Il cinema, il deserto, l’abbandonodi Ignazio SenatoreClinica Psichiatrica – Università “Federico II” di Napoli“Mi piace l’assoluta semplicità. Ecco che cosa mi piace. Quando sei in scalata la tua mente è sgombra, libera da qualsiasi confusone. Sei concentrato e ad un tratto la luce diventa più nitida, i suoni sono più ricchi e tu sei invaso dalla profonda, potente, presenza della vita.” ( da Sette anni in Tibet) “Durante il mio viaggio volevo esplorare la mia anima” (da Falso movimento). “Il mare. Dove ciascuno, come in uno specchio ritrova se stesso”. (da Moby Dick, la balena bianca) Introduzione Un tempo, per ragioni commerciali le pellicole venivano girate negli Studios. Hollywood la faceva da padrona e la nostra piccola e grande Cinecittà le teneva fieramente testa. In questi luoghi di culto tutto era ricostruito fedelmente; palazzi, strade, fontane, mare e persino le montagne. Ci fu poi la Nouvelle Vague che riscoprì la lezione del Neorealismo e decretò nuovamente il bisogno di riprendere la machina da presa in spalla e di filmare, dal vivo, la realtà. Negli Anni Sessanta, per dare un certo appeal ai B-movie italiani, i registi nostrani furono costretti a girare in giro per l’Europa; ambientare una vicenda a Londra o a Madrid piuttosto che a Treviso o a Forlì ammantava di un certo fascino la pellicola e, grazie alle co-produzioni, era anche garantito un certo ritorno economico. Nacquero allora le classiche location serializzate; Montecarlo per i film sul gioco d’azzardo; il deserto spagnolo per gli spaghetti western, Napoli per i musicarelli e Pompei per i peplum.. La storia del cinema ci ricorda, quindi, che i registi più scalcinati hanno sempre dovuto, gioco-forza, adeguarsi alle esigenze della produzione a dispetto di quelli più affermati che godendo di una maggiore flessibilità, potevano scegliere dove girare il loro film. Ci sono autori che ritornano, ossessivamente, sempre sui loro luoghi d’infanzia, chi non mette mai il naso fuori dalla propria città natale ed altri ancora che, ispirati da un luogo, non possono ambientare la stessa storia in nessuno altro posto del mondo. “Devi andare dove i film ti costringono ad andare anche se fai fatica a trovare quel posto che hai nella tua mente.” mi diceva, tempo fa, Giuseppe Tornatore. Sulla sua stessa lunghezza d’onda è certamente Wim Wenders che in un ‘intervista pubblicata in “Psycho cult”, il mio ultimo volume, mi disse: “Quando faccio un film è perché sento che ho una necessità. Quello che mi è sempre capitato da quando ho iniziato a girare i primi film è che amo viaggiare e quando mi trovo in un luogo se sento che questo mi attrae e che riesco ad avere un rapporto particolare con quel posto, allora inizio a pensare ad una storia da raccontare. Improvvisamente la storia mi viene e so che può essere raccontata solo in quel luogo. Non nasce dentro di me prima la storia e poi il luogo dove girarla ma il contrario.” Chi conosce la produzione cinematografica di questo straordinario regista giramondo sa benissimo che non sarebbe mai potuto esistere L’amico americano senza Amburgo, “Paris, Texas senza i deserti californiani, The Million dollar hotel senza Los Angeles, Hammett, indagine a Chinatown senza San Francisco e Buena vista social club senza Cuba. La natura ed il paesaggio nel cinema Questa piccola premessa mi sembra utile ad introdurre l’affascinante tema dei rapporti tra il cinema, la natura ed il paesaggio. E i registi amano trarre ispirazione da determinati luoghi, alcuni generi cinematografici sono caratterizzati da seriali e claustrofobiche ambientazioni; i noir prediligono gli interni notturni solcati da strisce d’ombra e di luce (Disperata notte, Le catene della colpa, Vertigine, Gardenia Blu…) i gotici gli oscuri e misteriosi meandri dei castelli (La cripta e l’incubo, Horror…) gli horror le delle case infestate da fantasmi (La casa del buon ritorno, La casa del sortilegio..). Altri generi cinematografici, all’opposto, hanno tratto la loro linfa dagli spazi aperti e dagli spettacolari panorami della natura. Nei road movie il vero protagonista della pellicola è la strada, spazio illusorio dove i protagonisti scorazzano, liberi e senza meta, a bordo di moto fiammeggianti e di eleganti decappottabili. Novelli cow-boy, dopo aver dato un taglio netto alle loro famiglie d’origine ed al bigotto e convenzionale mondo borghese, una volta entrati in contatto con la natura selvaggia ed incontaminata, si spogliano dei loro tabù e delle loro frustrazioni. Il western, dal canto suo, deve la propria fortuna al mito della Nuova Frontiera ed alla corsa dell’oro. Questo genere cinematografico è fatto di polverosi saloon, di banditi dal grilletto facile, di biscazzieri di mezza tacca, di assalti alle diligenze e dei sanguinari scontri tra indiani e cow-boy. Ma, a ben vedere, al di là di questi stereotipati codici iconografici, la vera spina dorsale di questi film sono i verdi pascoli, le infinite praterie, gli assolati deserti, i rigogliosi fiumi con le rapide rapide sguscianti e le maestose cascate. Si potrebbe dire che al di là dei generi citati, tutto il cinema si è ispirato ai paesaggi naturali. Come dimenticare i catastropher-movie ambientati nel bel mezzo dell’oceano (Titanic, Sfera, L’avventura del Poseidon…) quelli girati nella fitta boscaglia dell’Amazzonia (Fitzcarraldo) o in mezzo al Polo (La tenda rossa, La marcia dei pinguini..) ? Anche il cinema classico si è nutrito della forza evocativa della natura come lo testimonia, ad esempio, Passaggio in India, il capolavoro di David Lean.. La vicenda narra di Miss Adela Quested, una giovane donna che parte da Londra per raggiunge il suo fidanzato il maggiore Ronnie Heaslop a Chandrapore, una città del nord dell’India , sotto il dominio coloniale britannico. L’accompagna nel suo viaggio Mrs. Moore, madre del promesso sposo. Per conoscere meglio l’India le due donne accettano l’invito di Aziz, un medico indiano di visitare le grotte di Marabar. Ma in quel luogo magico ed affascinante accade qualcosa di misterioso e Miss Adela, sconvolta e terrorizzata, fugge precipitosamente, lungo la scarpata e giunge a casa di Heaslop in uno stato confusionale, coperta di tagli e da ferite. Aziz viene arrestato ed accusato di aver abusato di Miss Adela. Nel corso del processo Miss Adela lo scagionerà ed Aziz ritroverà la serenità perduta. Nel portare sullo schermo l’omonimo romanzo di E.M Forster, Lean ci mostra come l’India metta in moto le sopite passioni di Miss Adela, vittima dell’educazione puritana di stampo vittoriana. E sarà nel corso di una passeggiata in bicicletta che lei s’imbatterà, per caso, in mezzo ad un bosco in delle statue gigantesche che raffigurano degli innamorati che si baciano sensualmente e fanno l’amore. Profondamente turbata da quella vista diverrà insonne e quando sarà nelle grotte di Marebar, travolta dal desiderio sessuale per Aziz, un uomo diverso per razza, cultura e ceto sociale, fuggirà spaventata. La rappresentazione del deserto sullo schermo Se il lago ha suggerito spesso racconti sospesi (La donna del lago) le montagne la perenne sfida tra l’uomo e la natura (Sette anni in Tibet) ed il mare i film vacanzieri (Appuntamento a Ischia, Sapore di mare) il deserto è sempre stato riletto sullo schermo come uno spazio immaginario dove i protagonisti, nell’attraversarlo, ritrovano la propria identità perduta o si smarriscono definitivamente. A sostegno della mia tesi, citerò alcune pellicole . In Marocco la bellissima Amy (Marlene Dietrich) cantante di un cabaret in una città del Marocco spagnolo, sede di una guarnigione della Legione Straniera, s’innamora di Tom Brown (Gary Cooper) un giovane legionario e per lui rinuncia alla corte serrata di un celebra pittore che le avrebbe garantito una vita nel lusso e nella ricchezza. Sin dal primo incontro tra Tom ed Amy il regista lascia intendere che i due protagonisti sono uniti dallo stesso fatale destino. Lui si è arruolato nella Legione Straniera per seppellire alle spalle il proprio passato; lei sta cercando di lenire antichi dolori. E quando Tom le chiederà perchè ha scelto quel maledetto inferno, si sentirà rispondere: “Esiste una specie di legione straniera di noi donne, ma noi non abbiamo uniformi, né gradi e neppure medaglie, per lo più valorose, né ci curano se restiamo ferite.” Il film è tutto nell’indimenticabile la sequenza finale; Amy si toglie le scarpe e, scalza, seguirà il suo amato nel deserto, accodandosi alle altre concubine che, a distanza, seguiranno le orme dei loro uomini. Zabriskie Point narra, invece, di un gruppo di studenti che manifesta a Los Angeles contro la guerra in Vietnam. Mark (Mark Freccette) accusato, ingiustamente, della morte di un agente decide di cambiare aria e dopo aver rubato un piccolo aereo da turismo, si dirige verso la Death Valley..Atterra a Zabriskie Point, la zona più bassa e desolata del deserto californiano, dove incontra Daria (Daria Halprin) una ragazza libera e piena di vita che sta andando a Phoenix per un periodo di vacanza. I due si amano ma dopo poco Mark, dopo aver dipinto di rosa l’aereo, decide di riportarlo indietro.. In aeroporto troverà la polizia schierata e morirà trafitto da una pallottola. Daria apprende la notizia della uccisione di Mark alla radio e per la rabbia fa esplodere l’appartamento di Allen, un losco affarista che vuole lottizzare il deserto con case di villeggiatura. Il regista confeziona un atipico road-movie dove agli spazi oceanici e libertari della Death Valley sono contrapposti il chiuso della aule universitarie ed al sordo ed ottuso mondo degli adulti. Pur essendo una delle pellicole meno ispirate di Antonioni, il film è entrato nella storia del cinema per la scena dei giovani hippy che fanno l’amore, liberi, nudi e felici , nella Death Valley. Un’atmosfera libertaria come nel film precedente la si respira in Punto zero. Kowalski (Barry Newmann) un ex corridore automobilistico di professione, sbarca il lunario consegnando auto da una costa all’altra dell’America, tenendosi sveglio, grazie all’assunzione di eccitanti. E’ un venerdì notte come tanti e, per gioco, scommette con il suo pusher che riuscirà a consegnare un auto a San Francisco entro il lunedì mattina. L’impresa è quasi titanica e lui, dopo aver ingerito una robusta dose di benzedrine, si mette in viaggio con la sua Dodge Challanger. La sua auto, sapientemente truccata, sfreccia come un razzo e finisce, inevitabilmente, per attirare l’attenzione della polizia stradale..Super Anima (Cleavon Littile) un D.J nero e cieco che ha l’abitudine di sintonizzarsi sulle stazioni della polizia, via etere, gli da delle imbeccate su come sfuggire ai posti di blocco della stradale. Il finale non potrà che essere tragico. In questo cult giovanilista, liberamente ispirato ad un evento di cronaca, Kowalski troverà ristoro nella sua folle corsa solo quando si inoltrerà nel deserto dove incontrerà uno strano vecchietto che cattura serpenti velenosi ed una coppia di giovani hippy che vive felice noncurante delle convenzioni sociali. Più dolente e sofferto dei precedenti è Il deserto dei tartari., film che si dipana intorno alle vicende del sottotenente Giovan Battista Drogo (Jacques Perrin) che appena ventenne, viene spedito alla Fortezza Bastiani, un avamposto del morente impero austro-ungarico collocato in mezzo al deserto dei Tartari. La guarnigione vive con febbrile nell’attesa di un eventuale attacco del fantomatico nemico ma, anno dopo anno, le giornate si susseguono inesorabilmente, l’una sempre eguale all’altra.. Giungerà il giorno in cui Drogo diverrà il responsabile della fortezza e proprio quando dovrà respingere l’assalto del nemico uno strano male gli fiaccherà lo spirito che il corpo. Esautorato dal suo incarico, morirà non appena avrà messo piede fuori dalla fortezza. Sin dalle prime battute Zurlini ci descrive la lenta agonia a cui andrà incontro il protagonista. Giovane, baldanzoso, entusiasta e pieno di energie, prima di avvistare la fortezza s’imbatterà nel capitano Hortiz che lo metterà, immediatamente, di fronte alla dura realtà: “E’ un avamposto morto, una frontiera che s’affaccia sul niente. Al di là della fortezza c’è un deserto e dopo il nulla; il deserto dei Tartari.”. Più che simbolo dell’ignavia e dell’incapacità di assumersi le proprie responsabilità,. Drogo è un eroe tragico, vittima del male di vivere che spegne, giorno dopo giorno, entusiasmo, sogni e voglia di vivere. Il film, denso ed asciutto, ruota intorno al tema della vita come attesa, come rinuncia alla lotta, come accettazione di un fluire passivo ed immutabile degli eventi. Il deserto diviene in questo film la cornice ideale per sottolineare ancor di più l’estraneità al mondo del protagonista. In Paris, Texas, un uomo sfinito e con lo sguardo nel vuoto, dopo aver attraversato il confine del Messico, cammina senza meta sotto l’afoso deserto californiano. Un medico gli presta soccorso ma Travis (Harry Dean Stanton) è chiuso in un granitico mutismo. Scoprirà che custodisce nella tasca dei pantaloni un pezzetto di carta dove è scritto il proprio nome ed il numero di telefono di suo fratello Walter (Dean Stockwell). Walter raggiunge Travis e lungo il viaggio di ritorno gli racconta che nei quattro anni che era sparito, sua moglie Jane (Natassia Kinski) aveva ben presto tagliato la corda ed il loro figlio Alex era stato allevato da lui e da sua moglie Anne.. Travis non fa una piega e continua a tenere la bocca cucita ma, ad un tratto, gli mostra una foto sgualcita ed ingiallita di un lotto di deserto che aveva comprato a Paris, Texas. E quando suo fratello gli chiede come mai aveva acquistato quel terreno incolto, gli risponde: “Mamma mi disse che fu lì che fecero l’amore per la prima volta. Fu proprio lì che cominciai ad essere. Il mio punto di partenza. Papà scherzava sempre su Parigi. Lui diceva che la mamma l’aveva conosciuto a Parigi ed aspettava prima di dire Texas. Aspettava che tutti pensassero a Parigi quell’altra.”. Nel corso della vicenda Travis si metterà sulle tracce di sua moglie Jane e riallaccerà i rapporti con suo figlio Alex. In questo film, forse un po’ troppo romantico e sdolcinato, il deserto è descritto come uno spazio ancestrale e regressivo dove Travis può finalmente ritrovare le proprie radici e la propria identità dispersa. Solo così potrà poi rituffarsi nel mondo e riavvicinarsi alla moglie e a suo figlio. Ne Il tè nel deserto, infine, Kit (Debra Winger) e Port (John Malkovich) due ricchi coniugi americani , in crisi, decidono di fare un viaggio in Africa, in compagnia di George Tunner, un loro amico. Dopo una tappa a Tangeri, finiranno per inoltrarsi nel deserto; Port morirà di tifo e Kit si unirà ad una carovana di nomadi tuareg e seguirà il giovane beduino Belgassim, che la costringe a vestirsi da ragazzo arabo e la impone al suo harem. Perderà la ragione e sarà ricoverata in un ospedale ed una volta dimessa vagherà come un ombra nei bar di Tangeri. Le prime frasi che i protagonisti pronunciano sembrano ammantate di un alone tragico: “Noi non siamo turisti, siamo viaggiatori. Un turista è quello che pensa il ritorno a casa fino dal momento che arriva, laddove un viaggiatore può anche non tornare affatto.” Nella scena immediatamente successiva un anziano ed elegante signore, voce narrante del film, non appena li vede entrare nel bar di Tangeri, esclamerà:“Poiché né Kit, né Port avevano mai dato alla loro vita un qualsiasi ordine, avevano entrambi commesso il fatale errore di considerare, confusionalmente, il tempo come inesistente; un anno era come un altro. Alla fine tutto sarebbe potuto accadere.” Con queste due pennellate Bertolucci sembra porre una sorta di epitaffio ad una vicenda che porterà alla distruzione fisica di Port ed a quella mentale di Kit. Il deserto diventa il luogo dove i due protagonisti perderanno se stessi, si tradiranno, proveranno a rimettere in piedi il loro matrimonio andato in frantumi, si tufferanno in avventure erotiche dal sapore esotico ma alla fine, come dannati, perderanno se stessi. Conclusioni Prima di terminare questa piccola carrellata sui rapporti tra cinema e deserto, vorrei citare un ultimo film. In Totò sceicco, Totò veste i panni del maggiordomo Antonio Sapore, costretto a seguire il marchesino Gastone (Aroldo Tieri) che, per una delusione d’amore, era partito per l’Africa per arruolarsi nella Legione Straniera. Il film non è irresistibile ma un paio di scene sono esilaranti; su tutte quelle di Totò che si allontana con Gastone dall’accampamento dei beduini e s’inoltra nel deserto. Dopo aver vagato per chilometri sotto il sole cocente, allucineranno prima un oasi lussureggiante e poi un uomo con un carrettino di gelati. “Il deserto non perdona” sentenzierà un arabo dopo aver scoperto la loro fuga. Ed è proprio quest’ultima affermazione la chiave di volta per comprendere la variegata e complessa rappresentazione del deserto sullo schermo. Ed è proprio nel mettere in scena un doppio viaggio; orizzontale (che si snoda lungo gli assolati deserti) e verticale (che avviene nella mente e nel cuore del protagonista) il fascino di questi film. Del resto, l’etimo stesso della parola “deserto” deriva dal latino “deserere” e significa “abbandonare”. Non a caso, ogni protagonista della vicenda, dopo aver attraversato le dune del deserto ed essersi abbandonato al fluire del tempo, non sarà più lo stesso di prima. Filmografia Il deserto dei Tartari – Valerio Zurlini - Italia - 1976 Falso movimento di Wim Wenders - Germania - Marocco di Jospeph Von Sternberg – USA - 1930 Moby Dick, la balena bianca di John Huston – G.B - 1956 Passaggio in India di David Lean – G.B - 1984 Punto zero di Richard C. Sarafian - USA - 1971 Sette anni in Tibet di Jean Jacques Annaud – USA - 1987 Il tè nel deserto di Bernardo Bertolucci – Italia --1990 Totò sceicco di Mario Mattoli- Italia - 1951 Zabriskie point – Michelangelo Antonioni Italia - 1970) Bibliografia
Ignazio Senatore: “L’analista in celluloide – Franco Angeli (1998) Ignazio Senatore: “Curare con il cinema” – Centro Scientifico Editore (2002) Ignazio Senatore’: “Il cineforum del dottor Freud” - Centro Scientifico Editore (2004) Ignazio Senatore: “Psycho cult” - Centro Scientifico Editore (2006) Ignazio Senatore: “Cinema Mente e Corpo” Zephyro Edizioni (2010) Ignazio Senatore: www.cinemaepsicoanalisi.com |