La creazione del “mito del Maestro”: analisi dinamica delle caratteristiche intraindividuali ed interpersonali della figura del Direttore d’orchestraLaura Viceconte“In una sala da concerto o in un teatro, un gruppo più o meno numeroso di persone accorda gli strumenti, chiacchiera e scherza; in sala un folto pubblico si siede, conversa, sistema i paltò, tossisce, si scambia i saluti, sfoglia i programmi di sala. Ad un certo punto avviene qualcosa di rituale, di magico: un solo uomo fa il suo ingresso, attraverso il palcoscenico e sale sul podio; il teatro prima applaude e poi zittisce. Costui alza una sottile bacchetta e il silenzio si fa assoluto. Dal caos ecco nascere l’ordine e la disciplina” (Adorno, 1962, p.173). Elias Canetti in Massa e potere (1960), descrive il Direttore d’orchestra come un temporaneo “signore del mondo”, definendolo come l’espressione più evidente di potere, uomo onnisciente; infatti, mentre ogni orchestrale ha solo la sua parte di leggio davanti a sé, il Direttore ha l’intera partitura in testa o sul podio. Zubin Mehta (2006, p.297) si esprime così: “Io vedo la mia posizione diversamente: per me non è affatto investita di un potere universale, ma richiede invece dedizione, ascolto attento ed empatia. Il Direttore è si, nella situazione privilegiata di conoscere le parti i tutti gli strumenti, ma non deve strumentalizzare questo privilegio. Mi percepisco piuttosto come un coordinatore, a volte come un suggeritore, ma soprattutto come un compagno di squadra”. Si tratta di una professione in cui bisogna sapersi destreggiare in una quantità di ruoli, da confessore a consigliere musicale. “Umile servitore” si definisce il M° F.L.V. durante una mia intervista. Il Direttore esiste perché l’umanità chiede un capo visibile o almeno una figura-guida identificabile. Egli non suona nessuno strumento, non produce alcun suono, tuttavia proietta un’immagine del far musica sufficientemente credibile per permettergli di sottrarre gli applausi a coloro che in realtà creano i suoni. Eppure il mito inizia con la muta sottomissione degli strumentisti al Direttore; egli possiede un’autorità tecnica ed una personale al tempo stesso, sprigiona un’autorità quasi divina (Lebrecht, 1991). Bisogna tener conto che i musicisti di una grande orchestra suonano con diversi Direttori, quindi nel corso degli anni hanno accumulato molte esperienze; perciò, naturalmente, possono apportare correzioni o sollevare obiezioni, o anche protestare, se si pretende da loro qualcosa di illogico o inusuato. I musicisti delle orchestre principali riconoscono al massimo sei Maestri degni di dirigerli; con gli altri digrignano i denti e guardano soltanto la parte sul leggio (Mehta, 2006). L’atto fisico di dirigere un’orchestra si può imparare facilmente, l’aspetto spirituale ha una provenienza interiore. Una personalità imponente non basta per impressionare un’orchestra. Storicamente i grandi Direttori hanno in comune un orecchio acuto, carisma per ispirare immediatamente gli strumentisti, grande capacità organizzativa, efficiente e naturale senso dell’ordine che permette loro di arrivare al nucleo dell’arte. Questa capacità di conseguire una visione generale della partitura e di comunicarla ad altri, è l’essenza dell’interpretazione (Danon, 1993). Gli esecutori sanno, nel momento in cui accostano l’archetto alle corde, se hanno a che fare con un comunicatore eccezionale. Senza una sola parola alcuni Direttori sanno imporre il loro dominio con la loro presenza. Alcuni Maestri comunicano con gli occhi, altri con tutto il corpo, alcuni parlano e gridano, altri ancora dicono poco o nulla. Esistono moltissime tipologie di Direttore: “il mistico dall’aria sacerdotale, l’acrobatico, il cordialone, il domatore di leoni, l’ipnotizzatore che strabuzza gli occhi, li rotea che sembra gli schizzino fuori dalle orbite, il supersensibile superdotato che ti fa stare in una tensione insostenibile, l’assassino nazista” (Fellini, 1980, p.41). Toscanini, ad esempio, era un bambino non amato che esigeva obbedienza. Quando i suoi desideri venivano frustrati, si abbandonava a capricci infantili e scagliava oggetti contundenti. Qualsiasi cosa che non fosse la gratificazione immediata o il tacito assenso lo portava ad una reazione violenta. Era brutale con le orchestre, e creò un culto della brutalità che altri Direttori imitarono. Era prepotente, ma non vigliacco. Tuttavia, molti lo considerano il più grande Direttore mai esistito, alcuni l’unico (Lebrecht, 1991). Il suo obiettivo era la potenza, non solo la gloria, e la sua onnipotenza era fondata su una percezione pubblica del suo ruolo. Preferiva l’illusione del potere alla sua realtà concreta, evitava gli aspetti pratici del management, delegando la realizzazione dei suoi desideri ad un gruppo di musicisti terrorizzati. Si sentiva frustrato e annoiato quando gestiva un’orchestra. Egli proiettava sé stesso quale personificazione della perfezione, unico arbitro del gusto musicale e della rettitudine; solo lui sapeva interpretare le note in modo corretto, solo lui poteva stabilire quale musica contasse per il pubblico consumo (Holmes, 1982). Toscanini diventò il primo Direttore d’orchestra per un pubblico di massa, e spesso l’unico di cui si conoscesse il nome. Almeno nel linguaggio dei media, la fama era un surrogato accettabile dell’amore. Il consenso delle masse non influiva sulla sua autorità musicale, egli agiva in nome del Creatore e si accaniva contro tutti coloro che deviavano dalla retta via, o da quella che lui considerava tale. Il Direttore era per lui, il servitore delle note scritte. Tuttavia, in pratica, egli creò un culto della propria personalità quale incarnazione vivente della divinità musicale. Toscanini, agli occhi del pubblico, era ben più del rappresentante del compositore; il fatto di dirigere a memoria, a causa della vista debole, dava l’impressione che evocasse la musica dai recessi della propria immaginazione. Le scelte interpretative che permettevano di eseguire la musica in modi soggettivi e variabili per lui erano eresie. Le sue esecuzioni erano, però, spiccatamente individuali. Evidentemente nella sua mente operava un dualismo schizoide, mentre sosteneva la sanità inviolabile del testo, si arrogava il diritto assoluto alla revisione (Lebrecht, 1991). Gli orchestrali e i collaboratori erano consapevoli della contraddizione tra la famosa dottrina di Toscanini e le sue consuetudini pratiche. Alcuni riuscivano a convincersi che quella tirannia servisse ad una finalità musicale, altri lo ammiravano per la sua capacità di lasciarsi eccitare a tal punto dal sentimento per il suo lavoro; le passioni che sfogava sugli esecutori erano, ai suoi e ai loro occhi, una manifestazione di affetto paterno. La paura che fa tremare gli adulti è una caratteristica dei despoti assassini, e il comportamento di Toscanini presenta una scomoda somiglianza con la furia con cui Hitler esercitava il suo potere. Le sfuriate di quest’ultimo sono state interpretare dagli psicoanalisti come le armi di un bambino che mira a spaventare la madre affinché lo accontenti. Aveva in comune con il Maestro italiano l’impossibilità di una rapporto emotivo con qualunque individuo, e di averlo solo con una massa senza volto. Tuttavia il paragone risulta piuttosto azzardato, Toscanini non uccise mai nessuno, voleva solo il potere, divenne il principale oppositore culturale di Hitler, il simbolo vivente dell’alleanza tra arte e libertà; teneva testa ai dittatori, ma ne imitava i metodi senza la minima vergogna (Lebrecht, 1991). Il piglio autoritario di Toscanini si distingue per la capacità del Maestro di aggredire l’orchestra che non seguisse le sue indicazioni, e di spronare tutti a dare il massimo e a realizzare prestazioni d’eccellenza: la sua indiscussa competenza e la sua capacità di tenere testa a chiunque osasse contrapporsi alla sua volontà gli garantivano la possibilità di agire in un modo che oggi qualcuno potrebbe criticare, ma allora veniva accettato, vista la sua eccezionale bravura. La tensione al risultato permetteva al Maestro di fronteggiare l’eventuale aggressività che il suo comportamento avrebbe potuto suscitare nell’altro, anche perché chi ne era bersaglio doveva riconoscere che quanto gli era stato richiesto non era un capriccio, ma aveva una sua ragione. Il perfezionismo di Toscanini viene ripreso da Herbert von Karajan e, oltre alla pignoleria, mostrava una naturale diffidenza nel prossimo al punto che, per avere il controllo totale della situazione, faceva assegnare a tutti coloro che assistevano alle prove posti precisi e ben individuabili. Questo suo bisogno di controllare tutto nasceva presumibilmente da qualche insicurezza di base; voleva evitare imprevisti spiacevoli. Osservando von Karajan si poteva notare come nelle prove fosse severo e intransigente, mentre, poche ore dopo, al concerto appariva rilassato e la sua direzione ad occhi chiusi era un atto di fiducia nei suoi collaboratori, ai quali infondeva calma e serenità. Il suo stile mette insieme precisione tecnica e disponibilità emotiva, capacità di gestire le proprie emozioni e le relazioni interpersonali all’interno dello specifico contesto lavorativo. Lo strumento di cui dispone un Direttore d’orchestra è costituito da una eterogeneità di individui; egli non può scindere gli elementi tecnici e musicali da quelli puramente psicologici, poiché è dalla loro più perfetta sinergia ed osmosi che nasce l’arte direttoriale. La direzione, forma empatica di comunicazione affettiva, è arte di interpretare una composizione che richieda un complesso di esecutori, la cui individualità è sottomessa all’unica autorità del Maestro, vero interprete dell’opera. La tecnica della direzione racchiude in sé il complesso delle attività finalizzate alla disposizione, coordinazione e disciplina degli esecutori in relazione all’interpretazione della composizione musicale (Attardi, Pasero, 2004). La prima fase del lavoro dell’aspirante Direttore è sviluppare l’attenzione interna necessaria per imparare ad ascoltare il linguaggio, o i linguaggi, con cui parlano le diverse componenti: percussioni, archi, tastiere, fiati, strutturalmente diversi, ma funzionalmente indispensabili al buon funzionamento dell’insieme. In questa prima fase il Direttore non giudica, non critica, non censura, ma con fare attento e distaccato osserva, cerca di conoscere il suo popolo, notando quali aspetti emergano e in quali circostanze. Si tratta di un vero e proprio inventario, in cui egli fa da testimone interno. Dopo essersi fatto un quadro generale della situazione, il neoDirettore potrà accorgersi se ci sono strumenti musicali scordati, dei personaggi il cui intervento non è mai gradito, e delle coppie di antagonisti che vorrebbero sviluppare la melodia principale in direzioni opposte. A questo punto il suo compito non si limita più ad osservare, ma diventa un cercar di capire e, prima ancora, di accettare. Si tratta di instaurare un vero e proprio dialogo tra le diverse componenti, un dialogo interno. In una orchestra ben affiatata il rapporto tra le parti cambia quando si crea un’atmosfera di dialogo e accettazione. Un buon Direttore è per alcuni aspetti, come un sovrano sinceramente animato dal desiderio di venire incontro alle esigenze del suo popolo, capace quindi di ascoltare e di prendere le sue decisioni sulla base dei dati acquisiti e delle conclusioni tratte da un punto di osservazione più elevato rispetto alle singole componenti periferiche (Danon, 1993). Il Maestro non può eliminare nessuno strumento musicale, non può farlo senza farsi più male che bene, ma può decidere solo come e quando canalizzare l’intervento; ed è in questa funzione coordinatrice che si rivelerà la sua abilità di conduttore. L’idea della coordinazione ci rimanda alla teoria di Pichon-Riviére (1970) riguardo al “gruppo operativo” e ai reciproci ruoli all’interno del gruppo. All’interno del gruppo operativo si possono individuare alcuni ruoli invarianti nei quali si focalizzano alcune fondamentali funzioni del gruppo e che, a seconda del grado di maturità dello stesso, possono ruotare tra i partecipanti. Tra queste figure, assume grande importanza il “coordinatore”. Nella teoria dell’autore il coordinatore gioca un ruolo definito ed ha una precisa posizione rispetto al gruppo, ovvero sta “nel” gruppo, ma non è “del” gruppo; svolge il suo ruolo favorendo la comunicazione tra gli integranti del gruppo, aiutandoli a pensare e ad affrontare gli ostacoli che si interpongono nel conseguimento del compito (De Berardinis, www.bleger.org). All’interno dell’orchestra il Direttore, allo stesso modo, sta nel gruppo, ma non è del gruppo. Un bravo Direttore è capace di prendere nota di ogni stonatura senza pensare che uno strumento sia da buttare via, e si propone di operare sulla realtà affinché lo strumento ritrovi l’accordatura che gli spetta. Deve riuscire a valorizzare l’esperienza e la competenza dei singoli, ma nello stesso tempo deve ottenere che ciascuno di essi si integri con gli altri senza che un gruppo prevalga, o prevarichi, su un altro: l’egocentrismo narcisistico di ciascuno deve essere sacrificato al risultato di tutti (Bona, 2007). Freud (1921) ha parlato di “narcisismo delle piccole differenze”: questo meccanismo deriva dalla tendenza a mettere da parte gli altri, ad affermare sé stesso, a combattere negli altri ogni espressione narcisistica e a considerare il proprio gruppo (quindi in questo caso l’orchestra) come superiore agli altri. Le formazioni degli Ideali degli altri sono particolarmente odiate e attaccate. Una delle funzioni del gruppo, che può essere delegata ad uno dei suoi membri o ad un dispositivo ideologico, è di coltivare questo narcisismo delle piccole differenze. In riferimento al costrutto delineato da Freud ritengo significativo riportare un brano dell’intervista al M° F.L.V.:“In una orchestra ci sono un tot di individui che un Direttore deve far diventare individui capaci di ascoltare; in musica è indispensabile ascoltare gli altri, perché un coro è la somma di una serie di voci, ma quello che fa l’altra voce condiziona il proprio modo di eseguire; e quindi certamente la capacità di ascoltare è importante tanto quanto la capacità di esserci. Qualche volta, a seconda del tessuto musicale del pezzo, è utile sparire per lasciare campo alla presenza di un’altra sezione, di un altro strumento, e insegnare questo a persone che, da quando erano bambini sognano di mettere la nota della vita con la gioia del pubblico, è uno sforzo che occorre fare, prima di tutto tacendo noi stessi, inducendo all’ascolto. Se uno strumento ha diverse battute di pausa, vuol dire che in quell’arco di tempo non può suonare. Anche la pausa è musica”. La conoscenza approfondita del pezzo da eseguire consente al Direttore di dare le entrate agli strumenti nel momento opportuno, e di equilibrarne la potenza sonora in modo da garantirne l’integrazione con gli altri nel rispetto dell’identità di ciascuno (Attardi, Pasero, 2004). Wilhelm Furtwangler fu, ad opinione di un suo nemico giurato, “il primo Direttore che divise la responsabilità dell’interpretazione tra sé stesso e l’orchestra” (Lebrecht, 1991, p.132). La precisione non aveva molto valore per lui, egli era più attento a cercare l’impegno condiviso del gruppo. Tale approccio corrisponde ad una visione moderna della figura del Maestro, non più capo indiscusso di una compagine di musicisti, e ci spinge verso la comprensione di un’ attuale modello di cooperazione. Nessuno come un Direttore d’orchestra si trova costantemente esposto al giudizio degli altri. Mentre dall’alto del suo piedistallo giudica, è al tempo stesso giudicato ed oggetto di critiche. Non può evitare di mostrare l’espressione del volto e la propria gestualità, quanto più gli sfuggono di mano le regole non verbali nelle interazioni con i propri collaboratori, tanto più diviene oggetto di critiche. Un Maestro freddo e troppo controllato non piacerà all’orchestra, ma al tempo stesso uno troppo generoso, incapace di gestire le proprie emozioni, destabilizzerà la propria interazione con essa. Nella trasmissione dei sentimenti le emozioni vengono mostrate attraverso una mimica motoria inconsapevole che coinvolge espressioni facciali, gesti, tono della voce e tutte le altre componenti non verbali coinvolte nella specifica situazione. Quando le persone interagiscono, lo stato d’animo viene trasferito dall’individuo che esprime i sentimenti nel modo più efficace ai propri interlocutori, che tenderanno ad assumere i sentimenti espressi dall’altro. In certe circostanze, nel gruppo, si determina una sorta di agglutinazione tra i presenti e la situazione emotiva (Neri, 2003). Il Direttore d’orchestra dovrebbe saper trasferire consapevolmente agli altri le proprie intenzioni emozionali, ovvero non solo i sentimenti che si vogliono esprimere attraverso la musica, ma i segnali di approvazione, di incitamento, di conferma e di reciproca intesa, che devono rassicurare il cantante, il coro, l’orchestra ecc. (Attardi, Pasero, 2004). Il Maestro, soprattutto in una condizione di tensione, deve tentare di superare sé stesso. A tale proposito vorrei riportare un pensiero di Zubin Mehta (2006, p.307): “Può accadere che durante il mio lavoro, per alcuni brevi istanti, io sia ‘altrove’, e questo può essere determinato da una circostanza esterna, come ad esempio una sala dotata di un’acustica particolarmente cattiva, o da un’intima emozione che mi invade. Un’orchestra questo lo avverte subito, soprattutto quando ci si conosce da lungo tempo e c’è un buon accordo reciproco. Nella situazione ideale, tra me e gli orchestrali si stabilisce un’interazione: io ‘sento’ che l’orchestra mi riattiva nell’universo musicale e ne vengo nuovamente avvolto. Questo è un gioco che può essere molto stimolante; logicamente, però, una simile interazione può verificarsi solo se tra me e i musicisti sussiste una vera confidenza, e anche un contatto personale”. Ad ulteriore conferma di quanto esposto fino ad ora in merito alla componente emotiva: “Dopo tanti anni si instaura anche un rapporto d’affetto, quando il Direttore è molto teso crea tensione anche nel gruppo, quando lui è rilassato l’orchestra è rilassata” mette in evidenza G.C. delineando come si determini un passaggio e una diffusione delle emozioni che dal Maestro va all’orchestra e torna indietro, come in un circolo. La percettività sociale, fondamentale nella direzione d’orchestra, ci pone di fronte all’altro in maniera positiva, comprensiva ed empatica. L’abilità di sintonizzarsi con il prossimo, quindi il processo di attunement descritto da Stern (1985), risulta fondamentale nella gestione di un gruppo. La sintonia è una condizione necessaria della comunicazione tra il pensiero dell’individuo e quello del gruppo. Stern ha impiegato il termine per indicare il processo che porta allo stabilirsi di una sintonia tra il neonato e la madre, e al conseguente passaggio della comunicazione. L’attunement è una regolazione che preserva le caratteristiche individuali e allo stesso tempo promuove un funzionamento d’insieme. Ognuno può mantenere il modo di pensare che gli è proprio e che caratterizza la sua fase di sviluppo e contemporaneamente partecipare ad un funzionamento gruppale (Neri, 2003). Nei momenti di apprensione o ansia il processo di attunement tende, però, ad attenuarsi ed indebolirsi, è quindi essenziale per il Direttore possedere al massimo grado le funzioni dell’attenzione, della concentrazione e della memoria, che gli consentono di essere costantemente presente nella gestione del gruppo quanto della partitura. Sicuramente, se nell’arte del dirigere è inclusa l’idea che un Maestro deve essere una grande comunicatore, Leonard Bernstein incarna questa visione. La sua cordialità a poco a poco conquistò anche i cultori più sofisticati, e ci si accorse che la sua esuberanza era funzionale alla musica. Si trattava di una comunicazione non verbale particolarmente trascinante per l’orchestra e per il pubblico. Lo stesso stile cordiale caratterizzava il suo approccio alle orchestre, le quali lo adoravano, poiché nel suo gesto c’era tutto quello che un’orchestra possa desiderare: musicalità, fraseggio, dinamica, espressione, chiarezza, comunicativa. Ogni sorta di sentimento ed emozione venivano semplificati dal suo carattere estroverso e filtrati dalla sua straordinaria cultura. Queste caratteristiche, unite a grande generosità, gli rendevano immediati i rapporti umani, ed insieme a lui le orchestre riuscivano ad affrontare le imprese più ardue con naturalezza e facilità. Il M° F.L.V. , nell’ affrontare il discorso rispetto al rapporto tra Direttore e orchestra, racconta proprio del Maestro americano: “Ci sono nella storia relazioni tra alcuni Direttori e orchestre di profondo amore; Bernstein, ad esempio, iniziava le sue lettere all’orchestra con ‘Cari fratelli’; questo dice tutto delle relazioni tra un buon Direttore e una buona orchestra”. I requisiti fondamentali della professione sono cambiati ben poco in un secolo e mezzo. Presa dall’inizio alla fine, la storia della direzione d’orchestra è una cronaca di impegno individuale e di ambizione, modulata da circostanze inerenti alla società esterna; come molte forme di eroismo poggia sull’uso e l’abuso del potere per beneficio personale. Resta da vedere se tale eroismo è desiderabile nella musica o se è un male necessario (Lebrecht, 1991). BIBLIOGRAFIAAdorno T. W. (1962), Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino, 1971. Attardi F., Pasero G., Leadership trasparente: direzione d’orchestra e management d’azienda, FrancoAngeli, Milano, 2004. Bona I., Senza leader l’orchestra è stonata, Dirigente, 6, 2007, pp.14-16. Canetti E. (1960), Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981. Danon M., Il direttore d’orchestra: l’arte dell’essere, Garzanti, Milano, 1993. Fellini F., Prova d’orchestra, Garzanti, Milano, 1980. Freud S. (1921), Psicologia di massa e analisi dell’ Io, in Psicoanalisi e società, Newton Compton, Roma, 1969. Holmes J., Conductors on Record, Victor Gollancz, London, 1982. Lebrecht (1991), Il mito del Maestro, Longanesi & C., Milano, 1992. Mehta Z. (2006), La partitura della mia vita, Excelsior 1881, Milano, 2007. Neri C., Gruppo, Borla, Roma, 2003. Pichon-Riviére E. (1970), Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Lauretana, Loreto, 1985. Stern D.N. (1985), Il mondo rappresentazionale del bambino, Bollati-Boringhieri, Torino, 1987. |