza nel corso degli ultimi due secoli. Su alcune di queste in seguito è sceso un silenzio pressoché totale e se ne scopre l’esistenza per caso, come succede con gli scheletri negli armadi. Un'altra forma di abuso, la castrazione femminileLa castrazione femminile era una procedura chirurgica usata per trattare disturbi nervosi e morali nelle donne. Consisteva nell’asportazione delle ovaie, considerate dalla scienza più progredita dell’epoca come regolatrici della sessualità (e chi avrebbe potuto negare tale ultimo assunto?). L’operazione fu introdotta negli Stati uniti nel 1872 e fu denominata “intervento di Battey”. Merkel nel 1887 discusse questo intervento in un libro, citando nella bibliografia trentacinque lavori, specie dissertazioni universitarie, che trattavano l’argomento, pubblicati dal 1886 al 1887. Krömer nel 1987 affermò che ormai il numero di donne che avevano subito tale operazione erano molto numerose. Cita 240 studi sull'argomento. Molti autori erano assolutamente sfavorevoli, ma la pratica era ugualmente molto apprezzata e raccomandata per curare l'isteria. Era prevista anche una cura per la masturbazione nelle bambine, che consisteva in vari tipi di mutilazioni dei genitali esterni (Bonomi, 2007). Clitoridectomia e chiusura chirurgica delle grandi labbra era un intervento chirurgico praticato fin dal 1860 per eliminare la masturbazione. Fleischmann, noto pediatra direttore del primo reparto pediatrico istituito a Vienna, nel 1878 raccomandò in un lavoro scientifico la scarificazione e l’amputazione del clitoride nelle bambine e, nel caso di bambine più piccole, la cauterizzazione dell’entrata della vagina per punire e curare la masturbazione. Come si vedrà anche in seguito in riferimento ad altri “trattamenti”, la castrazione e i metodi di Schreber hanno molto in comune: soprattutto l’idea che ci sia qualcosa da estirpare in modo radicale per riportare il soggetto alla normalità e alla salute. In questi casi si tratta delle ovaie e delle cattive tendenze, nel caso di Cotton si tratterà dei denti, attualmente si tratta dei deliri, considerati solo come un sintomo isolato, in un elenco di altri sintomi, da eliminare con i farmaci. Freud lavorò nel reparto di Fleischmann per diversi anni, collaborò a un importante articolo neurologico in un trattato pubblicato in tale sede, pubblicò alcuni articoli su disturbi neurologici infantili. In Isteria (1888) a proposito dei bambini affetti da isteria, affermò che “I bambini isterici sono assai spesso precoci e molto dotati; in parecchi casi, a dire il vero, l’isteria non è che un sintomo di una profonda degenerazione del sistema nervoso, che si manifesta in una perversione morale permanente.” (p. 55) (già si parla di bambini perversi). Peraltro l’operazione compiuta da Fliess su Emma Eckstein, di cui si parlerà più avanti, era fondata su un presunto rapporto tra il naso, in particolare i turbinati, e gli organi sessuali femminili e mirava alla cura dell’isteria e della masturbazione abituale. Va ricordato che Freud aveva però notato “se si ritrova tanto spesso la masturbazione accanto all’isteria, ciò è dovuto al fatto che anche la masturbazione, molto più frequentemente di quanto non si creda, è conseguenza di un’aggressione o di una seduzione” (1896). Perciò i soggetti sottoposti a questi trattamenti in un primo tempo erano stati abusati e in un secondo tempo venivano “puniti” per i loro comportamenti che erano una conseguenza dell’abuso, in pratica erano maltrattati due volte. Curata con intervento chirurgico e analisi, Emma, come riferisce Freud nel 1937 in Analisi terminabile e interminabile, riprese in seguito a mettere in atto comportamenti autolesivi e per questa ragione subì un’isterectomia totale dopo quattordici anni dalla fine della sua analisi. Lo psichiatra del romanzo di Tobino che visita la paziente all’accettazione del manicomio è ben disposto nei suoi confronti ed è intenerito dalla sua dolcezza e dal suo sorriso. Il colloquio consiste in una specie di indagine poliziesca, improntata allo smascheramento della follia. Il medico cerca in tutti i modi di convincersi che ciò che dice la paziente non siano deliri, ma solamente modalità espressive particolari legate alla sua scarsa cultura e limitata istruzione. Quando non è più possibile negare l’evidenza e la psicosi risulta “svelata”, il medico cerca con uno sguardo la solidarietà dell’infermiera, pensa a quanto sia doloroso il suo lavoro e organizza il ricovero della ragazza in manicomio. A quel punto perde qualsiasi interesse all’ascolto e alla comprensione di ciò che la ragazza dice, in quanto la diagnosi di schizofrenia svuota totalmente di senso ogni sua affermazionei. La paziente che alla fine viene ricoverata descrive in modo evidente un abuso, reale o non reale che sia. L’aspetto cruciale del colloquio psichiatrico sembra essere quello di stabilire se si tratti di un fatto avvenuto o di un delirio. L’esperienza clinica insegna che una persona che subisce un abuso a causa del grave trauma può in seguito manifestare allucinazioni e deliri che sono connessi all’evento sconvolgente. L’aspetto più grave è la perdita di fiducia di base nel mondo. La persona non si fida più degli altri, nemmeno dei familiari e nemmeno di se stessa. Si autoaccusa e a volte finisce per addossarsi la responsabilità di ciò che è accaduto. In questo contesto non ci interessa affrontare in modo approfondito l’argomento dell’abuso, che è particolarmente vasto e complesso e tanto meno muove alcuna critica agli psichiatri di periodi precedenti al nostro, ai quali siamo debitori di descrizioni dettagliate, ricche ed emotivamente partecipate, che oggi sono assolutamente rare. Ci interessa invece notare delle analogie piuttosto marcate tra la sequenza che si mette in moto al momento della rivelazione dell’abuso e la sequenza che vediamo frequentemente ripetersi nella clinica e nella teoria psichiatrica. La sequenza innescata dall'abusoAlcuni autori (Sgroi, Blick e Porter, 1982) hanno individuato varie fasi dell’abuso: adescamento, interazione sessuale, segreto, svelamento, soppressione della verità successiva allo svelamento e ritrattazione. La nostra ipotesi è che nell’ambito della psichiatria siano avvenuti e avvengano periodicamente dei cicli in cui anche a livello scientifico e clinico si riproducono le fasi dello svelamento, della soppressione della verità e della ritrattazione e non solo quando si tratta di abuso in senso stretto. In particolare, così come avviene nei casi in cui viene rivelato un abuso, le fasi della soppressione della verità e della ritrattazione sono cariche di forte violenza e ritorsione, tanto che le persone che hanno subito sono accusate di menzogna, perversione, seduttività, caratteristiche malvagie e negative, inattendibilità e soprattutto follia. Personalmente siamo rimasti colpiti dal fatto, rilevato da Sgroi et al. (1982), che la fase dello svelamento non rappresenti che l’inizio di una serie di ulteriori traversie, spesso non meno gravi dell’abuso in quanto tale, e che non significhi affatto la liberazione per la vittima o il trionfo della verità. Secondo la Sgroi l’abuso su minori più che un disturbo della sfera sessuale è un problema di potere. L’abusatore, specie se si tratta di un parente, compie un abuso di potere sfruttando la sua posizione di autorità rispetto al minore, e soddisfa il bisogno di sentirsi potente, importante, ammirato e di avere il controllo dell’altro. Attira l’interesse, la confidenza e la collaborazione della vittima per indurla all’attività sessuale, per poi costringerla a mantenere il segreto con regali e privilegi, oppure con minacce fisiche e psichiche (di abbandono, di danno ad altri familiari). L’adulto presenta una visione distorta dei criteri morali abituali, e d’altra parte trasmette l’idea che il proprio comportamento sia accettabile e ammesso. Viene costruita una relazione di emprise, cioè di dominanza psicologica, caratterizzata da cronico attacco alle difese naturali della vittima e continuativa espansione della sua vulnerabilità (Malacrea, 2002). L’abuso come un problema di potereLa lettura dell’abuso come un problema di potere apre una questione molto importante: non è difficile vedere possibili analogie con prassi mediche e in particolare psichiatriche che contengono sempre, forse inevitabilmente, il rischio di essere utilizzate a fini di potere sia personale che politico, come si è effettivamente visto in molti esempi gravi nel corso degli anni. ll segreto di solito è mantenuto dalla vittima, che può trarre piacere dall’attività sessuale, sentirsi importante, ricevere un aumento dell’autostima, o essere spaventata dalle minacce. Perciò lo svelamento può spesso essere dovuto, più che a una rivelazione deliberata da parte della vittima, a fattori accidentali, legati a malattie contratte, danni fisici, gravidanza o scoperte di altri membri della famiglia. Questa scoperta accidentale, nel caso più vasto della storia della psichiatria, può essere omologata alle scoperte messe in campo dagli anatomopatologi, dai radiologi, dalla stessa psicoanalisi utilizzata per scoprire i fattori emotivi all’origine dei disturbi isterici. In ogni caso alla rivelazione l’autore dell’abuso reagisce negando con energia e aggredendo la vittima, accusandola di perfidia, promiscuità, inaffidabilità, desiderio di vendetta ecc. Oppure accusa la vittima di averlo sedotto o incoraggiato, negando l’enorme disparità di responsabilità tra sé e l’abusato. Inoltre, se si tratta di incesto, la madre a sua volta può essere complice o connivente, e accusa la figlia di essere bugiarda, di causare il disonore e la rovina anche economica della famiglia, in questo affiancata dai fratelli. Tutti o almeno alcuni membri della famiglia tentano di sopprimere la verità, o almeno di minimizzare la portata e la gravità del fatto, esercitando forti pressioni sulla vittima affinché ritratti. Sentono che tutto il loro mondo viene scosso e devono rivedere l’immagine di sé e della famiglia. Le madri e gli altri membri potevano essere già a conoscenza dell’abuso, oppure comunque si sentono chiamati in causa perché non hanno sorvegliato abbastanza il minore, hanno scelto male eventuali babysitter o figure educative e soprattutto non lo hanno protetto dall’abusatore quando si trattava di un familiare (Sgroi, 1982). In queste famiglie i confini tra genitori e figli spesso sono confusi, i ruoli poco definiti o rovesciati. Molto presto dopo la rivelazione dell’abuso, gli altri membri si preoccupano delle conseguenze per se stessi in termini di vergogna, imbarazzo, pubblicità non voluta e esprimono diniego, rabbia, ostilità e rifiuto verso la vittima. A livello più profondo la vittima stessa è soggetta a una grave perdita di autostima, a sensi di colpa per essere stata in qualche modo parte attiva, per aver subito e taciuto e poi per aver rivelato. Si sente confusa e ambivalente, perde in qualche modo un ruolo privilegiato all’interno della famiglia e anzi ne viene espulsa, è accusata di essere la causa della rovina della famiglia, prova rabbia e desiderio di vendetta, ma soprattutto senso di impotenza e può essere indotta anche da propri conflitti interni a ritrattare. La ritrattazione, purtroppo molto frequente (Attias, Goodwin, 1985), rappresenta un danno ulteriore, che si va a sommare al precedente, e comporta disperazione, rabbia, solitudine e la perdita della fiducia nella possibilità di ricevere un aiuto. D’altro canto la vittima ha elaborato anche nel corso degli anni alcune specifiche modalità di comportamento come risposte di sopravvivenza. Sono modalità tali da farla apparire in una luce particolarmente sfavorevole e a farla considerare poco credibile (vedasi la tendenza alla menzogna, la seduttività, l’erotizzazione dei rapporti). D’altra parte tutte le possibili caratteristiche della persona che rivela l’abuso possono farla sembrare inattendibile: è provocatoria, ribelle e promiscua, oppure è la prima della classe, troppo “normale” per aver subito un abuso ecc. (Summit, 1983). Sindrome di adattamento all’abuso, le cinque categorieQuesto autore ha introdotto il concetto di sindrome di adattamento all’abuso. Rivelazioni incoerenti e contraddittorie e successive ritrattazioni riflettono gli stadi di segreto, impotenza e intrappolamento in cui la vittima si è trovata durante l’abuso. L’abbandono del minore da parte degli adulti che non gli credono lo induce a ulteriori autoaccuse, odio per se stesso, disperazione e ricaduta nella situazione precedente. Le risposte inefficaci o accusatorie alla rivelazione dell’abuso rinforzano la tendenza del bambino a trattare il trauma come un evento intrapsichico e ad accumulare senso di colpa, dolore e rabbia. D’altra parte i critici di Summit hanno osservato che gli accusati si trovano così in un vicolo cieco: sono condannati se le dichiarazioni del minore sono tempestive, chiare, coerenti, ma anche se sono confuse, contraddittorie e ritrattate. Gli estremi a cui sono giunti alcuni sostenitori della sindrome hanno portato Summit stesso nel 1992 a scrivere un lavoro intitolato “abuso della sindrome di adattamento all’abuso” per evitare tali eccessi. Nondimeno la grande maggioranza delle accuse si dimostra valida e la maggioranza dei bambini ha meno di otto anni al momento dell’abuso. Secondo Summit le vittime subiscono un secondo trauma al momento della rivelazione, perché vengono trattate con incredulità, rifiuto, accuse di essere bugiarde, manipolatrici, mitomani o perfide. In realtà le risposte all’abuso che agli adulti sembrano inappropriate costituiscono una forma di adattamento e di sopravvivenza. La sindrome include cinque categorie.
Rispetto alla rivelazione sono necessarie importanti precisazioni, relative alle modalità espressive con le quali avvengono, che spesso ne rendono difficile la credibilità. Nei bambini più piccoli sono presenti dal 30 al 90% dei casi allucinazioni uditive, imperative o svalutative, o più raramente amichevoli, o anche visive, che vengono descritte come ‘fantasmi’ o ‘fate’ e spesso interpretate come sintomi psicotici e perciò (passaggio che sarebbe tutto da rivalutare) come segno di patologia e non di fatti realmente avvenutiii. Particolarmente grave appare quello che è stato definito disturbo post-traumatico da stress complesso (Herman, 1992), dovuto a un abuso prolungato nel tempo, che per gli effetti viene assimilato alla sottomissione per lunghi periodi a controllo totalitario quali prigionia in campo di concentramento, sequestro da parte di sette, sfruttamento sessuale. In tali casi si sviluppano alterazione nella regolazione degli affetti, alterazioni dello stato di coscienza, alterazioni della percezione di sé, con impotenza, vergogna, colpa, autodenigrazione, contaminazione e stigmatizzazione, solitudine e senso di estrema diversità dagli altri, alterazioni nella percezione dell’abusante, con attribuzione di potere assoluto, idealizzazione e gratitudine, accettazione del sistema di credenze e di razionalizzazioni dell’abusante. Questa complessa sindrome, che non appare un mero elenco di sintomi ma che collega in modo conseguente vari disturbi tra loro correlati, spiega anche almeno in parte perché i racconti dei minori abusati spesso risultino poco credibili perché frammentari, distorti, inverosimili, tentativi di salvare contemporaneamente se stessi e l’abusante mediante inserimento di errori chiave nella narrazione (vedi il caso descritto da Tobino, in cui la donna con successivi deliri sempre più gravi invalida da sola il proprio racconto precedente).
Tully ha studiato le ritrattazioni delle vittime, giungendo a conclusioni sconcertanti. Gli operatori che intervengono hanno come scopo la protezione del bambino o la raccolta di prove per condannare il colpevole. Le vittime possono non avere gli stessi scopi. I conflitti di priorità possono portare ad anomalie che si risolvono in danno per le vittime stesse, che tendono a ritrattare per riparare le conseguenze impreviste delle loro rivelazioni. Gli interventi meglio intenzionati possono avere effetti iatrogeni sulla famiglia e il minore. Uno studio accurato delle ritrattazioni può portare a vederle come un’ulteriore conferma delle rivelazioni precedenti e non come una prova della loro falsità. In alcuni casi riportati da Tully l’intervento dei servizi sociali, mirato a difendere tutti i minori del nucleo da eventuali rischi, aveva portato all’allontanamento di tutti in altre sistemazioni, con sofferenza generale e decisione di ritrattare. Il senso di impotenza può essere aggravato dai servizi stessi, sentiti all’inizio come potenti protettori. Si deve tener conto dell’impatto delle indagini e degli interventi sulla famiglia e sul bambino; quest’ultimo davanti a situazioni inaspettate può avere la tentazione di rimettere indietro l’orologio, di ritornare allo status quo precedente. Le possibili prese di posizione da parte dell’abusatore e della famiglia che portano alla soppressione della verità e alla ritrattazione da parte della vittima si ritrovano rappresentate a livello teorico e clinico in vari autori nel corso degli anni: 1) non è successo nulla e il minore si è inventato/immaginato tutto – si tratta di sue fantasie; è bugiardo e perverso, oppure scambia i propri desideri per la realtà; 2) i fatti sono avvenuti, ma si è trattato di azioni naturali, che corrispondono ai reali desideri del minore 3) è stato il minore a prendere l’iniziativa, a essere seduttivo 4) è il minore con le sue rivelazioni (e non l’abusatore con l’abuso) a causare la distruzione della famiglia e a rappresentare il vero problema 5) il minore non ha ricevuto alcun danno psicologico, se non addirittura ha avuto dei vantaggi 6) gli interventi sociali e giudiziari sono più dannosi del fatto stesso. Le associazioni dei pedofili e le lobbies favorevoli all’incesto, da parte loro, sostengono che le conseguenze traumatiche non sono dovute all’abuso ma alle reazioni sociali e giudiziarie successive alla rivelazione. Tale posizione è stata sostenuta anche da Kinsey nel famoso rapporto. Come ha affermato la Sgroi (che peraltro è un’internista), la disponibilità a prendere in considerazione il sospetto di abuso sembra essere in proporzione inversa al livello di formazione dell’operatore. Quanto più elevato è il suo livello di formazione, tanto meno è disponibile a riconoscere l’esistenza di un abuso. E' stato spesso osservato che talvolta la formazione psichiatrica degli operatori favorisce piuttosto che limitare i problemi di stigma. Intendo dire che operatori non ancora "impregnati" di cultura psichiatrica spesso sono più in grado di avere una visione più ampia e realistica della persona rispetto a operatori psichiatrici esperti. Non è marginale notare che nei casi di abuso psichiatrico la reazione della comunità psichiatrica spesso è più torbida e debole rispetto all'indignazione che giustamente esprime la società civile. Lo svelamento costringe ognuno, compresi gli operatori sanitari, a prendere posizione rispetto a quanto accaduto. Anche la passività e il non intervento rappresentano una forma di azione. Stabilire la realtà di quanto è avvenuto, considerare l’abuso come un reato e avviare una denuncia, un processo e una condanna definisce non solo la posizione degli operatori ma quella dell’intera società nei confronti dell’abuso. E’ impossibile rimanere neutrali. Credere o meno alle dichiarazioni della vittima, raccogliere dati di realtà e soprattutto agire di conseguenza a livello giudiziario non è perciò un dettaglio ma un punto essenziale sia teorico che terapeutico. L’abuso viene definito come un reato, contrastando la tesi dell’abusatore di non aver causato alcun danno alla vittima. Altrimenti la strategia del silenzio si estende dalla famiglia alla rete sanitaria in una forma di collusione. L’abuso e la complessitàD’altra parte riconoscere l’abuso obbliga a tutta una serie di azioni che riguardano non solo il paziente, ma tutto il contesto. Tanto per fare un elenco, si tratta di: raccogliere nel modo più accurato la testimonianza, denunciare l’accaduto alle autorità, allontanare il minore da casa, provvedere a vitto e alloggio dell’intera famiglia se il padre, spesso unica fonte di sostentamento, viene arrestato, seguire l’iter giudiziario e sostenere il minore nelle udienze, interagire con polizia, tribunali, scuole, servizi sociali, fornire terapia individuale, familiare e di gruppo a tutti i membri del nucleo, cercare di ottenere una confessione e scuse da parte dell’abusatore e cercare di avviarlo a una terapia, affrontarne le reazioni ecc., essere considerati in qualche modo responsabili della separazione dei genitori e della disintegrazione della famiglia ecc. Difficoltà ancora peggiori nascono poi se le dichiarazioni non sono fatte a distanza relativamente breve dall’abuso ma dopo molti anni da parte di una persona adulta, magari nel corso di una psicoterapia. L’attendibilità dei ricordi, dopo un periodo di dimenticanza, è ancora più dubbia e sorge il sospetto che possa essere intervenuta la suggestione esercitata dal terapeuta. Va comunque sottolineato che l’abuso, anche quando si tratta di un minore molto giovane, raramente è un singolo episodio, ma quasi sempre è ripetuto per mesi e anche per anni. Indubbiamente è molto meno faticoso trattare isolatamente un singolo paziente come preda di fantasie personali oppure – cosa ancor meno complicata – somministrargli farmaciiii. L’abuso solleva il coperchio del vaso di Pandora. Nulla è come prima, vengono sovvertiti i valori sociali, familiari, relazionali. E’ il trionfo della complessità. Gli operatori coinvolti (le istituzioni coinvolte) si scontrano inevitabilmente contro i limiti culturali, tecnici, senza che procedure, protocolli riescano a rappresentare un’ancora (spesso diventano specchi deformanti che portano a risposte sbagliate, talvolta grottesche). In fondo l’intervento psichiatrico si gioca anch’esso su come gestire il problema della complessità. Si può sostenere che ogni qual volta nella storia della psichiatria ha dominato il riduzionismo, si sono verificati abusi e crimini. Su questo punto – verità fattuale dell’abuso e conseguenti provvedimenti sul piano della realtà – si gioca una partita fondamentale, che riguarda non soltanto l’abuso in senso stretto ma tutto l’impianto operativo e concettuale dell’intervento nei confronti dei pazienti. Questo aspetto è stato visto molto chiaramente da Freud e in genere dalla psicoanalisi, che ne hanno fatto a ragione un punto critico decisivo e soggetto a discussioni molto accanite. Freud, la psicoanalisi e il ruolo dell’abusoFreud nell’arco della sua carriera scientifica sembra aver percorso tutto questo iter, prima dando ascolto alle pazienti, poi vergognandosi della propria credulità e facendo pubblica ammenda, indi rincarando la dose e costruendo una teoria in cui il bambino è perverso-polimorfo e in pratica si immagina/inventa tutto, anzi desidera lui stesso per primo e in prima persona il rapporto sessuale con l’adulto, inconsapevole e innocente. La psichiatria morale della prima metà dell’Ottocento, secondo quanto riportato da Bonomi (2001) riteneva che l’uomo sano e attivo riuscisse a dimenticare le impressioni negative, mentre la persona che non riusciva a superarle indulgeva su di esse, alimentando passioni dannose con vane fantasticherie. Questa forma di indulgenza era una colpa, che andava corretta con il trattamento morale. Assistiamo alla prima colpevolizzazione della vittima, che ritornerà anche in seguito in una sorta di pendolo scientifico o pseudoscientificoiv. Breuer e Freud all’inizio applicarono il modello catartico, secondo il quale la causa dei disturbi era l’affetto suscitato dal trauma e non scaricato e lo scopo della terapia era la rievocazione dell’episodio e la liberazione dell’affetto rimasto non espresso. Il paziente faceva uno sforzo per dimenticare e il terapeuta energicamente doveva farle rievocare proprio gli episodi che non voleva ricordare. Emersero così sempre più numerosi traumi sessuali. Nel 1895 Freud formulò la teoria secondo la quale i traumi da un lato costituivano il contenuto dei ricordi e dall’altro causavano la predisposizione all’isteria. I sintomi isterici erano il “simbolo mnestico” o il “monumento” della scena originaria. Alla pubertà un avvenimento apparentemente banale collegato in qualche modo al trauma sessuale infantile produceva i sintomi dell’isteria. I contenuti ideativi rimossi e inconsci erano indipendenti dalla volontà del paziente, erano un motivo oggettivo della malattia e perciò non potevano essere rimproverati come effetto di una colpa cosciente. Come è noto Freud ritrattò del tutto la teoria della seduzione infantile, sostenendo che nell’inconscio non c’è alcuna indicazione di realtà, così che nei racconti dei pazienti non è possibile distinguere fra la verità e la finzione. Anche a proposito dei ricordi, all’inizio della sua opera mise in evidenza l’importanza e la portata dei falsi ricordi, citando anche avvenimenti suoi personali sotto la trasparente presentazione di un caso clinico, insistendo sull’argomento a tal punto che l’ingenuo lettore dopo aver seguito per un certo tratto l’esposizione si domanda piuttosto se esistano mai dei ricordi veri e quali siano, sembrando tutti sempre invariabilmente falsi. Anche se qualche ricordo vero dovrebbe pur esistere, se non altro come metro di paragone e riferimento rispetto a quelli falsi. Come riferito nella Introduzione alle Opere di Freud di C. Musatti (1967) il lavoro “Ricordi di copertura” (1899) riguarda l’infanzia di Freud stesso e in particolare il rapporto con John e Pauline, figli del suo fratellastro Emanuel e perciò suoi nipoti, ma di fatto quasi della sua stessa età. I ricordi infantili descritti nel lavoro citato riguardano giochi sessuali a base di violenza compiuti da Sigmund e John sopra la piccola Pauline. Questo ricordo era tale da suscitare un’eccitazione mista a sentimenti di colpa. La famiglia del fratellastro Emanuel poi emigrò in Inghilterra a Manchester. Per un breve periodo il padre di Freud progettò un matrimonio tra Sigmund e Pauline, ma la cosa finì senza esito. Non si hanno notizie precise sulla successiva vita di Pauline, che a quanto pare non si sposò, ma stando alla prima teoria sulla seduzione infantile formulata da Freud stesso e poi ritirata avrebbe potuto riportare un danno psicologico permanente dalle esperienze di abuso. Nei suoi primi lavori culminati in Etiologia dell’isteria del 1896 com’è noto Freud sostiene l’origine traumatica dei sintomi isterici. Questi lavori sono stati oggetto di studi molto approfonditi. Solo marginalmente si può osservare che spesso nei resoconti clinici l’abusatore è una donna, e in particolare una alla quale erano stati affidati i figli in famiglie sufficientemente benestanti. In particolare Freud stesso si riferisce alla propria balia in una lettera a Fliess come alla sua iniziatrice, e narra sogni in cui si sentiva eccitato, ma anche intrappolato, incapace di muoversi, rimproverato e umiliato, cioè in pratica abusato. (Bonomi 2013). Questo particolare aggiunge complessità a un quadro forse troppo stereotipato, che presenta esclusivamente un uomo nei panni dell’abusatore, specie il padre come Freud omette di notare nelle sue opere, ma comunica a Fliess in più di una lettera. Come impressionante esempio di abuso da parte di persone di servizio si può riportare un caso descritto da Freud in una nota di Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa. Un ragazzino undicenne presenta un grave quadro ossessivo, con un complicato cerimoniale eseguito al momento di andare a letto (un DOC che oggi sarebbe curato con antidepressivi). Una domestica anni prima aveva abusato del bambino, vietandogli ovviamente di riferire la cosa. I vari aspetti del rituale, come mettere sedie davanti al letto, rievocavano il trauma e cercavano di manifestare una difesa contro l’aggressione. D’altra parte l’esistenza di abusi compiuti da balie persino sui lattanti all’epoca era un fatto risaputo e oggetto di numerose pubblicazioni pediatriche, come afferma Freud citando uno studio di Stekel, Coito nell’infanzia (1895). Anche su questi dati, almeno a quanto risulta a un primo esame, è sempre gravato il silenzio. Nel caso di rapporti tra due bambini, secondo Freud uno dei due era stato prima sedotto da un adulto e ripeteva sull’altro quello che aveva subito. “L’adulto … ha in mano l’arma dell’autorità e del diritto di punire e cambia alternativamente di personaggio per ottenere lo sfrenato soddisfacimento delle sue voglie; il bambino, inerme, è in balìa di questo arbitrio e viene precocemente destato a ogni genere di sensazioni, esposto a ogni disillusione.” (Etiologia dell’isteria, 1896). Il sogno di Irma, riportato nell’Interpretazione dei sogni somiglia alle Memorie del presidente Schreber nel senso che ha attirato numerose interpretazioni acute e colte nel corso dei decenni, tra le quali quelle di Lacan e di Erikson. La sua lettura tuttavia, come nel caso delle Memorie, è stata improvvisamente modificata dall’irruzione della verità di fatto, cioè dalle dettagliate notizie emerse dalla nuova edizione delle Lettere di Freud a Fliess da parte di Jeffrey Masson. Irma non è una paziente docile e il suo trattamento non soddisfa le aspettative. Freud sente di doversi giustificare e scrive un resoconto. Irma nel sogno irrompe in casa sua e Freud la prende da parte e ne esamina la gola, restando colpito dalle lesioni che vi vede, ma alla fine del sogno compare la formula chimica della trimetilamina (cioè un’immagine scientifica). Il sogno è connesso con l’operazione al naso subita da Emma Eckstein, una paziente di Freud, ad opera di Wilhelm Fliess, per guarirla da una nevrosi nasale riflessa. Fliess dimenticò una garza chirurgica dentro al naso, la paziente ebbe una grave infezione con emorragie quasi fatali. Freud chiamò un altro otorinolaringoiatra, approfittando del fatto che Fliess era a Berlino (l’amico non voleva assolutamente che venisse consultato un altro specialista). Il medico rimosse la garza e salvò Emma. Freud per discolpare Fliess arrivò a sostenere che l’emorragia era dovuta all’isteria della paziente e non all’errore chirurgico. Bonomi (2013) nota che Freud reagì al senso di colpa che poteva provare nei confronti di Emma Eckstein per aver concorso ad averle provocato un danno con varie possibili difese emotive e con il famoso sogno di Irma, ma nella realtà non assunse mai alcuna responsabilità per il ruolo che poteva aver svolto nelle sue sofferenze. Emma comunque divenne la prima analista personalmente addestrata da Freud stesso e, in un certo senso, fu cooptata nella teoria. La pubblica ammenda, se si vuole usare questo termine, è avvenuta piuttosto nel senso contrario, cioè nella ritrattazione ufficiale e mantenuta per decenni o meglio per un secolo: Freud si accusa di aver creduto ai racconti della paziente e non di averla danneggiata. Si possono citare le sue parole come esempio di ritrattazione: “Quest’ultima parte (di Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa) è dominata da un errore che io, in seguito, ho più volte denunciato ed emendato. A quell’epoca non sapevo ancora distinguere le fantasie degli analizzati circa gli anni della loro infanzia dai ricordi reali. Per questo attribuivo al fattore etiologico della seduzione un significato e un’universalità che non ha. Superato questo errore, fu possibile avere una chiara visione delle manifestazioni spontanee della sessualità infantile, da me descritte nei Tre saggi sulla teoria sessuale infantile .” Nota aggiunta nel 1924. Le lettere a Fliess furono acquistate da Marie Bonaparte, Freud ordinò di distruggerle, ma lei non lo fece, anche se rimase d’accordo di non leggerle. Successivamente furono dapprima pubblicate in forma molto censurata nel 1950 e poi in forma completa da Masson nel 1985. Anche quando era possibile accertare l’esistenza reale o storica del trauma, la teoria psicoanalitica sosteneva che “Il trauma è voluto dall’inconscio del bambino”, rappresentando “una forma di attività sessuale infantile” (Abraham, 1907), specie quando si tratta non di violenza improvvisa ma di seduzione e di adescamento. Il bambino si abbandona al trauma per ottenere un piacere, che desidera a causa dello stadio perverso-polimorfo della sessualità in cui si trova. Essendo l’esperienza piacevole, i bambini tendono ad esporsi ad altri episodi dello stesso genere, fino a dimostrare una traumatofilia. Il bambino abusato si sente in colpa e tace perché in qualche modo si sente responsabile dell’evento. Il senso di colpa rivela il desiderio inconscio, così come i frequenti sogni di angoscia in questi soggetti sarebbero un caso di appagamento di desiderio. Alla base di questa teoria c’è l’idea che il trauma gratifichi i desideri sessuali perversi del bambino. Freud confermò questa posizione: “L’ultima parola sulla questione dell’eziologia traumatica fu detta più tardi da Abraham, che fece notare come proprio la peculiare costituzione sessuale del bambino abbia la virtù di provocare esperienze sessuali di tipo particolare, cioè traumi.” Si noti l’espressione “ultima parola”: da allora in poi sia ricordi riferiti da pazienti che fatti reali ricevevano una lettura ben chiara, che bloccava sul nascere qualsiasi interpretazione divergentev. Tra fantasia e ricordo non c’era alcuna differenza. Importante è l’ipoteca sul futuro che viene posta in questo modo: non si mettono a tacere soltanto le rivelazioni di abusi avvenuti fino a quel momento, ma anche (come è successo in effetti per decenni) tutte le possibili rivelazioni successive che saranno sempre invariabilmente interpretate come invenzioni dei pazienti. Tuttavia secondo Rand e Torok (1995) Freud continuò a chiedersi se il paziente diceva la verità o mentiva, fino a ipotizzare eventi preistorici traumatici che davano luogo a idee patogene innate. In pratica nella realtà psichica verità e falsità coincidevano, rendendo evidentemente superfluo o fuorviante accertare come fossero andati realmente i fatti nella vita del paziente. Se si leggono queste teorie secondo la sequenza osservata dalla Sgroi, si può dire che la soppressione della verità e la ritrattazione sono arrivate al loro culmine. Freud e l’uso del termine seduzione (“Verführung)Vale la pena di fare alcune notazioni a margine rispetto alla terminologia usata da Freud e poi nella letteratura successiva. Dopo aver usato termini corrispondenti agli italiani “stupro”, “abuso”, “seduzione”, “attacco”, “aggressione” e “trauma”, egli finì per utilizzare solo quello di “seduzione” (Verführung). Almeno per il lettore italiano, il vocabolo “seduzione” è associato all’idea di un adulto che mette in atto tutta una serie di tecniche non violente per convincere un’altra persona adulta, inizialmente riluttante, e per ottenerne l’amore o almeno i favori consenzienti, spesso con dispendio di energie e di mezzi, mettendo in gioco proprie attrattive vere o finte e rischiando un rifiuto. Di solito è esattamente ciò che non avviene con un minore, forzato o indotto per lo strapotere dell’adulto a compiere atti di cui non conosce il significato e scelto come vittima proprio perché non è necessaria la fatica di sedurlo. L’alone semantico è diverso, se non opposto. Peraltro il termine “abuso” usato oggi forse è adottato per il suo suono anonimo e asettico, ben lontano dalla realtà violenta a cui si riferisce. Inoltre, come appare chiaro dal termine tedesco corrispondente (Missbrauch, uso sbagliato), la parola “abuso” è un derivato dell’ “uso”, dà l’idea che esista un uso giusto, normale (e quale sarebbe?) del minore, rispetto al quale la violenza sessuale sarebbe una deviazione (così come si parla di abuso di alcol con il presupposto implicito che ci sia un uso abituale e sano). Il valore patogeno dell’abuso: oscillazioni periodicheLa questione sempre molto aperta dell’abuso riguarda, come già all’epoca di Freud, due aspetti tra loro collegati, la veridicità del racconto del paziente e il valore patogeno dell’abuso, ovvero l’effetto causale su diversi disturbi psichiatrici. E’ chiaro che, una volta confutato il primo punto, cade anche il secondo, mentre non è detto che, una volta ammessa la realtà del trauma, questo abbia un ruolo eziologico determinante o esclusivo, essendo collegato a tutti i tipi di diagnosi e, a quanto risulta, soprattutto alla cronicizzazione delle patologie. Il fatto che il problema si ripresenti periodicamente e che periodicamente venga rimosso, e che sia sempre comunque formulato sempre negli stessi termini opposti e mutualmente esclusivi, può far pensare che per sua natura susciti forti reazioni emotive e che costringa a una presa di posizione, a una polarizzazione e a una scelta di fronte. Davanti a dati statistici molto alti gli psichiatri sarebbero obbligati a rivedere la loro pratica clinica, la raccolta dell’anamnesi, specie in casi di disturbi della personalità e di disturbi affettivi, ma anche di disturbi allucinatori, e soprattutto la valutazione del nucleo familiare di origine, con grande scomodità di tutti, pazienti compresi. Freud riteneva che la teoria della seduzione avrebbe disturbato il sonno del mondo. In effetti l’ammissione della frequenza dell’abuso e della gravità delle sue conseguenze obbligherebbe psichiatri e istituzioni a un lavoro molto impegnativo di revisione teorica e di denuncia. Viene in mente il terribile racconto “La piccola Roque” di Maupassant in cui lo stimatissimo sindaco del paese abusa di una bambina e la uccide, facendo vacillare tutto l’assetto dell’intero circondario. Il romanziere coglie uno degli aspetti fondamentali della violenza, e cioè il fatto che per sua natura coinvolga non solo i diretti interessati, ma tutto l’ambiente, nei ruoli diversi di complice, testimone, salvatore, accusatore, mistificatore ecc. Indubbiamente è più facile ritenere che il disturbo abbia una esclusiva origine biologica, alberghi unicamente nell’individuo, isolato dal suo contesto e in generale da tutto, e sia curabile con pastiglie. Dalle Luche e Taponecco hanno esaminato tutte le pazienti ricoverate o visitate in Pronto Soccorso dal luglio 2008 al settembre 2010 che hanno riferito un abuso in età infantile o adolescenziale. Si tratta di 46 pazienti, i cui racconti sono stati valutati secondo i criteri della letteratura e divisi in veri, possibili e irrealivi. Come osservano gli Autori, gli abusi sessuali e i temi relativi sono tutt’altro che infrequenti nella pratica psichiatrica, se soltanto vengono indagati o almeno ascoltati e non esclusi in partenza. Risulta che i racconti veri sono il 59%, e i possibili il 24%, costituendo complessivamente la grande maggioranza del campione – fatto che appare di per sé significativo. Gli Autori hanno usato i criteri della letteratura per verificare l’attendibilità dei racconti, e cioè la coerenza e la costanza nel tempo, oltre alla conferma esterna da parte di familiari, magistratura e servizi sociali. Un criterio è assolutamente necessario e pertanto vengono considerati irreali gli abusi riferiti durante fasi acute di malattia o facenti parte di un delirio cronico, anche se su questo punto possono esserci dei dubbi. Un caso in particolare rientra nella categoria “vero”, in quanto riferisce un tentativo di abuso subito da uno zio a 16 anni e anche nella categoria Irreale, perché riferisce anche abusi subiti a 67 anni da parte di ladri che le entravano in casa. Si tratta di una situazione particolarmente interessante, perché come dicono gli Autori “il secondo abuso rappresenta verosimilmente una rielaborazione confuso-onirica della precedente esperienza reale”. Su un avvenimento reale si innesta in un secondo tempo un delirio: evenienza non rara e che può essere ravvisata anche nel caso descritto così vivacemente da Tobino. La paziente di Dalle Luche, ricoverata per una reazione paranoide in una demenza, viene dimessa con una perdurante convinzione delirante di essere mal giudicata da tutti come persona promiscua, con possibile proiezione di un vissuto di svalutazione e di autoaccusa tipico delle persone abusate, riscontrabile di frequente nella pratica clinica. In particolare i traumi che per un periodo prolungato comportano perdita di controllo rispetto alla propria vita, impotenza, perdita della fiducia di base, costruzione di un’immagine negativa di sé e mancanza di vie di uscita sono considerati come fattori causali di vari disturbi psichiatrici, compresi i disturbi bipolari che fino a poco tempo fa erano ritenuti i più sicuramente dovuti a fattori genetici. Tra i vari dati riferiti nell’articolo colpiscono l’età media elevata in cui viene fatta la rivelazione (43, 45 anni), mentre gli abusi sono sempre avvenuti quando le pazienti erano minorenni, cioè decenni prima. Più che di una vera e propria amnesia, i soggetti mostrano difficoltà a parlare dei fatti, che tacciono e cercano di allontanare attivamente dalla memoria. La rievocazione avviene spesso in occasione dell’insorgenza dei primi episodi acuti di malattia psichiatrica, con sintomi di tipo confusionale, dissociativo e di grande angoscia. A volte compaiono fenomeni pseudo-allucinatori anche in persone non affette da psicosi. Questi dati si prestano ad alcune riflessioni: la crisi anche psicotica può essere un momento di verità, di rivelazione di traumi coperti per anni dal segreto. Se lo scopo della terapia è la sedazione e l’eliminazione del sintomo, ovviamente si conferma alla paziente la necessità di tacere. Per quanto riguarda la totale, acritica attribuzione di verità alle dichiarazioni del paziente, va segnalato ciò che è successo negli USA quando si è fatta strada l’ipotesi che i traumi sessuali fossero il fattore causale principale se non unico dei disturbi dissociativi. Ciò ha comportato due conseguenze:
Negli USA fin dagli anni 80 si è avuto un marcato fenomeno di backlash, cioè di controreazione. L’abuso sui minori, in precedenza largamente ignorato, divenne dapprima l’oggetto di una grande attenzione da parte dei mezzi di comunicazione, dei clinici e dei legislatori, ma successivamente destò il timore di una nuova “caccia alle streghe” e il moltiplicarsi di critiche contro gli operatori, accusati di suggestionare i pazienti per far emergere abusi anche inesistenti. La difesa di persone accusate di abuso divenne un’industria capace di generare forti profitti (Vachss, 1989), sia nei processi penali sia nei processi legati a divorzi conflittuali, in cui uno dei coniugi accusava l’altro di essere un abusatore. Tuttavia, come dice Vachss, le affermazioni di alcuni sostenitori dell’esistenza dell’abuso, tipo “i bambini non mentono mai” rispetto a un eventuale abuso, appaiono retoriche e controproducenti, andando contro alle normali e naturali convinzioni del pubblico e procurando in realtà discredito sia ai pazienti che agli operatori. Vachss istituisce un parallelo tra questa situazione e quella verificatasi negli USA rispetto al problema della giustizia minorile: la rivelazione di maltrattamenti all’interno del sistema giudiziario minorile ha portato a un movimento di riforma, ma successive affermazioni retoriche del genere “Non esistono ragazzi cattivi”vii, espresse da coloro che difendevano gli interessi dei minori, hanno condotto a una perdita di interesse e di fiducia da parte dell’opinione pubblica. Dato che nel caso dell’abuso non esistono prove assolutamente certe, come possono essere le radiografie che indicano fratture causate da genitori violenti, l’unica strada possibile secondo Vachss non è la difesa con affermazioni di principio, ma la ricerca di criteri scientifici condivisi, procedure standardizzate, miglioramento della professionalità degli operatori e in sede giudiziaria la nomina di periti indipendenti dalle parti in causa. Il fenomeno di backlash ha portato dal 1992 al 1999 a una notevole diminuzione (-39%) delle segnalazioni di casi di abuso ai servizi competenti e dei casi dimostrati come realmente avvenuti (Jones, Finkelhor e Kopiec, 2001, citato da Malacrea, 2002). I motivi di tale notevole riduzione possono essere la crescente paura rispetto ai percorsi giudiziari, anche per la demonizzazione operata dai media nei confronti dei segnalanti, accusati di generare false accuse con metodi assimilabili al lavaggio del cervello. Anche in questo caso le posizioni appaiono molto schematiche: gli studi rivelano da un lato che non è poi così facile esercitare una suggestione sui minori - i quali se abusati hanno già subito una pesante suggestione da parte dell’abusatore sia per subire l’abuso che per mantenere il segreto – d’altro lato le testimonianze vengono considerate come un tutto unico (Malacrea, 2002), nel senso che sono giudicate inattendibili se alterate anche solo in una singola parte, mentre in realtà possono essere distorte nei dettagli mentre essere vere su aspetti più fondamentali. I servizi di protezione dell’infanzia nelle situazioni investigate da tali autori appaiono discreditati e demotivati, accusati di credulità e di scarsa scientificità da parte di legali e ricercatori (che non lavorano sul piano clinico e hanno altri obiettivi rispetto al benessere del minore) a causa dei forti carichi di lavoro, delle minacce di denunce e delle pressioni emotive a cui sono sottoposti. Anche in Italia Malacrea individua una forma di crescente stigmatizzazione, che accomuna gli operatori alle vittime e rinforza le già grandi difficoltà affrontate. Il riconoscimento dell’abuso induce inevitabilmente ad andare incontro al conflitto nei confronti di quanti per un motivo o per l’altro vogliono mantenere il silenzio e l’incredulità rispetto al fenomeno, minimizzandone l’incidenza e la gravità. Il tutto avviene in un clima arroventato da battaglie ideologiche, economiche e legali, in cui i difensori degli accusati reagiscono con pesanti attacchi alla affidabilità delle vittime e dei loro difensori, in sede di tribunale e sui mezzi di comunicazione. Colpisce la forte analogia tra il backlash a livello sociale e il percorso compiuto da Freud a livello individuale. Lui stesso da solo si è praticamente accusato di credulità e di facile suggestionabilità da parte dei pazienti che gli riferivano storie di abuso, quasi vergognandosi di essere caduto nei loro inganni, ed è passato ben si può dire all’estremo opposto, negando in linea di principio ed energicamente la possibilità stessa dell’abuso, anche in casi come quello dell’Uomo dei lupi e del presidente Schreber, in cui disponeva di informazioni molto chiare al riguardo. Non si tratta solo di oscillazioni di un pendolo legato a variabili sociali e culturali, ma probabilmente di dinamiche più profonde in cui osservato e osservatore si influenzano a vicenda, e una presunta neutralità si traduce a quanto sembra in cecità se non in abusività. Gli operatori che si occupano di abuso si trovano inestricabilmente e pesantemente ad avere a che fare con la realtà rappresentata dal sistema giudiziario, che ha altre esigenze e altri metodi di funzionamento rispetto alla clinica. L’abuso può essere assunto come un esempio paradigmatico particolarmente grave e difficile nell’inevitabile e anche precoce contatto e conflitto tra apparati sanitari, o singoli professionisti, e il resto (molto grande e soverchiante) della realtà sociale. Tutti o quasi gli autori raccomandano che la segnalazione alle autorità giudiziarie dei casi di presunto abuso non comporti smarrimento, danni e confusione uguali o superiori a quelli dai quali si vuole salvare la vittima. D’altra parte appare purtroppo chiaro che qualsiasi procedimento comporta inevitabilmente misure dolorose e conflittuali, quali procedure di polizia e processuali in qualche modo traumatizzanti e la compromissione dei legami familiari. D’altra parte anche la decisione di non far testimoniare le vittime per considerazioni di protezione (Sternberg, Lamb e Hershkowtiz -1996) porta a una forte riduzione delle denunce e delle condanne dei presunti abusatori. Nell’intento di trovare in sede giudiziaria una forma di valutazione scientificamente valida, data la scarsità di altre prove in questo tipo di reato, si sono individuati singoli indicatori di trauma sessuale, per arrivare almeno al concetto di compatibilità o possibilità dell’abuso con il quadro clinico. Ma, come fa notare Malacrea (2002) è ben diversa la ricerca di una lista di indicatori rispetto alla rilevazione di un complesso e articolato insieme di sintomi e vissuti interiori che deve essere valutato da chi deve diagnosticare. Ad esempio la CBCA (Criteria Based Content Analysis), applicata ai racconti di bambini che sicuramente erano stati abusati, dimostrava che in un terzo dei casi i loro racconti non erano convincenti, in quanto non soddisfacevano i criteri ritenuti necessari per ritenerli veritieri. (Tutto ciò fa riflettere molto più in generale sull’affidabilità di pure e semplici liste di indicatori assunte acriticamente come garanti di una verità assoluta, anche nel campo della diagnosi psichatrica.) Anche in sede di tribunale gli esperti sull’abuso sono andati incontro negli USA ad attacchi e discredito, anche in seguito a clamorosi casi giudiziari in cui il verdetto di colpevolezza iniziale è stato annullato in appello grazie all’accusa mossa agli esperti di aver suggestionato i testimoni. I contributi degli autori che trattano il comportamento che deve tenere il perito in questi casi richiamano doverosamente alla neutralità, al distacco e alla prudenza nel giudicare i dati raccolti, per non farsi ingannare da false denunce, ma trasmettono nondimeno l’impressione che il tecnico debba resistere alla tentazione e alla fascinazione rappresentate dall’ipotesi della veridicità dell’abuso (Malacrea, 2002) I bambini che rendono testimonianza e vengono intervistati relativamente agli abusi dicono però che l’atteggiamento non spersonalizzato, empatico e rispettoso da parte dell’intervistatore ha loro facilitato il compito e reso la situazione meno sgradevole. Sembra perciò che la necessità di un’adeguata imparzialità non debba essere confusa con freddezza in realtà intimidatoriaviii. L’applicazione di una rigorosa procedura a una perizia sul bambino, con lo scopo lodevole di evitare di influenzarlo, diventa semplicemente agghiacciante, come risulta da un esempio clinico di Kuehnle (1996), ampiamente e acutamente commentato da Malacrea (2002). Il paziente, di sei anni, riferisce al padre di essere stato molestato dal nuovo compagno della madre. Tra i due genitori è in corso una battaglia legale per l’affidamento. Viene sottoposto a un’intervista e a un esame medico, e nega. Viene visto in terza battuta dal perito e dichiara di non sapere perché gli siano stati fatti tali esami e perché ora non stia più con la madre e non veda più il suo compagno, ma stia invece col padre (che lo picchia con la cinghia, ma, dato che la comunicazione non riguarda il tema della perizia tale fatto non viene preso in considerazione). Gli vengono rivolte domande molto vaghe, intervallate da giochi, senza spiegargliene il significato e lo scopo. Da un minuto all’altro, senza alcuna preparazione, gli si presenta davanti il compagno della madre, che senza saperne il motivo non vede da un mese. Non gli viene detto il perché di tale incontro e non si risponde alle sue domande in proposito. La decisione finale è che non ci sono prove sufficienti per accertare l’abuso, ma che ugualmente il bambino continuerà a stare col padre (che lo picchia, ma non importa), che gli verrà data una terapia farmacologica e una psicoterapia. L’obiettività e il rigore scientifico sembrano portare a toccare il bambino il meno possibile, come se fosse una bomba innescata, a considerarlo un essere non pensante, a fare di tutto per non intrecciare un rapporto tra perito ed esaminato, anzi a evitarlo come un pericolo. In nome della neutralità viene respinta qualsiasi empatia e qualsiasi azione che consideri l’altro come un essere umano con motivazioni e bisogni propri. Già Freud nel 1896 in Etiologia dell’isteria dubitava che il medico potesse imporre al paziente sedicenti ricordi oppure che il paziente potesse suggerire al medico deliberate invenzioni o libere fantasie che questi potrebbe prendere per vere. ”Si dovrebbe badare a non suggerire ai malati, incalzandoli con domande, pretese reminiscenze e ci si dovrebbe guardare dal credere ai romanzi che essi inventano”. All’obiezione relativa alla falsità dei ricordi Freud risponde che prima dell’analisi il malato non sa nulla di queste scene e si ribella quando le sente riaffiorare. “Solo la forte coercizione del trattamento può indurlo a rievocarle; mentre richiama alla coscienza queste esperienze infantili soffre a causa di violente sensazioni delle quali si vergogna e che aspira a nascondere.” Anche dopo averle ricordate cerca di non prestarvi fede. L’ipotesi che sia il medico a imporre i ricordi gli sembra insostenibile perché “a me non è mai riuscito di imporre a un paziente la scena che mi aspettavo che si presentasse, a imporgliela in modo che questi sembrasse riviverla con tutte le sensazioni appropriate. Può darsi però che altri possano ottenere un maggior successo.” Da queste frasi il lettore ricava la sensazione penosa, forse non fondata, che il trattamento all’epoca comportasse forti pressioni sul paziente, volte a fargli ricordare traumi che il terapeuta già in anticipo, in base a una teoria preesistente, pensava fossero avvenuti. D’altra parte è possibile (Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa) che “le aggressioni così frequentemente denunciate dagli isterici siano invenzioni ossessive che provengono dalla traccia mnestica del trauma infantile.” Questo fenomeno, peraltro riscontrabile anche oggi, rende il problema ancora più complesso. E’ probabile che l’interesse per l’abuso sui bambini sia nato anche in coincidenza con l’inizio degli studi anatomopatologici sui cadaveri svolti in modo sistematico. Infatti il primo studio pubblicato è quello di Tardieu nel 1860: si trattava di un studio medico-legale sulle sevizie riscontrate in bambini, metà dei quali erano morti in seguito ai maltrattamenti da parte di genitori e insegnanti. Nel 1862 pubblicò un altro lavoro specificamente centrato sugli abusi sessuali. Nonostante l’evidenza assoluta di tali osservazioni, comprovate con metodi della massima scientificità, la scoperta com’è ben risaputo fu sepolta e osteggiata. E’ da osservare inoltre che la nota posizione della psicoanalisi, secondo la quale i ricordi di traumi sarebbero in realtà fantasie del paziente e non fatti reali, segna di fatto un peggioramento della situazione del paziente rispetto al passato. Se prima ci poteva essere poca o nulla attenzione per il problema, o anche accuse di simulazione, di ricatto e di guadagno secondario, adesso il racconto dell’abuso veniva invalidato sistematicamente e per principio, non in modo casuale e per così dire disordinato. E’ ancora da notare che la posizione della psicoanalisi è cambiata (e in parte) in pratica solo per l’intervento esterno del libro di Masson, altrimenti tutto farebbe pensare che sarebbe rimasta invariata fino ai giorni nostri. Un’altra scoperta scientifica che ha praticamente costretto e molto a fatica a prendere atto dell’esistenza dei maltrattamenti sui bambini è stata l’invenzione dei raggi X: i pediatri cominciarono studiare gli ematomi subdurali, le fratture multiple alle ossa lunghe e le fratture a vario grado di guarigione. E questo solo a partire dagli anni Quaranta fino agli anni Settanta del secolo scorso. I pediatri ammisero che le fratture potessero derivare da qualche trauma ripetuto, “ma la loro origine e il loro meccanismo rimaneva oscuro.” Furono fatte tutte o quasi le ipotesi possibili (abitudine di giocare con i bambini scuotendoli, problemi di mineralizzazione, sifilide, tifo e altre malattie) prima di arrivare alla realtà più evidente, e cioè che si trattava di gravi maltrattamenti intenzionali dei genitori nei confronti dei figli, anche quando si trattava di più figli con gravi traumi fisici provenienti dallo stesso nucleo familiare. “Le ossa raccontano una storia che il bambino non riesce a dire perché è troppo piccolo o troppo spaventato.” Fu così inventata la sindrome del “bambino picchiato” (battered child), cosa che indica una medicalizzazione dell’esperienza di abuso e di maltrattamento, che la pone sullo stesso livello di sindromi mediche di origine infettiva, tossica ecc. La vicenda del riconoscimento estremamente tardivo, combattuto e parziale che ha ricevuto anche l’abuso fisico, e non solo quello sessuale, fa riflettere. Alcuni ricercatori hanno notato una difficoltà nel riconoscere l’abuso di fronte a referti radiografici, mentre altri hanno riferito di essere stati attaccati a livello accademico da colleghi per le loro teorizzazioni sul tema dell’abuso. Inoltre l’ammissione dell’esistenza del trauma avvenuta a partire dagli anni 60 ha continuato a incontrare scetticismo. Ad esempio, per quanto riguarda le psicosi, è ammessa esclusivamente un’origine biologica (mai dimostrata), mentre non viene data alcuna importanza agli effetti del trauma, nonostante una mole di ricerche al riguardo. L’esistenza e l’effetto dell’abuso devono lottare continuamente per essere accettati, contro potenti forze sociali (e anche economiche) che tendono a negarli o minimizzarli. Sembra che ci possono essere dei cicli di interesse per il problema, seguiti da altri di negazione e di perdita di attenzione. L’abuso psichiatrico nei confronti dei bambiniUn ulteriore passo avanti (se così si può dire), dopo la semplice mancanza di interesse per l’abuso, il non ascolto e la negazione attiva (dopo Freud), è l’abuso perpetrato in modo deliberato, sistematico e finalizzato al guadagno, che si attua specie sui bambini diagnosticando false malattie e somministrando farmaci dannosi. Anche in questo ultimo caso, per poter perpetrare tale abuso con una parvenza di sostegno da parte di teorie scientifiche è necessario come prima mossa attribuire qualsiasi disturbo esclusivamente al singolo individuo, isolandolo dal suo ambiente sociale, familiare e culturale e negare in partenza qualsiasi causa non strettamente biologica. C’è un’analogia tra psicoanalisi e psichiatria biologica, nel senso che entrambe vedono il problema come dovuto soltanto a fattori interni (molto interni) al paziente, che in un certo senso ne è responsabile, e che per guarire deve riconoscere di essere malato e sottomettersi possibilmente di buon grado alle cure. Tra il 1987 e il 2007 si è registrata negli USA una prevalenza di 35 volte maggiore di malattie psichiatriche nei bambini, una vera epidemia. D’altra parte gli antipsicotici di nuova generazione sempre negli USA sono diventati la classe di medicine più vendute, superando i farmaci anti-colesterolo. Viene da chiedersi come sia possibile che disturbi biologicamente determinati, indipendenti da influenze ambientali, possano aumentare così vertiginosamente, a meno che tale aumento non sia semplicemente dovuto all’ampliamento dei criteri per la patologia mentale, al punto che quasi tutti risultano ammalati. Allo stesso modo va spiegato come mai nei paesi in via di sviluppo in cui viene trattata una percentuale molto più bassa di pazienti psicotici e con farmaci meno moderni, la prognosi sia migliore rispetto ai paesi industrializzati. Mentre la teoria che attribuisce la causa delle malattie mentali a un’anomalia della concentrazione cerebrale dei neurotrasmettitori, controbilanciata dal farmaco adeguato, non ha avuto finora alcuna conferma, si è visto invece che gli psicofarmaci inducono effetti compensatori con un meccanismo di feed back negativo sul livello dei neurotrasmettitori stessi. In altre parole, i neuroni reagiscono diminuendo o aumentando il rilascio del neurotrasmettitore e i neuroni postsinaptici diventano più o meno sensibili, cercando di annullare gli effetti del farmaco. Quando questo viene assunto per un lungo periodo, avvengono alterazioni sostanziali e durature, il cervello inizia a funzionare in modo anormale, perché gli sforzi di compensazione non funzionano più. Come sostiene Nancy Andreasen, “la corteccia prefrontale non riceve gli input di cui ha bisogno e va incontro a una progressiva atrofizzazione.” Quando si sospende il farmaco, i meccanismi di compensazione continuano a funzionare e si ha una caduta o un aumento eccessivo del neurotrasmettitore con forti effetti che vengono scambiati con una recidiva del disturbo di base. Mentre le patologie trattate dalle altre branche della medicina sono diagnosticate in base a esami di laboratorio e radiografie, i disturbi psichiatrici sono diagnosticati in base a elenchi di sintomi ed è possibile creare facilmente nuove diagnosi (365 nel DSM-IV-TR contro 182 nel DSM-II), cosa che permette alle case farmaceutiche di vendere maggiori quantità di psicofarmaci. Per quanto riguarda i bambini, anche di soli due anni di età, c’è un enorme aumento di diagnosi e di prescrizioni, anche di farmaci non approvati per questa categoria di età: le diagnosi di “disturbo bipolare giovanile” sono quadruplicate dal 1993 al 2004, come pure quelle di autismo, e di ADHD ( il 10% dei bambini in USA assume un amfetaminico per tale disturbo e 500.000 bambini prendono antipsicotici). A partire dagli anni Novanta la diagnosi di ADHD è stata sempre più sostituita da diagnosi di disturbo bipolare, cosa che comporta la somministrazione di antipsicotici off label. La condizione sociale e le pressioni esercitate sui genitori sono determinanti nel decidere se i figli saranno trattati o meno con farmaci. Le famiglie prive di assicurazione sono incoraggiate a fare domanda di previdenza supplementare (Supplemental Security Income) per una disabilità psichica propria o dei figli. Tale sussidio permette alla famiglia di ricevere l’assistenza di Medicaid (l’assistenza sanitaria per i cittadini americani a basso reddito). Alcune aziende profit stanno specializzandosi nell’assistere le famiglie povere a fare le pratiche per ottenere lo SSI, ma per averlo il richiedente, anche se è un bambino, deve dimostrare di assumere antipsicotici. Non appare strano perciò che i figli di nuclei a basso reddito abbiano una probabilità quattro volte maggiore di assumere psicofarmaci rispetto ai figli di famiglie che hanno un’assicurazione privata. Ci siamo imbattuti qualche tempo fa in un articolo che stabiliva che i bambini senza dimora erano depressi. Sul momento ci era parso incomprensibile il senso dell’articolo stesso: la condizione di essere senza casa pareva sufficiente a provocare depressione in chiunque e non sembrava necessaria una ricerca per dimostrare tale connessione, anzi le risorse spese in tale modo potevano essere dirette ad altri scopi. Ora pensiamo che fosse il primo passo per giustificare la somministrazione di antidepressivi. Nel 2006 Rebecca Riley di quattro anni è morta perché aveva assunto clonidina, sodio valproato e quetiapina per ADHD e disturbo bipolare, disturbi che le erano stati diagnosticati all’età di due anni. I due fratelli maggiori prendevano pure psicofarmaci e avevano la stessa diagnosi, i genitori avevano il sussidio SSI per i figli e per se stessi (circa 30.000 dollari all’anno) e avrebbe fatto domanda anche per la figlia, se non fosse morta. Varie case farmaceutiche distribuiscono farmaci per bambini e anziani (altra categoria sfruttata), pur non essendo tali farmaci approvati per tali categorie. A conti fatti, pur avendo dovuto pagare delle sanzioni, le aziende ci guadagnano ugualmente, convincendo i medici a prescrivere terapie psichiatriche off label. Ovviamente i bambini problematici, che spesso appartengono a famiglie problematiche, potrebbero essere aiutati maggiormente da interventi diretti alle condizioni ambientali piuttosto che da farmaci. Il nocciolo della questione, sia nell'abuso sessuale, sia nella questione piú ampia degli "abusi psichiatrici" é da identificare nel rischio sempre presente di ignorare il vissuto del paziente, che viene sacrificato dalla necessità di imporre un modello o una teoria. E' un rischio che attraversa tutta la storia della psichiatria, indipendentemente dal modello in quel momento dominante. Tutto ció sembra essere reso possibile dalla particolare situazione in cui versa il "malato di mente" nella societá modernaix. Freud, Fliess e l’operazione al naso di Emma EcksteinTornando a Freud e all’abbandono della teoria della seduzione, risulta abbastanza impessionante la vicenda, ampiamente descritta da Jeffrey Masson, della disgraziata operazione al naso effettuata da Fliess su Emma Eckstein, già accennata in precedenza. Ciò che colpisce in modo particolare è che Freud, di fronte al il dilemma tra la difesa dell’amico e la solidarietà umana e professionale nei confronti della paziente così pesantemente danneggiata, abbia anteposto la prima alla seconda, fino a sostenere che le emorragie che avevano minacciato la vita di Emma fossero di natura isterica e non la conseguenza di un grossolano errore di Fliess. Va sottolineato un aspetto che sembra essere una costante, sia nei riguardi della persona abusata sia nei confronti di una teoria concorrente. Non è sufficiente screditare l’altro, ma si verifica un vero e proprio accanimento, che esige dall’altro la completa ammissione del torto. Non basta quindi screditare, ma si arriva ad umiliare, in una sorta di perversa escalation. Emma, che subisce un danno e un torto gravissimi, è stata considerata da Freud colpevole del sintomo (le emorragie) che in realtà è stato causato dall’imperizia e dalla follia del suo amico otorinolaringoiatra. Sempre restando nell’ambito della storia della psicoanalisi, è evidente con che determinazione e oseremmo dire ferocia Freud osteggiò e combatté ogni tentativo di rivalutare la teoria della seduzione. Ferenczi, uno dei suoi allievi più brillanti e originali dovette subire il suo ostracismo più o meno esplicito. E' stato ipotizzato che la grave depressione che lo aveva colpito e la sua morte prematura fossero legati al dolore di questo trattamento, oltretutto messo in atto dalla persona che lui stimava in modo esagerato. Tutto diventa possibile, anche le cose più atroci, se la persona “alienata” è spogliata della sua individualità e va governata e indirizzata da operatori psichiatrici che sanno di cosa ha bisogno, come deve comportarsi e pensare. Questo retropensiero sopravvive tuttora nella pratica psichiatrica e si manifesta in modi più subdoli rispetto al passato, ma altrettanto violenti. Se sei un paziente psichiatrico devi aspettarti che il tuo modo di vivere, le tue frequentazioni, le tue scelte, i tuoi familiari vengano giudicati (il modi di vestire, le oscillazioni d’umore, gli slanci e le passioni, la musica che ascolti e le opinioni che esprimi). Se vengono nella tua casa giudicheranno come la tieni, i quadri che hai appeso alle pareti... La storia della psichiatria è drammaticamente segnata da innumerevoli casi di disconferma, negazione o indifferenza nei confronti dei vissuti dei pazienti. Nessun approccio psichiatrico, nessuna teoria sembra immune da questo rischio, tanto da rendere comprensibile l’esistenza di vasti e autorevoli movimenti antipsichiatrici, che hanno buon gioco nell’attaccare una “scienza” che ha molti scheletri non solo negli armadi ma anche nei salotti buoni. Henry CottonQuesta terribile vicenda ha come protagonista uno psichiatra americano, Henry Cotton, che seviziò per più di vent’anni centinaia di pazienti psichiatrici nel manicomio di Trenton nel New Jersey, di cui fu direttore dal 1907 al 1930. Il “lavoro” di Cotton venne sostenuto e legittimato da colui che viene tuttora considerato il padre della psichiatria americana, lo psichiatra Adolf Meyer. Cotton era convinto che la schizofrenia fosse causata da foci infettivi (teoria della sepsi focale): denti, tonsille, seni paranasali, stomaco e duodeno, tratto finale dell’intestino, tratto genito-urinario. Questa teoria, che si contrapponeva in modo frontale alla teoria della degenerazione genetica, in voga a quel tempo, veniva sostenuta da Cotton con una determinazione feroce ed fu salutata nel mondo scientifico, ma anche dall'opinione pubblica, come una scoperta rivoluzionaria che avrebbe debellato la follia, considerata incurabile. Cotton in un primo tempo operò massicce estrazioni dentarie ai poveri pazienti del manicomio, per poi proseguire nel tentativo di debellare ogni foco infettivo asportando organi interni, compreso il colon. La mortalità era ovviamente altissima, ma nonostante questo dato drammatico, le operazioni chirurgiche proseguirono per anni, di fatto senza alcuna seria opposizione da parte della comunità scientifica. Va tristemente notato che in realtà le critiche che vennero mosse a Cotton riguardarono non tanto gli alti tassi di mortalità e i problemi etici, ma la sfrontatezza dello psichiatra nel pubblicizzare il suo metodo al di fuori della comunità scientifica. Nel meeting annuale della APA tenutosi a Boston nel 1921 ci fu un largo consenso e un forte apprezzamento del suo lavoro. Il governatore di New Jork inviò l’anno prima una commissione per esaminare l’operato di Cotton, con il risultato che vennero stanziati fondi per dotare gli ospedali psichiatrici della città di un dentista. La vicenda si presta a innumerevole osservazioni. Ci interessa però focalizzare solo alcuni aspetti: 1) Ancora una volta la fiducia cieca di una teoria omnicomprensiva ha portato a disastri orrendi. Quando Cotton cominciò a dover giustificare fallimenti e insuccessi, invece di prenderne atto rafforzò ulteriormente la sua teoria, in qualche modo “rincarando la dose”: “Siamo responsabili di molti errori nella nostra pratica iniziale per il fatto che siamo stati troppo conservativi, cosicché oggi sappiamo che una totale eliminazione dell’infezione orale può essere ottenuta solo con una estrazione radicale, o ancora meglio, con la rimozione chirurgica dei denti infetti”. In effetti si verificò un progressivo aumento del numero totale delle operazioni sui denti, tonsille, seni paranasali, milza, stomaco, ovaie, vescica e cervice uterina. L’epilogo della vicenda di Henry Cotton è grottesco. Quando dovette subire un processo per gli abusi perpetrati, attraversò un periodo di forte crisi e anziché pensare di essere depresso, attribuì la sua prostrazione e il suo disequilibrio mentale a un’infezione, per cui si fece togliere i denti. 2) Il comportamento di Adolf Meyer, leader indiscusso della psichiatria americana dell’epoca, fu assolutamente discutibile e per certi versi simile a quello di Freud nei confronti dell’operato dello stimato amico e collega Fliess. Meyer, oltre a nominare Cotton direttore del manicomio di Trenton, lo difese strenuamente dalle critiche che si facevano via via più forti con il passare del tempo. Il suo atteggiamento di fatto permise a Cotton di proseguire per anni gli abusi operati sui pazienti, anche quando la sua posizione era diventata davvero indifendibile. Ad un certo punto fu costretto ad inviare una sua ricercatrice, la dottoressa Phyllis Greenacre, a Trenton. Cotton, vista la benevolenza dimostrata da Meyer, in un primo momento pensò che lei fosse dalla sua parte e solo successivamente capì che stava per produrre un report che avrebbe svelato il lato oscuro del suo metodo. Il documento della Greenacre dimostrava in modo impietoso i tassi altissimi di mortalità, già in parte conosciuti, e soprattutto la situazione penosa dei pazienti dimessi, considerati da Cotton come casi “guariti”. Il report si concludeva con queste frasi, di fatto una pietra tombale sull’operato di Cotton: “le quote più basse di miglioramento e più alte di mortalità si verificano nei casi trattati in modo più completo... nel gruppo dei pazienti migliorati si è trovata la quota più bassa di trattamento, quella più alta nei gruppo dei pazienti peggiorati o deceduti... il trattamento completo, che richiede l'intervento addominale, non è solo pericoloso per la vita, ma è anche inefficace nei pazienti che sopravvivono...” Quando Cotton lesse il report della Greenacre si infuriò, accusando la ricercatrice di gravi errori, rifiutando ogni critica. L’incontro tra lui, la Greenacre e Meyer, organizzato a Baltimora nel 1926, si concluse bruscamente in quanto Cotton, furibondo, abbandonò la città per far ritorno a Trenton. Per mesi Meyer evitò di rendere pubblico il report della Greenacre. La ricercatrice successivamente comprese che non si sarebbe fatto nulla per mettere fine agli esperimenti di Cotton e che lei non avrebbe avuto alcuna chance di pubblicare il suo lavoro. Nei confronti di Meyer la Greenacre mantenne un legame complesso, in cui si mescolava il senso di riconoscenza con la delusione per essere stata messa in disparte e non sostenuta nei momenti topici della sua vita. Per poter continuare a lavorare in modo proficuo e soddisfacente dovette abbandonare la sua attività per trasferirsi negli USA, dove divenne una stimata psicoanalista. 3) Un altro risvolto interessante della vicenda riguarda l’importanza che assume nella scienza il “materiale di scarto”, inteso come tutto il materiale non ufficiale, scoperto magari per caso in qualche cassetto, considerato inutile o marginale. Ciò si è già visto nella vicenda delle lettere di Freud a Fliess, recuperate dopo tentativi di distruzione e di censura da Masson nel 1985, a distanza di un secolo. Anche nel caso del presidente Schreber, un autentico progresso nella conoscenza e nella valutazione della vicenda si è avuto solo quando si è smesso di guardare lontano, alle sottigliezze della sua psicopatologia, e si è cominciato a scavare vicino, cioè a recuperare le pratiche e gli scritti reali di Schreber padre, lasciati in ombra, se non volutamente occultati, pur essendo disponibili a qualsiasi ricercatore. In questo caso il documento di scarto è il report della Greenacre, tenuto segreto, non divulgato eppure così utile per comprendere fino in fondo l’assurdità dell’operato di Cotton. L’operazione che fa l’ebm di selezionare le informazioni, di farne una rigida gerarchia va esattamente in senso contrario a questa considerazione: tutto ciò che non risponde a dei criteri di base, per l’altro del tutto discutibili, non ha valore né dignità ed è considerato solo carta straccia, spazzatura senza valore (Pezzoni e Buscaglia, 2010). Giorgio Coda Giorgio Coda lavorò a Collegno dal 1956 al 1964 e successivamente a Grugliasco, a “Villa Azzurra”, un istituto per bambini, rendendosi responsabile di maltrattamenti e sevizie nei confronti di tanti pazienti adulti e persino di bambini, a cui infliggeva vere e proprie torture, come lunghissime e dolorose contenzioni, non solo a letto ma anche a termosifoni bollenti, con conseguenti ustioni. Il “dottore” utilizzava una forma particolare di elettroshock, denominata “elettrostimolazione”, che non aveva alcuna valenza terapeutica, costituendo solo una forma sadica e violenta di punizione e di intimidazione. Si trattava di scariche elettriche alla testa o ai genitali per “curare” la masturbazione compulsiva, l’alcolismo, l’omosessualità. La vicenda è raccontata in un libro edito da Einaudi. Il titolo è ricavato da un episodio: un giorno il dottor Coda, disturbato da un paziente che cantava sotto le finestre del suo studio disse ad un infermiere: “Portami su quello che canta”. In fondo la vicenda potrebbe essere archiviata come espressione del sadismo perverso di una persona, che si è approfittato del suo ruolo e della sua carica per sfogare gli aspetti peggiori della sua personalità. In realtà vale la pena di sottolineare alcuni aspetti: 1) Il dottor Coda si difese dicendo di essersi limitato a utilizzare metodi terapeutici in uso in quel periodo. In fondo Coda era autore di numerose pubblicazioni scientifiche ed era stato uno degli allievi del professor Treves, considerato uno dei padri in Italia dell’elettroshock. A due anni dalla laurea pubblica con Treves il suo primo lavoro: “Tecnica azione indicazioni della Narco-shock terapia”, che presenta a un convegno organizzato dall’Ospedale neuropsichiatrico di Vercelli. A trentotto anni diventa medico capo di sezione, in pratica l’apice delle carriere ospedaliere. Pochi mesi dopo, nel 1963, ottiene la libera docenza in psichiatria. Il suo interesse professionale si concentra soprattutto sulle alterazioni psichiche indotte dall’alcool, visto essenzialmente come un fenomeno biologico, del tutto sganciato dal contesto sociale e dalle implicazioni psicologiche, come si può evidenziare dai titoli dei suoi lavori: “Rapida scomparsa delle manifestazioni del delirium tremens con l'associazione elettronarcosi-triesifenilide”, “La terapia del delirium tremens con un nuovo prodotto di sintesi: I + glutamrnina”, “La patergometria cutanea nelle psicotossicosi etiliche determinata con una nuova tecnica”, “Il test di Mahaux applicato allo studio dell’etilismo cronico”. Non sembra azzardato pensare che un’ottica così strettamente biologica possa aver favorito comportamenti sadici su esseri umani che venivano spogliati della loro individualità e considerati solo casi clinici su cui fare ricerche ed esperimenti. Coda è uno psichiatra di successo e le sue fortune vanno ricercate nella fiducia a tutto tondo nelle istituzioni e nelle pratiche psichiatriche, nella scienza asettica, vista come superiore alle imperfezioni e alle meschinità degli uomini. Non a caso il credito che Coda acquisisce nell’ambiente psichiatrico dell’epoca verrà abbondantemente ripagato dall’atteggiamento omertoso, pilatesco dei suo colleghi durante il processo. Di fatto nessun psichiatra di Collegno, durante tutta l'istruttoria, si presentò a testimoniare contro Coda, nemmeno gli psichiatri più critici nei confronti dell’istituzione manicomiale. L'unico testimone che ebbe il coraggio di sfidare Coda fu un infermiere, Giuseppe Biasini, che non venne sentito in istruttoria e volle parlare al processo. Fu lui a raccontare l’episodio del paziente che cantava sotto le finestre del Dr. Coda, da cui prese il nome il libro. Dalla deposizione di Biasini: “Gli elettromassaggi venivano eseguiti quasi tutti alla mattina nella sezione 6 o nella sezione 8, a volte anche in altre sezioni. Durante l'elettromassaggio erano presenti quattro o cinque, anche sei infermieri, secondo la statura del paziente. I pazienti si contorcevano, si muovevano, a volte perdevano di bocca la gomma e si rompeva qualche dente. Erano come convulsioni epilettiche. Mi è capitato di assistere a un elettromassaggio a un ragazzo di sedici-diciassette anni; erano massaggi lombopubici. Ho assistito a tre elettromassaggi praticati al ragazzo, di nome B. Durante il trattamento Coda gli diceva di non orinare più. Durante gli elettromassaggi, i pazienti qualche volta svenivano, altre volte appena slegati dal letto fuggivano spaventati.. .” ... “Non mi risulta che venissero praticati esami prima dell'elettromassaggio.” ... “Il malato che cantava si chiamava V. Credo che prima di allora non avesse subito altri elettromassaggi. Il V. era una persona mite, buona e non aveva mai dato fastidio ad alcuno...” 2) Nel processo la difesa portò diverse testimonianze di pazienti che difesero l’operato del Dr. Coda: “Gentilissimo signor professore. Come vede, grazie a mia Mamma mi a portato dinuovo a casa per me è una gran gioia, la mia Mamma fa di tutto per aiutarmi afinché io possa imparare per un domani a capire di più ... Ringrazio Lei per le premurose cure nella viva speranza che io possa guarire presto per poter imparare un mestiere. ... La saluto con rispetto, suo Marco. Voglia gradire anche da Mamma e zio i suoi sinceri ringraziamenti con riconoscenza. Asti li 7 febbraio 1967.” “Caro professore, io Le scrivo questa lettera per dirle che mi dispiace che a giugno vado a casa per sempre. Speriamo che possa venire in montagna. La saluto perché me ne vado per sempre e mi saluti sua moglie. C. Bruno. Febbraio 1967”. Queste lettere a lui indirizzate sono state utilizzate dalla difesa di Coda per dimostrare l’infondatezza delle accuse. Colpisce come sia stato possibile che pazienti curati da un tale psichiatra potessero spendere parole di ringraziamento per le sue “cure”. Situazioni come queste in realtà sono frequenti e si verificano abbastanza spesso, come abbiamo già rilevato in precedenza, nei casi di abuso. Si spiegano con il rapporto di sudditanza psicologica e il legame di dipendenza che spesso i pazienti hanno nei confronti degli operatori psichiatrici, che rivestono, nel bene e nel male, un ruolo di estrema importanza nella loro vita. E’ questo il punto di congiunzione che può essere trovato tra gli abusi nei confronti dei bambini e gli abusi psichiatrici. Se si prendono le considerazioni di Schreber padre, citate all’inizio dell’articolo, e si cambia il soggetto da “bambino” a “paziente psichiatrico” si ottiene questo testo, chi risulta particolarmente significativo: “L’operatore intelligente non sarà soddisfatto finché l’azione non sia compiuta come richiesto e non ne sia allontanata la causa perversa (cioè la volontà propria del paziente).” L'operatore psichiatrico deve fare qualcosa di più che controllare le azioni del paziente, deve controllare i suoi sentimenti e le sue motivazioni interne. “Gli operatori saranno ricompensati dall’insorgere di una meravigliosa relazione in cui il paziente è quasi sempre comandato da semplici movimenti degli occhi.” I pazienti non devono obbedire per ottenere ricompense o elogi, che sarebbero “veleno” per un desiderio “degenerato”, e neppure devono obbedire desiderando segretamente di disobbedire, devono obbedire credendo che l’obbedienza parta da loro stessi, cioè in pratica devono negare gran parte della propria esperienza emotiva. Lo scopo dell'operatore è dominare il paziente per sempre, di diventarne padrone anche solo con uno sguardo di minaccia. L’abuso e la psichiatria modernaIl paradigma attualmente dominante in psichiatria è quello medico-biologico. Si è sviluppato in un periodo di crisi della psichiatria, che rischiava di essere considerata una disciplina di serie B, in mano a ciarlatani e apprendisti stregoni. Si sentiva l’esigenza di dare pari dignità ai pazienti psichiatrici, di considerare la malattia mentale come una qualsiasi altra malattia. Uno degli strumenti utilizzati per avvicinare la psichiatria alle altre discipline mediche è stato il DSM, con il suo criterio categoriale e l’approccio riduzionistico. Questo sforzo, che per certi versi era anche comprensibile e persino apprezzabile, ancora una volta ha comportato problemi rilevanti per i pazienti. Loren Mosher, fondatore delle case Soteria, nella sua amara lettera di dimissioni dalla American Psychiatric Association, descrive molto bene lo stato d’animo di uno psichiatra impegnato ad aiutare persone e non conglomerati di neuroni di fronte al modello imperante: “A questo punto della sua storia, secondo me, la psichiatria è stata pressoché completamente comprata dalle compagnie farmaceutiche. L’APA non potrebbe continuare senza il supporto di incontri, simposi, riunioni di lavoro, pubblicità sulle riviste specializzate, gran giri di pranzi, borse di studio a josa ecc. ecc. , fornito dalle compagnie farmaceutiche. Gli psichiatri sono diventati i beniamini delle campagne promozionali delle compagnie farmaceutiche. L’APA, ovviamente, dichiara che la sua indipendenza ed autonomia non sono compromesse da questa situazione avviluppante. Una qualunque persona dotata di un minimo di senso comune assistendo ai meeting annuali osserverebbe invece che le esposizioni dei prodotti delle compagnie farmaceutiche e i “simposi sponsorizzati dall’industria” attirano folle di congressisti con le loro varie forme di allettamento mentre le sessioni scientifiche sono a malapena seguite. L’istruzione psichiatrica subisce ugualmente l’influenza dell’industria farmaceutica: la parte più importante del curriculum dei praticanti è l’arte e la quasi scienza di aver a che fare con gli psicofarmaci, cioè lo scrivere ricette”. “Queste limitazioni psicofarmacologiche al nostro essere medici completi limita anche il nostro orizzonte intellettuale. Non più cerchiamo di comprendere la persona nella sua interezza e inserita nel suo contesto sociale – piuttosto stiamo a riallineare i neurotrasmettitori dei nostri pazienti. Il problema è che è molto difficile avere un rapporto di relazione con un neurotrasmettitore- qualsiasi sia la sua configurazione...”. I neurotrasmettitori non hanno vissuti, né esprimono bisogni. Se davvero la sofferenza mentale viene ridotta ad una malattia neurobiologica, è chiaro che la terapia principale non può che essere quella psicofarmacologica, così come l’insulina lo è per il diabete. Il resto dei trattamenti, compresi quelli psico-sociali, non sono altro che integrazioni che hanno il solo scopo di favorire la compliance farmacologica e di esercitare il controllo sociale. Il delirio, non tanto diversamente dall’episodio citato del libro di Tobino, è un sintomo che va aggredito farmacologicamente, non ha alcun significato per la persona ed è del tutto inutile, persino anacronistico, occuparsi del nucleo di verità che contiene. E’ amaro notare come in questo contesto venga ignorata una delle intuizioni più originali di Freud e cioè la funzione difensiva del delirio a protezione di una possibile catastrofe psichica. In questo modo viene drammaticamente negato il vissuto della persona, svilito ancor più dall’uso improprio e perverso del concetto psicoanalitico di inconscio: “Il paziente dice che vuole essere dimesso, ma in realtà si è agitato e ha spaccato tutto perché in fondo vorrebbe essere tenuto in ospedale”. In pratica si abbandona ciò che di una teoria é rispettoso della persona e si utilizza in modo distorto un concetto fondamentale, rendendolo uno strumento di prevaricazione. Tutto questo avviene in una cornice torbida, per nulla libera da enormi interessi commerciali, con gli psichiatri non in grado di affrancarsi né eticamente né culturalmente da questi interessi, nei confronti dei quali spesso, purtroppo, mostrano una colpevole connivenza. Il rifiuto della terapia farmacologica viene considerata espressione di resistenza al trattamento e non consapevolezza di malattia, mentre vengono sottostimati o persino negati gli effetti negativi dei neurolettici. Sono sempre più numerose le testimonianze di pazienti che sono riusciti dopo anni ad affrancarsi dagli psicofarmaci e che descrivono lo stupore e il sollievo nel sentire nuovamente sentimenti ed emozioni dimenticate. La letteratura scientifica, compresa l’ebm che dovrebbe in teoria essere il più possibile “obiettiva”, tiene ai margini osservazioni e ricerche che mettono in luce i lati oscuri di un modello che risulta essere sempre più discutibile:
Un caso clinico
La ragazzina è inviata a un Servizio di Salute Mentale per colloqui. Appare molto intelligente, va bene a scuola, si occupa di un fratello e di una sorella minore e della gestione della casa mentre la madre è al lavoro. I rapporti in famiglia sono buoni, lei stessa colpisce perché molto attiva, capace e attenta. Ad esempio, nota un quadro nello studio e riconosce subito l’autore e lo stile, tra l’altro poco noti, meravigliando per il suo bagaglio culturale. La madre sembra una persona molto dedita alla famiglia, desiderosa di migliorare la propria condizione socioeconomica e sufficientemente sollecita nei confronti della figlia. Il padre, descritto come una persona un po’ immatura ma affettuosa, non si presenta perché impegnato in un’attività lavorativa con un orario molto pesante. Dopo diversi incontri la ragazzina decide di non proseguire i colloqui e in effetti non sembra che ci siano motivi particolarmente gravi per continuarli. La famiglia finisce poi su tutte le cronache dei giornali locali, perché successivamente il padre, che come si scopre aveva abusato della figlia, ha ucciso la moglie occultandone il cadavere e per questo viene processato e condannato. A quanto pare, il neurolettico non era la cura più indicata, o almeno non l’unica. Come dimostra questa esperienza, le psicosi acute o gli stati dissociativi possono essere momenti in cui si dissolve l’amnesia e compaiono indizi relativi all’esperienza traumatica, anche sotto forma di costruzione simildelirante. Chiaramente sono da evitare atteggiamenti speculari rispetto alla negazione e alla scotomizzazione, cioè la totale attribuzione di verità alle dichiarazioni del paziente che la considerazione del trauma come unico e vero fattore patogenetico. CONCLUSIONI Vogliamo riprendere brevemente alcuni punti già discussi:
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