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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Arteterapia



L’autobiografia universale

Marco Alessandrini*



Postfazione al libro
Edvard Munch, Frammenti sull'arte, Milano, Abscondita, 2007

Casa Editrice Abscondita
Via Manin 13, 20121 Milano (Mi)
abscondita@fastwebnet.it



L’autobiografismo, nell’arte, non è la semplice trasposizione di vicende personali, ma il rendere evidente, in queste, un nucleo impersonale e atemporale che nascostamente le abita e le sottende; se riuscito, è il massimo e più intuitivo sforzo di comprendere, o meglio di rendere visibile, sensorialmente percepibile, il possibile significato nascosto di esistenze effimere. Dunque il senso di tutte le esistenze e di ogni essere umano. Un senso complessivo, o un filo rosso, che appunto risiederebbe in ogni esistenza, e che l’esistenza stessa, nel suo snodarsi apparentemente insignificante, casuale e soggettivo, porterebbe faticosamente alla luce, attuerebbe.
Grande verità o enorme illusione, è questo uno dei motori dell’espressione artistica. E in Munch questo motore ha agito senza dubbio con eccezionale potenza.
Lo hanno alimentato circostanze d’epoca, motivi contingenti. Basti pensare all’amico Hans Jæger, scrittore anarchico che, sulla scorta del filosofo danese Søren Kierkegaard, propugnava il motto: «Scrivi la tua vita».
Ma per Munch molti altri, in particolare Henrik Ibsen e August Strindberg, sono stati in questo, oltre che amici o conoscenti, veri e propri alter ego, anzi fratelli, padri o madri della sua anima in costante ricerca di volti e di idee in cui rispecchiarsi e costruirsi.
La pittura allora, e insieme a questa il disegno e le tecniche grafiche, dalla xilografia alle incisioni, alla litografia, sono per Munch il primo laboratorio di un tale cercarsi, che produce sempre qualcosa di assolutamente altro rispetto al semplice autobiografismo. Munch stesso, nel 1891, in una lettera al suo amico e poeta danese Emanuel Goldstein, racconta ironicamente che a Kristiania (oggi Oslo) in quel periodo «...si passeggia nel costante timore che qualcuno ti trascini al settimo piano e che poi ti mostri la sua vita in 200 pagine – qui in Norvegia non c’è nessuno che non abbia scritto un romanzo sulla propria vita». Munch era stanco anche di questo, perché sempre e fino in fondo era se stesso, sempre alla ricerca e perciò sempre in anticipo, prima e al di là di una singola epoca, di un singolo luogo, di un qualche determinato stile. Nella stessa lettera, Munch prosegue: «Incomincio a essere stanco di tutta questa gente che scrive la propria vita». O che semplicemente la dipinge, si potrebbe aggiungere.
Tutto ciò sembrerebbe paradossale di fronte al dato evidente a cui spesso ancora oggi non solo il pubblico, ma anche molta critica, si arresta: i temi fortemente autobiografici dei dipinti di Munch. Il fascino insomma delle sue tormentate vicende personali: donne, alcolismo, disturbi mentali e anarchismo.
In effetti non si può negare che quando Munch, come emblematicamente gli accade già con il primo capolavoro, La bambina malata del 1885-1886, «scava» letteralmente il quadro con infiniti colpi di pennello, con strumenti a punta, con le unghie, o ne ripete in seguito la versione per almeno venti volte e in più tecniche, compresa l’incisione, sia in preda a un tema autobiografico per lui bruciante. La sua sembra davvero una ricerca incentrata su un singolo tema, per di più autobiografico e interiore: nel caso del dipinto citato, l’agonia della sorellina Sophie, morta quindicenne di tubercolosi. Una ricerca protesa verso una precisa composizione iconografica in grado di tradurre fedelmente il tema prescelto.
Eppure, sebbene Munch sia nato sotto le ali dei pittori naturalisti norvegesi, soprattutto Christian Krohg e Frits Thaulow, e pur se il naturalismo, in Norvegia, aveva assimilato l’impressionismo, ma anche l’autobiografismo, dando luogo a uno stile in cui la percezione del mondo esterno si caricava di potenti influssi soggettivi, in realtà intuì ancor prima che l’espressionismo nascesse, e in misura maggiore di quanto esso non riuscirà a fare, che il tema non è tutto, che il tema non è nulla. O meglio, che il tema non è il punto nodale, a meno che non venga trascinato e trasformato da un’emotiva aderenza del pittore non solo ai suoi ricordi, alle proprie percezioni imbevute di soggettività, ma al mezzo tecnico, alla materia pittorica in cui infatti fin dagli inizi Munch sente di doversi «primitivamente» immergere, sospinto a farne parte.
Quella di Munch è dunque soprattutto un’inesausta ricerca condotta «dentro» i materiali e le tecniche, nella pastosità degli strati di colore, nelle linee di forza che sorreggono l’immagine e che, durante la lavorazione, tendono a semplificarla, e poi nella fisicità della tela e nel gesto stesso, che a quadro concluso ancora vi riecheggia. Il segreto delle opere realizzate da Munch non è perciò l’evidente e introspettivo autobiografismo, pur denso di indicibile spontaneità e violenza, quanto l’ancor più vivido tessuto di luce, di linee e di colori che lo anima e lo trascende, trasformandolo in qualcosa di non più assolutamente autobiografico, ma di nascosto e sovrapersonale, di radicalmente altro.
Proprio in virtù di questo substrato materico, amalgama di stili disparati – naturalismo, impressionismo, Art Nouveau, simbolismo, espressionismo –, che in Munch si riversano per trasformarsi in altro nella spinta creativa di cui è preda, l’aspetto tematico assume un volto universale. Come se la singola figurazione prescelta si mutasse in rappresentazione dilatata di verità drammatiche e ultime, diffuse sulla tela così come alla base della mente e del mondo.
In particolare, dietro l’intenso colorismo espressionista, e nelle fibre della percettività impressionista dei paesaggi, del sole, delle notti, ecco che tanto la stilizzazione dell’Art Nouveau (lo Jugendstil in Germania) quanto il sintetismo simbolista convergono per dare luogo a personaggi e sfondi ormai indistinti tra di loro, uniti da un unico profilo a onde che evoca insieme il mare, le grida, il sogno. Ma che evoca soprattutto la realtà sociale o interpersonale nei suoi aspetti più conflittuali e difficili, che in questo modo assurgono a paesaggio al tempo stesso quotidiano e cosmico.
Questa peraltro è anche l’evoluzione che Munch imprime alla linea nervosa quanto morbida di Toulouse-Lautrec. Ma che imprime anche ai temi prediletti da quest’ultimo, così come, per altro verso, al «temperamento» delle tele di Gauguin e di Van Gogh, dove una maniera volutamente palpitante si alimenta della tecnica del cloison, letteralmente «tramezzo», «setto» o «sepimento», basata su segni curvilinei e campiture cromatiche di superficie. Una tecnica ideata specificamente da Gauguin e resa più «selvaggia» da Van Gogh, ma in Munch estremizzata e insieme diluita, in una fusione totale con i soggetti raffigurati che ne vengono intensamente mutati, assumendo fattezze più o meno spettrali.
Landscapes of the Mind, «paesaggi della mente», così titola uno studio dedicato a Munch dal critico d’arte Bjerke. Nei suoi dipinti infatti, primo tra tutti L’urlo, che in prima versione è del 1893, grazie alla tecnica che li attraversa e li scuote la «carne» stessa di Munch diventa, direbbe Merleau-Ponty, «carne» del mondo. Perché in questo artista, più direttamente che in chiunque altro, lo spazio interno si fa contemporaneamente paesaggio esterno composto da luoghi e spazi, da cose, da corpi.
Questo spiega anche perché Munch sia l’evidente ma poco celebrato precursore da cui è sgorgata l’arte veramente moderna, dall’informale all’art brut, da Francis Bacon a Lucian Freud, incrociando le stilizzazioni di Alberto Giacometti, il colorismo percettivo di Umberto Boccioni o l’espressionismo astratto di Jasper Johns. In Munch e a partire da lui non conta più la sola immagine pittorica, quanto la sua materialità, che però non sacrifica l’immagine, e anzi grazie al connubio con essa permette una stretta consonanza tra figura e sfondo. Permettendo una consonanza tra l’artista, la sua tela e le energie della natura che dall’intimo del gesto, e dal fondo del colore, sovrastano, tormentano, ma alla fine anche purificano sia Munch, l’artista, sia la sua opera.
Solo così si spiega quel procedimento altrimenti soltanto naïf documentato da passi del diario, da resoconti di visitatori, da una fotografia del 1925. Nell’atelier all’aperto della residenza di Ekely, con la neve fino alle caviglie, Munch dipinge le sue grandi tele, e lì le lascia. Altre volte, in tutte le stagioni, le appende alla vegetazione o le distende al suolo, esposte alla pioggia e al vento, o sottoposte – dice lui stesso – «al sole d’autunno come immensi gioielli». Aggiunge poi, parlando del suo atelier all’aperto, che «...il cielo è diventato tetto e la terra pavimento».
Hestekur, «cura da cavallo», così lui denominava questo singolare procedimento, un’espressione che anche nella lingua italiana, così come in quella norvegese, indica una terapia drastica ed energica rivolta a chi evidentemente corra il rischio di aggravarsi o persino di morire.
Sarebbe anche questo un dato aneddotico, una traccia legata alle sole manie personali di Munch, se non fosse invece un suo modo per oltrepassare se stesso. Per Munch infatti si trattava di una «terapia» vera e propria, ma da condurre non su di sé, bensì dentro un substrato vitale che per quanto appartenente a lui stesso rimane, al suo fondo, un dato della natura tutta. Quindi anche un dato rinvenibile e «trattabile» nei propri dipinti, creature naturali anch’essi.
Ecco perciò che le sue tele e la tecnica pittorica che le sostiene valgono per gli elementi compositivi, anche preriflessivi e prefigurativi che contengono, e per uno sguardo che li sostiene facendosi quasi «pre-umano». È in questi aspetti che inevitabilmente si riversa quanto è inscritto come dolore e ricordo nel corpo e nella sensorialità di Munch, il quale però avverte che in questo modo lui, la tela, lo stile e i temi tenderebbero a ripiegarsi in un lucido ma autistico autobiografismo. Perciò, proprio tramite la «cura da cavallo» a cui li sottopone, Munch sembra riaprire i dipinti al contatto con il mondo, anzi al corpo e alla sensorialità del mondo, in tal modo riaprendo se stesso.
Perciò Munch, parlando della propria attività diaristica, non può che dire: «...probabilmente io ho scritto per consolarmi...». Avrebbe però potuto dire la stessa cosa anche della propria attività pittorica. Considerazioni analoghe ricorrono in numerosi artisti. Paul Klee, ad esempio, annoterà nel suo diario: «Io creo per non piangere; questa è la prima e ultima ragione». Quando però Rudolf Arnheim, nel suo volume dedicato a Il pensiero visivo, commenta questo passo di Klee, precisa giustamente che se l’attività artistica ha potuto assolvere per questo artista un tale compito, ciò è accaduto perché gli ha permesso un incessante e «vasto lavoro di pensiero visuale». Come a dire che nell’immagine, e nella tecnica che materialmente e plasticamente la sorregge, si dipana il percorso attraverso cui un artista eleva i suoi dilemmi personali a una chiarificazione che li oltrepassa, e che va al di là di lui stesso. Una chiarificazione che come una soluzione «matericamente» e «visualmente» evidente emerge, nel singolo tema figurativo, dalla globalità dell’intelaiatura compositiva.
Quanto a Munch e a questi percorsi del suo peculiare «pensare visivo», occorre menzionare, oltre alla «cura da cavallo», di cui s’è detto, la predilezione per le tele di dimensioni monumentali – su tutte, i dipinti per l’Aula Magna dell’università di Oslo –, vere finestre spalancate sul mondo. O ancora, l’amore per la pittura a olio, tecnica malleabile che permette al ricordo di elevarsi e disciogliersi al di là di se stesso. O ancora l’architettura scenografica e teatrale di dipinti quali La madre morta e la bambina, del 1899-1900, o Morte nella camera di un ammalato, del 1895. Qui l’attività di scenografo e illustratore delle commedie di Ibsen, che Munch sentiva fratello, produce i suoi frutti e fa sì che l’attenta costruzione geometrica e la postura di persone ed emozioni accendano il claustrum di una stanza – e dei destini – di un bagliore più universale e meno soffocante.
Veniamo così all’inconcluso progetto che a più riprese, in diverse mostre a partire dalla mostra-scandalo del 1892 a Berlino, vede Munch intento a riunire mutevoli scelte di quadri in un percorso suddiviso per temi, il cosiddetto Fregio della vita, le cui stazioni principali sono l’«amore», l’«inquietudine», la «morte». È questo un bisogno di recuperare, nuovamente, non tanto un discorso tematico e biografico, quanto una sorta di ritmo di base, un imprendibile battito che dall’affiancamento dei quadri si scomponga e si ricomponga autonomamente.
Infine la famosa tendenza al non finito, come se per Munch le larghe ed energiche pennellate, quasi mimando la «cura da cavallo», dovessero necessariamente fondersi con l’immediatezza primordiale delle forze naturali, ribaltando e immergendo il tema personale dentro al flusso grandioso e incessante della vita.
Un flusso che in Munch è soprattutto di forme e colori, ma anche di scrittura. Perché in Munch la scrittura ha ugualmente un’eco sensoriale ed emotiva insieme fluida e densa. Anzi, se la definizione è plausibile, la scrittura di Munch, permettendo così di «leggere» meglio anche la sua pittura, appare magmaticamente sinestesica. Si consideri infatti che a partire dal 1889, quando ha ventisei anni, e fino almeno al 1935, la sua attività di scrittore si effonde su decine e decine di fogli dove spesso si accoppia o si embrica con immagini e colori. Risuonando inoltre di un dettato che non è lo stream of consciousness, ma qualcosa di ancora più scandito, in virtù, ad esempio, del personalissimo e continuo ricorso all’inserimento di trattini divisori. Ecco dunque un effetto complessivo trasversale tra figura e ritmo, tra musica e pittura.
A conferma di come sia qui particolarmente evidente la comune sorgente sinestesica di ogni atto creativo di Munch, si avverte, leggendo i suoi scritti, la medesima sensazione trasmessa dai suoi dipinti. Una sensazione che, anche riguardo ai dipinti, non si potrebbe solo definire pittorica, ma unitamente musicale e letteraria.
Lo stesso Munch, scrivendo della sua volontà di riunire le tele in una sequenza – come nel caso del già citato Fregio della vita –, parla dapprima di un collegamento tematico tra i dipinti, ma subito si accorge «...delle loro vicendevoli risonanze», e in questo modo anche di «un significato diverso rispetto a quello che possedevano separatamente». Conclude: «Sono diventati una sinfonia» – affermandone implicitamente la musicalità.
Ancora più specificamente, nel 1899, in una lettera al compositore inglese Frederick Delius, con cui già nel 1896 aveva allacciato amicizia a Parigi, Munch scrive: «Perché non mettiamo mano alle progettazioni per quell’idea con incisioni grafiche e musica – e con J.P. Jacobsen?». Delius aveva già composto musiche in relazione a poemi del danese Jens Peter Jacobsen, scienziato darwiniano, botanico ma anche poeta e scrittore, autore nel 1880 del romanzo Niels Lynhe. Ma Munch poneva un compito ben più ambizioso: un’opera che riunisse poesia, musica e immagini. Tuttavia non sappiamo se l’idea, mai realizzata, si riferisse a un lavoro da pubblicare a stampa o piuttosto a una performance dal vivo. A questo riguardo è anche suggestivo pensare che in lui si muovesse il concetto di Gesamtkunstwerk espresso da Wagner, l’«opera d’arte totale» in cui musica, teatro e arti visive potessero fondersi, come nella tragedia greca. E peraltro Munch cita diverse volte Wagner nei suoi scritti, mostrando di conoscerne l’estetica.
Resta il fatto che di questa straordinaria capacità che ha Munch di immergersi nella materialità sinestesica, capacità di cui sarà portavoce l’arte a lui successiva, la scrittura sa farsi carico almeno quanto la pittura. E se già in Van Gogh, per citare un esempio, le lettere attestano un’insospettata capacità di scrittura – oggi peraltro ancora da valorizzare –, in Munch quest’ultima raggiunge livelli sorprendenti.
Volendosi limitare a pochi accenni, occorre prima ricordare che Munch ancora una volta attinge a stili e idee di suoi contemporanei, ma solo come stimolo per progetti in lui preesistenti. In questo caso, nuovo coraggio gli è certamente provenuto dalla frequentazione parigina della casa dell’appassionato d’arte William Molard, a cui Paul Gauguin, che disponeva di uno studio al piano soprastante, nel giugno 1895, prima di recarsi a Tahiti, aveva lasciato le incisioni di prova per il romanzo-racconto Noa Noa. Dunque Munch ebbe modo di vederle, e di attingere lì la rinnovata speranza di pubblicare lui stesso un’opera composta da parole e immagini.
Munch anche in letteratura, come già in pittura con l’idea del Fregio della vita, sognava un’opera complessiva, e che forse più di tutto abbinasse parola e figura, segno e immagine. In una lettera del 1929, rivolgendosi allo svedese Ragnar Hoppe, storico dell’arte, Munch parla dell’intento «...di raccogliere in un insieme gli appunti... che io chiamo diari dell’anima, e occorre tempo – provo a organizzarli, ma non so che cosa ne verrà fuori». Nel testamento stilato nel 1940, donerà tutti gli scritti al comune di Oslo – diari, lettere, e poi romanzi con immagini inframmezzate –, precisando che il «...giudizio di esperti deciderà se e in quale misura debbano essere pubblicati».
Il cardine della sua scrittura è di nuovo, come in pittura, il lavoro sugli aspetti materici del testo. Munch agisce a due livelli: sulla parola come traccia grafica, e poi sul linguaggio, sia nella sua struttura sia nell’incedere narrativo.
La parola come traccia è da lui «lavorata» in due modi: a volte ricorrendo al formato e al colore, poiché spesso parole o frasi sono scritte in caratteri maiuscoli e con tinte a matita, che per di più cambiano da una parola all’altra, o da una frase all’altra; altre volte invece la parola è collocata in risonanza con un’immagine, in modo da acquisirne lo stesso impatto visuale. Ecco perciò parole apposte sopra o sotto la figura, oppure dentro a essa ma nel «riquadro» di un unico elemento compositivo, ad esempio nel vano di una porta spalancata, come nel disegno Separazione (Malinconia) del 1896-1898. O ancora, parole situate dentro al foglio in forma sparsa, in casuale sovrapposizione alle immagini, ad esempio su uno sfondo di volti e occhi, come nel disegno Uno sguardo misterioso del 1912-1915.
Quanto invece alla struttura del linguaggio, si è già detto dell’insistito ricorso a trattini che scandiscano rapsodicamente il testo, ma altrettanto fondamentali sono il frequente passaggio dalla prima alla terza persona, con l’impiego di alter ego denominati (quando riferiti a se stesso) Brandt, Karl, Karlemann, Nansen, e infine il riaffiorare di medesimi episodi e ricordi, ad esempio i conflitti con le amanti (prima tra tutte Tulla Larsen), o le morti e malattie che costellano la vicenda familiare. Ne risulta una narrazione ogni volta diversa e cangiante i cui riferimenti spaziotemporali evaporano in un ripetuto sovrapporsi di passato e presente, realtà e sogno, autoconfessione e illusione.
Inutile pertanto ricercare la precisione delle date o dei luoghi: le une e gli altri sono solitamente inesatti. Munch non mira alla veridicità della coscienza, ma a una coscienza aperta alla veridicità dei propri risvolti interni. Qui il ricordo e le impressioni sono sedimenti che le correnti della vita trasformano in essenze sempre più sospese tra superficie e abisso, tra aspetti contingenti e sfondi immensi.
Si direbbe: esattamente come accade nella sua pittura. Impossibile non pensare, ad esempio, ai molti dipinti in cui soprattutto tramite l’impostazione da «teatro da camera» Munch sembra porsi dentro la scena e nel contempo al di fuori, partecipante coinvolto, eppure spettatore degli accadimenti e di se stesso. Un discorso analogo varrebbe per i tanti autoritratti, o per gli scatti fotografici, e volendo persino per il sottile debito non solo nei confronti del teatro – come appena detto – ma anche del cinema muto, in voga in quegli anni.
Ancora in tema di osmosi tra immagine e scrittura, sappiamo che Munch utilizzava l’attività diaristica, i collage di immagini e parole, come fonte ispirativa per i dipinti, quasi un composito almanacco o uno zibaldone, affastellato e in movimento almeno quanto la realtà e la mente. Anzi, egli spesso riusciva ad affidare la violenza dei vissuti dapprima unicamente alla parola scritta, per poi soltanto al termine di questa decantazione, anche qualche anno dopo, lasciarli defluire in un dipinto, resi più contenibili ma non per questo meno incandescenti. Dipinti fondamentali come Disperazione e L’urlo sono nati da formulazioni in forma scritta.
I Frammenti sull’arte qui presentati rimandano dunque spesso a precisi dipinti, gli uni e gli altri immersi in un’atmosfera che evoca una lucida ma concitata trance. Un’atmosfera, questa, che Munch sembra proporre come originaria perché per lui era in fondo la natura autentica, essenziale della vita. Nei diari, così come nei dipinti – su tutti, La danza della vita del 1899-1900 –, gli scenari si fanno volteggianti, intrisi di una liquidità che della realtà vuol essere il fondo autentico. Ma soprattutto attraversati da persone anch’esse più reali del reale, perché raffigurate come manichini sonnambuli che inconsapevolmente eppure sfrenatamente danzano, amano, odiano, muoiono.
Nulla di simbolista o surrealista, anzi, dopotutto, neppure di totalmente, recisamente moderno. Munch è inoltre alieno all’uso dell’allegoria. Il suo onirismo resta incredibilmente concreto, struggente nella sua assoluta immanenza. «Se si decidesse di scrivere un libro su di me» è lui stesso a precisare «sarebbe sbagliato renderlo troppo grazioso, io non sono una bella signorina».
È forse inutile dire che in Munch parola e immagine non giungono allo stesso esito. La scrittura è l’ampia gestazione dove il suo corpo di memorie – dolorose, ma non soltanto – deposita le troppe ramificazioni nell’attesa di una prima metamorfosi. Questa sembra estrarre dai conflitti della sua vicenda personale pochi nuclei saturi e impellenti. Si pensi alla severa e repressiva educazione ricevuta in famiglia, incarnata dal padre ossessivo e impotente, in conflitto però con il vulnerabile eppure ardente istinto di autoaffermazione. Centrale anche l’incontro-scontro, impersonato dalla donna e dalla sua immagine pittorica o letteraria, tra le componenti spirituali e divine della sessualità e quelle invece fisiche e caratteriali.
Di queste e altre tensioni già la scrittura testimonia il disciogliersi in qualcosa che va al di là del semplice contrasto e dell’autoconfessione. Ma è poi soltanto la pittura a generare, nell’incisività della figurazione, l’intuizione di una sintesi. Di fronte a un dipinto come Madonna, realizzato in prima versione nel 1894-1895, già gli elementi strutturali dell’immagine, come il contrasto dei colori, i profili radianti e appesantiti da spessi colpi di pennello, l’inclinazione del busto nudo del personaggio femminile, sprigionano dal loro indivisibile insieme un inspiegabile connubio carnale e religioso. Le difficili relazioni sentimentali con le donne, e in fondo con gli opposti della propria mente, assurgono, da castrazione autolesionistica e da «tara» ereditaria e personale, a messaggio universale che sulla tela riunisce cielo e inferno, santità e colpa, speranza e oscurità.
Probabilmente per questo motivo gli scritti di Munch non hanno mai ottenuto, né in lui né da parte di altri, una completa sistematizzazione, perché questa è qualità esclusiva della sua pittura, peraltro da conquistare nuovamente ogni volta, non appena intravista. La scrittura sembra invece ancor più dominata da un carattere meno sistematico e mai definitivo, un carattere di insistita e fervente gestazione.
Scrittura o pittura, il percorso artistico sospinge Munch, la sua personale difficoltà di vivere, in un vero aldilà creativo, consentendogli di oltrepassarsi, di essere altro da sé, di sorreggersi e trasformarsi. Quasi una «terapia», però di segno opposto rispetto all’altra, l’alcolismo, da lui comunque abbandonato dopo il ricovero del 1908-1909. Anch’esso è pur tuttavia rifluito dentro la prima e unica «cura»: l’arte.


* Marco Alessandrini - Psichiatra, psicoterapeuta, Responsabile Unità Operativa Territoriale del Centro di Salute Mentale di Chieti, Professore a contratto presso l'Università di Chieti per l'insegnamento di Psichiatria nella Facoltà di Psicologia e per l'insegnamento di Psicosomatica nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve (autorizzata dal MURST)

Indirizzo per la corrispondenza: Centro di Salute Mentale (C.S.M), Viale Amendola n. 47, 66100 Chieti (Ch), tel. 0871-35.89.08/33, fax 0871-35.89.23; e-mail: lucesegreta@libero.it



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