Cristina Roccia(1) 1) L'impatto sull'adozione delle varie forme di abuso subite dal minore. Ricerche internazionali Solo recentemente sono state svolte delle ricerche per valutare come, e se, il tipo di maltrattamenti subiti dal minore prima di essere adottato possano incidere sul funzionamento famigliare e sul successo o insuccesso dell'adozione stessa. Tali ricerche sono state svolte per verificare essenzialmente se esista una relazione fra: 1) il bambino adottato e il tipo di maltrattamento subito da una parte, ed il funzionamento della famiglia che l'ha adottato dall'altra; 2) il tipo di maltrattamenti che il bambino ha subito e i suoi comportamenti "esteriori" durante l'adozione; 3) il tipo di abusi subiti dal minore e il grado di soddisfazione riferito dalla famiglia adottiva dopo alcuni anni dall'inserimento del minore. Le ricerche hanno dimostrato un legame evidente fra l'aver subito abusi sessuali e gravi maltrattamenti e il manifestare, dopo l'inserimento in una nuova famiglia adottiva, comportamenti altamente problematici, in particolare legati ad aggressività sia sul piano fisico, che verbale, che sessuale, qualunque sia l'età del minore adottato (Mason, Zimmerman and Evan, 1998; Smith and Howard, 1994 (2)). Molte altre ricerche hanno dimostrato una correlazione molto significativa fra gli abusi sessuali subiti dal minore, ed il rischio di interruzione dell'adozione. Lo stesso rischio di adozione interrotta non è stato invece evidenziato con bambini che hanno subito abusi fisici, psicologici o gravi trascuratezze (Smith and Howard 1991; Rosenthat 1993; Kagen and Reid 1986 (3)). Un interessante approfondimento sul tema della correlazione fra tipo di maltrattamento subito dal minore e difficoltà della famiglia adottiva a vivere in modo positivo l'adozione è contenuto nell'articolo di Erch and Leung (2002)(4). Gli autori hanno svolto negli Stati Uniti una ricerca su 52 famiglie che hanno adottato bambini che al momento dell'adozione avevano dai tre ai 16 anni di età. Esse sono state selezionate su un campione di 480 famiglie adottive in quanto avevano adottato bambini ritenuti con particolari problemi: minori con handicap fisico o mentale, con gravi problemi psicologici o emozionali, fratelli adottati tutti dallo stesso nucleo famigliare. Tutti avevano subito maltrattamenti o abusi sessuali prima dell'adozione, o gravi trascuratezze. Ai genitori adottivi è stato somministrato un questionario finalizzato a valutare il funzionamento delle relazioni parentali, il grado di soddisfazione della relazione dei genitori nelle relazioni con i figli, con una particolare attenzione ad evidenziare correlazioni significative fra il tipo di maltrattamento subito dal minore ed il grado di soddisfazione riferito dalla famiglia adottiva. Dalla famiglia è emerso che tutti i genitori di bambini vittime di abusi sessuali hanno riferito di vivere relazioni peggiori con i loro figli adottivi rispetto ai genitori che hanno adottato bambini vittime di altri tipi di abuso, qualunque sia l'età del minore o la tipologia del problema presentato. Uno dei dati più significativi, di cui gli autori non sanno dare una spiegazione chiara, è che non sempre i comportamenti dei ragazzi erano peggiori o più problematici degli altri bambini facenti parte della ricerca. In molti casi, nonostante i comportamenti dei figli fossero sì problematici ma non così diversi dagli altri bambini adottati, i genitori riferivano comunque una minore soddisfazione nelle relazioni famigliari, e una maggiore frustrazione e/o insoddisfazione. I dati sopra riportati confermano analoghe ricerche svolte sullo stesso tema e sopra citate. Gli autori osservano che il tipo di maltrattamento subito dal minore può essere un fattore predittivo del rischio di un fallimento dell'adozione, o di un suo peggiore funzionamento, mentre non può prevedere necessariamente il comportamento del minore stesso dopo l'adozione. Le due cose, secondo gli autori, vanno distinte. Un'interessante rassegna dei fattori pre-adottivi dei minori che si configurano come predittori dei disturbi comportamentali, e di conseguenza in gran parte del rischio di fallimento e/o di interruzione del percorso adottivo, è contenuta nel libro "Tra rischio e protezione. La valutazione delle competenze parentali" a cura di Paola di Blasio(5): Questi fattori predittivi sono: maltrattamento fisico e abuso sessuale, trascuratezza, genitori o caregiver con personalità dipendente, frequenti spostamenti in diverse famiglie affidatarie. A questi si aggiunge, come ulteriore amplificatore di rischio, la tarda età di adozione del bambino. La combinazione fra età al momento dell'adozione e la qualità delle cure ricevute dal bambino prima dell'adozione sembra, quindi, incrementare il rischio di insorgenza di disturbi comportamentali ed emozionali in adolescenza, e aumentare la probabilità di un insuccesso dell'adozione. Di Blasio evidenzia anche diversi fattori predittivi di un successo o insuccesso dell'adozione appartenenti alle famiglie adottive. 2) Perché l'abuso sessuale è un fattore di rischio per il percorso adottivo? Partendo dai dati che queste ricerche ci mettono a disposizione, di particolare interesse è cercare di dare delle spiegazioni alle motivazioni per cui l'aver subito abusi sessuali e gravi maltrattamenti nell'infanzia sia un indicatore predittivo di una elevata possibilità di insuccesso dell'adozione. In particolare è utile poter fare delle ipotesi sul perché in queste ricerche sia emerso che, nonostante i comportamenti dei minori non fossero più problematici di quelli di altri bambini in adozione, i genitori di vittime di abusi sessuali riferivano comunque una minore soddisfazione nelle relazioni famigliari e una maggiore frustrazione e/o insoddisfazione. La spiegazione, troppo semplicistica e banale, che l'abuso sessuale è un tipo di maltrattamento così grave da lasciare segni indelebili nel minore, non ci aiuta infatti a trovare delle strategie per rendere meno frequenti o meno probabili i fallimento di questo tipo di adozioni. Questo articolo vuole porre l'attenzione su due aspetti particolarmente importanti alla comprensione di questo fenomeno, l'uno relativo alle relazioni di attaccamento interiorizzate dal bambino maltrattato, l'altro dall'emergere di comportamenti sessualizzati e/o della rivelazione dell'abuso sessuale durante il percorso adottivo. 3) Abusi fisici e sessuali nell'infanzia, danni nelle relazioni di attaccamento e nella fiducia di base La teoria di Bowlby(6) definisce la relazione di attaccamento come un legame affettivo duraturo tra il bambino e un adulto specifico che si prende cura dei suoi bisogni fisici e psicologici. Tale legame, sin dal primo anno di vita, si organizza intorno ad una figura protettiva specifica che coincide, solitamente, con la madre. E' possibile però che il bambino stabilisca dei legami di attaccamento anche con altri adulti che si prendono cura di lui in modo costante e continuativo. La qualità del legame è strettamente correlata con gli scambi interattivi che il bambino ha avuto modo di sperimentare con ciascuna di queste figure di riferimento. Gli adulti sensibili, che percepiscono correttamente i segnali e vi rispondono prontamente e in maniera adeguata, aiutano il bambino a costruire una relazione di attaccamento sicura; al contrario adulti insensibili, o discontinui nella loro sensibilità ai bisogni del bambino, o peggio ancora maltrattanti, contribuiscono a costruire nel bambino una relazione di attaccamento insicura o disorganizzata (Ainsworth et al, 1978; Main e Solomon, 1990(7)). Dalla seconda metà del secondo anno di vita i bambini sono in grado di interiorizzare le esperienze vissute con i genitori, o con figure di attaccamento sostitutive, e di costruire quelli che vengono definiti "modelli operativi interni", ovvero rappresentazioni di se stessi e delle figure di attaccamento, che svolgono l'importante funzione di prevedere il comportamento del caregiver e di guidare il comportamento dell'individuo nelle nuove situazioni interattive, sia nell'infanzia che nell'età adulta (su questo tema è possibile consultare i numerosi testi scritti da Bowlby). La qualità della relazione di attaccamento, oltre che dalla natura degli scambi tra madre e bambino, viene anche influenzata dalle esperienze infantili di attaccamento dei genitori stessi. Adulti maltrattanti o insensibili nei confronti dei figli possono aver sperimentato nella propria infanzia forme di accudimento poco sensibili da parte dei propri genitori. Molti studi hanno dimostrato che esiste una continuità nei modelli di attaccamento tra una generazione e l'altra. Il maltrattamento è stato considerato una delle cause principali dello sviluppo dell'attaccamento disorganizzato, ed uno studio condotto da Main e Solomon nel 1990(8) afferma che l'80% dei bambini maltrattati sviluppa un attaccamento disorganizzato. I comportamenti disorganizzati non sono solo bizzarri e incoerenti, sono indicatori delle esperienze di stress e ansia che il bambino non riesce a gestire poichè la figura di attaccamento, sebbene sia la causa di tali sentimenti negativi, contemporaneamente costituisce anche l'unica fonte potenziale di aiuto. In tali situazioni paradossali le strategie organizzare del bambino falliscono e il bambino viene lasciato in balia di un'angoscia ingestibile. Nei casi di abuso, per esempio, si sviluppa un attaccamento disorganizzato a causa del paradosso imposto dai genitori abusanti: essi sono potenzialmente la fonte primaria di conforto del bambino, ma allo stesso tempo lo terrorizzano con le loro condotte abusanti imprevedibili. Il genitore viene percepito come fonte di paura ma anche come figura di attaccamento che dovrebbe fornire sollievo alla situazione di stress; si oppongono quindi nel bambino il desiderio di prossimità e quello di allontanamento dai genitori. L'elemento comune a questi casi di attaccamento disorganizzato sembra essere l'assenza di una strategia organizzata per affrontare lo stress nella Strange Situation (e di conseguenza in generale nella vita in occasioni di situazioni stressanti o quando serve saper regolare le proprie emozioni). Marinus H. van Ljzendoorn, Carlo Schuengel, Marian J Bakermans Kranenburg (9), riferendo i risultati di 80 studi sull'attaccamento disorganizzato che hanno coinvolto più di 6.000 diadi genitore-bambino, affermano che la disorganizzazione dell'attaccamento può essere considerata uno dei fattori di maggior rischio per lo sviluppo di psicopatologie nell'infanzia, in particolare nell'emergere di disturbi comportamentali. Inoltre tale stile di attaccamento sembra avere una grande stabilità nel tempo, e molto spesso risulta permanere nel soggetto anche se esso viene inserito in comunità, gruppi famiglie o famiglie adottive o affidatarie in cui possono essere sperimentati altri stili di relazioni affettive e di attaccamento. Lo stesso dato viene sostanzialmente confermato da una ricerca svolta in Italia da Rosalinda Cassibba e Alessandro Costantini(10). Quale influenza hanno le osservazioni sin ad ora fatte sull'inserimento di un minore maltrattato in una famiglia adottiva? Alcune riflessioni su questo argomento sono state fatte da J. Hodges(11) attraverso una ricerca mirata a rilevare i cambiamenti nelle relazioni di attaccamento e in altri aspetti dei modelli operativi interni durante il primo anno di collocamento dei minori nelle nuove famiglie. Altre possono essere fatte alla luce della mia esperienza clinica come psicoterapeuta che da anni opera nel trattamento di bambini maltrattati e di famiglie affidatarie e adottive. I genitori adottivi arrivano carichi di aspettative al momento dell'incontro con il nuovo bambino, desiderato e immaginato per anni. Ogni genitore ha aspettative proprie e specifiche rispetto al figlio, ma nella maggioranza dei casi il diventare genitori porta con se l'aspettativa di poter avere un bambino da poter amare essendo ricambiati e, nel caso dell'adozione di bambini "grandi", anche il desiderio "riparare" le ferite che il minore ha subito nel suo passato attraverso l'amore che il genitore potrà dare nel presente e nel futuro. L'adulto che adotta un minore vittima di gravi maltrattamenti, ed in particolare di abusi sessuali, si trova invece molto spesso di fronte a bambini e ragazzi che hanno paura di essere amati, e che rifiutano ogni forma di avvicinamento e di contatto fisico, emotivo e affettivo con il nuovo genitore (magari perché hanno sperimentato delusioni gravissime su questo versante quando si sono legati anticamente ai genitori naturali), oppure a bambini e ragazzi che provano un affetto mescolato a sentimenti di odio o di rabbia (così come l'affetto che gli è stato proposto) Hodges ipotizza che i modelli operativi interni del minore governino non solo le sue aspettative e le previsioni sul futuro, ma anche il modo in cui l'esperienza attuale viene percepita: così il comportamento dei nuovi genitori può essere a volte percepito come non diverso da quello dei genitori biologici, il che conferma i modelli operativi interni esistenti. << Tanto io non conto niente per loro, mi vogliono solo fregare, mi fanno dei regali per un secondo fine non perché mi amano; mi volevano picchiare anche se loro dicono che mi stavano solo parlando normalmente >>: conseguenza di tale pensiero è che tutto ciò che il genitore fa in positivo può venire vissuto come una cosa negativa dal bambino, che reagisce come se stesse ricevendo aggressioni invece che manifestazioni di affetto. Sempre secondo Hodges siccome i modelli operativi interni del minore maltrattato prevedono reazioni di rifiuto e di non soddisfacimento del bisogno di attaccamento, i modelli operativi interni dei bambini sabotano inconsapevolmente le esperienze differenti, impedendo quindi ogni modificazione a un copione pur negativo ma conosciuto, e quindi percepito come l'unico possibile. Per esempio un bambino evita di mostrare segni di malessere poiché si aspetta una risposta di rifiuto invece che di conforto, e non da quindi al genitore adottivo la possibilità di consolarlo e quindi di aiutarlo a sviluppare una diversa serie di aspettative. Luca, 11 anni, quando sta male invece di piangere ride o fa "il pazzo ", urlando e diventando incontenibile. Il proprio padre naturale gli diceva sempre che non doveva piangere e gli schiacciava le pupille degli occhi se lo faceva (vedi caso illustrato nell'ultimo capitolo). Luca ha imparato a non piangere mai, ma dovendo sfogare il proprio malessere in qualche modo diventa antipatico e incontenibile e perde l'occasione di essere coccolato e consolato amorevolmente. Non può neppure immaginare, come lui stesso dice, che di fronte al suo pianto possa esserci una risposta diversa dal sadismo. Infine, sempre Hodges ipotizza che i genitori maltrattanti in alcuni momenti siano disponibili e affettuosi, così il bambino sviluppa un modello operativo interno secondo il quale non ci si deve mai fidare delle apparenze: per quanto positivamente si comportino i genitori adottivi, in maniera imprevedibile diventeranno rifiutanti o aggressivi. E' evidente che questo impedisce a genitori e figli di godere di momenti di intimità e tenerezza; il contatto fisico diventa fonte di molta ansia per il minore, che lo rifiuta e ne ha paura pur desiderandolo e cercandolo. Anna, otto anni, stuzzica sempre i genitori adottivi facendogli il solletico o abbracciandoli in modo sessualizzato o aggressivo. Li cerca e li respinge nello stesso momento, suscitando in loro reazioni controtrasferali negative. In braccio alla madre le dice che "puzza di gatto" e poi si pulisce la guancia dopo aver ricevuto un bacio facendo una faccia disgustata. L'intimità diventa poco alla volta negativa per entrambi, per il minore perché ne ha paura e la desidera nello stesso momento, per il genitore perché si sente respinto, rifiutato, aggredito, a volte "abusato" e "violato". Franca invece, quindici anni, ricambia un abbraccio accompagnato da parole affettuose datole dalla madre adottiva in un momento di particolare intensità emotiva, con un allontanamento: << Smettila di comportati così. Ma allora vuoi proprio farmi piangere. Non avvicinarti così tanto che mi fai mancare l'aria >>. Chiunque abbia subito l'incesto, afferma Welldon(12), a prescindere dal sesso di appartenenza, incontra enormi difficoltà a creare rapporti interpersonali, e questi ostacoli corrispondono allo stato confusionale prodotto da esperienze traumatiche e precoci di abuso. La profonda ferita prodotta dall'abuso sessuale o dalle situazioni di estremo maltrattamento può produrre nel soggetto una sfiducia di base verso "gli altri". Non è infrequente sentire frasi come: "Odio gli uomini e non mi fido delle donne" pronunciate da ragazze che vivono il mondo come nemico, con diffidenza e sospettosità. In molte situazioni l'adulto si sente relegato dietro un sottile ed invalicabile muro, invisibile ma molto resistente, che impedisce ogni forma di avvicinamento fra se stessi e il minore del quale ci si vuole prendere cura. Lorenza è una preadolescente che sembra indifferente a qualsiasi accadimento intorno a lei: può essere picchiata dai genitori affidatari, derisa dai compagni, ma anche coccolata ed amata con tenerezza. Nulla sembra arrivare davvero fino al suo cuore e ciò la fa apparire sempre terribilmente distante a chi si occupava di lei. Le esperienze di abuso generano in chi le subisce un sentimento di diversità dagli altri, e minano profondamente il senso di appartenenza. Questi meccanismi di difesa, messi in atto nella relazione quotidiana con un genitore, un educatore, un terapeuta, possono indurre nell'adulto sentimenti di contro-identificazione. E' difficile riuscire a reggere il bisogno di questi ragazzi di mantenere le distanze, la loro paura di coinvolgersi in qualunque rapporto interpersonale. Come adulti ci si può sentire rifiutati, impotenti, ed agire di conseguenza. Le difese che separano il minore dal resto del mondo sono, in molte situazioni, tanto forti da non permettere non solo un sano accesso alle relazioni affettive, ma neppure una naturale ed indispensabile curiosità verso la vita. Un atteggiamento di rassegnazione e disinteresse verso la vita, le persone e le cose che lo circondano è una tragica quanto diffusa problematica di molti adolescenti vittime di gravi maltrattamenti. A volte questo ritiro dal mondo si manifesta con un fallimento nella vita lavorativa o scolastica, ma in molti casi esso può spingersi fino al punto di portare l'adolescente ad una totale apatia in cui niente e nessuno riesce a risvegliare un qualche interesse. Non è infrequente che il muro di difese che il soggetto erige fra se ed il mondo assuma la forma del comportamento aggressivo, provocatorio, strafottente. Può capitare che un atteggiamento aggressivo, oppositivo, venga scambiato per sicurezza, determinazione. In realtà è molto spesso sintomo di estrema fragilità, di paura. I ragazzi che ostentano questo tipo di atteggiamento sono quelli che hanno bisogno di protezione, aiuto nelle loro decisioni, anche se questo può voler dire scontrarsi duramente. << Che me ne fotte! >>, dice spesso Sara quando viene messa di fronte ad una qualche difficoltà. Se Sara "se ne fotte" di tutto non può soffrire e nella sua onnipotenza può illudersi di essere invulnerabile. Proprio nell'aggressività risiede spesso l'idea di potersi difendere dalle avversità della vita; essere forti, capaci di rapportarsi in modo adeguato agli altri, significa essere aggressivi per molti soggetti traumatizzati. Nella loro infanzia hanno imparato che solo chi urla più forte ed impone con la forza e la violenza la propria volontà ha diritto di esistere. L'aggressività può essere anche una forma di reazione all'estrema situazione di impotenza sperimentata nel corso dell'abuso, quando, vittima inerme, si è dovuto subire impassibili l'aggressività altrui. La prima segnalazione su Sara venne fatta dalla scuola quando ancora la bambina frequentava le elementari; aveva rotto la testa di un suo compagno con un mattone e picchiava tutti i bambini che le si avvicinavano. Era affetta da una forma di mutismo elettivo e comunicava solo attraverso atti di violenza. In molti soggetti traumatizzati si può manifestare a volte una vera e propria paura di esistere, come nel caso di Francesca, oggi ventisettenne, che apparentemente è una donna forte, aggressiva, così terribilmente arrabbiata da allontanare da sé tutti coloro che tentano di avvicinarla. Dietro la sua rabbia si nasconde una bambina che ha sempre solo desiderato scomparire; << Quando andavo a scuola strisciavo contro i muri perché speravo sempre di non essere vista dagli altri, avrei voluto essere trasparente perché pensavo che sul mio corpo fossero visibili a tutti le tracce delle azioni vergognose che facevo all'oratorio. Quante volte ho desiderato di non essere nata. Quante volte ho incrociato lo sguardo di un mio compagno ed ho pensato: 'Lui sa...', e speravo di potermi dissolvere nel nulla come una bolla di sapone >>. Anche la rabbia è in un certo senso un modo per scomparire: Francesca non è più vista perché la sua travolgente aggressività sovrasta ogni cosa e rende invisibile la ragazzina fragile che lei è, allontana gli sguardi indiscreti perché nessuno è in grado di reggere troppo a lungo il contatto con la sua aggressività. Aggredire è in fondo un modo per restare soli. Anche i comportamenti sessualizzati, molto spesso presenti in molti bambini e adolescenti vittime abusi sessuali, possono in parte essere letti come un modo che tenere lontane le persone. Attraverso di essi gli adulti, ma anche i coetanei, spesso provano rabbia, imbarazzi, molto spesso anche disgusto. A volte invece sono un modo attraverso il quale il minore rivive, incosciamente, il trauma subito. Jane F. Silovsky e Larissa Niec(13) hanno condotto delle ricerche sui bambini piccoli che presentano comportamenti sessualizzati, evidenziando come problemi nella condotta sessuale nella prima infanzia abbiano ampie implicazioni per lo sviluppo sociale, emotivo e comportamentale e per l'adattamento a lungo termine. Risposte stigmatizzanti da parte degli adulti, in particolare da parte delle figure di accudimento primarie, potrebbero inibire il concetto di Sé, in fase di maturazione, di questi bambini. Scarse capacità di controllo degli impulsi, altri comportamenti aggressivi ed errate percezioni degli stimoli sociali limitano ulteriormente le relazioni sociali di alcuni bambini con problemi della condotta sessuale e causano problemi a scuola. Crescere un bambino con problemi di comportamento sessuale è spesso stressante per il caregiver e potrebbe portare ad interazioni disfunzionali adulto/bambino, anche causandone l'allontanamento dal nucleo famigliare. Infatti molti dei bambini oggetto dello studio sopra citato avevano già cambiato diverse collocazioni abitative, in parte proprio a causa dei loro comportamenti sessualizzati mal tollerati dai genitori adottivi o affidatari. 4) Quali famiglie per i bambini maltrattati? Narrare o tacere alla famiglia adottiva o affidataria la storia del minore ? Siamo giunti al punto della nostra riflessione in cui diventa importante che gli operatori si pongano alcune domande circa il comportamento da tenere prima dell'inserimento di un minore vittima di abusi sessuali o gravi maltrattamenti in un nuovo nucleo famigliare: Quali caratteristiche deve avere una famiglia per poter reggere, o almeno sperare di reggere, a situazioni così stressanti quali quelle sopra descritte? Quali interventi possono essere predisposti al fine di rende più probabile un successo nell'adozione di bambini così problematici? Occorre informare le famiglie che il minore che intendono accogliere in casa loro ha subito un abuso sessuale o una grave forma di maltrattamento? Occorre dire loro a quali situazioni probabilmente andranno incontro? Le risposte a queste domande non sono certo semplici, e tuttora le opinioni sono diverse fra gli operatori che operano nell'ambito dell'adozione e dell'affidamento. Innanzi tutto gli operatori devono aver ben chiaro che l'inserimento di un minore vittima abuso sessuale o gravi maltrattamenti fisici, qualunque sia la sua età, è altamente a rischio di insuccesso in qualunque famiglia, anche la più disponibile ed accogliente. Di Blasio evidenza nel suo studio sui fattori di rischio e protezione (op. citata) diversi fattori "protettivi" per il bambino che hanno a che fare con la famiglia e non con il minore. La variabile più importante può essere individuata nel livello di flessibilità e adattabilità della famiglia adottiva. I coniugi che sono stati in grado di modificare il proprio standard di vita e mantenere una costante flessibilità durante gli anni successivi all'adozione mostrano, quando il figlio entra nell'adolescenza, livelli di soddisfazione maggiori, giudicano più positivamente la scelta compiuta e tutto questo si traduce in un effettivo benessere del giovane adottato. Molte ricerche evidenziano come risulti cruciale il ruolo della madre adottiva. Come le ricerche descritte nei paragrafi precedenti evidenziano, ciò che risulta maggiormente difficile da gestire per i genitori adottivi non sembra essere tanto il comportamento problematico dei minori, non poi così diverso dagli altri bambini adottati, quanto la loro distanza affettiva e la relazione quotidiana con un soggetto con modelli di attaccamento disorganizzati. Il minore può indurre nell'adulto sentimenti così negativi da farsi rifiutare, a volte persino odiare. La scelta fatta da molti operatori di non dire nulla alla famiglia sia del passato del bambino che stanno per accogliere in casa, sia delle difficoltà alle quali con molta probabilità andranno incontro nella relazione con quest'ultimo, sembra essere in molti casi quasi un "affidarsi alla fortuna" in una sorta di roulette russa di cui a volte le vittime sono sia le famiglie che i bambini. Nel timore che i bambini con un passato così impegnativo e problematico possano venir rifiutati pregiudizialmente in base alla loro storia, gli operatori si trincerano dietro il bisogno di privacy e di riservatezza dei minori sperando che l'amore, il tempo e forse la fortuna, facciano la loro parte. Per fare un paragone che può apparire bizzarro, mi sembra che sia come inserire un bambino che ha una grave malattia fisica senza informarne la nuova famiglia, sperando che la malattia in qualche modo guarisca da sola o che comunque, quando i genitori se ne accorgeranno, se ne prenderanno cura perché ormai si sono affezionati al loro bambino. I minori vittime di abusi sono bambini che hanno ciò che una scrittrice definì poeticamente come "una malattia dell'anima", ma pur sempre di una malattia si tratta. I danni che hanno subito sono gravi, a volte permanenti, e il fatto che possano essere danneggiati "nell'anima" li rende maggiormente vulnerabili a tutti gli errori che noi adulti possiamo fare nei loro confronti. Sperare che un genitore possa prendersi cura di un bambino "malato" senza dargli l'adeguata preparazione per farlo significa metterlo in grave difficoltà, e con lui il bambino che delle sue cure ha bisogno. Perché la maggior parte degli operatori psicosociali non informa la famiglia adottiva del passato del bambino? Al di là di fattori più razionali che si rifanno a varie scuole di pensiero, esistono fattori emotivi che impediscono agli operatori di prendersi cura fino in fondo del disagio del bambino maltrattato. La violenza all'infanzia è tendenzialmente impensabile. Se intendiamo per "atrocità" un'azione traumatica volontaria, che produce volontariamente un danno ad un essere umano ad opera di un altro essere umano, la risposta normale è quella di fare scomparire l'atrocità stessa dalla coscienza. Pensare in modo adeguato il maltrattamento implica sempre la tolleranza di un dispiacere, e il superamento di una resistenza psichica: la mente infatti tende ad evacuare la percezione di tutte le forme di abuso ai minori, in particolare quelle più atroci. Entrare in contatto con un bambino abusato facendogli raccontare la sua storia significa essere disponibili a tenerla nella propria mente, a condividerne il dolore, la disperazione, ad essere in qualche modo "contagiati" dall'orrore della sua esperienza traumatica. Più che il racconto delle violenze subite, ciò che risulta difficile da tollerare per l'adulto sono le emozioni che ad esso si accompagnano, emozioni che inizialmente appartengono alla vittima ma che poco alla volta diventano facenti parte anche dall'ascoltatore. Condividere con un bambino l'esperienza di essere stati da sempre non amati, abbandonati, strumentalizzati da adulti perversi o sadici, significa: provare la disperazione che lui ha provato quando si sentiva totalmente impotente ed in balia dei propri aguzzini; l'orrore per comportamenti sadici o perversi che il racconto ci porta a "vedere" in qualche modo attraverso gli occhi della vittima; il disgusto che certe azioni ci suscitano (e le vittima sanno di far provare all'ascoltatore questo disgusto e anche per questo hanno timore ad esporsi pensando di suscitare in noi proprio questi sentimenti); l'impotenza provata dal bambino che diventa anche la nostra impotenza di fronte alla consapevolezza di quanto poco possiamo fare per aiutarlo e per riparare le sue ferite del passato; la paura nei confronti dell'adulto maltrattante che a volte contagia anche gli operatori e fanno prendere decisioni assurde o sbagliate; la rabbia nei confronti di chi ha fatto così male a un essere indifeso e troppo spesso non viene neppure punito. La storia di Luca, bambino abusato e arrabbiato in affidamento Luca, dieci anni, è stato abbandonato dalla madre in tenerissima età, il padre è tossicodipendente e sistematicamente si drogava davanti a lui. Luca pensava sempre che il padre morisse, con quella siringa conficcata nel braccio, ma, dopo, ogni volta, il padre si rialzava. Il bambino era affidato alle cure di un amico di famiglia, anch'egli tossicodipendente, che per anni lo ha picchiato ed abusato in modo sadico (l'uomo è stato poi condannato a sette anni di manicomio criminale). Si trattava di un individuo psicopatico che ha usato Luca come un oggetto per sfogare non solo i propri istinti sessuali perversi, ma anche e soprattutto i propri istinti sadici. Luca infatti doveva subire ogni genere di violenze senza mai piangere, senza urlare, senza lamentarsi, senza dire che stava soffrendo. Quando all'età di otto anni viene allontanato dalla famiglia perché ormai il suo stato di abbandono era pressoché totale (veniva abbandonato spesso in luoghi pubblici quali scuole o strade e i vigili lo portavano da parenti, finchè anche questi ultimi non lo hanno più voluto), dopo un breve periodo di permanenza in comunità viene dato in affidamento ad una coppia senza figli. In comunità Luca racconta, solo accennandolo e senza descrivere alcun particolare, l'abuso sessuale subito, e viene aperto un procedimento pensale nei confronti dell'abusante. Nulla viene però detto alla famiglia affidataria che scoprirà casualmente il fatto. Lo psicologo del servizio che segue il minore non si fa mai raccontare nulla dell'abuso. Luca recita con lui la parte del bravo bambino, magari un po' agitato ma pur sempre "bravo" perché non lo obbliga a prendere contatto con l'orrore da lui subito. Dopo qualche mese dall'inizio dell'affido lo psicologo dice alla famiglia che gli sembra che Luca non abbia più bisogno del sostegno psicologico perché "sta bene" ed è meglio che dimentichi il passato anziché riviverlo in una terapia. Nel periodo in cui il Tribunale lo chiama a deporre all'interno del processo, Luca inizia a raccontare la sua storia ai genitori affidatari con i quali ha un ottimo rapporto. I racconti, spaventosi, avvengono nei momenti più impensabili e inopportuni, mettendo a dura prova la tenuta della coppia affidataria. Nella terapia che il bambino ha iniziato con me qualche tempo dopo, il ragazzino trova uno spazio in cui invece di fare "il bravo" può portare il suo malessere e il suo mondo interno, popolato di mostri, morti, sangue, film horror, violenze, perversioni. Luca porta a me anche la sua parte che teme essere stata "contagiata" dalle violenze subite: più volte dice di essere stato contagiato dall'AIDS come rappresentazione del "male" in senso lato, e mi mette in guardia dalla possibilità che anche io possa prendermi l'AIDS standogli vicino. Quella parte "contagiata" (come lui la chiama) che Luca mi porta in seduta assomiglia ad un piccolo delinquente violento e perverso. Già in famiglia questo aspetto era venuto fuori da diversi mesi (la recita del bravo bambino ha retto solo poco tempo), così come a scuola dove ha collezionato diciassette note in un mese (cosa che lui riporta con orgoglio) e ha fatto amicizia con i "peggiori" ragazzini della classe. Nel corso di una seduta di psicoterapia Luca mi ha fatto vivere tutta la disperazione della sua vita in pochi minuti: in un "gioco" in cui lui gridava come un pazzo avendo perso il controllo mi fa fatto sentire totalmente terrorizzata, sola, abbandonata, impotente di fronte a tanta crudeltà: << stai zitta, non dire niente, tu non devi parlare, non sei nessuno, tu non conti niente, sono io che comando >> e quando arriva a coprirmi il volto con uno straccio dicendomi che io dovevo stare in quella posizione senza proferire parola e senza neppure vedere che cosa succedesse nella stanza, mi è venuto da piangere. Luca si blocca improvvisamente, mi guarda e ritornando in se mi dice: << ma cosa fai, piangi? >>. << Si, piango perché penso che sia davvero terribile che tu abbia potuto vivere tutta una vita sentendoti così impotente e terrorizzato, che tu ancora ti senta così e che nessuno sia mai riuscito a fare niente per aiutarti >>. Luca è sconvolto, prende una bambola e mi mostra come Franco, l'abusante, gli conficcava le dita negli occhi per non farlo piangere e ricacciargli indietro le lacrime. << ... Io non pensavo si potesse piangere... >>. Vedere la disperazione del bambino, sentirla, fa stare molto male perché è impossibile non farsi coinvolgere emotivamente, a meno di cercare attivamente di non entrare in contatto con quella parte di Luca che sembra ormai essersi identificato con l'aggressore (unico essere umano che pare essere uscito vincente da questa sua storia, almeno dal suo punto di vista), avviandosi ad una carriera di devianza. Ma cosa accade quando la famiglia, con il passare dei mesi, non può più riuscire a rimuovere/annullare/non vedere questa parte di Luca: subentra l'orrore, la paura, la delusione, la rabbia verso chi sapeva e non li ha avvisati, la sfiducia verso le istituzioni, ma anche la pena, la disperazione, l'angoscia. Troppo per una semplice coppia affidataria. Sollecitati dopo tre anni di affido a parlare non solo del Luca che loro amano immensamente e che riempiono di coccole quotidianamente cercando in ogni modo di valorizzare le sue parti positive, ma anche di quello che sempre più emerge come violento e problematico riescono a dire: "... A volte ci sembra Hannibal..."... Informare la famiglia adottiva del passato del minore e delle difficoltà alle quali andrà incontro accogliendolo in casa è sì un rischio, perché è possibile che ciò diventi motivo di rifiuto nei suoi confronti, ma è anche l'unico modo per garantire a tutto il nuovo "coraggioso" nucleo famigliare un percorso di aiuto, sostegno e cura adeguato. I genitori devono essere informati dei danni subiti dal minore, anche se non è certo necessario fargli un dettagliato racconto delle violenze da lui vissute. Non è la storia del suo passato che conta, ma come questo passato influenzerà il suo futuro. E' un diritto della famiglia conoscere a quali difficoltà andranno incontro per poterle riconoscere e chiedere aiuto prima che esse diventino insormontabili, così come è un diritto del minore essere accolto in una nuova famiglia in cui le sue difficoltà possano essere accettate e affrontate nel modo migliore. Un bambino malato di epilessia ha diritto ad essere accolto in una famiglia che ha già in casa un farmaco adatto da somministrargli quando avrà una crisi epilettica e che sa che cosa fare per affrontare tali momenti di difficoltà. Un bambino che ha delle ferite nelle relazioni di attaccamento ha diritto ad essere accolto in una famiglia che ha già la "medicina giusta da somministrare in caso di necessità" (in senso metaforico, si intende), che sappia decodificare correttamente i comportamenti che da tali ferite deriveranno, e che abbia un luogo in cui poter chiedere aiuto in caso di necessità. Visto da questo punto di vista l'informazione è data alle famiglie proprio per garantire al minore un futuro diverso, e non per violare la sua privacy. A volte le famiglie non vengono informate di ciò che è accaduto al minore nel passato anche per la convinzione, assai diffusa, che sia meglio dimenticare il passato, "metterci una pietra sopra", e ricominciare a vivere guardando al futuro. Nei casi più estremi, e molto meno rari di quanto si pensi, ciò si traduce nel cambiare persino il nome al bambino all'ingresso nella nuova famiglia, a volte sostenendo che è stato il minore stesso a richiederlo. Il passato non può essere cancellato, né dimenticato, può essere solo rielaborato e rivisto con occhi diversi affinché smetta di fare soffrire nella vita presente. Cambiare il nome al bambino, così come non parlargli più del suo passato facendo finta che non esista, non impedirà a ragazzini come Luca di esternare tutto il proprio malessere con il passare degli anni, di riviverlo nel silenzio giorno dopo giorno, e di portare il proprio passato nel presente anche se gli adulti non vogliono. È stato peraltro dimostrato ormai da diverse ricerche che parlare del trauma subito fa stare meglio e non peggio, e che la narrazione delle esperienze traumatiche ha dei benefici effetti persino sulla salute fisica dell'individuo(14). La maggior parte delle famiglie scopre che il figlio è stato vittima di abusi sessuali casualmente, a tavola mentre si cena, o tramite una raccomandata consegnata dal postino che porta un foglio in cui il minore viene chiamato a deporre in udienza. Queste rivelazioni entrano nel già delicato equilibrio di una nuova famiglia in costruzione come una bomba, e non sempre i vari protagonisti la sapranno maneggiare. I genitori si sentono traditi dagli operatori, imbrogliati. La speranza che gli operatori hanno (anche se a volte non viene esplicitata), che l'amore che a quel punto legherà i genitori al figlio possa essere in grado di reggere a tutto ciò che accade dopo una tale rivelazione, è spesso resa vana dal fatto che proprio i danni nelle relazioni di attaccamento che questi minori hanno rendono molto difficile usare "l'amore" come strumento per maneggiare la rivelazione dell'abuso sessuale perché, come abbiamo visto sopra, le relazioni genitori/figli presentano a questo punto spesso già molti problemi. I genitori adottivi vanno inoltre aiutati e sostenuti nel comprendere e far fronte ai continui attacchi al legame che questi minori mettono in atto in famiglia, proprio come si fornirebbe un'assistenza specialistica ai genitori dei bambini malati di epilessia con i quali si faceva prima il paragone. Solo un'adeguata assistenza alle famiglie adottive e affidatarie sui punti sopra descritti potrà rappresentare uno strumento efficace per prevenire fallimenti dolorosi per tutti. L'amore non basta ad un bambino maltratto per garantirgli un futuro migliore ! Note: 1) Psicologa, psicoterapeuta, "Synergia centro trauma", Via Peschiera n. 15, 10024 Moncalieri (TO), 335/67.65.376 www.synergiacentrotrauma.it 2) Mason,W., Zimmerman, L.. Evans,W. (1998). Sexual and physical abuse among incarcerated youth: Implications for sexual behavior, contraceptive use, and teenage pregnancy. Child Abuse & Neglect, 22(10), 987-995. Smith, S., Howard, J. (1994). The impact of previous sexual abuse on children's adjustment in adoptive placement. Social Work, 39 (5), 491-501. 3) Smith, S., Howard, J. (1991). A comparative study of successful and disrupted adoptions. Journal of Social Service Review, 65, 248-265. Rosenthal, J. (1993). Outcomes of adoption of children with special need. 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Cicchetti, EM Cummings Attachment in the preschool years: theory, research and intervention, Chicago and London: University of Chicago Press, pag, 121 - 160 8) Main M., Solomon S., (1990) "Procedures for identifying infants as disorganize/disoriented during the Ainsworth Strange Situation, in M.T. Greemberg, D. 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