Marco Alessandrini
Psichiatra, psicoterapeuta, Responsabile Unità Operativa Territoriale del Centro di Salute Mentale di Chieti, Professore a contratto presso lUniversità di Chieti per linsegnamento di Psichiatria nella Facoltà di Psicologia e per linsegnamento di Psicosomatica nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica Breve (autorizzata dal MURST).
Indirizzo per la corrispondenza:
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Ogni lingua traduce qualcosa di immanente alla lingua stessa, in realtà immanente ai parlanti. È qualcosa che ogni lingua costantemente esprime, ma che mai riesce a dire.
Non si tratta soltanto di quell'«arsenale fonetico illimitato», di quell'«infinitamente variegato balbettio» del quale, come ricorda Daniel Heller-Roazen(1), eravamo provvisti da bambini, quando disponevamo «di capacità articolatorie che neppure il più dotato dei poliglotti adulti potrebbe sperare di emulare». Già Roman Jakobson(2), affascinato dalla lallazione infantile, rileva che nello stadio da lui definito «l'apice del balbettio» (die Blüte des Lallens) i bambini hanno facoltà fonatorie al di là di ogni limite. Potenzialmente sono in grado di parlare qualunque lingua; in realtà ne parlano una sola, che non è mai, propriamente, una lingua.
Il fatto è che a questi suoni è legato qualcos'altro, qualcosa che si innesta nei suoni stessi. Come scrive Hans Loewald(3), «il neonato non coglie le singole parole, separate tra loro e separate dall'esperienza totale, ma si trova immerso, inglobato in un flusso di parole che è parte di una esperienza globale all'interno della diade madre-bambino». È quindi lecito supporre che qualcosa di sensoriale e di emozionale, dunque di sensuale - termine suggerito da François Gantheret(4) -, qualcosa di percepito, anzi di vissuto nelle interazioni precoci con gli altri e con il mondo, nel corpo a corpo con persone e con cose, si esprima nella sconfinata vocalità degli inizi.
Poi però tutto questo, perdendosi, lascia il posto alle vere parole, al discorso e alle leggi di una singola lingua, quella che alla fine del Medioevo, come ricostruisce Leo Spitzer(5), si iniziò a denominare «lingua madre», materna lingua. Questa tuttavia conserva al suo interno l'ombra, l'eco, l'incandescente assenza non solo delle sonorità degli inizi, ma di ciò che di dolce o doloroso esse racchiudono del primo incontro con se stessi e con il mondo. Qualcosa di inattingibile, di non più pronunciabile e di dimenticato, ma che al fondo di questa sua assenza si affaccia indimenticabile e risuonante.
«L'indimenticabile» (das Unvergessliche) è idea di Walter Benjamin ne Il compito del traduttore, saggio introduttivo alla sua traduzione dei Tableaux parisiens di Baudelaire(6). Qui lui dice che «si potrebbe parlare di una vita o di un istante indimenticabile, anche se tutti gli uomini li avessero dimenticati». Analogamente, aggiunge, le configurazioni linguistiche, anche qualora fossero intraducibili per gli uomini, possiedono traducibilità. In pratica, ciò che non sappiamo nè dire nè ricordare, se è l'indimenticabile, trapela esattamente là dove è assente. Perciò Benjamin, in un altro breve saggio, quello sull'Idiota(7), scrive che la «vita immortale», ovvero la vera vita di noi tutti - in questo caso, la vita del principe Myshkin - «è indimenticabile. (…) Essa è la vita che, senza memoria né memoriale, e forse anche senza testimone, deve restare indimenticata. (…) Questa vita resta, al tempo stesso, ciò che permane, privo di contenuto e di forma». Ecco dunque perché, conclude Benjamin, la vera vita di Myshkin, che gli attacchi epilettici di smemoratezza cancellano, è da essi in realtà echeggiata e comunicata. Di questa vera vita, infatti, tutti i conoscenti del principe - prosegue Benjamin - «hanno partecipato, senza sapere come».
Anch'io, poco più che adolescente, di fronte ai dipinti di Dante Gabriel Rossetti, e appunto «senza sapere come», ho partecipato di qualcosa che non capivo cosa fosse. Qualcosa che però, sebbene «privo di contenuto e di forma», obliato e assente, mi era «indimenticabile», indefinito ma pervasivo e presente. Non sapevo che lo scrivere, il parlare o il dipingere fossero sempre, per noi tutti, tradurre qualcosa che non ha traduzione, nè capivo che tradurlo parlando - o dipingendo, o componendo musica e via proseguendo - significa tentare di echeggiarlo. Non sapevo che al pari dei suoni e delle emozioni della prima infanzia, si tratta di qualcosa che non è una lingua come può esserlo una lingua particolare (il francese, il tedesco, o l'una o l'altra tecnica pittorica o l'uno o l'altro genere musicale): non comprendevo che ogni linguaggio (parlato o pittorico o via proseguendo) esiste per risuonare, anzi per evocare, non tanto una perduta sonorità degli inizi, ma l'indimenticabile di affetti e sensazioni ad essa avvinti. Insomma, quando parliamo, facciamo inevitabilmente lampeggiare, sentire nella pelle, tralucere per un istante una «vita vera» della quale non sappiamo nulla se non queste sensuali epifanie che il dire e la coscienza riescono a sprigionare.
Per me quindi tradurre un autore è entrare in contatto con quanto di dimenticato, e dunque di indimenticabile, di nascosto ma risuonante, di invisibile eppure affiorante quell'autore ha consegnato, «senza sapere come», al «piccolo inavvertibile corpo della sua parola». Intendo qui la parola come «piccolo corpo» non solo per citare Gorgia, ma per sottolineare che nel contatto, giorno dopo giorno, con la parola di un autore, mi accade - e sono certo che ciò accade a chiunque - di avvertire fisicamente, emotivamente e quindi sensualmente qualcosa che non saprei se definire l'indimenticabile dell'animo di quell'autore o l'indimenticabile dell'animo del suo parlare. Infatti la parola di un autore, come ogni parola, inclusa la mia di adesso, tenta di dare voce a qualcosa che non può averne se non nella forma di un'assenza corporalmente e sensualmente aleggiante. La stessa di cui sono sede - quasi fossero anch'essi parole - gli attacchi epilettici di smemoratezza del principe Myshkin. Ed è appunto in questo senso, allora, che Gorgia per esteso afferma: «la parola (lógos) è potente signora (dynástes mégas): con assai piccolo e inavvertibile corpo (smikrotátoi sómati kaì aphanestátoi) realizza imprese degne di un dio (théiotata érga apoteleî)»(8).
Come ho detto, io sono stato affascinato inizialmente dai dipinti di Dante Gabriel, da quella parola o «piccolo e inavvertibile corpo» che è il suo dipingere. Nella teoria di immagini femminili che i suoi dipinti dispiegano non ho però intravisto, e non intravedo tutt'ora, una dirompente sensualità carnale. A colpirmi è piuttosto il fatto che essi non sono, sessualmente parlando, dipinti eccitanti, bensì figurazioni dove l'eccitazione è evocata per assenza: sostituita, anzi ricoperta da una sensualmente morbida e debordante dolcezza. Sembrano veli, questi dipinti, simili a un palcoscenico talmente privo di imprecisioni e di vuoti, e talmente ricco e lussureggiante, da far affiorare, nel corpo e nella mente di chi li osserva, l'inconsapevole sensazione, anzi la percezione di uno sfondo ben diverso, inarrivabile ma echeggiante, soprattutto estremamente aspro. Di fronte al palcoscenico di questi dipinti avverto insomma, «senza sapere come», il brivido cancellato e indimenticabile di impensabili e terribili quinte.
Analogamente, nel Bello «armonico» di Botticelli, nella sua Venere conchiusa, Georges Didi-Huberman(9) individua la presenza, anzi l'evocazione del «negativo» cancellato, vale a dire la «crudeltà» di un corpo squartato. A me sembra in effetti che anche i dipinti di Dante Gabriel siano argini verso qualcosa al tempo stesso informe o indicibile e incandescente o risucchiante. Duplice definizione, questa, che corrisponde a ciò che per Jacques Lacan(10) è La Chose o Das Ding, nominazione espressa, non a caso, in due lingue, perchè «La Cosa» - questa è una terza lingua - è il fondo della mente o l'Inconscio, ciò che non ha linguaggio, perché li pervade tutti senza lasciarsene afferrare. E l'Inconscio è là dove non siamo, dove siamo Altro, sebbene ciò sia esattamente noi stessi ma decentrati e altri rispetto al dire e all'essere in cui ci riconosciamo abitualmente.
Dipinti-argine, allora, che tuttavia proprio nel velare e addolcire l'alterità interna, il nucleo problematico inconscio, lo esprimono e lo risuonano, quasi che dal velare stesso, dall'inevitabile dimenticare, tralucesse, volendo ancora seguire Didi-Huberman, un irrisolto e indimenticabile dilemma: «Pensare insieme - senza speranza di poterle mai unificare - l'armonia o la bellezza da una parte e l'effrazione o la crudeltà dall'altra».
Per me, e in fondo anche per Dante Gabriel, la scrittura è arrivata dopo. È noto che in molti casi questo artista ha dapprima dipinto immagini, per solo successivamente tradurle in poesia.
Immergersi nella simbiosi con un testo, in questo caso con i suoi testi, è stato allora accettare di lasciarsi pervadere dalla lingua senza parole - non una lingua particolare come il tedesco, il francese e via dicendo - che la lingua specifica, nel caso di Dante Gabriel l'inglese, risuona attraverso il proprio «piccolo e inavvertibile corpo».
In questo senso chi traduce è al tempo stesso autore. Intendo ribadire che la lingua perduta, sedimento di esperienze globali «all'interno della diade madre-bambino», o della diade io-mondo, insiste, da assente, nella lingua particolare che vi si è sostituita. Ma allora colui che traduce accoglie e a sua volta risuona questa lingua perduta, ritraducendola e così facendola risuonare non solo in un'ulteriore e diversa lingua particolare, ma anche, nel fare questo, rielaborandola e trasformandola all'interno di se stesso. È infatti possibile accogliere il dirsi indicibile di esperienze informi e perdute, perciò vere e viventi, solo nella misura in cui queste sfiorino e riattivino, per affinità personali, esperienze proprie, anch'esse informi e perdute. A quel punto l'autore tradotto e la persona che traduce si incontrano nell'aldilà delle parole che le parole risuonano, di cui esse anzi sono il «piccolo corpo»: traduttore e autore si incontrano nella vita senza spazio nè tempo dell'Inconscio, la vita - diceva più sopra Benjamin - «senza memoria né memoriale, e forse anche senza testimone».
Tuttavia, colui che traduce è proprio un testimone. Suo scopo è rivivere, nella parola dell'autore, il non-vissuto di cui quella parola è il tentativo di esistenza, per poi donare a esso, nel tradurre in una nuova lingua, un'esistenza maggiore non solo grazie alle peculiarità del nuovo linguaggio, ma per il tramite di ciò che di affine e di non-vissuto esisteva dentro di sé da prima, e che ora giunge a dirsi con parole al tempo stesso altrui e proprie. Tradurre è dare parola, in due, a una medesima eco perduta, nella quale le reciproche diversità si incontrano per tramutarsi, affiorando in un nuovo parlare.
Mi sono perciò chiesto se l'incontro con la scrittura di Dante Gabriel avesse evocato in me la stessa eco perduta e informe che i dipinti mi avevano trasmesso. Sono consapevole che nel proporre un simile approccio potrò sconcertare. Il fatto è che il mio mestiere, la psicoanalisi, consiste nell'ascoltare, del discorso dell'altro, il non-detto e il non-dicibile, cogliendone la presenza non solo in elementi apparentemente anodini, quali i lapsus o il ricorrere di particolari parole, ma in sensazioni, emozioni, parole, immagini che il dire altrui suscita dentro me stesso.
A questo riguardo le poesie di Dante Gabriel, rispondenti per lo più allo schema del sonetto, sembrano straordinariamente simili ai dipinti. In molti casi, d'altronde, in lui un sonetto precedeva la realizzazione di un corrispondente dipinto, e non solo ne forniva il titolo e il tema, ma risulta trascritto in qualche area della tela o nella sua cornice(11). Ma il punto è che sia i sonetti che i dipinti sembrano diluire in orizzontale, lungo una superficie costituita rispettivamente di parole scritte o di figurazioni pittoriche, qualunque profondità, creando tensioni e ritmi, ora sonori e semantici, ora figurativi e coloristici, che si stemperano nel momento stesso del loro determinarsi. Accade insomma che il componimento poetico, similmente alla figurazione pittorica, agisca come un velo o un argine dichiarando, è vero, tensioni e pulsioni, ma tramutate stabilmente in una Bellezza ideale che è insieme rivelatrice e opaca.
Lo stile d'altronde è cruciale. Come annota Roland Barthes(12): «Lo stile è (…) sempre un segreto». Aggiunge: «Ma il versante silenzioso del suo riferimento non dipende dalla natura mobile e continuamente differibile del linguaggio; il suo segreto è un ricordo racchiuso nel corpo dello scrittore». Perciò conclude: «La virtù allusiva dello stile non è un fenomeno di velocità, come nella parola, dove ciò che non è detto resta ugualmente una supplenza del linguaggio, ma un fenomeno di densità, perché ciò che ha precisa e profonda consistenza sotto lo stile (…) sono i frammenti di una realtà assolutamente estranea al linguaggio».
È insomma lo stile a far balenare ciò che di somatico, dunque di sensorio ed emotivo, di sensuale insiste nell'autore, qualcosa di necessariamente dimenticato perché è balbettìo di suoni-esperienze situato nel «prima» di ogni lingua(13).
Qui però il «prima» mi sembra davvero diffuso e disperso in una trama di sonorità e parole che ne rovescia l'irruente informità in una patina luminescente, dalla quale la sua eco trapela al tempo stesso vicinissima e irrimediabilmente lontana.
A un primo livello, traducendo, mi hanno colpito alcune particolarità. Ne è un esempio Astarte Syriaca(14) con il suo abbinamento di rime a tonalità acuta e grave. Già nella prima quartina, nello schema A-B-B-A, le parole in rima sono moon-boon (luna-benedizione) e Queen-sheen (regina-lucentezza). Questa particolarità sembra trasmettere una parallela oscillazione emotiva tra apertura e chiusura, fiducia e sconforto. Tuttavia più a fondo, a un secondo livello, avverto dentro di me, proprio nel rapporto stretto, da traduttore, con una lirica quale Astarte Syriaca, una sensazione di vuoto e di atonia. Esattamente l'opposto non solo di un'intensa oscillazione emotiva, ma di un'intensità emotiva in toto, nonostante questa sembri dichiararsi ostentatamente.
Se dunque in questo e in altri esempi qualcosa di indimenticabile, di nascosto ma echeggiante insiste, si tratta di una sorta di penetrante tristezza, di risucchiante sconforto. Più sopra, citando Didi-Huberman, parlavo di effrazione e crudeltà, ma queste allora sembrano qui consistere nell'affacciarsi, nonostante la sua cancellazione - anzi proprio a causa e attraverso di essa - di una necessità di ricevere vita e attenzione, pena un inestinguibile sentimento di atonia e di morte.
A questo proposito la frequentazione, a scopo di traduzione, del vasto epistolario di Dante Gabriel(15) (16), mi ha lasciato un'impressione ancora più profonda. A differenza che nelle liriche, la mancanza di controllo (si ricordi che la corrispondenza non era destinata alla pubblicazione) mi è sembrata qui risuonare un vero caleidoscopio di suggestioni. Le lettere rivolte a Jane Morris(17), con il loro entrante My dear Janey, trasmettono, già nel suono stesso di queste tre parole, qualcosa di veramente indicibile: lo struggimento dovuto non solo alla lontananza di una donna amata, ma al percepirsi lui stesso, Dante Gabriel, lontano da un sentimento di esistenza e di amore. Un sentimento che sebbene delegato alla donna amata, e tramite lei attinto, sembra albergare un'irresolubile evanescenza. Quasi che Dante Gabriel stesso, in questa scrittura, nel suo dichiarato e passionale avvicinarsi echeggiasse un contemporaneo allontanarsi, un nascosto ma «indimenticabile» spegnersi o ripiegarsi.
Dolcezza, allora, per lenire una non-pensabile, aspra amarezza; dolcezza sovrabbondante, soffusa e avvolgente, tuttavia sempre incalzata da una mai dicibile e informe tristezza. È questo un impossibile incontro tra dolcezza e tristezza, tra limpida superficie e sfondo immanente. Un incontro che le parole rincorrono e che nelle lettere, ancor più che nelle liriche e nei dipinti, promana in condensate, dolcissime locuzioni, folgoranti come lampi: really sweet beyond words(18), scrive Dante Gabriel a Jane parlando della Madonna con il Bambino e san Giovannino di Botticelli; personified emotions(19), afferma poi per definire ciò che intende ricreare sia in pittura che in poesia; sophistical fairified letters(20), soggiunge ancora nel definire le lettere di John Keats.
Qui qualcosa indubbiamente manca, ma risuona ed echeggia come una vita vera, un «indimenticabile» che traluce attraverso la propria assenza. Perciò tanto calore e dolcezza sembrano, tra stile e parola, tra suono e significato, vibrare un dolore, uno struggimento, un anelito nel corpo di chi traduce e di chi legge.
È questa una particolare soluzione melanconica, una melanconia estetica, anzi un'«estetica della melanconia», come recita il titolo di un libro di Marie-Claude Lambotte(21) (22). La carenza melanconica è fragilità di un Io che per percepirsi esistente necessita di affetto e riconoscimento nel momento stesso in cui, nei rapporti interpersonali, oscilla tra legame e distanza, incorrendo perciò nel ripetersi di esperienze deludenti che riaccendono la carenza interna. La soluzione estetica è allora una modalità per vivere legami e passioni a un livello diverso, quello estetico appunto, dove il dolore è eluso e lenito e l'affettività può dispiegarsi nell'area vasta e protetta di parole o dipinti.
Esiodo racconta, nel suo Opere e giorni(23), che «infinite tristezze vagano fra gli uomini». Aggiunge che esse sono morbi che «si aggirano, mali ai mortali portando». Lo fanno però, conclude, «in silenzio, perché della voce li privò il saggio Zeus».
Esiste allora un'altra voce, non semplicemente il linguaggio umano, ma gli echi che lo abitano, echi di suoni-esperienza, di ferite e bisogni, caduti nel silenzio. Questa parola, suono-esperienza che ogni parlare insegue e contiene, ha nella poesia, compreso il dipingere, la sola possibilità di emersione e, sembra suggerire e confermare Dante Gabriel, una speranza di vita e dolcezza.
NOTE
(1) HELLER-ROAZEN D. (2005), Ecolalie. Saggio sull'oblio delle lingue, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 13, p. 11.
(2) JAKOBSON R. (1940-42), Linguaggio infantile, afasia e leggi foniche generali, in Id., Il farsi e il disfarsi del linguaggio, Torino, Einaudi, 1971, p. 20.
(3) LOEWALD H.W. (1978), «Processo primario, processo secondario e linguaggio», in Id. (1980), Riflessioni psicoanalitiche, Milano, Dunod-Masson, 1999, p. 164.
(4) Cfr.: GANTHERET F., La nostalgie du present. Psychanalyse et écriture, Paris, Éditions de l'Olivier, 2010, p. 20.
(5) SPITZER L., Muttersprache und Muttererziehung, in Id., Essays in Historical Semantics, New York, 1948, pp. 15-65.
(6) BENJAMIN W. (1921), «Il compito del traduttore», in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1955, 1962, pp. 39-52.
(7) BENJAMIN W. (1917), «'L'idiota' di Dostojevskij», in Id., Avanguardia rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, pp. 76-77.
(8) GORGIA DI LEONTINI, «Encomio di Elena e altri frammenti», in Sofisti: Protagora, Gorgia, Dissoì Lógoi. Una reinterpretazione dei testi, a cura di S. Maso e C. Franco, Bologna, Zanichelli, 1995, pp. 102-177 [nella classificazione di Diels-Kranz il passo citato è indicato come «fr. 11[8]»].
(9) DIDI-HUBERMAN G. (1999), Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Torino, Einaudi, 2001, p. 29.
(10) LACAN J., Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, Torino, Einaudi, 1994.
(11) SPINOZZI P., Sopra il reale. Osmosi interartistiche nel Preraffaellitismo e nel Simbolismo inglese, Firenze, Alinea, 2005.
(12) BARTHES R. (1953), «Che cos'è la scrittura?», in Id. (1953 e 1972), Il grado zero della scrittura, seguito da Nuovi saggi critici, Torino, Einaudi, 1982, p. 11.
(13) Cfr.: ALGINI M.L., «"Come un germe". Autoanalisi e scrittura», in DE SILVESTRIS P., VERGINE A. (a cura di), Consapevolezza e autoanalisi.Strategie di approssimazione all'esperienza inconscia, Milano, Franco Angeli, pp. 67-88.
(14) Cfr.: ROSSETTI D.G., Scritti, Poesie, Lettere, a cura di Marco Alessandrini, Milano, Abscondita, 2010, p. 35.
(15) DOUGHTY O., WAHL J.R. (Eds.), Letters of Dante Gabriel Rossetti, 4 voll., Oxford, Clarendon Press, 1965-1967.
(16) FREDEMAN W.E. (Ed.), The Correspondence of Dante Gabriel Rossetti, 9 voll., Woodbridge (Suffolk), Boydell & Brewer (D.S. Brewer), 2002-2009.
(17) BRYSON J., CAMP TROXELL J. (Eds.), Dante Gabriel Rossetti and Jane Morris. Their Correspondence, xford, Clarendon Press, 1976.
(18) ROSSETTI D.G., Scritti, Poesie, Lettere, cit., p. 61 (Lettera a Jane Morris, Venerdì 15 agosto 1879).
(19) Ibidem, p. 48 (Lettera a Thomas Gordon Hake, 21 aprile 1870).
(20) Ibid., p. 61 (Lettera a Jane Morris, Venerdì 15 agosto 1879).
(21) LAMBOTTE M.-C., Esthétique de la mélancolie, Paris, Aubier, 1999.
(22) Cfr.: LAMBOTTE M.-C. (1993), Il discorso melanconico. Dalla fenomenologia alla metapsicologia, Roma, Borla, 1999.
(23) ESIODO, Opere e Giorni, Milano, Garzanti, 1985, p. 9 (vv. 100-104).