Marco Alessandrini
Psichiatra, psicoterapeuta, Responsabile Unità Operativa Territoriale del Centro di Salute Mentale di Chieti, Professore a contratto presso lUniversità di Chieti per linsegnamento di Psichiatria nella Facoltà di Psicologia e per linsegnamento di Psicosomatica nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica Breve (autorizzata dal MURST).
Indirizzo per la corrispondenza:
Centro di Salute Mentale (C.S.M), Viale Amendola n. 47, 66100 Chieti (Ch),
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«Ogni artista è come il cittadino d'una patria sconosciuta,
da lui stesso dimenticata […]. Quella patria perduta […]
[gli artisti] non se la ricordano, ma ciascuno di loro rimane
sempre inconsapevolmente accordato in un certo unisono con lei»
Marcel Proust, La Prigioniera1
Divertire gli dèi: è questa, secondo uno studioso non recente2, la funzione dei cosiddetti giochi rituali nella cultura degli Indiani d'America. Si tratta di giochi in senso stretto, d'azzardo o di destrezza, tramite pedine o dadi, all'interno di un contesto religioso legato al mito e al sacro. Giochi in cui disincanto e serietà, leggerezza e profondità si contemperano nel sospendere la coscienza ordinaria, in modo da dare spazio a quelle forze atemporali, impossibili da conoscere e da dominare, che risiedono nel profondo della mente. Forze paragonabili a dèi, in quanto emozioni intrise di sensorialità situate al di là del sentire e del linguaggio ordinari. Forze appartenenti a una temporalità fuori del tempo, a quel qualcosa che Freud chiama l'«infantile»3, vale a dire non solo ciò che nell'infanzia abbiamo sperimentato senza disporre di un linguaggio per pensarlo, ma che rimane sempre attivo come sostanza dell'inconscio: come l'«impensabile» che sempre insiste, inconoscibile, affinché possiamo ruotarvi intorno producendo incessante conoscenza.
Ogni gioco, in effetti, è serissimo: crea mondi, e nel crearli rende pensabili emozioni ed enigmi, offrendo risposte a ciò che non ne ha, e spiegazione a realtà al di là del comprensibile. Nel gioco, pertanto, in un'atmosfera che amalgama gioia e timore, onnipotenza e impotenza, inconsapevolezza e coscienza, il mondo, il proprio mondo, viene creato e ricreato, in questo modo dando forza e forma a un proprio Sé, al sentirsi esistere e al sapersi esistenti. Offrendo il proprio essere come discorso che dia un senso e un contributo a sé e agli altri.
Divertire gli dèi, allora, è sfiorare ciò che da dentro maggiormente ci assilla, da sempre e sotto mille volti, e che crea ostacolo e dolore ma anche personalità e destino. E poi, dovendo "divertirlo" e "addomesticarlo", in tal modo imparando a rendere i nostri problemi materia plasmabile, "compagni" da alleggerire e governare, bisogna perdersi a metà tra sogno e realtà: tra il sentire e il pensare, tra l'inventare e il capire. Bisogna appunto giocare.
La psicoanalisi, non a caso, è stata creata come un vero gioco rituale. Certo, al posto dei dadi o di altri procedimenti ha scelto due particolari strumenti, le libere associazioni, da un lato, e il rapporto con il terapeuta, dall'altro. Ha scelto il parlare, insomma, ma senza che sia possibile vedere l'interlocutore (quest'ultimo, vale a dire il terapeuta, è seduto al di dietro del paziente), accorgendosi in tal modo che ogni parlare è in realtà sognare un proprio sogno: "inventare" l'altro, qui il terapeuta, con ciò che di impensabile e di inconscio ogni sogno contiene ed esprime.
L'altro diventa quindi inevitabilmente, come per noi lo sono sempre gli altri e il mondo, la riattualizzazione proiettiva di "tracce" inconsce e impensabili, intrise di emozioni e sensazioni. Riattualizzazione che non è ripetizione di un passato, sia pure infantile, bensì insistente riedizione di un sapere insufficiente - e spesso di un non-sapere - che delle nostre emozioni profonde, impossibili da spiegare e da comprendere, abbiamo prodotto e continuiamo a produrre. Riattualizzazione che adesso però, nell'incontro terapeutico, grazie al gioco rituale delle libere associazioni, può diventare evidente, offrendo alla coscienza la possibilità di modificarla, di conoscerne e di fornirne imprevedibili versioni, creando in questo modo nuovi percorsi emotivi che sciolgano la fissità e il dolore degli statici percorsi precedenti.
Esiste però un modo per giocare ancora più a fondo, per divertire i propri dèi interni entrando ancora di più nel sogno, vivendolo da svegli restando coscienti, in questo modo assumendone coscienza. E' la cosiddetta mediazione espressiva, strumento dell'Arte Terapia. È insomma il dipingere, il modellare, il suonare, il recitare o altro ancora, e il farlo all'interno del rapporto con l'altro, con il terapeuta "oggetto di invenzione", ma anche garante di nuove esperienze, rispettose e correttive rispetto a quelle passate, e soprattutto legate adesso a una coscienza che si abbini al sognare, che sorvegli il sognare, e che in questo modo si avvicini all'impensabile e all'inconscio.
La mediazione espressiva, d'altronde, è linguaggio del corpo, delle mani e degli occhi, anche delle parole, sempre però secondo le modalità dell'infanzia, dei primi rapporti con la madre e con il mondo, dove questi mezzi espressivi obbediscono alla pulsione e al sentire, alle leggi e alle modalità cognitive del cosiddetto processo primario, la logica dell'inconscio e del sogno. E il sogno, come scrive Anita Seppilli, in ogni cultura è considerato simile alle visioni, in quanto «sogno e visione rappresentano una fra le vie più importanti, che mette in contatto con le forze del'invisibile, e permette di agire su di esse, sempre che siano accompagnati da una potente carica emotiva»4.
Qui allora il gioco si fa ancora più serio, e perciò diverte gli dèi maggiormente: li vive e li "tocca" in forme e colori, in suoni e odori, abitando con loro in un corpo a corpo dove rinascono, giungendo a coscienza, le potenti pulsioni preriflessive di ogni nostro sentire, sia esso il dolore di un sintomo, l'enigma di un'emozione assillante o anche un'assenza, la mancanza di un sentimento di sicurezza e valore.
Ha scritto Pontalis: «Noi soffriamo di essere a una distanza infinita da qualche oggetto perduto, inaccessibile, al quale rifiutiamo di dare un nome ma che talvolta i nostri sogni, o la pittura, o la musica, ci permettono di intravedere»5. "Intravedere", pertanto, richiede la possibilità di attivare più intensamente le libere associazioni, rendendo ancora più attivo il pensare primario o inconscio da cui esse sono sospinte, di cui anzi sono diretta espressione. E il pensare inconscio, il pensare del sogno, fondamentalmente consiste di intuizioni mediate da atti sensoriali e affettivi, rese possibili dall'atto stesso del toccare e del vedere, del lasciarsi andare all'interno dei percorsi inconsapevoli, ma portatori di un loro "sapere", del gesto e del creare. Questo è anche il pensare degli artisti, per esempio il «pensiero visivo» di cui parla Rudolf Arnheim6, un pensare che in più, come è proprietà dei sogni, dei giochi e dei riti - e appunto dell'arte - offre, secondo le parole di Marion Milner, «un contatto diretto con il proprio senso dell'essere»7.
Sempre la Milner8 ricorda poi quanto il medium espressivo, sia esso disegno, creta, parola o quant'altro, se condotto ad esprimere l'impensabile che alberga nell'inconscio e che in noi insiste come nodo emotivo o dilemma, consenta e attivi «una fase necessaria nello sviluppo dei rapporti oggettuali». Si tratterebbe di una fase nella quale l'altro - la madre, l'ambiente - pur se esterno è anche se stessi, in un temporaneo annullamento dei confini. E proprio questa fase, in cui come nel gioco, nel sogno o nel fare arte ci sentiamo parte di tutto, muovendoci nel mondo come se corrispondesse a ciò che noi avvertiamo e immaginiamo, permetterebbe poi di trovare e di costruire i propri confini, distinguendo l'interno dall'esterno e la fantasia dalla realtà oggettiva. Permetterebbe insomma di "colorare" a nostro modo, in base al più profondo e autentico sentire, gli altri e il mondo, scoprendo in questo modo noi stessi, il Verro Sé di cui parla Winnicott. Riappropriandoci, anche, di emozioni perdute per sempre e impensabili e ignote, ma poste alle radici del nostro vero essere e perciò unica fonte sia dei nostri maggiori problemi, sia delle potenziali capacità di riplasmarli e di risolverli. Emozioni perdute ma qui, nel gioco e nella creatività, riattivate con intuizioni e cognizioni inconsce, con gli occhi dell'«infantile»: riacquisite come ciò che più è caro e che esso solo, pur mai del tutto comprensibile e dicibile, rende emotivamente intenso ogni nostro comprendere e ogni nostro dire.
Potere del gesto, allora, potere dell'arte e del fare arte, ma solo a patto che dal gesto e dal fare arte vengano amorevolmente e fermamente estratti, ogni volta, il pensare e il sapere. Estrazione che solo il rapporto terapeutico rende veramente possibile, in quanto il terapeuta accoglie e guida. E accoglie soprattutto il sentire della persona, disordinato, violento, spesso ferito, guidandola poi a esplorarlo e a dargli forma, una forma non più inconsapevole, quella di un quotidiano ma ignorato automatismo mentale, bensì quella di un disegno o di una scultura: di una materia che è al tempo stesso sogno e realtà e che soprattutto è "materia" - disegno, scultura o quant'altro - e in quanto tale riconoscibile e plasmabile, aperta a spiegazioni, a rimodellamenti, a invenzioni. Materia dunque finalmente dominabile, quasi fosse un dio - vale a dire una forza psichica interna - con cui, tramite il corpo e la mente, divertirsi e giocare, svelandone il volto e riacquisendone il controllo.
Abbiamo perciò bisogno di fare arte, bisogno di "oggetti" da manipolare, da colorare, da odorare, fossero anche le nostre parole che in questo modo, però, diventano canto o poesia, diventano sogno. Ne abbiamo bisogno per rivivere, sperimentando in questo modo ciò che di noi stessi è sempre fuori del tempo e del sapere coscienti, ma che tuttavia imprime le svolte e i destini ai nostri pensieri e alle scelte coscienti. Ne abbiamo bisogno per imparare a sapere con il sapere "fisico", avvertito come sensazioni ed emozioni violente ma limpide, scoprendo ciò che è al di fuori della nostra coscienza ma che tuttavia è ancora di più noi stessi. E che per quanto possa disorientare o spaventare, rimette in moto il pensiero, illumina i problemi, risponde alla mancanza di autenticità e di senso.
È allora un bene dialogare con l'inconscio, dialogando con un terapeuta attraverso il rapporto con materie e colori, con suoni e odori. Così come, da sempre, dialogano i poeti o i pittori, sebbene in quel caso da soli, non sospinti - come invece accade in Arte Terapia - a parlare fino in fondo e coscientemente con l'altro, e in tal modo con se stessi.
Riusciremo perciò a divertire gli dèi se giocheremo da svegli e con l'aiuto di un altro: se sogneremo mondi in cui un colore, un disegno, un sasso o una qualunque altra forma o oggetto diventano immagini e storie. Mondi dove la coscienza, pur smarrendosi, resta viva e pensante, offrendo la possibilità di conoscere e di reinventare, senza finzioni, se stessi.
NOTE
(1) Proust M. (1913-1927), Alla ricerca del tempo perduto, Milano, Mondadori, 1989, vol. III, p. 660.
(2) Culin S., «Games of the North American Indians», 24th Annual Report of the Bur. Of Amer. Ethnology (1902-1903), Washington, 1907; cit. in: Sabbattucci D., «Giuoco d'azzardo rituale», Studi e materiali di Storia delle Religioni, 1964, vol. XXXV, fascicoli 1 e 2, pp. 23-85 (la prima citazione dell'articolo di Culin è a p. 29).
(3) Freud S. (1909), Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell'uomo dei topi), in Opere di Sigmund Freud, vol. 6, Torino, Boringhieri, 1974, pp. 23-24. Vedi anche: Freud S. (1914), Dalla storia di una nevrosi infantile (Caso clinico dell'uomo dei lupi), in Opere di Sigmund Freud, vol. 7, Torino, Boringhieri, 1975, pp. 529-30.
(4) Seppilli A., Poesia e magia, Torino, Einaudi, 1962, p. 35.
(5) Pontalis J.-B., «Préface», in: Rolland J.-C., Avant d'être celui qui parle, Paris, Gallimard, 2006, p. 8.
(6) Arnheim R. (1969), Il pensiero visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva, Torino, Einaudi, 1974.
(7) Milner M. (1975), «Discussione dell'articolo di Masud Khan 'Alla ricerca dell'esperienza del sognare'», in: (1987) La follia rimossa delle persone sane, Roma, Borla, 1992, p. 346.
(8) Milner M. (1952), «Il ruolo dell'illusione nella formazione del simbolo», in: La follia rimossa delle persone sane, cit., pp. 109-146.