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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Arteterapia



Il piccolo lupo, il bambino verde, il dottore e altre storie
Un percorso di Arteterapia con un ragazzo affetto da Sindrome di Cornelia de Lange

Isabella Bolech


Arte terapeuta (Art Therapy Italiana, Bologna), psicologa


Io faccio il viaggio, tu ne sai lo scopo
io ti do l'incertezza, tu la fede
tu sai come donare, io come chiedere
conosco il prima, e solo tu sai il dopo
(G. Calcagno. "Ed io conosco il topo")

We all know that Art is not truth.
Art is a lie that makes us realize truth,
at least the truth that is given us to understand
(Dore Ashton "Picasso on Art 'Two Statements by Picasso'")


Abstract
Presento qui il percorso di arte terapia con un ragazzo affetto da Sindrome di Cornelia de Lange, istituzionalizzato presso una struttura per Handicap Grave. Nel ripercorrere le tappe fondamentali della prima parte del lavoro, rifletto sul costituirsi della relazione terapeutica e sulle qualità specifiche dell'intervento di arte terapia, attraverso l'uso di materiali diversi, ragionando anche sulla loro valenza e significato e sulla loro fondamentale importanza con questo tipo di pazienti.


Alfredo(1)

Brevi cenni anamnestici

Quando lo incontro, Alfredo è un ragazzo di diciassette anni, affetto da sindrome di Cornelia de Lange, e istituzionalizzato fin dall'età di sei anni, in un centro per minori con handicap fisico, per approdare verso i quattordici anni in una struttura residenziale per disabili gravi dove tuttora vive.
Fisicamente Alfredo presenta tutte le caratteristiche tipiche della sindrome di cui è affetto e in particolare, è basso di statura, ha il cranio leggermente piccolo, è piuttosto peloso, specialmente in volto, ha sopracciglia molto arcuate, ciglia lunghe, naso vagamente triangolare, labbra sottili con gli angoli rivolti verso il basso, mani e piedi molti minuti. Fortunatamente però dal punto di vista fisico, risulta sufficientemente sano e non ha mai presentato veramente le patologie correlate alla sua sindrome. Le sue difficoltà riguardano essenzialmente l'ambito intestinale.
Dal punto di vista neuropsicologico, Alfredo presenta un ritardo medio-grave con importante compromissione delle capacità di espressione verbale, con un livello di comprensione buono, movimenti abbastanza impacciati e lenti. È scarsamente lateralizzato. Manifesta comportamenti autolesionistici ed è soggetto a crisi anche acute, che si scatenano per cause non sempre del tutto comprensibili. Nel corso di queste crisi, Alfredo può diventare anche molto aggressivo e necessita di contenimento.
Altra caratteristica molto particolare è la sua metereopaticità.
Tuttavia Alfredo, normalmente non presenta gravi problemi comportamentali e anzi mostra un carattere piuttosto dolce e accattivante che, unito al suo aspetto fisico particolare, suscita grande tenerezza all'interno della comunità in cui vive, il che da un lato gli permette di avere buoni rapporti con gli altri utenti, dall'altro però lo fa diventare anche oggetto di grandi aspettative da parte degli operatori.
Dal punto di vista dell'autonomia personale, Alfredo è in grado di mangiare e di bere e da solo, ma non di vestirsi, né di lavarsi e quindi deve essere assistito.
Partecipa a varie attività proposte dagli educatori e specificamente è stato inserito in un programma di riabilitazione equestre, cui si dedica con grande entusiasmo e buoni risultati.
Alfredo è stato formalmente scolarizzato, ma di fatto non è grado né di leggere, né di scrivere e al momento dell'inizio del percorso di arteterapia il suo livello grafico è attestato allo scarabocchio. Viene riferito che non distingue i colori.
I genitori di Alfredo sono separati da molto tempo, Alfredo ha una sorella maggiore cui è molto legato e che vive con la madre. Vede i genitori abbastanza regolarmente, soprattutto la madre che di tanto in tanto lo porta a casa

Ho cominciato il percorso con Alfredo nell'ottobre 2004, all'inizio una volta alla settimana, e da gennaio 2005 due.

Qualche nota sulla Sindrome di Cornelia de Lange

Mi pare opportuno inserire qualche nota specifica sulla patologia di cui è portatore Alfredo, per meglio chiarire alcuni dei problemi che presenta

La Sindrome di Cornelia de Lange (CDLS) è una patologia plurimalformativa descritta per la prima volta nel 1893 dalla pediatra olandese di cui porta il nome.
L'esatta incidenza di questa sindrome non è tuttora definita, ma le stime più recenti riportano un caso su 10.000 o 20.000, inserendola in tal modo nel novero delle patologie rare.
I neonati con CDLS hanno un basso peso alla nascita, una circonferenza cranica al di sotto della norma e le loro difficoltà di crescita perdurano anche nel corso della vita post-natale.
Come nel caso di tutte le sindromi malformative, i soggetti portatori di CDLS presentano alcune caratteristiche comuni (principalmente del viso) che costituiscono l'elemento fondamentale della diagnosi. Tra di esse in particolare spiccano l'impianto dei capelli sulla fronte solitamente basso con peluria frontale, una tendenza ad un eccesso di peluria corporea (irsutismo o ipertricosi) le cui sedi elettive paiono essere gli avambracci e la regione lombo-sacrale, la conformazione arcuata delle sopracciglia che tendono ad unirsi sulla linea mediana, le ciglia lunghe e folte, il naso con una punta un po' triangolare, la regione tra il naso e la bocca spesso lunga e appiattita, le labbra sottili con le commessure labiali rivolte in basso. A prima vista i soggetti affetti da CDLS si assomigliano tutti fra loro.
Lo sviluppo psicomotorio ed intellettivo dei pazienti con CDLS è ritardato e l'entità del ritardo è di solito di grado medio; questi soggetti presentano una importante compromissione delle capacità di espressione verbale anche se il loro livello di comprensione è di gran lunga superiore.
I soggetti con CDLS hanno frequentemente un comportamento iperattivo e spesso addirittura auto ed etero-aggressivo, senza che sia possibile identificare una precisa causa
Dal punto di vista prognostico, la sopravvivenza dei pazienti con CDLS non è di per sé ridotta in modo significativo. Sono infatti ben noti pazienti che hanno raggiunto l'età giovane adulta Certamente la limitazione è costituita dall'eventuale presenza di malformazioni maggiori importanti.
La diagnosi della sindrome è tuttora sostanzialmente clinica, non essendo ancora stato identificato con certezza il difetto genetico di base.
La maggioranza dei dati a disposizione induce a ritenere che la malattia derivi dalla presenza di un'alterazione di un singolo gene la cui localizzazione più probabile sembra essere sul braccio lungo del cromosoma 3 (3q26.3).

Dal punto di vista comportamentale, come accennato sopra, benché alcuni bambini affetti da CDLS non presentino significativi problemi, si segnalano spesso comportamenti autolesionistici. Il tipico bambino CDLS viene descritto come ipersensibile e disritmico: può avere reazioni molto marcate a stimoli normali, che possono perdurare anche molto a lungo dopo l'interruzione dello stimolo e presentare schemi comportamentali molto discontinui nelle aree dell'alimentazione, del sonno e della risposta emotiva
Un'altra caratteristica è l'evidente ridotta capacità attentiva, spesso accompagnata da ripetitività e oppositività. (2)

In conclusione, come sopra evidenziato, Alfredo presenta un quadro clinico piuttosto tipico della sindrome di cui è portatore.


L' INCONTRO
Yet meet we shall, and part, and meet again
On lips of living men

Samuel Butler, "Athenaeum"

Il primo approccio con Alfredo non è per me facile.
Per iniziare il percorso terapeutico con lui ho dovuto superare vari ostacoli, essenzialmente rappresentati dalla generale diffidenza sul mio intervento e dalla scarsa comprensione per l'arteterapia, da una certa gelosia da parte degli operatori nei suoi confronti, e dal timore diffuso che, poiché impegnato in molte attività, io potessi sovraccaricarlo con qualcos'altro. A questo generale clima poco favorevole, va poi aggiunta una presentazione del caso in cui sostanzialmente viene ampiamente sottolineata una relazione poco affettiva con la madre e una famiglia complessa, mentre mi vengono snocciolate varie storie di abbandono subite da Alfredo
Conosco già Alfredo perché ormai da due anni lo vedo nella struttura in cui opero, ma per esempio non sono in grado di capirlo bene quando parla, né mai l'ho osservato a lungo e quindi non posso che basarmi sulle descrizioni di lui fattemi dagli operatori. È difficile per questo per me riuscire a non farmi condizionare fortemente, ma soprattutto sono colpita dalla parte - che sembra assai drammatica - che riguarda i suoi rapporti con la famiglia.
Solo a posteriori, sono oggi in grado di dare un significato diverso a questa introduzione al lavoro, nel senso che probabilmente quanto rimandatomi fa parte proprio dell'immagine e della struttura relazionale che Alfredo finisce per suscitare attorno a sé.


IL PICCOLO LUPO
Who is afraid of the big bad wolf?
(Frank. E. Churchill)

La prima fase del nostro lavoro dura circa tre mesi, da ottobre a dicembre 2004. Ci vediamo una volta alla settimana, in una stanza dedicata a noi, piuttosto riparata rispetto non solo a intrusioni esterne, ma anche acusticamente, il che è un fattore importante nel centro, in cui sembra impossibile trovare spazi tranquilli. La stanza però ha il difetto di essere molto piccola e molto spoglia e di comunicare anche un senso di asetticità e di anonimato. Non dispongo nemmeno di un posto per mettere i materiali, il che mi costringe a portarceli di volta in volta, obbligandomi anche a una scelta a priori di ciò che posso offrirgli.
In questo primo periodo, mi sembra di poter dire che il problema più rilevante è quello della comunicazione con Alfredo Da parte mia, devo innanzi tutto imparare a capirlo: il suo livello verbale non è molto elevato, come tipico della sua sindrome, il suo è un eloquio molto frammentato, le parole non sono sempre pronunciate in modo comprensibile, ma soprattutto accade molto spesso che lui si chiuda in un mutismo quasi assoluto, interrotto qua e là da parole che fanno evidentemente riferimento a una serie di cose che io non conosco e non posso afferrare al volo.
Per questo, nei primi mesi la voce è la mia. Penso che sia importante soprattutto svolgere una funzione narrante, un po' come si fa con un bambino piccolissimo, dando senso alle cose che accadono, semplicemente descrivendole. Una funzione quindi anche e soprattutto mentale, ma non mi riesce sempre facile e naturale perché Alfredo non è un lattante, ha alle spalle comunque una storia che io ignoro, tranne per quanto riguarda i fatti anagrafici salienti, e ha delle capacità di pensiero il cui livello non mi è chiaro. Mi devo muovere quindi su un confine sottile tra narrazione e rispetto dei vuoti e dei silenzi, accettando fino in fondo non solo di non capire, ma anche di dover far ricorso a tutta la mia creatività personale per fare degli "esperimenti", guidata più che da conoscenze tecniche e teoriche unicamente dal mio istinto. Ovviamente le risposte non possono arrivare sempre subito, il che mi fa spesso sentire inadeguata e incapace di lavorare con lui, anche a fronte delle pressioni che gli operatori del centro più o meno inconsciamente esercitano su di me.
È questo il periodo in cui tento di documentarmi il più possibile sulla sua sindrome, cercando delle piste e dei suggerimenti, con il desiderio assoluto di trovare qualche studio di trattamento psicoterapeutico per questo soggetti. Ma la ricerca offre risultati solo sul piano medico e al massimo comportamentale: sembra che nessuno abbia mai fatto (o quanto meno documentato) un lavoro di questo genere, limitando gli interventi a un livello cognitivo ed educativo. Non mi sento per nulla rassicurata, non mi piace l'idea di fare la pioniera, ma devo ammettere che lo studio alla fine mi fornisce indirettamente delle idee.
Visto che per il momento Alfredo non mostra inclinazioni al disegno (il suo livello grafico è poverissimo, ma soprattutto sembra fare molta fatica), decido che è importante creare un senso di continuità dell'esperienza in un altro modo. Così introduco quattro piccoli pupazzetti morbidi: un orso, un lupo, uno scoiattolo e un porcospino. La scelta del tipo di animali è dettata unicamente dalla disponibilità nel negozio in cui li compro. Mi paiono adatti per le loro dimensioni e per la sensazione tattile (mi pare infatti che sia il canale sensoriale quello da privilegiare - Alfredo mi sembra si trovi in una modalità un po' contiguo-autistica, in cui la prima possibilità di generazione di significato si fonda sull'organizzazione delle impressioni sensoriali (3)), e non mi soffermo affatto su un possibile significato simbolico, soprattutto perché in questa fase, la cosa mi sembra assolutamente prematura Credo infatti che qui il livello sia pre-simbolico e quello che più conta è il modello esperienziale.
L'incontro di Alfredo con i pupazzetti è commovente. Li guarda stupito, gli occhi che brillano, e incomincia timidamente e teneramente ad accarezzarli, come se fossero delicati, fragili e preziosi. Avverto subito il grande senso di deprivazione di Alfredo: del resto lui non possiede nulla. Nella sua stanza, per esempio, ci sono solo il letto e l'armadio dei vestiti, ma nessun tipo di altro oggetto, meno che meno giocattoli. Ma sento anche di dover assolutamente organizzare il gioco con lui e per lui. Così creiamo con un foglio una stanzetta con dei lettini, in cui lui mette gli animalini a dormire, quindi una sala pranzo con un tavolo su cui fanno colazione e una televisione che lui mi chiede e io realizzo in formato tridimensionale con del cartone. Poi il gioco prende vita: Alfredo prende il lupetto e io animo gli altri tre facendo le voci, cosa che lo diverte moltissimo e lo scioglie. Alla fine, il gioco è quello della lotta, in cui il lupetto è estremamente aggressivo, stuzzica e disturba gli altri, li picchia e fa i dispetti, porta via il cibo. Dopo la lotta, facciamo colazione e Alfredo assegna a tutti gli animali il tè con i biscotti, ma riserva il latte per il lupo. Appare così per la prima volta il tema del latte che nelle fasi successive avrà risvolti interessanti, ma che qui mi sembra significativo nel contesto in cui Alfredo/lupetto, piccolo, aggressivo, arrabbiato e dispettoso vuole il latte, alimento materno per eccellenza. (Tra l'altro va detto che in realtà Alfredo non beve latte perché ha un'intolleranza al lattosio, il che rende la presenza del latte in seduta ancora più significativa).
Questa prima interazione di gioco si conclude con gli animali che cantano tutti assieme delle canzoncine, dopo aver fatto la pace, e poi vanno a letto stanchi: a quel punto si chiude la seduta.
Vorrei qui aprire una piccola parentesi sulle canzoncine. Avevo letto che i soggetti affetti da sindrome di Cornelia de Lange sembrano avere una predisposizione per la musica, così a un certo punto, sempre alla ricerca di un registro comunicativo, nel corso di una seduta mi sono messa a cantare per lui una canzone dei cartoni animati. E con mia grande sorpresa ho notato che non solo Alfredo pareva gradire, ma conosceva perfettamente la canzone, ed era in grado di pronunciarne le parole in modo molto più comprensibile di quanto non facesse parlando. Così da quel momento in poi, ho utilizzato le canzoni per comunicare con lui in certi momenti, ma ho anche spesso svolto la funzione narrante sulla falsa riga di motivetti a lui più o meno conosciuti. Del resto è noto che la modulazione musicale della voce ha un effetto tranquillizzante e rasserenante sui bambini (non si canta forse la ninna nanna prima di dormire?) e la cosa mi è venuta molto naturale. Questo mi permetteva di offrirgli un'esperienza molto vera, molto sentita e quindi foriera di significati.
Inoltre, mi sembra anche di avere in questo modo introdotto con Alfredo il concetto di ritmo, che in un panorama molto frammentato come quello che lui mi presentava aveva l'indubbio vantaggio di trasmettere un senso di unitarietà e continuità.
Il gioco con i pupazzetti continua: ho introdotto due scatole cui ho fatto porte e finestre che fungono da stanzetta per gli animali, con tanto di lettini, tappeto e tavola. Finito il gioco, Alfredo rimette tutto nella scatola per la seduta successiva, in una sorta di piccolo rito di chiusura. Ma il progresso più importante in questo senso è rappresentato dal fatto che la confusione totale e assoluta tutte le volte che all'inizio della seduta apre la scatola e ci trova tutti i pupazzi sottosopra viene pian piano sostituita dalla capacità di riorganizzare il gioco da solo, quindi di sistemare i "mobili" e gli animali che dormono sdraiati sul letto per incominciare il gioco.
Qui ho proprio la sensazione che Alfredo cominci in qualche modo a utilizzare l'esperienza del gioco come funzione di organizzazione anche del pensiero e delle emozioni. Infatti, dopo un po' di tempo non appare più perplesso e spaventato dal disordine e con una certa sicurezza sistema le cose, traendone evidente piacere e un maggior senso di sicurezza.
Questa prima esperienza costituisce per me una importante traccia per il lavoro con lui, nel senso che capisco che prima di ogni altra cosa è fondamentale consentirgli di fare esperienze che gli permettano proprio quell'organizzazione primaria di pensiero di cui lui sembra avere un grandissimo bisogno. Infatti, il problema della comunicazione di cui parlavo sopra si riflette oltre che sul piano verbale anche su quello più mentale ed emotivo, perché mi riesce difficile accedere al mondo interno di Alfredo che, oltre che inespresso, appare quanto mai confuso e disorganizzato, prima ancora che frammentato.
Agli inizi di dicembre, quindi circa due mesi dopo l'inizio del nostro percorso, Alfredo arriva un giorno con un umore decisamente basso. Registro la cosa, ma non riesco a capirne il senso: dopo tutto una delle sue caratteristiche è proprio l'umoralità e quindi penso che sia una normale fase del suo comportamento. In seduta noto che nel corso del gioco con i pupazzi, gli animali sembrano stuzzicarsi a vicenda, senza riuscire a concludere nulla. Provo allora a proporre un'attività diversa, magari disegnando un po', ma Alfredo rifiuta e per la prima volta pronuncia una frase intera: "In camera a leggere giornale". Ci metto un po' a capire che sta manifestando un'intenzione autonoma, per quanto oppositiva rispetto al lavoro con me, ma alla fine lo riaccompagno in camera sua, chiudendo la seduta in quindici muniti.
Questo sembra imprimere una piccola svolta alla nostra relazione, perché da un lato per la prima volta io ho la percezione di un Alfredo un po' più adulto e quindi più capace di esprimere autonomamente desideri e volontà (tra l'altro mi accade all'improvviso nel corso di una seduta di vederlo finalmente come un maschio, di rendermi conto dei suoi caratteri sessuali come la barba, quindi una persona più differenziata e non più genericamente un bambino) e dall'altro evidentemente, il fatto di aver espresso un'idea autonoma e di vederla accolta gli consente di continuare a esprimersi a questo livello.
Così pian piano in seduta, Alfredo appare più attivo, fino al punto da proporre temi esterni al gioco dei pupazzetti: il camion dei pompieri, di cui una volta sente la sirena, l'ambulanza il fuoco, il cavallo (lui fa ippoterapia) e infine nell'ultima seduta prima di Natale, Babbo Natale e le renne.

Nel frattempo penso che sia opportuno passare a due sedute alla settimana e la sua educatrice di riferimento mi dice che è necessario che lo chieda a lui. Pur non condividendo del tutto la cosa, perché onestamente non so dire se Alfredo abbia la sensazione del tempo, approfitto di questo momento per proporglielo. Lui accetta apparentemente volentieri la cosa.
Cerco anche di prepararlo a quella che è la prima, seppur breve interruzione del nostro percorso, ma non so proprio dire se lui riesca a comprendere bene la cosa dal punto di vista cognitivo. Lo conosco troppo poco per poter essere in grado di cogliere segnali in questo senso. Da parte mia, sono esausta e un po' confusa e sento come buona per me una separazione, anche se ho la consapevolezza che così probabilmente non sarà per lui.
Il mio sentimento prevalente rispetto a Alfredo è un senso di colpa, per cui penso distintamente che al mio rientro dopo le vacanze dovrò "trovare un modo per ricompensarlo".


IL BAMBINO VERDE
Verde que te quiero verde,
verde viento
verde ramas
el barco sobre el mar
y el caballo en la montaña

Federico Garcia Lorca "Romancero Gitano"

Al rientro dalla vacanze di Natale, mi viene comunicato che Alfredo ha avuto una delle sue drammatiche crisi, ha picchiato un operatore e ha anche sbattuto la testa contro un termosifone. Mi viene descritto uno stato di grande agitazione in dettaglio, con il commento ripetuto in vari modi da tutti gli educatori che Alfredo prima delle crisi diventa "verde" in faccia.
Registro mentalmente la cosa, ma non ho ovviamente nessun riscontro possibile, perché io non ho mai assistito ai momenti più difficili di Alfredo e soprattutto, per quanto mi sforzi, io il verde non lo vedo mai.
Tuttavia, la separazione fornisce l'occasione per introdurre una serie di cambiamenti.
Prima di tutto, come annunciato, passiamo a due sedute alla settimana, il che ci consente di stabilire un ritmo diverso, poi ci trasferiamo in un'altra stanza, in cui mi è stato dato un armadio per contenere i materiali e che appare molto meno spoglia della prima. Il limite è costituito dal fatto che si tratta di uno spazio molto meno protetto, soprattutto per la presenza di una porta che ci separa da un salone in cui spesso vengono rinchiusi altri utenti e in particolare uno che emette urla terribili e sbatte la testa contro la porta divisoria, perché si eccita moltissimo sentendo l'odore della carta.. Per fortuna, dopo qualche tempo e molta diplomazia riesco a ottenere che durante le sedute questo ragazzo venga spostato altrove.
Nella prima seduta, dopo le vacanze, Alfredo si mostra un po' sospettoso e molto sulle sue, e a manifestarmi il suo disappunto, dopo aver aperto la scatola dei pupazzini, mi dice di non volere più bene agli animalini, il che da un lato è chiaramente una dimostrazione di protesta e rabbia per la mia assenza, ma dall'altro rappresenta anche una prima modalità di separazione da questo gioco che infatti da quel momento non faremo più.

Ne approfitto quindi per presentargli le tempere, non prima però di avergli infilato una camicia per non sporcarsi. La cosa gli piace molto perché io indosso il camice e lui non manca di notare la somiglianza: mi sembra una buona cosa, una prima possibilità di identificazione positiva, nonostante la rabbia per il mio abbandono.
Comincia così un periodo di sperimentazione con le tempere. Alfredo sembra proprio aver bisogno innanzitutto di provare a esplorare lo spazio del foglio: a tratti ho la sensazione che per lui sia un'esperienza totalmente nuova, che non abbia alcun tipo di riferimento precedente, ma non si dimostra affatto diffidente, anzi sembra che il materiale gli sia congeniale. Quindi, dopo qualche seduta in cui essenzialmente si limita a spargere il colore in uno stesso punto, pian piano passa a occupare sempre più il foglio, fino quasi a coprirlo tutto quanto.
Contemporaneamente inizia anche a toccare il colore con le mani e si apre quindi una lunga fase in cui Alfredo utilizza bicchieri, vaschette e contenitori per rovesciare l'acqua, mescolare i colori, fare travasi di ogni tipo.

Mi sembra che la cosa gli vada assolutamente consentita e anche qui ho la sensazione di trovarmi di fronte a quella che per lui è un'esperienza primaria: quella del contenitore e del contenuto. Non so onestamente se abbia mai fatto questo gioco prima d'ora, se nelle strutture in cui è stato istituzionalizzato o a casa sua gli sia mai stato consentito di farlo, ma capisco che al di là dell'evidente piacere che lui prova (e che io riconosco e so di condividere) si tratta anche di un'esperienza preverbale che lui non appare in grado di mentalizzare. È quindi anche sensoriale e tattile, oltre che visiva e pratica: Alfredo tocca l'acqua, la fa scorrere, gocciolare, tocca il colore e ne osserva la traccia che lascia sulle sue mani, sul bicchiere, travasa il contenuto da una vaschetta all'altra, osservando quanta parte ne possano contenere e quanta invece deborda e come esce, dove va, dove si spande, che cosa lambisce, vede come il colore si mescola e si fonde con l'acqua. È quindi, per me che osservo, come assistere all'attraversamento ciclico e ripetuto delle prime fasi dello sviluppo: mi pare di vedere esperienze orali, accanto a quelle più uretrali dello scorrere e gocciolare, o a quelle più anali dello sporcare.
Ad ogni modo, oltre a garantirgli la possibilità di fare questa esperienza, sento che è importante fornirgli anche un contenimento, il quale secondo me non può che avvenire attraverso lo strumento pratico dell'arteterapia. Per questo prima di tutto, gli offro delle vaschette sufficientemente grandi, ma non troppo, per contenere l'acqua che rischia di dilagare nella stanza, grandi quantità di Scottex per asciugare (introducendo la figura fantastica di Capitan Scottex che può intervenire quando lo si chiama in aiuto nelle emergenze), quindi gli propongo dei supporti più forti e in particolare dei vassoi di cartone in grado di reggere molta acqua e molto colore senza sfasciarsi, e infine piano piano lo accompagno a dosare la quantità di colore da poter di volta in volta utilizzare.
Alfredo sembra poco a poco interiorizzare i miei interventi di contenimento, per cui il gioco comincia a subire delle variazioni e ad apparire molto più mirato e intenzionale: le quantità di acqua si fanno sempre più proporzionali alla possibilità di contenimento dei recipienti, il colore viene mescolato in maniera più omogenea e utilizzato anche per "dipingere" le superfici, Capitan Scottex viene chiamato in causa in maniera sempre più appropriata, nel senso che viene usato prima che accada un vero e proprio allagamento.
In questo periodo Alfredo ha ancora qualche crisi e a metà febbraio un giorno, al mio arrivo, mi viene segnalato che Alfredo è verde. Il commento viene fatto davanti a lui - come sempre del resto - che sembra non farci troppo caso. Ma in seduta accade qualcosa di particolare.

Iniziamo con un primo vassoio su cui mi fa mettere tutti i colori e poi dipinge: con molta determinazione, mentre io narro quello che accade, mescola i colori e alla fine appare un prato. Sembra proprio che il colore dominante sia, guarda caso, il verde. Dopo un po' mi indica i bicchieri e quando gli chiedo se voglia cambiare il vassoio lui dice "altro". Così gliene do un altro. Comincia i travasi e poi fa una piscina. Ci mettiamo del rosso dentro a gocce per fare i pesciolini, poi lui ci butta dentro i bicchieri e li fa nuotare. Quindi li scaccia. Io animo i bicchieri e li faccio tuffare nella piscina, lui li scaccia fuori regolarmente e io, chiedendoglielo li faccio rituffare dentro. Alla fine con gran gusto sadico li spazza a terra con il pennello. Quindi autonomamente prende uno a uno i colori, apre il tappo e da solo ne versa un po' sul vassoio. Quando arriva al verde sembra accanirsi. Lo spreme e alla fine lotta per togliere completamente il tappo. Gli chiedo se voglia romperlo o aprirlo e lui mi dice "apri". Glielo apro e il colore cola doviziosamente fuori.. Spreme fino a farlo uscire praticamente tutto e appare sollevato.
A confermare la cosa, due giorni dopo al mio arrivo, mi viene riferito che Alfredo è "scuro" e che non sta bene e che forse non è il caso che venga a lavorare con me "per non sovraccaricarlo, perché potrebbe esplodere".
Invece Alfredo sembra proprio sfruttare la possibilità di "scarico" perché praticamente ripete l'operazione della seduta precedente utilizzando questa volta un barattolo di nero. La mia sensazione è che Alfredo sia alla ricerca di un contenitore in cui riversare i suoi contenuti, verdi o scuri che siano, e che la nostra relazione cominci a offrirgli proprio quello spazio e quell'ambiente in cui questo tipo di esperienza diventa possibile.
Ovviamente lui non è in grado di parlarne, siamo sicuramente in una fase troppo precoce perché lui possa fare delle connessioni: io devo fungere da contenitore mentale e io devo organizzare l'esperienza per lui.
Il gioco dei travasi e dei colori dura qualche mese, in cui alterna l'uso del verde, che appare comunque predominante, a quello del blu, cui invece associa anche verbalmente l'idea del mare. Appaiono quindi miscele azzurre nelle vaschette che lui alternativamente agita o fa placare, sperimentando quindi l'alternarsi dello stato di agitazione a quello di quiete. Chiamiamo il gioco "IL MARE CALMO E IL MARE AGITATO" e piano a piano ho la sensazione che diventi un mezzo davvero rappresentativo dello stato di animo di Alfredo che ha trovato questo sistema per comunicare con me.
Parallelamente, appaiono i primi giochi di livello più simbolico. Un giorno, nominando i vari personaggi veri e reali che animano i suoi scarni racconti, mi invita a fare delle telefonate a questo o quel personaggio e lui mimando una cornetta telefonica risponde. È così che la volta successiva introduco in seduta due vecchi cellulari con cui in qualche modo terminiamo varie sedute. Penso che Alfredo mi dica che vuole comunicare con me e difatti di nuovo accade qualcosa di particolare.
Verso la fine di marzo, un giorno arriva in seduta con una vistosa cicatrice sull'occhio. So che la sera prima ha avuto una crisi autolesionistica e ha picchiato con violenza la testa contro il termosifone. Verso metà seduta, mentre lui parla dei suoi vari personaggi, gli chiedo che cosa abbia fatto sull'occhio e lui mi dice "Male". Allora gli domando in che modo sia fatto male e lui, un po' a parole, un po' a gesti mi dice di aver sbattuto la testa contro il termosifone. Gli chiedo allora se fosse arrabbiato e lui, con mia enorme sorpresa mi risponde con una frase sintatticamente e grammaticalmente corretta dicendomi. "No, non arrabbiato, triste. Mi sentivo una cosa dentro".
Questa prima consapevole manifestazione di disagio apre la strada a un'evoluzione nuova nel nostro percorso. Infatti, mentre continuano le sperimentazioni dei travasi e dei colori mescolati, Alfredo inizia a fare sui fogli delle forme e poco a poco lo guido a disegnare le prime facce e i primi patatoidi. Così impara a tracciare il cerchio, in cui, guidato riesce a segnare gli occhi, il naso, la bocca e le orecchie. Colpisce naturalmente il fatto che il suo schema corporeo sia molto deficitario: fatica a orientarsi nello spazio del volto, non sempre sa dove collocare la bocca o il naso, mentre le orecchie vengono disegnate in maniera fortemente asimmetrica. Ma la cosa interessante è che, soprattutto nel dare il nome ai personaggi che via via creiamo riesce comunque a caratterizzarli. Così la mamma ha i capelli lunghi, lui ha i baffi e io gli occhiali. Non mancano quasi mai, specialmente nell'autoritratto, i denti.

Per un certo periodo quindi entrano in seduta vari personaggi: la mamma, la sorella, una serie di ragazzi che poi scopro essere gli amici della sorella, ma anche alcuni operatori del centro, in particolare Davide che è quello che guida il pulmino che lo accompagna nelle varie attività esterne, tra cui la riabilitazione equestre che lui ama immensamente. È una fase però per me piuttosto difficile perché fatico molto a seguire il suo filo logico, un po' perché non conosco bene le persone di cui parla (ad eccezione di quelle che operano nella struttura), un po' perché ho molte difficoltà a capirlo. Va detto infatti che la produzione verbale di Alfredo è estremamente primitiva e soprattutto in assenza di un contesto di riferimento, come in questo caso, , nonostante l'allenamento, a volte appare impossibile comprenderlo. È questo un tema molto delicato perché sento di non poter far ripetere ad Alfredo troppe volte ciò che dice, perché la cosa gli provoca una frustrazione immensa che sarebbe controproducente per noi.
Verso aprile, un po' probabilmente per uscire da quella che sentivo come impasse, un po' per il desiderio di fargli sperimentare cose nuove, introduco il pongo anche per spostarlo un po' dal gioco delle tempere. Infatti, via via gli avevo anche mostrato dei libri pop-up che gli erano piaciuti, delle macchinine con cui abbiamo giocato, oltre ai cellulari di cui ho detto.

Alfredo gradisce molto e soprattutto anima il gioco e si anima. Mi chiede di realizzargli varie cose: un uccellino sull'albero cui lui dà da mangiare, dei funghetti, un albero, un cappello. Poi a un certo punto mi chiede di fargli la "Marisa". Per un attimo non capisco e cerco di indagare chi sia questa Marisa: penso a un ennesimo dei suoi personaggi di casa che lui cita, ma lui mi fa capire che si tratta di una utente della struttura di cui lui di dichiara innamorato. Purtroppo, Marisa è una persona gravissimamente disabile: sta seduta su una sedia a rotelle, non parla, non compie nessun movimento volontario coordinato, non comprende nulla, deve essere fasciata sulle mani perché tende a farsi male e deve essere alimentata con una cannuccia.
Sento che Alfredo esprime quella che avverte come la sua parte più malata, più disabile e mi chiede in qualche modo di rappresentargliela. Faremo la Marisa moltissime volte in seguito, introducendo delle variazioni, perché poco a poco sparirà la carrozzina e Marisa avrà i capelli lunghi e la gonna, sarà più umanizzata e forse un po' riparata, ma in vari momenti di crisi di Alfredo ricomparirà anche assieme a Giacoma, un'altra utente in condizioni simili e sempre su sedia a rotelle.
Tuttavia, Alfredo esprime anche un'altra identificazione, questa volta con me e lo fa attraverso gli occhiali. Mi chiede infatti di fargli degli occhiali, che mette su un pupazzetto, indicando che sono io e a un certo punto mi chiede di fargliene un paio più grossi, come i miei e se li prova tutto soddisfatto, quasi a dire che sta guardando con i miei occhi. A questo segue il fatto che mi chiede di trasformare quella che era la mia testa nella sua: per cui togliamo gli occhiali e aggiungiamo i baffetti e lui dice "È Alfredo.".
Per ragioni pratiche - perché il pongo è troppo duro da manipolare per lui - lo sostituisco con il didò. Ho alcune perplessità, perché in realtà i due materiali hanno anche caratteristiche molto diverse. Infatti, mentre il pongo nel lavoro mantiene nel lavoro i colori distinti, il didò si presta all'impasto, alla fusione e alla creazione di una massa monocolore molto più informe, il che rischia di riportare Alfredo ancora allo stato di fusione e miscela delle tempere. Ma sul piatto della bilancia sta la possibilità che sia lui a manipolare direttamente e a fare l'esperienza tattile, per cui opto per questa scelta.
E infatti, Alfredo riesce a manipolarlo molto bene, comincia a fare la pizza, ma nella prima esperienza il didò finisce mescolato all'acqua e alle tempere in un impasto gigantesco. Poco a poco però, nelle sedute successive, Alfredo si allontana dalle miscele e utilizza il didò soprattutto per rappresentare come detto i vari personaggi. Ne faremo moltissimi, in molte versioni di ogni genere, accanto ad altre cose, come per esempio la tartaruga quando al centro viene regalata una tartaruga vera.

Il gioco della tartaruga segna un tema nuovo. Infatti dopo aver realizzato l'insalata, la carota e le patate per nutrirla, mi chiede di farle un water. A quel punto, prende la tartaruga e con immensa soddisfazione le fa fare cacca, pipì e vomito dentro. Sento che Alfredo rappresenta la possibilità di svuotamento in un contenitore adeguato che tiene e che quindi mi conferma la bontà delle esperienze che sta facendo con me in seduta. Così a ruota, compare la mamma incinta (altro contenitore buono), la "Lucia"(si tratta di una operatrice del centro che aspetta un bambino) fino a culminare un giorno a metà giugno in cui dopo aver estratto il didò dal secchiello e averlo messo sul vassoio, mi guarda e mi dice: "Tu sei la mia mamma". È ovviamente un momento molto intenso, di grande contenuto emotivo anche per me, ma gli spiego che io non sono la sua mamma, ma posso aiutarlo come la sua mamma. Alfredo sembra accettare bene la cosa e comunque pare in grado di utilizzare il nostro spazio per affrontare a lungo il tema dell'evacuazione. Così faremo il cavallo che fa la cacca, in un altro water che lui riempie all'inverosimile, poi pulisce e riempie di nuovo, e quindi distrugge per arrivare alla fine ad affrontare con me il suo problema reale. Alfredo infatti ha davvero problemi fisici di defecazione, attinenti sicuramente in parte alla sua patologia e in parte a un difficile rapporto con la cosa. È qui molto arduo capire sempre il filo sottile tra il livello simbolico e il livello reale e sento che se è vero che Alfredo rappresenta le sue difficoltà della fase anale, e quindi tutta la problematica relativa anche alla separazione, esiste anche un altro livello molto più fisico: non è escluso infatti che talvolta le sue crisi abbiano anche un'origine in un profondissimo malessere intestinale.
Parallelamente a questo lavoro di costruzione dei personaggi, Alfredo utilizza il didò anche in un'altra maniera particolare. Infatti, si stabilisce una sorta di rito iniziale di apertura delle sedute per cui, lui apre il secchiello che contiene il didò (anche qui facendo piccole, ma importanti acquisizioni, come per esempio imparare a esercitare la forza sufficiente per togliere il tappo da solo, oppure scartare i panetti nuovi dalla plastica in cui sono confezionati), lo svuota completamente, mettendo tutto il materiale sul vassoio - quindi un'altra azione di svuotamento/riempimento) e poi facendolo minuziosamente a pezzetti. È questo sicuramente un ritmo orale sadico che sembra gli sia necessario per poter poi entrare nel lavoro successivo, ma non posso non sentire che in questo modo Alfredo rappresenta anche un grande stato di frammentazione, che appare tanto più evidente quando è accompagnato come spesso accade da una chiusura autisticoide in cui si rifugia, dondolandosi leggermente sulla sedia, ma soprattutto ciucciandosi insistentemente e ritmicamente l'interno delle guance. Talvolta, la cosa è così forte e così duratura che in qualche modo finisce per invischiare anche me: mi si frantuma la mente, sono incapace di pensare, ma soprattutto di fare qualsiasi cosa per fare uscire dalla bolla me e lui.
Penso che sia importante consentirgli di farlo per un po', e penso anche che sia altrettanto importante per me sperimentare controtrasferalmente la cosa, ma mi pare evidente che in qualche modo sia necessario progredire. Così poco a poco lo accompagno, dopo il minuzioso spezzettamento, a rimettere la massa di didò assieme, finché a un certo punto si crea la sequenza dello sminuzzare seguito dalla "montagna" di didò che lui da solo rimette assieme, dopo la quale creiamo i nostri personaggi.
In questa fase, in seduta però c'è quasi sempre anche un momento di gioco con le macchinine. Per molto tempo, il gioco consiste essenzialmente nel fatto che Alfredo fa precipitare le automobiline oltre il bordo del tavolo, nel classico gioco del bambino che getta gli oggetti dal seggiolone e aspetta che la mamma glieli raccolga. Alfredo in questo mi appare davvero un bambino piccolissimo, nelle modalità gestuali, nei vocalizzi e nei gridolini di piacere/sorpresa/paura/aspettativa, nel battere le mani per la contentezza, nella capricciosità e dispettosità, nello sguardo che mi rivolge. Gli consento di fare questo fino a che l'esperienza sembra poco a poco esaurirsi da sola, per trasformarsi in un gioco più "grande", quello degli scontri catastrofici tra le auto, con tanto di morti e feriti, che sembra davvero aiutarlo come momento di scarico aggressivo. Anche qui il gioco si evolve, perché negli scontri, seguiti dal precipitare di un piccolo autobus dal precipizio del tavolo, succede spesso che l'autobus si apre in due e quindi va rimesso insieme per poter riprendere il gioco. Le prime volte che questo succede, Alfredo appare preoccupato della rottura, ma anche sadicamente felice. Così gli mostro che l'autobus si può riparare e la cosa sembra rassicurarlo e dargli l'autorizzazione per "romperlo" di nuovo. Poco a poco, però Alfredo impara a rimettere insieme da solo l'autobus e questo ha per lui una doppia valenza di acquisizione di abilità, ma anche e soprattutto simbolica di riparazione.
A volte però il gioco delle macchinine ha anche un andamento diverso perché succede che le riempie di pezzettini di didò, per poi cercare di svuotarle aprendo le minuscole portiere. È per certi versi un gioco che mi inquieta, in parte per la difficoltà fisica che rappresenta per lui, la cui motricità fine non è certo eccelsa, in parte perché ha una sorta di carattere intrusivo e violento, quasi fosse un cacciare dentro forzato e un estrarre altrettanto violento. Tuttavia, lo assecondo, pur restando perplessa e cerco di tenere nella mia mente anche questa esperienza per poterle poi eventualmente dare un significato in un secondo tempo.
Le sedute di luglio sono dedicate alla preparazione della separazione estiva, di cui Alfredo comincia a rendersi piano piano conto, manifestando spesso umoralità e fortissima chiusura, ma soprattutto ritornando all'uso delle tempere e delle miscele che aveva abbandonato da qualche mese, anche se sembra volere coinvolgermi, sporcandomi il camice e soprattutto la mano e le unghie di pittura.
Nell'ultima seduta prima delle vacanze, è manifestamente arrabbiato, è praticamente muto, continua a ciucciarsi le guance, mi ignora, gioca per conto suo, si sposta fisicamente lontano da me e non vuole interagire assolutamente. Gli chiedo: "Stai facendo come se l'Isabella non ci fosse?" e lui mi regala uno dei suoi fantastici sorrisi a metà tra il seducente e il beffardo, poi continua a ignorarmi, quasi a dimostrarmi che se la cava da solo senza di me, mentre prosegue freneticamente a vuotare e svuotare il secchiello del didò, mettere la tempera nera nel vassoio, ripetendo però una serie di gesti che ha visto fare a me.


IL DOTTORE
Doctor, my doctor, what do you say?
Philip Roth "Portnoy's Complaint

Al mio ritorno a settembre, apprendo che durante l'estate Alfredo ha avuto parecchie crisi, anche se forse non gravissime, e che al momento sta male, cosa che constato subito personalmente perché ho proprio l'impressione che abbia la febbre. Comunque mi segue nella stanza, si siede, prende un panetto nuovo di didò, lo apre (e sento proprio che apre la seduta), ma si rivolge subito alle tempere scegliendo il verde che tenta di versare copiosamente sul foglio: lo lascio fare, ma lo invito un po' a contenersi. Il suo umore è difficile, appare sospettoso e poco dopo mi ritrovo a essere investita da un senso totale di inutilità, impotenza e fatica Mi chiedo distintamente se mai potrò fare qualcosa per questo ragazzo, se sia in assoluto possibile aiutarlo, se non sia troppo grave. Poiché non riesco a pensare a nulla veramente, mi pare che Alfredo sia intasato di raffreddore, ma io nella testa
Ma per fortuna Alfredo ha molte più risorse di quanto nei momenti più bui della relazione io non abbia immaginato e difatti nella seduta successiva, ripresosi dal malessere fisico, riesce a esprimere invece tutto il suo disagio per la mia assenza estiva. Accade che in lontananza si sente un'ambulanza e Alfredo si ferma rapito ad ascoltarla per poi prodursi nella prima delle conversazioni stupefacenti che di lì in poi riusciremo di tanto in tanto a fare.
A: "Sono stato male. Male agli occhi, alla testa, male alla gamba"
I: "Sei caduto?"
A: "Male alla faccia, caduto contro la MORTE (ma indica la porta). Sceso da letto, punti alla gamba (e mi mostra la gamba). Un male. Piangevo."
I:"Chi ti ha consolato?"
A: "Il dottore ha messo la colla".
"I: "Ti ha aggiustato?"
A: "Mi ha aggiustato e dopo bene. Mentre Isabella via, sono successe brutte cose".
Nel frattempo si sente qualcuno che pianta un chiodo nel muro.
A: "Cosa sta facendo? È Davide vero? Aggiusta?"
I:"Quando le cose si rompono qualcuno le deve aggiustare."
A: "Sì, sì. Si rompe la porta e Davide l'aggiusta".
Da questa seduta in poi, inizia un periodo che adesso a distanza di tempo mi viene da definire come una sorta di "ripasso generale" del lavoro fatto fino a quel momento.
Così ritorna il tema dello svuotamento/riempimento, ma adesso spesso accompagnato dal commento verbale per cui Alfredo svuota e riempie e spiega che cosa sta facendo (anche se talvolta confonde pieno e vuoto e dice che il secchiello è pieno mentre è vuoto e viceversa), dimostrando di sapere fare a meno della mia voce narrante e quindi di essere riuscito a mentalizzare l'esperienza. E riprende anche il tema dell'evacuazione su cui adesso mostra una maggiore consapevolezza rispetto al problema fisico e reale, perché più volte associa il dolore alla pancia con la defecazione dichiarando che dopo ci sente meglio. Ma ovviamente il tema ha connotati anche molto più simbolici e un giorno in seduta, di nuovo alle prese con le miscele di tempera, produce una minestra di verdura verde cui aggiunge il nero e dice: "La cacca. È mia." Quindi ci infila dei pezzi di scottex, li imbeve per bene, li strizza e me li offre. "Tieni la cacca" e poi, con aria un po' preoccupata mi domanda: "Ma domani ci sei?".
Ritornano anche altri temi e in particolare quello degli occhiali, che adesso spesso disegna sulle facce, attribuendoli alla mamma (che in verità non li porta), ancora probabilmente in un processo di sovrapposizione transferale nei miei confronti, cui si accompagna di nuovo l'identificazione, perché chiede di potersi mettere il mio orologio o di provare proprio i miei occhiali reali.
Ma dopo il "ripasso" si aprono nuove attività. Prima di tutto il gioco del dottore, che per lui consiste nell'utilizzare pezzi di scotch di carta, mettermeli o metterseli come cerotti sulle mani o sulle braccia, per poi toglierli e dichiarare la guarigione, oppure farmi grandi iniezioni. Il paziente - di solito io - è sempre all'inizio piuttosto grave. Qualche volta dichiara che morirò e se gli chiedo che malattia ho spesso mi risponde "La morte". Molto significativo uno scambio a metà ottobre:
Mi fa un'iniezione.
I: "Che malattia ho?"
A: "La morte"
I: "Mi stai curando?"
A: "Sì, il cerotto. Muori. Sei grave. Ti posso guarire."
I: "Come?"
A. "Con l'acqua e la pasta e il burro (mima il gesto di nutrirmi, poi mi toglie il cerotto e me lo rimette)".
Ma all'improvviso si spaventa e si fa mettere i cerotti da me, creando una enorme confusione tra me e lui: non si capisce più chi sia il malato e chi il dottore.
È evidente che qui Alfredo esprime anche le sue angosce primordiali di morte, che cerca in qualche modo di tenere a bada impersonando l'onnipotenza del dottore che la sconfigge, ma anche il desiderio di nutrimento, di ciò che cura, dell'acqua, della pasta e del burro che fanno vivere.
Il gioco si ripete spessissimo, con alcune varianti: a volte, nei casi più gravi ci vuole la benda o il gesso, che alternativamente si mette e si fa mettere, scambiando i ruoli del paziente e del dottore con me, in generale partendo da me come paziente. Ma cambiano anche gli organi da curare, perché ad un certo punto, le parti malate non sono più solo le braccia e le mani, ma anche il collo, la mia faccia e un giorno la mia bocca In quell'occasione mi mette lo scotch sulla bocca dicendo che sono malata lì, ma la sensazione per quanto mi riguarda è davvero dura: ho l'impressione che mi voglia zittire, che le mie parole gli diano fastidio, ma questa sensazione lascia subito il campo a qualcosa di molto diverso e più doloroso. Alfredo mi sta facendo provare quello che sente lui, quindi l'impossibilità di dire, di parlare, di comunicare e non ultimo probabilmente di esprimersi "perché è malato lì", perché nella realtà una delle ragioni delle sue rabbie è proprio la difficoltà a dire a tutti i livelli, anche reale. E poi mettendomi il cerotto al collo, mi guarda e dice: "Tante malattie."
In questo tema, come accennato prima, però domina ancora la confusione: Alfredo oscilla tra una posizione di separazione da me e dalla malattia quando impersona il medico, e quella di fusione e identificazione con me, al punto che verso la fine di novembre, dopo una seduta saltata per mia indisposizione, vedendomi raffreddata e con la tosse, mi accoglie:
A: "Sei malata?"
I: "Sì. Ero malata?"
A: "Dov'eri? A casa? Dottore?"
I: "Sì. È venuto il dottore."
A: "La pastiglia?" E finge di darmela, ma dopo poco si sforza di tossire.
I. "Allora sei malato anche tu. Siamo malati tutti e due"
E lui ride e mi batte una manina sulla spalla quasi a consolarmi.
Nel frattempo Alfredo abbandona il didò e le tempere per dedicarsi ad altri materiali.
Un giorno trova sul tavolo la scatola delle matite, dei pastelli e pennarelli e per la prima volta sembra prenderla in considerazione. La apre e comincia a svuotarla sistematicamente, creando sul tavolo un disordine cosmico. Poi trova un paio di forbici: ho un attimo di smarrimento, temo proprio che si faccia del male, la sua coordinazione motoria è molto scarsa, mi sento proprio come una madre alle prese con il suo bambino che vuole tentare un'impresa nuova e non è convinta che lui possa davvero farcela. Subito dopo però penso anche che proprio perché mi sento così, è importante che io lo aiuti a imparare a tagliare, visto che questo è il suo desiderio legittimo.

Tra l'altro, Alfredo in realtà non è veramente un bambino, ha diciotto anni, anche se niente nel suo aspetto e nei suoi modi potrebbe far pensare che ne abbia più di otto o forse meno. Così, con un po' di trepidazione, gli insegno a impugnarle e reggendogli il foglio gli mostro qual è l'angolo di taglio. Con un po' di guida Alfredo ci riesce e da quel momento in poi in tutte le sedute avremo il momento del taglio. Alfredo adesso è in grado effettuare l'operazione in assoluta autonomia, senza necessità di alcun intervento da parte mia, il che gli procura una grande soddisfazione per l'acquisizione di questa nuova abilità, ma soprattutto gli consente di sfogare la sua aggressività, e di fare anche l'esperienza della separazione.
Le forbici quindi sembrano ora svolgere la funzione anche dello spezzettamento del didò, e piano piano lo accompagno a raccogliere i pezzi e a incollarli successivamente su un foglio, esperienza che nelle prime fasi facciamo assieme e che in seguito svolge da solo in completa autonomia, operando però anche istintivamente delle scelte: infatti non tutti i pezzi verranno incollati, ma solo alcuni, con l'idea che nel tagliare e poi rimettere assieme alcune parti si possono scartare (evacuare).
L'altra grande variazione nell'uso dei materiali, è che Alfredo che sembra avere ancora la forte necessità di svuotare e riempire la scatola dei pastelli, ha cominciato a usare le matite e i pennarelli per disegnare, sostituendo quindi alla tempera, materiale liquido, un materiale solido, che richiede un diverso tipo di forza, di postura, dimostrando quindi di poter accedere a esperienze più verticali. I motivi sono spesso i volti dei suoi personaggi: traccia il cerchio, mette gli occhi, il naso, la bocca e le orecchie con sempre maggiore sicurezza, anche se l'acquisizione non sembra ancora del tutto costante, perché spesso appare confuso e disorientato rispetto allo schema corporeo.
Ma compaiono nell'immagine anche nuovi temi, in particolare quello delle foglie e degli alberi.
Alfredo, come accennato sopra, soffre di meteoropatia, e in particolare è attirato/spaventato dal vento e dai temporali. Così quando c'è vento non è difficile trovarlo incantato davanti alla finestra a osservare lo stormire delle foglie sugli alberi. Più volte durante le sedute ne ha parlato, in particolare sottolineando l'idea che il vento fa cadere le foglie dagli alberi, ma non eravamo mai riusciti ad approdare a nulla di particolare, pure se io avvertivo che si trattava di un tema potenzialmente interessante. Un giorno, a metà novembre, prende un pennarello rosso, e mima sul foglio una scrittura, quindi traccia delle foglie lanceolate, che mi dice che cadono dagli alberi, quindi facendo dei puntini mi spiega che si tratta della pioggia. È questa una delle prime immagini in cui Alfredo manifesta una vera e propria intenzionalità rappresentativa autonoma riuscendoci: infatti non è necessario che lui indichi che sono foglie o che è la pioggia, perché "si vede" e la cosa lo rende felicissimo e particolarmente loquace.
Nel nostro percorso compare anche Kelly, la sua cagnolina, cui lui è veramente affezionato. La rappresentiamo in più occasioni e questo lo aiuta a farmene dei racconti, spesso fantastici e poco probabili, ma molto indicativi che soprattutto sono un modo per parlarmi del suo vissuto familiare, di quando ogni tanto il week-end va a casa, del fatto che esce con la sorella e gli amici di lei, della mamma che gioca a carte con lui e in occasione del Natale, anche dell'albero e delle decorazioni.
In questo periodo, Alfredo sembra non avere più crisi forti ed è generalmente meno aggressivo nei confronti degli altri utenti. Tuttavia, gli educatori non mancano di farmi notare che se è vero che Alfredo non ha crisi violente, è però anche vero che non mostra nemmeno più momenti di forte esaltazione e di grandiosa felicità, cosa che viene sottolineata come se fosse una grave perdita. Da parte mia, considero la cosa in realtà molto positiva: la mancata comparsa dei picchi - per quanto possa anche non essere una situazione definitiva - è secondo me un'ottima acquisizione, il segnale di una possibilità di crescita, che non mi sento di attribuire interamente al lavoro che Alfredo fa con me, ma che sicuramente con il nostro percorso ha qualche relazione, dato che ho visto accadere questa evoluzione poco a poco.
Nelle ultime sedute prima della separazione di Natale, Alfredo appare un po' più chiuso e sembra che nemmeno la prospettiva di qualche giorno a casa riesca a rasserenarlo del tutto. Chiede a Babbo Natale delle automobiline nuove della polizia, un'ambulanza e dei camioncini che io gli procuro e con cui giochiamo. Ma nel gioco succedono tanti incidenti, il dottore dell'ambulanza (io) deve recuperare molti morti e feriti e portarli all'ospedale, e a un certo punto i feriti gravi sono la mamma, la Luisa (sua sorella) e lo stesso Alfredo Dopo un po', il dottore dell'ambulanza li riporta a casa guariti dall'ospedale, ma questo non basta a placare l'ansia di Alfredo, che riprende a svuotare compulsivamente la scatola dei pennarelli, rovesciandoli tutti sul tavolo e anche per terra, operando un piccolo disastro. Ma poi all'improvviso, taglia un foglio, da solo, ne prende un altro, apre il barattolo della colla e attacca due pezzetti per poi porgermelo. Quindi si scosta leggermente dal tavolo, assume una posa da adulto, incrocia le mani sul petto, in un gesto che assomiglia molto ai miei, e si mette a fare una conversazione lunghissima descrivendomi tutto quello che lui fa con Kelly, sul fatto che lui la tiene al guinzaglio, su quello che mangia a casa, sulle caramelle che gli porterà Babbo Natale (in realtà chiedendole a me), poi mi saluta, non prima però di avermi ripetuto quello che ho gli ho detto un paio di volte (e gli ho spiegato anche nelle sedute precedenti) per essere certa che lui lo avesse interiorizzato: "Due settimane, poi l'Isabella torna da Alfredo, da me."
Quindi, si alza, fa per uscire da solo dalla stanza, poi si volta e mi dà un grande e lunghissimo bacio, il primo.


TUTTA UN'ALTRA STORIA
His mind moves upon silence
W B. Yeats "Last Poems"

La parte del percorso con Alfredo qui descritta mi pare ricchissima e credo possa essere interessante cercare di riprendere sotto altra veste il filo evolutivo che lo ha retto.
Innanzitutto, il primo aspetto che ritengo importante sottolineare è la creazione della relazione. È evidente che poiché, malgrado l'età anagrafica, Alfredo si presenta a me come un bambino, non è lui a scegliere, ma gli invianti non sono nemmeno i genitori o altre figure educative che hanno segnalato possibili difficoltà. In un certo senso, sono io a scegliere lui, perché nel rapporto contrattuale con la struttura sono chiamata a indicare quali utenti sarebbero secondo me idonei a un percorso di arte terapia e lui è uno di questi, e forse anche quello che io segnalo come più idoneo in assoluto, non tanto rispetto alle sue capacità, quanto piuttosto al potenziale beneficio che avrebbe potuto trarne. Sento di poter dire di averlo scelto anche in relazione al fatto di aver simbolicamente combattuto perché gli fosse data questa possibilità, e perché venisse compreso che il mio intervento non equivaleva a fargli fare un'ennesima attività ludica, ricreativa o riabilitativa.
Questo comporta quindi che non solo non gli è chiara la ragione per la quale lui a un certo punto cominci a venire con me, ma non ha motivo alcuno di pensare che verrà a fare qualcosa di speciale e di diverso da quanto fa nei vari laboratori o attività del centro. La differenza però sta anche e prima di tutto nel fatto che l'intervento è individualizzato e la cosa non può passare inosservata né da parte sua, né da parte degli altri: fino a quel momento nella struttura lavoravo con un gruppo e solo in un caso con un paziente singolo però molto isolato e anziano che ben poco partecipava alle attività collettive.
Ma è proprio l'esperienza individualizzata di cui secondo me Alfredo ha bisogno. Nella sua cartella clinica viene segnalato ripetutamente che fin da piccolissimo Alfredo cerca di avere un rapporto privilegiato con un adulto di riferimento e la cosa viene sottolineata in modo assai negativo, fino al punto che si legge esplicitamente che gli andrebbe impedita (!) onde evitare una relazione simbiotica. Io, al contrario, ho subito pensato che proprio in una relazione con un adulto Alfredo avrebbe potuto fare tutta una serie di esperienze che evidentemente non ha potuto fare e mi sembrava che quella dell'arteterapia costituisse una via possibile.
Quindi, è sulla relazione che mi sembra importante concentrarsi fin dall'inizio. Ovviamente qui il terreno su cui muoversi appare particolarmente spinoso, anche per via delle difficoltà di comunicazione: Alfredo non è in grado di esprimersi in maniera facilmente comprensibile e soprattutto per i primi tempi non è sicuramente il canale verbale quello che lui cerca di utilizzare. A questo supplisco con la funzione narrante che mi sento di esercitare subito con lui, ma il problema mi appare prima di tutto mentale. Infatti, è spesso manifesto che Alfredo ha anche e soprattutto una difficoltà ad organizzare mentalmente l'esperienza: non sa giocare, si concentra difficilmente sulle cose, si lascia distrarre dai rumori, tutto sembra sollecitarlo allo stesso modo, come se non avesse filtri rispetto all'esterno.
La necessità quindi è secondo me quella di offrirgli la mia mente, prima di tutto per contenerlo e di dargli quell'holding environment, così ben definito da Winniccott come quella situazione che "ha come funzione principale di ridurre al minimo gli 'urti'"(4) di cui appare avere assolutamente bisogno (e in questo i materiali mi sono di estremo aiuto(5)), ma anche di riuscire a formulare per lui pensieri possibili e di restituirglieli sotto forma per lui accettabile, in una sorta di piccolo omaso mentale. Si tratta quindi di consentirgli di fare esperienze di natura preverbale, in base alle quali creare una relazione di tipo primario.
Naturalmente, in questo contesto si pone sicuramente il problema di quella che mi appare come una forte regressione di Alfredo, cosa che rischia di creare non pochi problemi soprattutto per la ricaduta nella sua vita all'interno dell'istituzione, in cui qualsiasi forma di regressione viene mal vista e considerata assolutamente meritevole di punizione. Per questo, credo che sia importante cercare anche di tenere un filo più adulto, soprattutto in ragione del fatto che anagraficamente Alfredo non è un bambino. A tratti sento di muovermi sui carboni ardenti e rischio di essere un po' ambivalente e inviargli messaggi contrastanti, quando anche verbalmente lo tratto non come il bambino piccolissimo che lui mostra di essere, ma come quanto meno un ragazzino preadolescente.
Di fatto ciò che sostanzialmente però sembra funzionare è proprio che Alfredo è davvero nella mia mente e questo può consentire alla sua parte più piccola e arcaica di esistere, mentre in altre occasioni posso tenere un livello più adulto con lui.
Ovviamente quella che avverto è una grande responsabilità, perché devo attingere fondamentalmente alle mie risorse personali, spesso non confortata da riscontri chiari e inequivocabili e mi devo fidare fino in fondo di ciò che sento, tenendo ben presente però che Alfredo non è il mio bambino e che nella realtà non è nemmeno così piccolo. La difficoltà qui è spesso capire che cosa sta succedendo, quali emozioni animano veramente il setting.
A questo va aggiunto il fatto che Alfredo presenta un ritardo mentale definito nelle prime cartelle cliniche come grave e poi riclassificato come medio-grave, il che non mi permette di essere mai sicura del limite intrinseco e quindi della capacità reale di introiettare le esperienze. È pur vero che caratteristica del ritardo è il fatto che gli stadi normali dello sviluppo risultano rallentati, ma è altrettanto vero che non è necessariamente detto che, pur nella lentezza, il soggetto riesca mai a raggiungere uno stadio successivo(6). Questo fa sì che, per esempio, la costanza dell'oggetto possa non venire acquisita mai con gravi e pesanti ripercussioni sulla relazione. Non posso in questo senso avere l'illusione onnipotente che il mio intervento prima o poi porterà dei frutti e devo accettare la possibilità che forse il rapporto costi-benefici continuerà a pendere dalla parte dei costi.
Tuttavia, a favore di Alfredo gioca una certa naturale predisposizione al contatto con gli altri e proprio quel manifesto desiderio, giudicato tanto negativo, di avere una figura adulta di riferimento, il che comunque costituisce un'arma a doppio taglio e dai cui pericoli, per fortuna ci protegge il setting. Inoltre, sicuramente quello dell'arteterapia è un mezzo che presenta alcuni vantaggi in questo contesto. Infatti se "teoricamente il paziente 'ideale' per l'arteterapia è quello che è ad un livello artistico di rappresentazione, ha una certa consapevolezza di sé, una capacità di esprimere sentimenti e alcune abilità di associazione"(7), in realtà il lavoro con soggetti affetti da ritardo mentale dimostra chiaramente che "l'arte è un mezzo efficace per stabilire una relazione (...), l'arte facilita la verbalizzazione dei sentimenti, l'arte può indicare il funzionamento intellettivo della persona ritardata, e l'arte è un utile mezzo per insegnare abilità di vita di base"(8).
A questo, aggiungerei una mia riflessione personale sul modo specifico di stare con il paziente che l'arteterapia consente, e che è proprio quella qualità particolarissima della partecipazione del terapeuta al processo artistico nel suo divenire, partecipazione e presenza che si fanno tanto più forti e tanto più pregnanti quanto più il paziente mostra, soprattutto nelle prime fasi del percorso o negli stadi più primari del suo sviluppo - come nel caso dell'handicap mentale - di avere l'assoluta necessità di una mente ausiliaria, ma anche delle mani del terapeuta che lo guidano fino a poter eventualmente raggiungere un'autonomia che si manifesta a tutti i livelli, a partire da quello della possibilità di individuazione.
È questa un'esperienza che credo di aver fatto molto forte nei primi mesi con Alfredo, laddove ho sentito che la necessità assoluta era quella di creare una situazione propedeutica alla relazione: in altre parole, mi sembrava che fosse necessario fornirgli innanzitutto una possibilità "ambientale" che gli consentisse successivamente di sentirsi "altro" e quindi di mettersi in relazione.
Stiamo parlando qui, come è evidente, di un processo primario e quindi di un andamento che è necessariamente non lineare. Così, a momenti di piccole conquiste se ne alternano altri, in cui ogni acquisizione sembra andare rapidamente perduta. A tratti, Alfredo mostra una volontà autonoma, altre volte la sua confusione con me è totale.
Ma mi sembra di poter ripercorrere, nel complesso, un movimento, seppure lento e graduale, verso l'autonomia, che si esprime prima di tutto e soprattutto nell'utilizzo dei vari materiali artistici. All'inizio, infatti, Alfredo dimostra una quasi assoluta incapacità di usare alcunché: impugna le matite con grande debolezza della mano, alternativamente con la destra o la sinistra, non riesce quasi a imprimere un segno sul foglio, non ha praticamente idea dell'organizzazione dello spazio, non è in grado di produrre nessuna forma (Cfr. Figura 1 e 2). Siamo a livello dei primissimi scarabocchi e forse nemmeno quello.
Per questo è stato importante un primo avvicinamento a oggetti (i pupazzetti) che rimandassero un'idea di morbido e plasmabile, ma che avessero comunque una forma, per quanto primitiva, verso la quale attuare eventualmente, se necessario un primo e rudimentale movimento di identificazione, sempre per poter fornire a quella parte di Alfredo che piccolissima comunque non era, una via di uscita da uno stato tendenzialmente fusionale.
Solo quando il gioco sembra arrivare a una naturale conclusione, Alfredo accetta di usare altri materiali, le tempere, e appare pronto a fare esperienze diverse. Quella con la tempera è un'esperienza con una duplice valenza: da una parte è un materiale che gli consente un progredire delle sue abilità espressive, e infatti Alfredo comincia pian piano a produrre anche le prime embrionali forme. Dall'altra, produce un movimento anche molto regressivo, che lo porta ancora di più in quella modalità contiguo-autistica che lui sembra aver bisogno di esplorare fino in fondo. È quella che Mimma della Cagnoletta definisce "modalità a concentrazione corporea"(9) in cui prevale la necessità di fondersi con l'oggetto nel processo creativo, si perde la possibilità di dialogare con un "altro da sé" e il corpo appare sede primaria dell'esperienza.
Così per lungo tempo Alfredo riempie e svuota e soprattutto esperisce ripetutamente l'idea del contenitore e del contenuto, valutandone sensorialmente, visivamente e praticamente le possibilità, tanto più che l'esperienza avviene a sua volta all'interno di altri contenitori, il setting primariamente e la mia mente. Non può ovviamente in questa fase esserci per lui alcuna consapevolezza, né presa di coscienza, né tanto meno verbalizzazione: l'esperienza è assolutamente preverbale e le parole possono essere solo le mie. Mi ritrovo perciò a svolgere la funzione di contenitore nel senso che "contenere non significa unicamente trattenere al proprio interno delle sensazioni. Il contenimento è un processo tramite il quale diamo un nome a quelle sensazioni e, nel rapporto transferale ne capiamo il significato. Come contenitori non siamo semplicemente recettori passivi, siamo organizzatori attivi dell'esperienza. Nella realtà di contenitori non neghiamo e neppure agiamo le sensazioni che abbiamo; organizziamo un'esperienza che all'inizio è confusiva e dilagante e la traduciamo in parole"(10) Ma al contempo sono comunque impegnata a cercare di fornirgli quello "sfondo"relazionale di cui tanto parla Pine(11), necessario per garantire la continuità dell'esistenza, nucleo della successiva esperienza del Sé perché "le relazioni oggettuali precoci devono avere origine in questi quieti momenti di sfondo non meno che negli interscambi ad alta intensità emotiva"(12).
Il bisogno di Alfredo di essere contenuto appare molto forte e mi sembra importantissimo garantirgli la possibilità di fare questa esperienza per lui fondamentale. Ovviamente, parallelamente emerge la necessità anche di un vero e proprio contenimento e qui di nuovo mi vengono in aiuto i materiali.
L'introduzione del didò svolge anche una funzione di arginamento in questo senso: passiamo a questo punto a un materiale sempre morbido e con spiccate qualità di tipo sensoriale, ma che comunque non ha più la caratteristica dilagante della tempera. Si presta alla manipolazione, ma anche alla creazione della forma, e consente una certa possibilità di scarico dell'aggressività. Alfredo lo utilizza ancora a lungo per il lavoro sul contenuto/contenitore, ma anche con modalità più evolute, per la creazione dei suoi personaggi, attuando le prime forme di identificazione, ma anche di individuazione e presa di distanza e quindi di relazione.
Nella relazione compaiono anche le prime "rappresentazioni" (la tartaruga, ma anche la ciotola del latte e questo poco a poco porterà allo sviluppo della relazione verbale con me. Infatti è a questo punto che Alfredo comincia veramente a parlare, quindi a comunicare, quasi che l'esperienza del dare forma con il didò lo avesse avviato a dare forma verbale ai suoi pensieri. Ritrovo in Robbins la spiegazione di questo processo: "Man mano che il paziente acquisisce maggiore definizione di sé o struttura e si sviluppa il suo io osservante, la forma d'arte prodotta allo stesso modo mostra maggiore definizione e dimensionalità. I materiali diventano la cosa con cui i pazienti strutturano e condividono le loro percezioni e la vita interna - letteralmente, dando loro forma" (13).
Sento quindi che il mio contenitore mentale ha funzionato e lui ha cominciato a utilizzarlo per rendersi più autonomo da me e quindi passare da una posizione più fusionale a una relazionale.
Va da sé che non si può trattare ancora di una conquista del tutto acquisita, per cui varie saranno le ricadute in stati più confusivi (il gioco del dottore ne è spesso un esempio), ma mi pare di poter dire che il lavoro vada decisamente in questa direzione.
L'instaurarsi della relazione porta con sé necessariamente anche il tema della separazione, che in Alfredo, come in moltissimi soggetti portatori di handicap, appare molto problematico, al punto da venire ripetutamente segnalato nelle sue cartelle cliniche come "il problema" cui è necessario porre assolutamente argine e rimedio, anche con metodi decisi e, se posso dire, un po' crudeli.
Al riguardo, la prima cosa che mi viene da pensare è che il tema della separazione risulta comunque un nodo cruciale per la maggior parte degli esseri umani: credo che sia esperienza molto comune il patire di fronte a qualsiasi distacco e forse è compito di un'intera vita venirci a patti. Ad ogni buon conto, non si può negare che per alcune persone, questo risulta più difficile e Alfredo ne è sicuramente un esempio.
Appare chiaro, infatti, che, molto verosimilmente a causa della stessa patologia di Alfredo e della sua istituzionalizzazione, è accaduto qualcosa che ha cristallizzato l'esperienza della separazione in un evento ripetutamente traumatico, che non poco ha inciso sulla sua modalità di attaccamento che per questo appare patologica. "A causa della separazione e della perdita, può verificarsi una demolizione dell'attaccamento. Lo sviluppo successivo dipende dall'eventuale disponibilità di un oggetto di attaccamento sostitutivo soddisfacente. [...]Rotture ripetute del legame tra madre e bambino, rotture dovute alla malattia cronica di uno dei due [...]"(14) possono avere gravi conseguenze sulle modalità successive relative alla separazione.
Durante il nostro percorso ne abbiamo affrontate alcune, dovute alle interruzioni per le vacanze natalizie prima ed estive poi. Alfredo ha reagito nelle prime occasioni in modo apparentemente indifferente, ma va detto che forse, per lo meno durante il primo anno, mi è stato difficile scorgere segnali di vera crisi, forse anche per il fatto che la relazione non appariva ancora molto consolidata o forse perché Alfredo ha attuato dei meccanismi di difesa tali da consentirgli di superare la cosa. Inoltre non va mai dimenticato che con Alfredo ci muoviamo talvolta su una linea molto sottile tra lo psichico e il cognitivo, per cui non è sempre agevole interpretare le sue reazioni.
Sicuramente durante la mia assenza si sono verificate crisi di Alfredo anche molto gravi, ma onestamente mi è difficile riuscire a stabilire delle relazioni con l'interruzione del percorso, perché Alfredo è stato spesso soggetto a queste crisi di origine non definita o definibile, che si scatenano per motivi non sempre rintracciabili e in condizioni molto varie anche dal punto di vista fisico. Tra l'altro, in verità, io non ho mai assistito a nessuno di questi episodi, per cui mi devo basare sui resoconti del personale sanitario e degli operatori, i quali in queste occasioni risultano troppo impegnati a contenere i danni, per potere mai interrogarsi sulle reali o possibili cause.
È vero che per qualche tempo Alfredo non ha più avuto crisi mentre era in corso la terapia con me, ma nemmeno questo può a mio avviso essere ancora considerato significativo, perché già in passato Alfredo aveva goduto di periodi di relativa tranquillità. La sola cosa che mi sento di sottolineare al riguardo è quanto dicevo prima, e cioè che ho notato (ma non solo io) che Alfredo sembrava avere diminuito il livello della sua intensità emotiva, sia in senso negativo che positivo: era sicuramente un po' meno maniacale.
È solo dopo la seconda separazione estiva che Alfredo mostra una reazione evidente: riesce a dire di essere stato male, anche se il collegamento sembra essere di natura solo temporale ("Mentre Isabella via, sono successe brutte cose"), ma è segno sicuramente della sua capacità di mettere in relazione eventi e sentire interno. In questa occasione, inoltre dimostra anche di avere una serie di risorse personali e di avere acquisito durante il percorso piccoli strumenti per fare fronte al senso di perdita. In quest'ottica, mi pare si possa leggere, infatti, quello che ho definito il "ripasso generale", cioè il ripetere di esperienze fatte, quasi con la necessità di ripristinare attraverso il fare la situazione precedente alla separazione.

Riflettendo sul percorso fatto, due sono gli elementi che ritengo portanti dell'esperienza: l'uso della rêverie e l'utilizzo dei materiali artistici. Apparentemente molto diversi, in realtà questi due fattori si sono intrecciati in maniera quasi inestricabile, nel senso che la prima è stata fondamentale non solo per la creazione della relazione e della comunicazione, ma anche per procedere nella sperimentazione dei materiali. Infatti, la scelta, l'introduzione, la variazione, il cambio avvenuti sono sempre stati ispirati dal mio sentire interno, rispetto a questa o quella situazione che via via si presentava all'interno del setting: Alfredo non è mai stato in grado di esprimere un desiderio, una preferenza, un'attitudine e il mio compito è stato quello di riuscire a esercitare una funzione materna di accudimento primario in cui si offre al bambino ciò di cui ha bisogno prima che questi riesca a formularne la necessità. In questo senso quindi, a tratti, nei momenti in cui sentivo che lo scambio verbale era davvero molto limitato, anche perché spesso Alfredo si chiudeva in un mutismo assoluto, ho sentito che il solo livello comunicativo possibile era quello più inconscio, attraverso appunto la rêverie, "uno stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli "oggetti" provenienti (dal bambino), quello stato cioè capace di recepire le identificazioni proiettive del bambino"(15). Non era per me un'esperienza del tutto nuova, e forse proprio per questo ho sentito che potevo fidarmi maggiormente di quello che sentivo, delle immagini che mi salivano, delle fantasie che mi si creavano nella mente, anche se a tratti, mi è parso di dover un po' navigare nel buio della mia e della sua mente, quando mi pareva che affiorassero cose ed elementi inafferrabili o difficilmente concettualizzabili.
L'altro elemento, i materiali artistici, ha in un certo senso esercitato anche una funzione di ripristino del senso di realtà: la loro tangibilità, la concretezza e fisicità dell'esperienza - che pure ovviamente avevano alti contenuti simbolici e psichici - hanno consentito a me e a lui di restare ancorati al reale, all'esperienza sensoriale e anche cognitiva, offrendomi soprattutto un metro di misura e una scansione del percorso. Infatti, le tappe appaiono tutte marcate dai notevoli progressi che Alfredo ha registrato prima sul piano della manualità e poi su quello più evolutivo e narrativo del racconto, della verbalizzazione, dello scambio comunicativo ed emotivo. Di nuovo, non posso non riconoscere la potenza del mezzo artistico e la particolare valenza del materiali.

Sento necessario a questo punto aprire, seppure solo marginalmente, il grande tema dell'intervento terapeutico sui soggetti affetti da ritardo mentale. Non è questa la sede e non mi sento nemmeno sufficientemente competente per trattare dell'opportunità teorica o dell'utilità di effettuare terapie di qualsiasi genere a queste persone.
Mi limito a constatare che nella realtà, quanto meno nel nostro paese, gli interventi di questo tipo sono assai ridotti, quasi a sottolineare una generale convinzione che sia "inutile", che questi soggetti non possano mai veramente beneficiare, proprio a causa del loro limite mentale, di una terapia e che quindi il rapporto costo/benefici penda pesantemente dalla parte dei costi.
Ovviamente anch'io mi pongo la domanda, non posso negarlo, e continuo a riflettere sull'argomento. Credo che se il punto di partenza è che una terapia ha per scopo finale la "guarigione" del paziente, allora davvero forse ci troviamo di fronte a un empasse insuperabile. È evidente che qui nessuna "guarigione" miracolistica è possibile: il ritardo non è una malattia curabile, è una condizione patologica irreversibile di cui disgraziatamente alcune persone sono portatrici. Quello su cui si può lavorare è il disagio, il malessere psichico che spesso lo accompagna (anche se non sempre, perché ritardo non significa necessariamente disturbo psicologico benché ne sia spesso un fattore scatenante), derivante anche dai problemi reali che questi soggetti hanno fin dalla nascita nell'ambito relazionale (e non solo), vuoi a causa della loro stessa patologia, vuoi per via delle difficoltà che inevitabilmente si presentano ai loro caregiver primari. Non va infatti dimenticato mai che essere genitore di un bambino con handicap richiede molte più capacità, energie e risorse rispetto a un bambino sano e che i pattern di attaccamento possono risultare gravemente compromessi o quanto meno anomali.
Concretamente quindi, io penso che si possa lavorare sulla relazione, tanto importante per qualunque essere umano, sullo sviluppo o sul mantenimento delle abilità, sulla creazione o restituzione per quanto possibile di un senso di sé e sulla formazione o miglioramento di un'autonomia personale.
Naturalmente in questo ci si scontra con i limiti intrinseci della condizione: è possibile che certi livelli di sviluppo non vengano mai raggiunti, così come è possibile che non vi sia una costanza delle acquisizioni. Questo pone il problema della durata di un intervento: per definizione qualsiasi terapia ha un inizio e una fine e qui l'interrogativo è se, una volta terminato un percorso, il soggetto sarà in grado di mantenere almeno parte delle conquiste fatte.
È la grande domanda che mi sono posta rispetto a Alfredo: quanto avrebbe dovuto durare il mio lavoro con lui? Ci sarebbe stato un momento in cui sarebbero apparsi dei segnali tali per cui dire che il percorso stava per terminare o era terminato? O magari avrei incontrato dei limiti tali da farmi ritenere che non fosse più possibile raggiungere altri obiettivi? Oppure la fine sarebbe stata determinata da eventi totalmente estranei, come per esempio il fatto che a un certo punto non avrei più operato presso quella struttura?
E ancora: nella realtà vera delle strutture come questa, chi può permettersi di pagare un intervento tanto lungo per un solo paziente? Quanti pazienti di questa gravità può sostenere veramente un terapeuta? E poi: quale tipo di intervento è veramente efficace?
Per la mia esperienza, posso dire che quello dell'arteterapia appare un metodo particolarmente utile e felice per questi soggetti e sono in questo certamente confortata da studi di terapeuti ben più navigati di me(16), ma non mi è stato possibile trovare studi pubblicati su interventi di questo tipo.
Rispetto ad Alfredo in particolare mi verrebbe da dire che l'esperienza, prima di tutto sensoriale, quindi relazionale, non può non avere avuto benefici sul rinforzo di quella traccia mnestica tanto importante per la creazione di una continuità psichica a sé. È difficile valutare l'impatto complessivo del mio intervento su di lui, e oggi che il percorso è terminato non sono in grado di dire se le acquisizioni fatte da Alfredo durante la terapia si siano mantenute, né forse è possibile trarre delle conclusioni.
Posso però dire che sicuramente quello che si è creato tra me e lui è stato un rapporto molto ricco di esperienza per lui e per me, una relazione carica di grande contenuti anche affettivi.
E mi viene da concludere con le parole con cui ho aperto questo lavoro: "... conosco il prima e solo tu sai il dopo"(17).


BIBLIOGRAFIA

W.R. Bion, Apprendere dall'esperienza, Armando Editore, Milano, 1972.
R.W. Bion, The Seven Servants, J. Aronson, New York, in A. Horner, Relazioni oggettuali, Raffaello Cortina, Milano, 1993.
M. Della Cagnoletta, Intervento al Congresso APIArT di Perugia, 2003
A. Horner, Relazioni oggettuali, Raffaello Cortina, Milano, 1993
C. Kunkle-Miller, Art Therapy with Mentally Retarded Adults in Art Psychotherapy, Vol. 5, Pergamon Press, USA, 1978
T. Ogden, Il limite primigenio dell'esperienza, Astrolabio, Roma
F. Pine, Teoria evolutiva e processo clinico, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
A. Robbins and Donna Goffia-Girasek, Materials as an Extension of Holding Environment. in Art Psychotherapy, Vol. 5 Pergamon Press, USA, 1978
J. Stott e B. Males Art Therapy for People who are Mentally Handicapped in Art Psychotherapy, Vol. 5 Pergamon Press, USA, 1978
D.W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 1979


Note:

1) Tutti i nomi, ad eccezione del mio, sono di fantasia e alcuni particolari biografici sono stati ovviamente modificati o omessi a tutela dell'anonimato.
2) Ho tratto le informazioni sulla Sindrome di Cornelia de Lange da vari siti internet dedicati a questa patologia e in particolare dal commento del Dott. Selicorni sul sito italiano della Associazione Cornelia De Lange e da Education Protocol for Cornelia de Lange Syndrome di Mary T. Morse, Ph.D., Special Education Consultant, Pembroke, New Hampshire.
3) Crf. Ogden, Il limite primigenio dell'esperienza, Astrolabio, Roma
4) D.W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 1979, p. 41
5) Cfr. A. Robbins and Donna Goffia-Girasek Materials as an Extension of Holding Environment": "... art materials can be used in a multitude of ways to promote an ever adapting holding environment sensitive to a patient's changing levels of ego integration, defenses, resistances, object representations and the like"
6) Ho trovato particolarmente illuminante a questo riguardo un articolo di J. Stott e B. Males Art Therapy for People who are Mentally Handicapped, in cui trattando dei vari possibili approcci in Arteterapia con soggetti portatori di handicap, gli autori tracciano un percorso di AT. attraverso i vari stadi di sviluppo del bambino "normale" sottolineando però che "Unlike the "normal" child, the mentally handicapped may be unable to reach the next stage (of development)"
7) Carole Kunkle-Miller, Art Therapy with Mentally Retarded Adults in Art Psychotherapy, Vol. 5 p. 125, Pergamon Press, USA, 1978 (traduzione mia)
8) Ibidem
9) M. della Cagnoletta, Intervento al Congresso APIArT di Perugia, 2003
10) R.W. Bion, The Seven Servants, J. Aronson, New York, pp 491-492 in A. Horner, Relazioni oggettuali, Raffaello Cortina, Milano, 1993,
11) F. Pine, Teoria evolutiva e processo clinico, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 55 e ss.
12) Ibidem, p. 61.
13) A. Robbins, op. cit. (traduzione mia)
14) A. Horner, Relazioni oggettuali, Raffaello Cortina, Milano, 1993, p. 14
15) W.R. Bion, Apprendere dall'esperienza, Armando Editore, Milano 1972, p.73
16) Cfr. Stott et al, e Kunkle Miller, op. cit.,
17) Ho concluso il lavoro con Alfredo nel luglio 2007 a causa dell'interruzione del mio rapporto contrattuale con la struttura.



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