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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: RISPOSTA AL DISAGIO
Area: Disturbo da Attacchi di Panico


Paolo Roccato (1)

Gli attacchi di panico (2)



In questo breve lavoro, parlerò degli attacchi di panico nella prospettiva della psicologia psicoanalitica del Sé, che è l'ambito in cui mi trovo bene a operare, sia nel lavoro clinico sia nella ricerca.

In questa prospettiva, fondamentali sono le funzioni di facilitazione (o, viceversa, di ostacolo) che vengono concretamente attivate dai caregivers nelle innumerevoli interazioni che vanno a costituire le relazioni fondanti di base. È nel vivo delle proprie esperienze (soprattutto relazionali) reali concrete che, nella propria mente, il neonato (così come il bambino, il ragazzo, l'adolescente, il giovane, l'adulto, l'anziano, il vecchio) struttura e ristruttura, per così dire, "mappe mentali" di se stesso, della realtà e delle relazioni fra se stesso e la realtà, così come fra i vari aspetti di sé, in continui processi di costruzione, di ampliamento e di revisione. Fondamentali, in quest'opera assidua, sono i processi emotivi, che possono essere riconosciuti e facilitati dai caregivers, oppure smentiti, ostacolati, inibiti, proscritti, alienati.(3)

Tutta la psicoterapia, per certi versi, può essere vista anche come una serie di facilitazioni che il terapeuta cerca di attivare nella relazione, per favorire che il paziente, individuate le proprie risorse e le proprie difficoltà, venga a capo del proprio soffrire, ne individui il senso, e trovi dei modi più adeguati per gestirlo.


L'ESPERIENZA DELL'ATTACCO DI PANICO

Un fulmine a ciel sereno. Un improvviso attivarsi, che appare totalmente "insensato", di palpitazioni galoppanti, col cuore che batte all'impazzata, tremori, dispnea, affanno respiratorio, sensazione di soffocamento, dolore al petto, formicolio o torpore in qualche distretto corporeo, orripilazione, sudorazione fredda, brividi, vampate di calore, vedere o tutto nero o la luce che diviene abbagliante, vertigini, nausea, diarrea e incoercibile spinta a urinare, sensazione di vuoto alla testa e di sbandamento, senso di svenimento, derealizzazione (cioè: senso di perdita del contatto con la realtà), depersonalizzazione (cioè: senso di perdita del contatto con se stessi), paura di perdere il controllo o di impazzire: sensazione di stare - davvero - per morire. E angoscia. È la percezione di queste "sensazioni" che si presentano come fossero del tutto "insensate" quella che attiva l'angoscia. Per essere più precisi: che attiva lo stato di allarme, che sfocia in angoscia per la percezione di non sapere che cosa stia capitando, né, quindi, che cosa ci si possa fare.
Questo è l'attacco di panico.(4) Un insieme di "sintomi" somatici e psichici che al soggetto appaiono del tutto "insensati" e che suscitano in lui una terribile angoscia, la quale, invece, è la sola cosa che gli si presenta come del tutto "sensata". È ovvio, infatti, per lui, che qualcosa di grosso all'improvviso non va; che i segni di questo sono ultraevidenti e ultraallarmanti; e che sarebbe follia minimizzare uno sconquasso così devastante.

Sono esperienze tremende, che fanno stare terribilmente male, e che, a propria volta, suscitano un'angoscia anticipatoria. I pazienti sono disposti - letteralmente - a tutto, pur di evitare di ritrovarcisi.

Le strategie di evitamento preventivo tendono a diventare così massicce e pervasive, da portare progressivamente i pazienti a evitare ogni novità, ogni imprevisto: ogni occasione di vita, in fondo, con grave danno e grande infelicità per loro stessi e per le persone che vivono con loro.


PSICODINAMICA

La psicodinamica degli attacchi di panico è complessa, non nel senso di "complicata", ma in quello di "molteplice", "fatta di più elementi".

Due sono i livelli di malfunzionamento della mente in chi soffre di attacchi di panico: il livello della percezione delle emozioni e il livello della gestione delle emozioni.

Questi due livelli sono tra di loro interconnessi. È ovvio, infatti, che non è possibile attivarsi se non per cercare di gestire gli accadimenti che si sono in qualche modo percepiti.

Questi due livelli, però, hanno anche un certo grado di autonomia: il modello di gestione a suo tempo imparato e poi abitualmente adottato tende a essere adottato nuovamente, soprattutto nell'emergenza, anche dopo che si è appreso a decodificare gli accadimenti in modi più adeguati, ben differenti da quelli di allora.

In ogni caso, però, i due livelli si influenzano reciprocamente, nello sviluppo e nel consolidamento, sia della patologia sia della terapia. Per esempio: se io non colgo le connessioni fra le sensazioni corporee che un'emozione mi dà, percepirò solo le sensazioni e non l'emozione, per cui se gestirò qualche cosa, cercherò di gestire quelle sensazioni e non l'emozione intera. Viceversa: se io gestisco come insensate le componenti corporee di una emozione, renderò più difficile un mio percepire la loro sensatezza nel tutto unitario dell'emozione. E se nella terapia imparerò a riconoscere la sensatezza delle mie esperienze, imparerò anche a gestirle meglio. Viceversa, se imparerò a gestir meglio le mie esperienze, sarò più facilitato nel percepirle più adeguatamente.

Questo, in effetti, è quello che accade nella maggioranza dei casi.


L' "analfabetismo emozionale"

La più importante delle radici degli attacchi di panico è costituita dall'incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, come conseguenza di una specie di "analfabetismo emozionale", che si è strutturato progressivamente nel corso della vita, di pari passo con la strutturazione del Sé. Il paziente, non riuscendo a riconoscere l'emozione come un accadimento mentale unitario, percepisce slegate fra loro le singole espressioni fisiche di essa. È come se percepisse slegate tra loro le tessere di un mosaico. Non possono che apparirgli del tutto prive di senso. Ma il "mosaico", che lui non riesce a integrare, e di cui non ha consapevolezza perché neppure lo percepisce, non è esterno a lui. Lo riguarda direttamente. È dentro di lui. Sensazioni, quindi, fortissime e insensate.

È allora un tentativo di integrazione quello che il paziente fa, quando cerca di ricomporre le tessere "insensate", trattandole come fossero "sintomi" di qualche guaio biologico. È l'attivazione di una intelligenza. Che però sbaglia. L'errore sta nel fatto che (almeno "localmente", in quella specifica esperienza) non è disponibile una intelligenza emotiva, ma soltanto una intelligenza cognitiva, che si mette a osservare "dall'esterno", alla lontana, e che quindi si muove come fosse sorda e cieca verso le emozioni in atto, perché, in questi casi, si attiva in modo scisso dallo stesso mondo delle emozioni che le si presenta. La percezione dell'esperienza è stata strutturata prescindendo proprio dall'emozione che si è attivata nell'esperienza medesima e che ne costituisce il nocciolo essenziale. L'emozione è stata, sì, percepita nelle sue singole componenti, ma è stata misconosciuta nel suo insieme. Percepita come fosse de-strutturata nelle sue componenti sensoriali, che sono rimaste tra di loro scisse. In quelle condizioni, la cosa più ragionevole che il soggetto, nella nostra cultura, può fare per strutturare una "figura" che si stagli sensata dallo "sfondo" indifferenziato è pensare di essere ammalato di una sconosciuta malattia fulminante. E si allarma, ovviamente. Con i dati al momento a sua disposizione, sta funzionando bene. "Fanno presto a dirmi: 'non è niente'. Vorrei vederli io, cosa farebbero loro al mio posto!", protestano i pazienti contro le pseudorassicurazioni profuse a piene mani da parenti, amici e, purtroppo, spesso anche dai terapeuti.

Non trovando un nesso riconoscibile, il paziente si terrorizza, e, nella prospettiva di una imminente catastrofe, pensa (più precisamente: "sente") come unica risorsa disponibile nell'immediato la fuga dalla situazione ansiogena, e come unica risorsa disponibile per il futuro la prevenzione, attraverso l'evitamento di ogni situazione potenzialmente ansiogena. Per questa strada, progressivamente, il paziente tende a proteggersi e ad evitare ogni situazione vitale, in quanto attivatrice di emozioni, col risultato di impoverire sempre di più la propria esistenza.


L'esperienza di "insensatezza dell'esperienza attuale"

Il paziente sembra tenerci moltissimo all' "insensatezza" dei "sintomi" di cui soffre. Vi sembra attaccato in modo terribilmente tenace, tendenzialmente refrattario a ogni sollecitazione a esplorare la sensatezza delle sue esperienze, mostrando un atteggiamento che ricorda per certi versi quello delle persone deliranti e che può logorare la pazienza dei terapeuti. Il fatto è che in lui è realmente deficitaria la capacità di connettere e di integrare gli elementi della sua esperienza emotiva: li percepisce come realmente scollegati tra loro.

Così può succedere che il paziente si senta non capito proprio quando si cerca di ricostruire la sensatezza delle sue esperienze, e questo perché il centro della sua esperienza sta proprio lì, nella insensatezza di quello che gli capita di vivere. Nella ricostruzione dei singoli episodi, gli va dato atto che quella dell'insensatezza era realmente la sua esperienza, e bisogna più e più volte, con infinita pazienza, mostrargli come le tessere del mosaico si possano comporre in una "figura" unitaria che è una esperienza emotiva del tutto adeguata, in quanto è del tutto corrispondente a ciò che egli stava vivendo in quel momento. Aveva tutte le ragioni di essere ansioso, o preoccupato o triste, o arrabbiato, o speranzoso o felice, o orgoglioso, o vergognoso, o in colpa, o annoiato, titubante, o quello che in quel momento era. L'esperienza emotiva non riconosciuta si è presentata a lui come una grandinata di sensazioni slegate, e per ciò stesso terrifiche.

In un mio lavoro(5) ho presentato il caso di un paziente gravemente analfabeta per quel che riguardava il mondo delle emozioni: ridottosi a essere solo e sperduto nell'esistenza, aveva per caso incontrato due vecchietti che l'avevano preso a ben volere, quasi adottato, come degli amorevoli sostituti genitoriali. "Mi vogliono bene e mi piace andarli a trovare. Deve essere molto polverosa la loro casa, però", ebbe a dirmi, più o meno, un giorno, con aria pensosa e preoccupata. "Credo di essere allergico alla loro polvere, perché, quando mi trovo lì con loro, che mi fanno accomodare in salotto e mi parlano, tutti carini con me, e mi fanno raccontare quello che mi succede, mi viene un'irritazione... in fondo al naso, dietro... e anche agli occhi... Ed è come mi mancasse il respiro, come se sentissi una specie di groppo alla gola... come una specie di irritazione... come un pizzicore, che mi fa aumentare le secrezioni del naso e degli occhi... e passo il tempo col fazzoletto in mano...". - "Ma è commosso!", mi venne da esclamare. Al che il paziente si sciolse in un'onda calda di pianto, riuscendo, forse per la prima volta, a riconoscere per intero una propria emozione, facilitato nello strutturare la percezione emotiva dal sentirsi da me riconosciuto in quell'esperienza. Prima, invece, cercando una sensatezza in ciò che andava vivendo allora e ricordando ora, aveva colto gli accadimenti psichici che si erano attivati in lui come "sensazioni", e li aveva connessi tra di loro attraverso l'utilizzazione dei (da lui ben conosciuti) parametri sanitari come organizzatori dell'esperienza, strutturando la percezione come fossero "sintomi" somatici di un disturbo fisico: l'allergia alla polvere. Non riuscendo ad attivare l'intelligenza emotiva, che per lui da lungo tempo non era più una risorsa disponibile, per integrare i dati che aveva a disposizione non poteva fare nient'altro se non ricorrere alla sua intelligenza cognitiva. La quale, quando è attivata da sola, privata dell'apporto dell'intelligenza emotiva, rischia di rimanere del tutto "stupida" per quel che riguarda gli aspetti più vitali dell'esistenza.


La terribile "prima volta"

Nell'angoscia di chi soffre di attacchi di panico, c'è sempre il riferimento a una terribile "prima volta". Ed è rilevante che gli attacchi di panico successivi ad essa non sono tanto crisi di angoscia diretta, ma sono crisi di paura che si riattivi l'angoscia di quella "prima volta". Paura della paura. Una sorta di "paura di secondo grado". Il fatto è che l'angoscia della "prima volta" è sentita come "non sopportabile", come "insostenibile". Così insostenibile, da non riuscire più neppure a pensarla.
Il paziente tende a muoversi, e a far muovere chi si occupa di lui, sempre soltanto al livello della "paura della paura", e mai al livello della "paura prima", la quale è del tutto sfuggente, perché non si presenta più e il paziente riesce sempre ad evitarla, tanto che sovente non è neppure più pensata, ma soltanto nominata in modo implicito per accenni ("Quella cosa", "Quello").

Bisogna ricordare che la traumaticità del trauma psichico risiede nella sua non pensabilità. Ma il non pensare un'esperienza la rende realmente non pensata, e questo la può consolidare nel suo statuto mentale di "esperienza non pensabile". Cioè: la ri-consolida come esperienza traumatica.

Nella mia pratica clinica, ho trovato che è sempre estremamente difficile riuscire a farsi raccontare per bene la fatidica "prima volta", tanto che in certi casi mi era venuto perfino da ipotizzare che essa non si fosse mai verificata. Che avesse lo statuto di "evento mitico giustificazionistico".(6) Si presentava come un'esperienza "vuota". Priva non solo di connessioni con elementi del contesto o con elementi della storia personale contemporanea all'evento, immediatamente precedente o comunque antecedente, ma priva perfino di elementi interni all'esperienza medesima e di connessioni interne. Il fatto è che l'evitamento di tutto ciò che potrebbe reinnescare i processi "sconosciuti" che potrebbero portare a quella insostenibile angoscia è così forte e massiccio, che viene attuato anche al livello del pensiero. Diventa insostenibile anche il solo avvicinarsi al pensarla, la "prima volta". Viene quasi sempre raccontata non come una esperienza, con tutta la portata vitale della soggettività; ma come un accadimento, con tutta la freddezza e il distacco della "obiettività". O mancano gli elementi del contesto, o mancano gli elementi della storia precedente, o mancano gli aspetti dell'esperienza soggettiva in corso, o il racconto è del tutto devitalizzato, appiattito, quasi burocratizzato.

Anche a questo proposito, io ritengo che queste non siano lacune del racconto o della ricostruzione o della memorizzazione, ma che si tratti di specifiche modalità realmente adottate allora nella strutturazione stessa dell'esperienza, di cui ora si cerca di parlare.


Strutturazione dell' "analfabetismo emozionale"

L' "analfabetismo emozionale" viene attivamente strutturato di solito come conseguenza diretta di specifiche refrattarietà verso certe emozioni, o verso la intera vita emotiva, da parte dell'ambiente umano entro il quale il bambino va strutturandosi.(7)

Se, per esempio, i caregivers, in modo sistematico e monotono, non risuonano a specifiche emozioni del bambino, egli tenderà a strutturare attivamente e inconsapevolmente una specie di "scotoma", di "macchia nera", nelle proprie percezioni emotive. Tenderà, cioè, a vivere - ovviamente - tutte le emozioni che le sue esperienze comportano, anche le emozioni non validate dalla risonanza dei caregivers, ma, progressivamente, perderà la capacità di riconoscerle.

Un altro modo in cui un bambino può attivamente strutturare un "analfabetismo emozionale" è, per esempio, quello conseguente al ritrovarsi sistematicamente abbandonato per ore e ore davanti alla scatola vuota della televisione, che omogeneizza le esperienze, o le svuota sul nascere con le sue piatte finzioni di interattività (tipo: "Ci rivediamo domani!"; "Allegria!"; o suggerendo artificialmente buonumore con le risate fuori campo).

Una volta strutturato, l' "analfabetismo emozionale" creerà un fertile terreno intrapsichico e relazionale per l'instaurarsi del disturbo di attacchi di panico. Alla prima occasione di vita un po' più rilevante per il soggetto, tutto è pronto per un acuto misconoscimento di una qualche emozione.


L'esperienza traumatica misconosciuta

Una specie di "analfabetismo emozionale di ritorno" può essere instaurato attivamente e inconsapevolmente dal soggetto stesso, a partire da un'esperienza particolarmente traumatica misconosciuta, vissuta a suo tempo come insostenibile, e che è inconsapevolmente individuata come l'esperienza da evitare assolutamente.

Nell'eventuale rievocazione in psicoterapia, il ricordo di quell'esperienza, che è stata così drammaticamente destabilizzante, spesso si presenta del tutto devitalizzato, cosa che può fuorviare il terapeuta, che viene indotto a non coglierne la rilevanza cruciale. Le emozioni, all'epoca dell'episodio drammaticamente esperite, sono ora a tutta prima del tutto fuori campo. E il racconto di quelle lontane esperienze si fa fredda cronaca. Talvolta i "meccanismi di difesa" prevalentemente adottati sono: isolamento, scissione, negazione. In questi casi, l'attacco di panico potrebbe essere visto anche come una specie di espressione del "ritorno del rimosso", o, meglio, come espressione sia della minaccia che il rimosso ritorni, sia del bisogno che esso ritorni per venire finalmente bonificato, sia della necessità di fare di tutto perché ciò non accada.

Va precisato, però, che quasi sempre non si tratta di difese adottate a posteriori contro emozioni esperite e denegate, né di "meccanismi di difesa" attivati a suo tempo, ma quasi sempre di reale originaria incapacità di strutturare la percezione stessa delle emozioni al momento vissute. Per questo le interpretazioni delle "difese", in questi casi, sono quasi sempre del tutto inefficaci: perché non colgono gli accadimenti psichici realmente attivati. La constatazione di questo fatto può indurre il terapeuta a considerare - erroneamente - questi pazienti come non analizzabili o non trattabili con una psicoterapia.

In un mio lavoro(8) ho accennato al caso di una paziente che, negli attacchi di panico, temeva di "dissolversi", di "sparire", come se la "presenza" di sé a se stessa potesse all'improvviso "svaporarsi". L'angoscia temuta era così terribile, che la paziente stava iniziando ad evitare molte situazioni di vita, con progressivo immiserimento della propria esistenza. L'evento traumatico, che costituiva la "prima volta", ma che era stato attivamente misconosciuto nella sua importanza sia di per se stesso sia come "prima volta", era un episodio in cui, da bambina ancora molto piccola, "a tradimento", era stata presa e anestetizzata dal dentista con ancora indosso il cappottino. La manciata di cotone che s'era trovata pressata sulla faccia, lo spavento e lo stato d'allarme improvviso, la irresistibile e del tutto (soggettivamente) "insensata" sensazione di "svaporarsi", di "svanire" per l'effetto dell'anestesia hanno costituito non solo l'esperienza terribile da evitare a qualunque costo, ma anche la base, il modello, dei suoi attacchi di panico. Di fronte alla percezione di qualche cambiamento improvviso, per così dire "spaziale", nelle relazioni in atto, veniva assalita dall'angoscia di ritrovarsi in quella condizione là, da lei realmente sperimentata a suo tempo. E la sensazione era quella di essere realmente sul punto di "svanire" da un momento all'altro.

Per una serie di favorevoli circostanze, quella persona non strutturò, a partire dal misconoscimento dell'importanza patogena di quell'episodio, un vero e proprio "analfabetismo emozionale di ritorno". Il misconoscimento rimase abbastanza circoscritto all'antico episodio traumatico e al modello relazionale in esso attivato, così che anche la patologia ha potuto strutturarsi in ambiti abbastanza circoscritti.

In certi casi, invece, il misconoscimento, come manovra difensiva che ha da essere tanto sistematica quanto terribile era stata l'esperienza traumatica, si estende a macchia d'olio, arrivando a investire l'intero mondo delle emozioni nel suo insieme. È più probabile che questo accada se l'esperienza traumatica è avvenuta in età evolutiva, ed è consistita nell'avere traumaticamente percepito che i caregivers, in una situazione concreta o in una serie di situazioni concrete, non erano stati in grado di vivere e di gestire una qualche emozione. Da quel momento, nella mente del bambino, quell'emozione (o, addirittura, l'intero mondo delle emozioni) viene strutturata come "invivibile", come "insostenibile", e quindi come "non gestibile", come "assolutamente da evitare".

È il caso, per esempio, di un paziente che, ragazzino prepubere, primogenito di quattro, assistette annichilito allo svenimento del padre che s'era chiuso un dito nella portiera della macchina, e al disperato "perdere la testa" da parte della madre, che s'era messa a urlare, strappandosi i capelli, girando a vuoto intorno, battendo all'impazzata colpi sul tetto dell'automobile, rotolandosi per terra forsennata. In qualità di primogenito, sentiva che spettava a lui affrontare e risolvere la situazione, di cui però entrambi i genitori testimoniavano concretissimamente la insostenibilità. Pressato dal sentire di dover intervenire al più presto, bloccato dalla "colpa" di non sapere che cosa fare e più ancora dalla percezione che neppure i grandi erano in grado di affrontare l'evento, si è pietrificato. "Ero lì. Vedevo tutto. Sentivo tutto. Ma non c'ero. Ero andato via. Non c'ero più". Questo era l'evento traumatico originario, che rinvenimmo dopo anni di assiduo lavoro in analisi, e che, al suo primo apparire, si presentò, come spesso accade, del tutto isolato, del tutto devitalizzato, ricordato e raccontato con tono notarile di fedeltà burocratica all'originale. Quell'esperienza si era costituita come la mitica "prima volta", sempre temuta, sempre menzionata e mai ripensata o rimembrata. L'angoscia era stata di tale intensità e fin dal suo attivarsi strutturata come "non vivibile", che spinse il ragazzino a un'opera di assoluto evitamento sistematico sia della percezione emotiva, sia del pensiero, sia del ricordo, sia di ogni occasione che avrebbe potuto comportare il rischio di imbattersi in qualcosa di anche alla lontana analogo. Ma quell'antica esperienza si era costituita per lui anche come il modello degli attacchi di panico. All'approssimarsi di qualche cosa che avrebbe potuto portare a un'esperienza di insostenibilità, egli si pietrificava: si trovava lì, ma se n'era "andato via", con l'angoscia di poter morire o svenire, come allora il papà, o di poter perdere la testa, come allora la mamma.

Si deve segnalare che l'esperienza traumatica misconosciuta può essere stata un'esperienza al limite dell'abuso sessuale, senza la consistenza grossolana dell'abuso conclamato, ma con identiche incomprensibilità degli eventi, impossibilità di maneggiare la situazione, sopraffazione e annullamento della soggettività, e con identica "insopportabilità" delle emozioni.

Nel corso della psicoterapia è un momento importante quando si riesce a mettere a fuoco l'esperienza traumatica che è andata a costituire il modello di esperienza insopportabilmente angosciante da evitare a tutti i costi: riconoscere l'esperienza traumatica misconosciuta la rende finalmente pensabile, avvicinabile cioè almeno con il pensiero.

Un paziente in analisi per attacchi di panico, un giorno mi raccontò che, spesso, nel momento in cui "sentiva" di poter "venir meno", era come se vedesse triangoli e quadrati colorati che ondeggiavano nello spazio buio infinito. Era come se sentisse se stesso "ondeggiare nello spazio vuoto" e dovesse recuperare una "presenza" di sé a se stesso, sapendo però che se non ci sarebbe riuscito, rischiando non di morire, ma di "venir meno", di "dissolversi", di "scomparire in uno spazio buio senza fine". Le sue associazioni si riferivano ad un film di fantascienza in cui un astronauta, perduto il contatto con la capsula spaziale, non riusciva ad afferrare la mano di un collega, scivolando così lentissimamente in modo irreparabile verso il buio infinito degli spazi cosmici. Al solo pensarci in seduta gli veniva da scappar via per l'angoscia. Mi viene da dirgli: "Un'inesorabile andata senza ritorno...". Le forme geometriche non gli fanno venire in mente niente. Nel lungo silenzio che segue, a me viene da visualizzare quei quadrati e a quei triangoli. Li "riconosco": erano la sigla che una volta su RAI 2 mandavano in onda dopo un programma e prima della pubblicità, o dopo la pubblicità e prima del programma successivo. Mi azzardo a dirglielo.

Paziente – Sì sì, me lo ricordo. È come quella scena lì, ma all’infinito. Come se fossi io quello che roteava nello spazio senza fine, senza collegamento con niente e con nessuno, nel buio infinito.

Analista – Come se quelle immagini della televisione dessero forma al suo sentire.

P. – Non volevo mai andare a dormire, nella stanza laggiù in fondo, al buio, mentre mamma e papà stavano lì coi miei fratelli in braccio, a guardare la tele.

A. – Un ragazzino che sente che sta per addormentarsi davanti alla televisione, ma non vuole addormentarsi, perché non vuole perdere il contatto con mamma e papà, con la vita, che per loro continua… È angosciato, perché sa che, se si addormenta, si troverà inesorabilmente al buio, da solo, terrorizzato, lontano, impossibilitato a ripristinare il contatto… Sente di stare sprofondando nel sonno, come in un buio infinito, in una solitudine assoluta, senza risorse. E senza ritorno. Sa che si sveglierà da solo, laggiù in fondo, nella stanza buia.

P. – (Sollevato e pensoso) … Nessuno l’aveva mai capito…

Per questo paziente si trattava di un'esperienza traumatica non episodica, ma ripetuta più e più volte, quasi tutte le sere, sistematicamente misconosciuta dai caregivers, e quindi strutturata e mantenuta scissa dalla sua mente. Un elemento centrale di quell'esperienza antica (i triangoli e i quadrati che volteggiavano nel buio come la presenza di sé alla sua mente nell'inesorabile avanzare del sonno che avrebbe comportato l'abbandono del contatto con il mondo dei vivi) si prestava bene ad essere successivamente riesumato a rappresentare esperienze attuali di esclusione o ritiro.


Gestione della paura

La seconda fra le più importanti radici degli attacchi di panico è costituita da una incapacità di gestire le emozioni in generale, e l'ansia e la paura in particolare.

Spesso le persone non si accorgono di quando, quanto e come esse si attivano nella gestione delle emozioni. Tendono ad accorgersi soltanto del risultato dell'avvenuta gestione, e a darlo per scontato. Colgono l'obiettivo (raggiunto o non raggiunto), ma non il processo.

Il grande alpinista Berrhault, a chi gli chiedeva se avesse avuto paura nel compiere le sue imprese, ebbe a rispondere:"Paura? No. Trasformo la paura in concentrazione".

Ecco un bell'esempio di gestione della paura, efficacemente attuata e misconosciuta ad un tempo. Certo che aveva paura! Altrimenti, che cosa avrebbe potuto "trasformare"? In quelle situazioni di pericolo estremo, la paura veniva da lui gestita, per l'appunto attraverso la attivazione di una maggiore concentrazione. Ma la paura c'era, e come se c'era: forte almeno altrettanto della concentrazione. Misconosciuta era la paura e misconosciuta era la sua gestione, dunque.

Sono esempi di questo tipo che possono confondere i pazienti che soffrono di attacchi di panico, perché vengono da loro presi alla lettera. Pensano di essere gli unici ad avere paura, e si sentono ulteriormente umiliati dal confronto con chi sembra muoversi come se non sapesse neppure che la paura esiste. Non sanno gestire la paura, e spesso neanche le altre emozioni; ma non sanno nemmeno che la paura, come ogni altra emozione, può essere gestita. E non sanno neppure vedere la gestione della paura messa in atto dagli altri. Quando si cerca di mostrargliela, si fanno tenacemente diffidenti: credono di essere raggirati da un buonismo consolatorio falsificante.

È chiaro che il primo passo nella gestione della paura, come di ogni altra emozione, è riconoscerla.

Il secondo passo, poi, è riconoscerne la sensatezza e la adeguatezza.

Il terapeuta deve essere particolarmente accurato nel sostenere e validare le percezioni emotive del paziente, non solo con la propria viva risonanza, ma anche col mostrargli la sensatezza delle sue emozioni, la loro coerenza, la loro correttezza, la loro adeguatezza alla situazione percepita o vissuta. E se il paziente lamenta che l'emozione attivata è davvero eccessiva, bisogna fargli notare che gli appare eccessiva perché lui vorrebbe che non ci fosse per niente, che fosse "zero".

Il paziente deve riscoprire e constatare sistematicamente che "l'emozione ha sempre ragione".(9) Se l'emozione si attiva, ha sempre i suoi bravi motivi. Che magari non comprendono la totalità di ciò che interviene nell'episodio di vita, e che quindi possono essere giustamente integrati con altro, ma che esistono e sono validi. Sempre.

Ai giorni nostri, con tutti gli incidenti aerei che le cronache ci riportano, ha proprio ragione una persona che ha paura di salire su un aeroplano. Le leggi di mercato e la concorrenza impongono una minimizzazione dei costi, col rischio che si cerchi di risparmiare sulla sicurezza. E così, dopo gli incidenti sotto il Monte Bianco e sotto il Frejus, ha proprio ragione chi ha paura ad attraversare una galleria in automobile. Ha più ragione chi ha paura, che non chi non ci pensa affatto. Quella paura, che può apparire peregrina, corrisponde esattamente alla paura del vuoto che si attiva in chi si avventura per una cengia nelle Dolomiti. La strutturazione del processo mentale "emozione paura" e la percezione della paura medesima sono del tutto sani. Guai se non si attivassero. Quello che, in questi casi, non funziona è la gestione dell'emozione paura. Il paziente, giustamente, si sente trattato da stupido, quando si sente sollecitato a non avere paura. E si dà da solo dello stupido, perché sente come irrefrenabile l'attivarsi della sua paura.
Come qualsiasi altra emozione, non è da "combattere" la paura. Mai. Né è mai da smentire. È sempre sensata. È da conoscere, la paura. I suoi portati sono da valutare, da integrare con altri dati che la mente già possiede o che può acquisire. Ed è da gestire, questo sì.

Il terzo passo, nella gestione della paura, come di ogni altra emozione, si svolge ancora sempre sul piano conoscitivo, ed è cercare di integrare ciò che la paura ci segnala con ciò che ci segnalano altre vie di conoscenza: percezione, memoria, pensiero, osservazione, sperimentazione, confronto...

Se io, per esempio, so che sono centinaia di migliaia gli aeroplani che volano ogni giorno nei cieli e che, quando ne cadono molti, ne cadono a dir tanto dieci in un anno, posso cercare di integrare questi dati statistici con quelli immediatamente acquisiti attraverso il sistema delle emozioni. È vero che il mio aereo può cadere. È veritiero il mio sistema emotivo, nel segnalarmi il pericolo. Il pericolo è reale. Chi pensasse il pericolo come inesistente, falsificherebbe la realtà e tratterebbe da stupidi noi, che il pericolo lo vediamo, mentre sarebbe lui lo stupido. Nell'apprestarsi ad affrontare il pericolo, però, potrebbe essere utile considerare anche quanto è probabile che l'evento temuto si realizzi. Questo, sia ben chiaro, non per smentire il mio sistema delle emozioni - che, comunque, come sempre, ha davvero ragione - ma per cercare di utilizzare al meglio quello che tale sistema mi segnala, integrandolo con altri dati. Si tratta di una valorizzazione di me tutto intero e di tutte le mie funzioni (valorizzazione del Sé).

Una volta acquisiti e integrati tutti i dati conoscitivi a mia disposizione provenienti da ogni fonte, in gioco c'è ancora dell'altro, ed è la necessità, per così dire, di "governare" me stesso e le mie interazioni col mondo. E questo è il quarto passo nella gestione delle emozioni.


Le "sentinelle di Fort Apache"

Il paziente ha conosciuto, ha vissuto l'orrore. Da allora, egli è perennemente all'erta.
Io trovo utile, nei pensieri fra me e me e nel dialogo psicoterapico con i miei pazienti, la metafora delle sentinelle di Fort Apache.

La mente del paziente si è strutturata come una specie di Fort Apache: ben chiuso e difeso per proteggersi da una minaccia che può arrivare da un momento all'altro. Giustamente, ha posto, ben vigili, sensibili e addestrate, delle ottime sentinelle sugli spalti, che hanno il compito di percepire ogni elemento che potrebbe segnalare l'avvicinarsi o l'attivarsi del pericolo. Le sentinelle sono attente, attentissime, perché hanno ben capito che il pericolo è serio e che le conseguenze di una distrazione possono essere fatali per tutta la comunità di Fort Apache, per tutto il Sé del paziente.

Ma le sentinelle, tutte tese nell'espletamento del loro compito, tendono a essere così solerti da non limitarsi a segnalare gli indizi dell'avvicinarsi del pericolo, o del suo attivarsi, ma, non fidandosi di niente e di nessuno e conoscendo solo i pericoli, pretendono di prendere il potere.

Va a finire, così, che la difesa di Fort Apache non si trova nelle mani giuste. Le sentinelle sanno far bene il loro mestiere, che è quello di segnalare pericoli e di attivare tutti gli abitanti di Fort Apache, tutti gli aspetti del Sé, affinché siano pronti ad affrontare i pericoli segnalati. E in effetti lo fanno bene, benissimo. Ma le sentinelle non sanno fare nient'altro. Soprattutto, non sanno governare. Non sono capaci, non sono attrezzate a farlo. Non è il loro mestiere. Ci vuole qualcuno che abbia l'effettiva capacità di assumersi questi specifici compiti. Che sappia ascoltare, sì, le segnalazioni delle sentinelle, e che sappia tenerne conto, ma che sappia poi essere lui a decidere il da farsi sulla base di opportune valutazioni non solo del pericolo, ma anche, per esempio, delle risorse disponibili. E dei tempi. E dei modi.

Questo qualcuno, in grado di governare il Sé, è l'Io.

Dare il comando alle sentinelle, invece, vuol dire organizzare una difesa che rischia di essere con estrema probabilità preda solo dell'allarme. "Sentinelle al potere" è uguale a "Fort Apache impazzito".

Chi governa, ascoltato l'allarme delle sentinelle, può valutarlo e può integrare i dati da esso forniti con tutti gli altri dati in suo possesso. Può anche acquisire altri dati, magari di differente natura. Può, così, arrivare a decisioni più ponderate, dopo aver valutato se c'è tempo e se ci sono modi differenti; può sperimentare, può integrare, può coordinare, può valutare le conseguenze delle decisioni e delle azioni...

Una volta che hanno segnalato il pericolo e allertato la popolazione, le sentinelle devono essere fatte tacere. "Sì, ho capito", dice il governatore, "O K. Non serve che gridiate tanto, o che insistiate, o che vi mettiate a correre su e giù per il forte. Il messaggio è arrivato. Ho capito: c'è un pericolo. Rimaniamo sempre in contatto, ma adesso state buone. Lasciate, ora, che sia io a valutare e che sia io a governare".

Bisogna, in sostanza, che le sentinelle accettino di tornare a fare le sentinelle.


La sperimentazione, la modulazione, la revisione, la ricognizione

Il quinto passo nella gestione delle emozioni è la sperimentazione. Il paziente ha da osservare quali modi di fatto tende a utilizzare nei suoi tentativi di modulazione delle emozioni, per poi sperimentare se stesso nelle differenti circostanze della vita, cercando di adottare modi differenziati.

Il paziente può così passare dai suoi inveterati modi basati sul principio assolutistico del "tutto o nulla" (o riesco a non percepire per niente l'emozione, o ci annego dentro), a modi molto più sfumati, articolati, differenziati e modulati. Per tentativi, titubanti o controfobici, comincerà a gestire in prima persona sia il "governo" di sé sia la modulazione delle emozioni, sottraendoli via via alle "figure di rassicurazione" cui in precedenza li aveva delegati.(10)

Il sesto passo nella gestione delle emozioni è quello della revisione sistematica delle esperienze per vedere come si sono svolte le cose e come ci si è mossi, dentro di sé e fuori di sé.

Ognuno dei sei passi fondamentali in cui si svolge la gestione delle emozioni ha da essere continuativamente accompagnato da una sistematica ricognizione: come su un aereo da ricognizione, il paziente, per lunghi tempi accompagnato dal terapeuta, osserva, per così dire, "dall'alto" ogni cosa, mentre lui stesso e il terapeuta medesimo sono contemporaneamente lì giù, passo passo a diretto contatto con la concretezza delle sue esperienze.

Trovo molto pertinente il termine "ricognizione", perché designa bene l'esplorazione globale dell'insieme, che viene effettuata, per così dire, "dall'alto"; e, contemporaneamente, l'acquisizione di una nuova conoscenza: una ri-cognizione. Mentre si osserva l'Io all'opera nel gestire l'attivazione dei vari differenti aspetti del Sé, le loro reciproche relazioni e le loro relazioni con la realtà esterna, si tengono sistematicamente d'occhio i vari livelli di contesto in cui ogni movimento si svolge.


CORRELATI BIOLOGICI

All'interno del sistema limbico, l'amigdala, con le sue connessioni con numerose aree sottocorticali e corticali che trasmettono informazioni sensoriali viscerali e con quelle che la collegano alle aree prefrontali mediali e frontali, è implicata nelle integrazioni emotive, particolarmente, per quello che qui interessa, in quelle di allarme, di ansia, di paura e di panico. Le sue connessioni con l'ippocampo sembrano essere quelle che rendono possibili le integrazione delle percezioni emotive con i dati mnestici situazionali. Sulla base di queste integrazioni si andrebbero a organizzare le manovre di evitamento. L'integrazione del sistema cognitivo propriamente detto con il sistema cognitivo emotivo è svolta dalla corteccia prefrontale mediale, che, coordinandosi con l'amigdala, svolge anche le funzioni di regolazione emotiva.

Potrebbe essere interessante ricostruire la storia di un caso clinico, pensando alle specifiche attivazioni dei vari distretti cerebrali e delle loro connessioni, prima nella strutturazione della patologia, e poi nel progredire della terapia.


TERAPIA

La terapia deve svolgersi su due piani: quello psicoterapico e quello psicofarmacologico.
Credo sia preferibile, se appena è possibile, che le prescrizioni e i controlli dei farmaci siano effettuati da uno psichiatra distinto dallo psicoterapeuta, per evitare che fra paziente e psicoterapeuta si finisca col parlare, soprattutto nei momenti cruciali, di milligrammi anziché di esperienze.


TERAPIA FARMACOLOGICA

È da istituire non con ansiolitici, ma con antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, i quali hanno un effetto non solo sintomatico (come gli ansiolitici), ma effettivamente terapeutico. Sembra, infatti, che essi non si limitino ad attenuare l'attività dell'amigdala, facendo così diminuire l'attivazione delle aree sottocorticali con cui l'amigdala è connessa, e producendo in tal modo una diminuzione delle manifestazioni somatiche e neurovegetative dell'ansia. Sembra che determinino un aumento del numero delle sinapsi, favorendo così la strutturazione e la ristrutturazione di circuiti integrativi, che erano stati destrutturati.

Gli ansiolitici, purché a rapido assorbimento e a breve emivita (che vengono, cioè, assorbiti ed eliminati rapidamente), possono essere prescritti come "salvagente di emergenza", per interrompere un eventuale attacco di panico al suo insorgere. Essi avranno funzioni esclusivamente sintomatiche, se assunti; e funzioni di rassicurazione preventiva simile a quella della coperta di Linus, se tenuti sempre pronti in tasca.

Entrambi i terapeuti devono sostenere il paziente, quando egli ricerca rassicurazione, magari scaramantica, dagli ansiolitici, perché per lui, in certi momenti, questa è una necessità. Devono essere banditi tutti gli atteggiamenti melliflui di chi vuole mostrarsi "indulgente" o "comprensivo", come se si trattasse di "debolezze" o di "marachelle". Si tratta, invece, come sempre, di stabilire un rapporto di cooperazione a viso aperto, con schiettezza e lealtà, anche per quel che riguarda la terapia farmacologica e gli aspetti psicologici ad essa connessi.

Bisogna tassativamente fare un controllo della funzionalità tiroidea, per escludere o far curare un eventuale ipertiroidismo.


PSICOTERAPIA

La psicoterapia delle persone che strutturano attacchi di panico ha da svilupparsi secondo alcune linee direttrici, da perseguire contemporaneamente:

1. Ciò che più di ogni altra cosa fa star male nelle crisi di attacchi di panico è la perdita di sé come soggetto e la perdita di sé come soggetto efficace. La terapia deve mirare, quindi, prima di tutto e soprattutto, a facilitare il recupero da parte del paziente del senso di sé come soggetto e come soggetto efficace.

2. Deve essere facilitato, inoltre, il recupero di un senso di sé come ben funzionante. Il paziente ha da essere accompagnato a verificare che il suo sistema delle emozioni è davvero ben funzionante, e a constatare che i guai si producono perché, nel corso della propria vita, non ha imparato né a riconoscere le proprie esperienze emotive né a gestirle.

3. Il paziente deve essere rialfabetizzato sulle proprie emozioni, non perdendo nessuna occasione per utilizzare a questo fine le sue esperienze dirette.

4. Il paziente ha da essere aiutato a rendersi conto dei modi che di fatto utilizza di volta in volta nella modulazione delle emozioni e nella loro gestione, e deve essere accompagnato e sostenuto nell'inventarne degli altri, aumentando così il ventaglio delle risorse disponibili e quindi delle sue possibilità.

5. Il paziente dev'essere facilitato nel recupero dell'interezza di sé e di una maggiore integrazione fra tutti gli aspetti di sé e fra tutte le sue funzioni, non solo fra i suoi sistemi di allarme e di difesa dal pericolo.

6. Parimenti, il paziente dev'essere facilitato nel recupero dell'interezza della percezione della realtà e dei suoi rapporti con essa, senza limitarsi ai soli aspetti pericolosi o rassicuranti della realtà.

7. In sostanza, dev'essere favorito il recupero e il rafforzamento della capacità di modulazione dell'esistenza attraverso un ri-arricchimento della percezione di sé, della percezione della realtà, della percezione (e anche della realizzazione) delle relazioni fra se stesso e la realtà.

8. Il paziente non deve mai essere smentito o squalificato o disprezzato o deriso, ma deve essere sempre riconosciuto in ciò che di valido e sensato hanno i suoi processi mentali. Si tratta di mostrare che gli errori nei suoi processi mentali sono conseguenti a errori di integrazione: di dati dell'esperienza diretta intera; di aspetti e di funzioni di sé; di aspetti della realtà.

9. La fiducia in se stesso verrà allora recuperata non con una serie di battaglie contro di lui, ma con un recupero e una valorizzazione di aspetti realmente suoi.

Ogni psicoterapia è differente, perché differenti sono le persone e quindi differenti sono le relazioni che esse strutturano, compresa quella, appunto, di psicoterapia. Segnalerò, qui di seguito, soltanto alcune cose che sembrano particolarmente rilevanti e frequenti nello specifico della psicoterapia delle persone che soffrono di attacchi di panico.


Necessità di un'anamnesi molto accurata

Coi pazienti che soffrono di attacchi di panico, l'anamnesi dovrà essere particolarmente accurata. Trattandosi quasi sempre di difficoltà legate soprattutto all' "analfabetismo emozionale", l'accuratezza dell'anamnesi avrà anche funzioni altamente terapeutiche. Insegnerà al paziente a riconoscere, passo passo, le proprie esperienze vive.

Lo psicoterapeuta deve mantenere sempre ben viva la "fede" che gli attacchi di panico sono, a qualche livello della mente del paziente, sensati, sensatissimi. Mantenere questa "fede", unita alla fiammella della speranza di poter riuscire a venirne a capo, è l'aspetto più difficile di tutto il trattamento, dato che il paziente è il primo a squalificare il valore di sensatezza delle proprie crisi di panico.

È come se nella mente del paziente si fosse operata una scissione fra gli aspetti del Sé che sanno bene la sensatezza dell'allarme che si scatena in lui, ed altri aspetti del Sé che osservano dal di fuori l'esperienza, trovandola e sancendola come incomprensibile e insensata. È come se il primo insieme di aspetti del Sé impersonasse, per così dire, un bambino spaventato, e il secondo insieme di aspetti del Sé impersonasse dei genitori non in sintonia con lui, che, esterrefatti e impotenti, non capiscono, e magari si arrabbiano.

A questo proposito, bisogna essere estremamente chiari, ma anche molto delicati, perché i tentativi di ricomporre questa scissione possono a propria volta scatenare attacchi di panico, per così dire, "di secondo livello".

Nella terapia è importante riuscire a "rialfabetizzare" il paziente sulle proprie emozioni, aiutandolo a ricomporre i segni corporei dell'emozione nel tutto unico integrato dell'esperienza emotiva in atto. Non si tratta mai di negare o minimizzare o squalificare le esperienze di "sensazioni somatiche" che il paziente vive, né di contrapporvisi, ma di favorire una loro integrazione che realizzi la percezione emotiva.


L'alleanza terapeutica

Col paziente, è indispensabile strutturare fin dall'inizio un clima di effettiva cooperazione, curando assiduamente l'alleanza terapeutica, già a partire dai colloqui di consultazione. Il terapeuta deve riuscire a farsi percepire - e a essere! - alleato del paziente. Deve riuscire a fargli percepire che non vuole contrapporsi a lui; che non ha nessuna intenzione di smentire le sue esperienze; che non lo vuole squalificare; che non lo disprezza; che genuinamente lo pensa in grado di recuperare se stesso; che lo riconosce e lo valorizza come soggetto competente della propria esperienza e della propria vita; che è disposto a vedere il suo "handicap", cercando di individuare sistematicamente la sensatezza dello strutturarsi di esso (handicap) nel corso della sua vita.

È necessario ripercorrere, tutte le volte che si ripresenta, l'attivarsi della paura e dell'angoscia, scoprendone, passo passo insieme al paziente, le invarianti, ma anche le variazioni e le specificità del momento esistenziale, sassolini disseminati da Pollicino per farsi ritrovare. È utile avere sempre in mente che l'adulto con cui stiamo cooperando (il paziente) è stato un bambino, e che quel bambino è andato strutturandosi nel corso di esperienze reali concrete, e che la sua patologia attuale è connessa con quelle esperienze in modi che possono risultare, prima o poi, riconoscibili a chi, sensibile e attento, si disponga a rintracciarne i segni.

Non solo noi alleati di lui, ma anche lui alleato di noi, passo passo: senza la sua cooperazione, in effetti, noi non riusciamo a far nulla.


L'uso della "moviola"

Quando il paziente ha imparato a trattare con rispetto se stesso e le proprie esperienze, può essere utile rivedere insieme bene, al rallentatore, alcune delle sue esperienze critiche, per favorire che impari a cogliere tutti i propri movimenti emotivi.

È necessario non avere fretta. E questo sembrerebbe pacifico, ma è cosa estremamente difficile quando si ha a che fare con una persona che fa della fretta, così intimamente connessa alla percezione del pericolo e alla fuga, la principale risorsa disponibile.

Bisogna aiutare il paziente a recuperare il senso di ogni elemento della sua esperienza. Per esempio, la perdita della percezione della realtà (derealizzazione) e la perdita della percezione di sé (depersonalizzazione) fanno parte delle componenti protettive dal pericolo soverchiante. Se non posso fuggire scappando via, "fuggo", bloccando la percezione della realtà, per bloccare la percezione del pericolo (nella derealizzazione). Se sto per essere irreparabilmente aggredito dall'agente della noxa, prevedo di non poter impedire di vivere lo strazio dell'essere colpito. In un movimento di difesa estrema, "mi salvo", bloccando l'intera percezione di me, per bloccare la percezione del dolore, prevista come insopportabile (nella depersonalizzazione).

Ma questi due metodi estremi di difesa, come spesso succede, sono essi pure fonte di angoscia, giacché, se non percepisco più la realtà, aumenta il rischio di trovarmi nei guai senza avvedermene; e se non percepisco più me stesso, posso non accorgermi dei guai che mi stanno succedendo, e posso quindi perdere ogni residua possibilità di cercare di farvi fronte.

Si attiva, inoltre, una specifica nuova angoscia di non riuscire più a tornare a percepire sé o la realtà: l'angoscia, cioè, di trovarsi in una specie di vuoto, di buio assoluti, senza più alcun contatto, spersi nel nulla, in una specie di perdita di sé e di caduta senza fine in spazi immensi, senza possibilità di ritorno.

Bisogna, con assidua sollecitudine, cogliere e sottolineare in ogni occasione gli aspetti emotivi e relazionali delle singole esperienze che il paziente va facendo.

Bisogna mostrare al paziente innumerevoli volte che è proprio il suo considerare "non vivibile" un'esperienza ciò che la fa essere realmente un'esperienza non vissuta. E che è questo che la trasforma e la riconferma agli occhi della mente come fosse davvero "non vivibile".

Quando il paziente se ne accorge, ha già fatto enormi passi avanti verso la guarigione.

Utilizzando il dipanarsi concreto delle sue esperienze, bisogna attivamente mostrare passo passo al paziente che le emozioni possono essere gestite; che lui è realmente attrezzato a vivere le proprie emozioni; che si è convinto di non essere in grado di gestirle, fondamentalmente perché non ci ha mai realmente provato; e che, se ci prova, può progressivamente sperimentare di essere in grado - gestendole - di viverle.


L'uso del presente storico

Una delle maggiori difficoltà con i pazienti che soffrono di attacchi di panico è quella di farsi raccontare le loro esperienze concrete reali. Già definire "crisi" le loro esperienze drammatiche significa essersi posti fuori dalla possibilità di riconoscere significato ad esse. Ma anche ogni singola "crisi" non è pensata, percepita e raccontata come un'esperienza individuabile. Infatti, nel racconto delle crisi, i pazienti usano quasi sempre il "presente storico": "Mi succede che...", "E poi sento...", "Capita che...", e così via, come se tendessero attivissimamente a decontestualizzare le loro esperienze. Non si riesce, non ci si riesce proprio se non con assiduo sforzo, a farsi raccontare: "Quella volta là mi è successa questa cosa e quest'altra". Io, una volta, credevo che i pazienti facessero così nell'illusione di aiutare me ad orientarmi. Pensavo che cercassero delle "leggi generali", basate su delle "invarianti" nelle manifestazioni dei loro disturbi, e che me le evidenziassero con uno spirito analogo a quello che potrebbe esserci in uno staff di ricercatori che tentano di delineare le caratteristiche di una nuova forma morbosa. Ed effettivamente, spesso si sentivano in quello spirito.

Ma, col tempo, mi sono accorto che c'era un altro motivo, molto più importante, per cui si trovavano ad adottare quel tipo di attivazione relazionale con me. Il fatto era, ed è, che la loro esperienza emotiva tendeva sistematicamente a strutturarsi in modo decontestualizzato: ogni elemento dell'esperienza si era presentato come scisso da ogni altro elemento dell'esperienza stessa e da ogni elemento del contesto. L'esperienza di "crisi" era stata vissuta come un fulmine a ciel sereno soprattutto per questo suo essere stata strutturata in modo del tutto decontestualizzato e del tutto frammentato. Nei loro racconti, e nel loro pensiero e nelle loro percezioni, l'unico tipo di legami che i pazienti sapevano riconoscere, dunque, era soltanto quello dell'identità e dell'invarianza dei "sintomi" in ogni episodio esperienziale. È così che il loro pensiero e il loro racconto su se stessi, sulle loro esperienze e sulla loro vita tende ad assumere la forma di giustapposizione di timbri. Non bisogna rispondere con dei nostri "timbri" al loro presentarci i loro "timbri".

Non bisogna lasciargliene passare una. Ogni volta, ma per davvero: ogni volta che il paziente generalizza, si deve essere pronti a richiamarlo a pensare e a parlare di quello specifico episodio di vita, di quelle specifiche sue sensazioni, di quegli specifici suoi pensieri, di quelle specifiche sue emozioni, di quelle specifiche sue azioni od omissioni. Solo così il senso dell'esperienza può emergere dal magma informe della presupposta "insensatezza".

Proibito parlare al presente, se non per parlare effettivamente del presente. Non si tratta di "correggere i compiti", ma di patrocinare l'assunzione - finalmente - di un atteggiamento di rispetto verso se stesso e verso la propria reale esperienza. Cioè, in definitiva, verso la propria esistenza: soggettiva, concreta, reale, che si dipana storicamente nel tempo in episodi di vita.

Spesso il paziente, reduce da una vita intera di smentite e squalificazioni, non osa crederci che facciamo sul serio a dar valore alla sua esperienza e al suo punto di vista. Pensa che sia una specie di "trucchetto", di finzione, che mettiamo in piedi per abbindolarlo e per condurlo là dove lui non vuole andare.

A quel punto, soccorre la più schietta e trasparente nostra sincerità, che ha da essere effettiva, non recitata. Le cose come stanno, stanno. Quello che è, è. Senza ombra di infingimenti o di subdole pressioni. Il paziente è indotto a cooperare con noi e a lasciare che noi cooperiamo con lui, soltanto se riesce a percepire che noi siamo realmente sinceri, che giochiamo realmente a carte scoperte, che stiamo davvero dalla sua parte, che con noi non corre il rischio, una volta di più nella sua vita, di rimanere inascoltato o non creduto o di venire manipolato e strattonato secondo criteri e paradigmi non suoi.

Se le cose vanno bene, non ci vorrà molto tempo perché egli recuperi un sufficiente senso del proprio valore, che, prima, nel corso della sua vita, s'era andato sgretolando per strada. Questo sistematico recupero del senso del proprio valore, facilitato dal nostro riconoscere e rispettare lui al centro di se stesso, tende a rafforzare, progressivamente e permanentemente, il suo Sé.


Ricontestualizzazione delle esperienze

Il paziente deve imparare a dar valore a ogni elemento del contesto per dar valore e riconoscibilità alla propria esperienza. Uno dei compiti principali della rialfabetizzazione è quello di ricontestualizzare le esperienze. Tutte le esperienze, comprese quelle di crisi, ma non solo quelle di crisi. Il terapeuta, con assidua pazienza, deve indurre il paziente a ripensare e a ripercorrere passo passo le proprie esperienze, per coglierne la sensatezza in quel particolare momento della sua vita. Insieme, allora, si potrà riconoscere che in ogni occasione c'era stato un qualche motivo di ansia, magari anche piccolo, che ha attivato il sistema di allarme, il quale a propria volta ha innescato un "allarme dell'allarme" e dei tentativi precipitosi di fuga, che sono andati a costituire la "crisi".


Lo "zoom" a rovescio (11)

L'attenzione del paziente, nella previsione delle crisi e poi nel corso delle crisi, si concentra tutta, parossisticamente, sulle percezioni corporee della paura, dell'ansia e dell'angoscia. Egli, così, perde il contatto con tutto ciò che non è segnale di ansia, e questo lo spinge ad annegare nell'angoscia, determinando la crisi medesima.

Può essere utile aiutarlo a fare una specie di "zoom" a rovescio. Ciò che, per il suo stato d'allarme, egli mette in primissimo piano, occupa tutto lo schermo della mente, e appare, perciò, enorme. A quel punto, immettere nel campo visivo della mente altri elementi del "paesaggio" dell'esperienza (per esempio, guardandosi letteralmente attorno) è come fare uno "zoom" a rovescio (che sembra allontanare l'immagine degli oggetti), per cui ciò che prima appariva "enorme" viene ora a trovarsi ridimensionato senza grande sforzo. E questo si realizza non per una sua svalutazione o falsificazione, ma per una sua contestualizzazione e relativizzazione, sempre all'insegna della verità. E, cosa importante, senza dover pensare di aver bisogno di ingaggiare chissà quali "battaglie" contro non si sa bene che cosa.


Il "mito" dell'indipendenza


Nella loro sistematica e metodica opera di prevenzione delle situazioni potenzialmente angoscianti e di apprestamento di possibili soccorsi d'urgenza, i pazienti che strutturano attacchi di panico cercano di reperire nella realtà esterna dei "punti di sicurezza" (la farmacia, il negoziante al corrente delle loro "crisi", la guardiola della portinaia, l'ambulatorio medico, il pronto soccorso, e così via) o delle persone (le "figure di sicurezza"), cui attribuire quelle funzioni di rassicurazione che in se stessi credono di non potere e non sapere attivare. In tal modo, nella loro mente il territorio viene strutturato in modo tale per cui è rilevante soltanto la precisissima "rete" che è costituita dai collegamenti fra i "nodi di sicurezza" da loro individuati. Rete invisibile a tutti, ma ben presente a loro.

I pazienti si sentono terribilmente umiliati da questo bisogno. Si disprezzano orribilmente. In più, spesso vengono derisi proprio per questo dai famigliari o dagli amici. E troppo spesso gli stessi operatori credono - erroneamente - di essere loro di aiuto, svalutando queste necessità, per "spronarli".

Per questi pazienti, che tendono a funzionare "per assoluti", l'ideale di sé contiene al massimo grado l' "indipendenza". Aspirano all' "indipendenza" assoluta. Ora, noi sappiamo bene che l'indipendenza non esiste,(12) figurarsi l'indipendenza assoluta! È proprio il mirare a qualche cosa di impossibile che li abbatte, perché il loro percepirsi realistico fornisce ai loro occhi un'immagine di se stessi così abissalmente lontana dall'ideale, da apparire come fosse del tutto "bisognosa", del tutto "incapace". Del tutto "dipendente". "Dipendente" per loro significa "disprezzabile".

Il loro rifiuto assoluto della dipendenza (che li condurrà, in una sorta di contrappasso dantesco, a una dipendenza che percepiranno come fosse assoluta), così come la loro aspirazione alla "indipendenza" (da loro ritenuta il bene supremo) rappresentano il loro - giusto, legittimo, sacrosanto - bisogno di essere, di sentirsi e di porsi nel mondo come soggetto, e come soggetto efficace.

Ognuno di loro è un ex-bambino che, nelle relazioni fondanti di base, sistematicamente si è sentito - ed è stato - smentito e svalutato nel suo essere soggetto. Sente di non sapere, di non avere imparato come si fa ad essere e a farsi riconoscere soggetto nelle relazioni. Confonde l'essere soggetto con la "indipendenza", con la abolizione, cioè, di ogni relazione.

Bisognerà, con molta pazienza e umiltà, mostrargli che è una "mitologia" quella che lo imbriglia. Una "mitologia" che si fonda su esigenze preziose, ma misconosciute. E bisogna, per gradi, favorire che accetti di ritornare su questa terra, fra noi esseri umani, che - tutti - abbiamo bisogno di dipendere gli uni dagli altri, perché siamo "fabbricati" così.
Ma per non smentire coi fatti le nostre parole, dovremo riconoscerlo e trattarlo davvero, momento per momento, sempre, come soggetto.


Le interpretazioni

Le interpretazioni secondo i modelli "classici"non servono: né quelle che dovrebbero disvelare pretese fantasie primitive inconsce, (se il paziente le accoglie, sempre che le accolga, lo fa solo con adesione dogmatica e sottomissione, perché le sente fondamentalmente fuorvianti); né quelle sui "meccanismi di difesa", come già detto all'inizio; né quelle che credono di individuare all'opera una pretesa pulsione autodistruttiva, dai cui effetti esplosivi il paziente cercherebbe di difendersi; né, a maggior ragione, quelle centrate su vissuti della relazione transfert-controtransfert, che il paziente sente come squalificanti la sua esperienza reale del "là e allora".

Le uniche interpretazioni che io ho trovato utili ed efficaci con questi pazienti sono quelle sul Sé, sulla pluralità degli aspetti del Sé attivati in modi differenti nella singola esperienza e sul funzionamento della mente.

In questi casi, puntare sulle interpretazioni "classiche", ben che vada, equivarrebbe a sperare di aiutare un analfabeta facendolo impratichire nella sintassi e nell'analisi logica.

Solo dopo una adeguato - lunghissimo - processo di "rialfabetizzazione" sulle proprie esperienze emotive, il paziente può acquisire dimestichezza nel mondo dei significati intrapsichici e relazionali dell'esperienza vissuta, divenendo così accessibile alle eventuali interpretazioni psicoanalitiche sul proprio mondo interno e sulla propria relazionalità sia generale sia specificamente transferale.


LE "RICADUTE"

Conviene fare attenzione a non colludere con il paziente nel considerare "ricadute" il ripresentarsi di ansia, angoscia, paura o panico. Si tratta quasi sempre di momenti evolutivi in cui il paziente cerca di sperimentare se stesso in nuove situazioni o in nuovi modi di affrontare situazioni a lui già note. Che si attivi ansia quando il paziente ricomincia a muoversi realmente nella propria esistenza è un'altra cosa dall'entrare in ansia al solo pensiero di poter muoversi.

Ad un certo punto del processo terapeutico, i pazienti possono angosciarsi proprio perché si avvedono di essere in grado di muoversi nella vita e di andare anche gioiosamente incontro alle proprie esperienze. Si sentono in pericolo, perché sentono che il loro desiderio riattivato e la rinfrancata consapevolezza delle loro capacità rischiano di allontanarli troppo dai sistemi di sicurezza precedentemente approntati, proprio come accade nella fase evolutiva del "riavvicinamento" descritta da Margaret Mahler, in cui il bambino si angoscia perché si avvede che partono da dentro di lui il desiderio e la capacità di allontanarsi dalla mamma, mentre continua a permanere il bisogno di contatto con essa.

Bisogna riconoscere gli aspetti evolutivi di queste esperienze, non tanto perché vederli in quel modo può essere di incoraggiamento, ma per rimanere aderenti al principio "Quello che è, è", nel bene, ora, come nel male, allora.


RIASSUNTO
Lo strutturarsi degli attacchi di panico ha radici lontane, nell'attivo istituirsi di un "analfabetismo emozionale" e di una incapacità di gestire le emozioni. La psicoterapia, preferibilmente da associarsi con terapia farmacologica con antidepressivi, deve tendere a facilitare il recupero del senso di sé del paziente come soggetto e come soggetto efficace. Deve, inoltre, provvedere a una "rialfabetizzazione emozionale" del paziente e a un recupero delle sue capacità di gestione delle emozioni. Questo è possibile attraverso la facilitazione sistematica di percezioni e di integrazioni, sia dei vari aspetti di sé che si attivano nelle esperienze reali di vita, sia dei vari aspetti della realtà con cui il soggetto è interattivo.


Note

1) Medico Psicoterapeuta, Psicoanalista Associato alla Società Psicoanalitica Italiana (S. P. I.) e all'International Psycoanalytical Association (I. P. A.), Torino, Italy roccatop@inrete.it ; paolo.roccato@fastwebnet.it
2) Il testo è una revisione del lavoro presentato al IX Convegno "La paura. Paure, fobie, attacchi di panico", organizzato dall'Associazione Itinerari Psicoanalitici, a Verona, l'8 ottobre 2005 itineraripsico@libero.it
3) Vedi il mio articolo ""Modelli teorico-clinici e i sentimenti: Psicologia psicoanalitica del Sé", all'indirizzo internet http://www.cshg.it/Psicologia/RoccatoModelli.htm
4) Un elenco sistematico ed esaustivo dei sintomi può essere trovato in DSM-IV Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Ristampa della Terza Edizione, Masson, Milano, Parigi, Barcellona 1996, pp. 435-446. Il lettore deve essere avvertito, però, che la semplice evidenziazione della sindrome attraverso l'elencazione dei sintomi può rischiare di rendere più difficile, anziché favorire, la evidenziazione della psicodinamica, perché rischia di fare sfuggire proprio le loro funzioni e le loro connessioni.
5) "Dal paziente freudiano al paziente catodico" [titolo deciso dalla redazione al posto del mio "I pazienti degli psicoanalisti sono cambiati"], in MicroMega, 1998, n. 3, pagg. 218-229.
6) Una delle funzioni dei miti è quella di costituire una base "indiscutibile" per giustificare un qualche assetto attuale, soprattutto culturale, sociale o politico. Per la loro "indiscutibilità" i miti (non solo quelli pubblici, religiosi o propriamente culturali in generale, ma anche quelli privati, famigliari e personali) hanno potentissimi effetti sullo sviluppo degli individui e dei gruppi.
7) La refrattarietà a specifiche emozioni, nella nostra cultura contemporanea, spesso riguarda soprattutto l'invidia e il dolore mentale depressivo.
8) "Il Non-Sensato in Psicoanalisi. Rilevanze teoriche, cliniche e tecniche", sulla rivista informatica Self, reperibile all'indirizzo internet: www.selfrivista.it/Volumi/Vol1An1/Roccato.html
In questo articolo mostro anche il processo relazionale (transfert/controtransfert) attraverso il quale paziente e analista sono riusciti a cogliere l'evento traumatico misconosciuto e i suoi legami con la patologia attuale di attacchi di panico.
9) Vedi il mio lavoro "Invidia e assetto mentale invidioso: un nuovo modello" all'indirizzo internet: http://www.psychomedia.it/neuro-amp/98-99-sem/roccato.htm
10) Le "figure di rassicurazione" sono le persone (o i luoghi dove si trovano tali persone), che il paziente ha individuato come punti di riferimento che gli garantiscono un certo grado di sicurezza, in quanto, nella sua fantasia, possono essere all'occorrenza "salvifiche". Spesso il paziente si accorge che si tratta di una relazione del tutto affettiva, del tutto fantasmatica, per nulla realistica (come era il caso di un giovane che riusciva a guidare l'automobile solo se c'era, al suo fianco, la mamma, che però non aveva neppure la patente), ma pensa di non riuscire a farne a meno, e di ciò si vergogna.
11) Lo "zoom" è un processo ottico, molto usato nel cinema per motivi espressivi, che dà l'impressione che la cinepresa si avvicini agli oggetti lontani, ingrandendoli sullo schermo. Lo "zoom rovesciato" è il processo opposto: dà l'impressione che gli oggetti si allontanino, rimpicciolendosi sullo schermo.
12) Tutti noi andiamo a comprare il pane, per esempio; o accendiamo la luce, usando la corrente elettrica che altri hanno prodotto; o abbiamo bisogno di sentirci pensati, amati e stimati da qualcuno.


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