La dimensione emotiva del processo di insegnamento-apprendimento
Questa riflessione, scaturisce da anni di insegnamento sulla classe e con alunni con bisogni speciali, dopo il conseguimento della specializzazione, ma anche con gli occhi e il cuore da psicologa e psicoterapeuta. Una riflessione che è stata dettata dall’esigenza -molto forte- di aiutare alunni che in qualche modo hanno maggiormente bisogno di aiuto e per i quali è necessario mettere grande attenzione alle emozioni e all’affettività che entrano in gioco nel percorso formativo scolastico. Nel corso del tempo, infatti, ho avuto modo di sperimentare quanto importante fosse -e sia-, lasciare il giusto spazio all’emergere dei sentimenti, delle emozioni e all’affettività dei discenti, legate al mondo della scuola, siano esse in riferimento al rapporto coi compagni, l’insegnante o strettamente legate al loro percorso di apprendimento. Sempre più mi son resa conto dell’urgenza che la sfera affettiva ha di emergere nel tempo-scuola: urgenza che spesso prende il posto delle lezioni programmate. Sovente son necessarie diverse ore per poter cogliere il fulcro delle questioni; altre volte son già abbastanza chiare e altre volte ancora bisogna farle arrivare lentamente alla coscienza prima di parlarne. Questo per la scarsa dimestichezza di alunni e insegnanti, nel parlare di emozioni e sentimenti a scuola, nel corso dell’orario curricolare durante il quale si deve assolutamente svolgere la lezione perché altrimenti si resta indietro col programma. Ecco perché bisogna prendere consapevolezza del fatto che la scuola è uno dei luoghi privilegiati sia per lo sviluppo di attività mentalistiche e dell’acquisizione della Teoria della Mente sia per l’apprendimento in senso stretto. Ed ecco che si può facilmente comprendere quanto il mestiere dell’insegnante sia un lavoro complesso, proprio perché concerne la dimensione affettivo-relazionale e la dimensione formativa. Perciò un aspetto fondamentale della professionalità insegnante consiste nell’entrare in relazione interpersonale con gli allievi proprio in vista del fato che l’apprendere è strettamente connesso all’apprendere dall’esperienza e all’elaborazione anche di elementi di ordine emotivo-affettivo come Blandino afferma. (1) Allora, apprendere ‘qualcosa’ e da ‘qualcosa’, è apprendere attraverso il filtro delle proprie emozioni e della propria storia personale. Per anni il processo di insegnamento-apprendimento è stato studiato dal punto di vista della Teoria dell’attaccamento. Da qualche tempo, alcuni ricercatori lo affrontano anche dal punto di vista della Teoria della Mente e sarebbe interessante studiare congiuntamente questi due aspetti per favorire un’integrazione delle due teorie e arrivare ad una migliore considerazione dei fattori implicati sia nell’insorgere delle difficoltà d’apprendimento sia nella possibilità di affrontare e correggere i vissuti che stanno a monte di tali difficoltà. Il tutto attraverso una diversa formazione all’insegnamento degli insegnanti e all’utilizzo, in classe, di strategie atte a favorire la consapevolezza emotiva e, perciò, una migliore relazione son se stessi, gli altri e il nuovo. L’impatto emotivo ha, infatti, una enorme importanza sullo sviluppo delle capacità cognitive e proprio l’interazione con menti più mature e pertanto, più “benevoli, riflessive e sufficientemente in sintonia” è, nel corso dell’età evolutiva, una fondamentale esperienza infantile di avere una mente, un sé psicologico distinto dall’alterità. In una parola, per dirla con Fonagy e Target, la capacità di regolazione affettiva (2), “rappresenta la comprensione esperienziale dei sentimenti in un modo che va ben oltre la comprensione intellettuale”. Attraverso tale modalità, seppure a volte in modo inconsapevole, si possono aiutare gli alunni a modulare sentimenti per loro intollerabili, contenendoli, riformulandoli e restituendoli in una veste –per loro- più accettabile. Partendo dal presupposto che “emozione” deriva da “ex-motu” ossia portar fuori, comunicare, dichiarare, e “in-segnare” è dare forma in chi non la possiede, allora si può far evolvere socialmente e relazionalmente le emozioni, siano esse individuali o collettive per dare loro il ruolo di base che effettivamente occupano nella vita di ogni individuo. Poiché esse fanno da sfondo a momenti, trame, percorsi e storie evolutive sia tra individui sia nell’adattamento al contesto ambientale, si potrebbe affermare che sono una forma relazionale, una forma dell’attività dell’organizzazione vivente e di rapporti col contesto relazionale –appunto- e ambientale. È quel qualcosa che rende l’individuo più aperto al cambiamento e lo espone perciò al disequilibrio evolutivo e al gioco: lo tiene cioè vincolato al mondo permettendogli l’evoluzione quale modulazione emotiva che basa l’apprendimento ad apprendere. Solo così si può essere interattivi e aperti al mondo. L’emozione, dunque, rende instabile e provvisorio tutto ciò che ci circonda e questo favorisce la curiosità e l’apertura evolutiva poiché è un vissuto d’appartenenza a quanto ci circonda e collega ciò che sta dentro di noi con il fuori, dando forma e qualità alle relazioni e ai rapporti di ciascuno con l’ambiente. In ogni caso non si può separare l’ “io emotivo” dagli altri “io” poiché “concorre alle identità molteplici”, come afferma Stern. Per tale motivo l’emozione mette in relazione l’osservatore con l’osservato laddove l’osservatore ascolta emotivamente e l’osservato si lascia osservare realizzando il gioco dell’accettazione, dell’accoglienza e del co-abitare e creando così da un vissuto un co-vissuto. Una comunità dinamica di questo tipo porta sicuramente alla sintonia emotiva e all’autoregolazione interattiva segnando così i presupposti per l’apprendimento. Lo stesso insegnante che ex-duce, ossia educa e porta fuori le sue emozioni, si mette in gioco, si disequilibra, si dichiara, operando così meta-comunicativamente. Giungere quindi ad un rapporto tra insegnante e alunno dando rilievo all’esperienza emotiva del processo d’insegnamento e d’apprendimento al fine di rendere, alunni e insegnanti, capaci di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo al di là delle frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare feed back positivi, svilupperà la capacità di modulare i propri stati d’animo per evitare che la sofferenza impedisca di pensare, fare, confrontarsi e crescere insieme. La scelta di strategie educative e didattiche efficaci, psicologicamente supportate, passa anche attraverso la capacità dell’insegnante di immaginare il modo di pensare dei propri alunni, in termini di desideri, aspettative, credenze. Similmente, uno studente svolge i compiti assegnati con successo se ha in mente anche la prospettiva dell’insegnante, se è capace cioè di prefigurarsi desideri, credenze e aspettative del proprio educatore. Da questo è facile constatare come tale abilità sia una risorsa fondamentale nel gioco della vita sociale e si riveli un elemento utile per gestire al meglio i processi di apprendimento e di interazione nel contesto scolastico, in condizioni di sviluppo nella norma, a rischio e patologiche. Per Winnicott la salute di un individuo è in stretto rapporto con la reciprocità delle relazioni. “Un segno di salute mentale” egli scrive “è la capacità di un individuo di entrare con l’immaginazione esattamente nei pensieri, nei sentimenti, nelle speranze e nelle paure di un’altra persona e di permettere all’altra persona di fare lo stesso con lui…”. È importante, così, cercare di creare premesse reali e mentali di uno spazio potenziale per far sì che insegnanti, genitori, allievi con problemi ed il gruppo-classe, possano “mettersi in gioco” creativamente, con l’obiettivo di facilitare il ritrovamento del vero Sé e una fiducia di base. (3) Da ciò anche la necessità che la realtà sia organizzata in funzione del bambino (e dell’alunno in generale), cioè adattata alla sua vita, tale da venire a lui svelata a poco a poco, man mano che acquisisce la capacità di affrontarla. Si tratta di creare una situazione di ricettività, in quanto, organizzando l’ambiente per il bambino, provvedendo a ciò che è necessario, inclusi i limiti, nel senso anche di regole, si crea una rete protettiva che viene a coincidere con un ambiente facilitante lo sviluppo. Con una “giocosa” atmosfera di classe, è più semplice impegnarsi in una comunicazione in cui sia possibile condividere emozioni, prescindendo da un obiettivo esplicito ed evitando il pericolo di “asservimento”, che per Winnicott (4) è il vero contrario del gioco. Per definizione il gioco presuppone una fase di crescita e di sperimentazione della realtà, momento preliminare ad una successiva elaborazione mentale. Trasferendo, allora, il concetto del “mettersi in gioco” alla relazione con l’allievo, per l’insegnante l’obiettivo deve diventare quello della costruzione di uno spazio mentale condiviso, espressione della dimensione ludica e creativa della relazione educativa. In questo modo, si realizza la libera circolazione di bisogni e desideri, essenziale per la crescita individuale e del rapporto che, peraltro, implica il poter contemplare e tollerare anche i rischi e le incertezze. La relazione educativa può quindi essere intesa come il campo della fantasia, del gioco e della creatività, dove sia possibile tentare di esprimere il nucleo della personalità, il vero sé che come dice Winnicott, coincide con l’esperienza stessa del vivere. Parlando di apprendimento, ci si riferisce all’abilità, alle strategie e all’autonomia del discente, quindi, al saper apprendere che correla al sapere, al saper fare, al saper essere. Certamente saper apprendere implica l’utilizzo, in primo luogo, di competenze e di strategie che possono essere di natura cognitiva o meta cognitiva. Queste ultime aiutano sicuramente nell’autogestione dell’apprendimento soprattutto se riferite a strategie socio-affettive attraverso le quali curare il rapporto con se stessi e con gli altri. Tutto questo è però strettamente connesso al vissuto, al mondo interno che ogni persona porta con sé. Proprio per questo diviene fondamentale la costituzione del gruppo-classe, ove il docente deve porre molta cura nella costruzione della relazione ma anche nella costruzione di un buon canale di comunicazione, utile all’apprendimento ma anche utile a favorire la ricerca della chiave che ricongiunga “sapere”, “saper fare”. “saper essere” e “saper essere con”. Questo anche per il fatto che la scuola è un contesto interattivo ricco di forze e dinamiche tanto costruttive e positive quanto potenzialmente disfunzionali proprio per la molteplicità di relazioni –particolari- che avvengono in tale contesto –particolare-. Senz altro attraverso i diversi modi di stare e relazionarsi a scuola, gli alunni costruiscono nelle diverse situazioni dentro e fuori dall’aula, la propria identità. Perciò le esperienze formative centrate sulla crescita emozionale e sull’efficacia delle relazioni, fanno sì che la scuola abbia tra i suoi obiettivi formativi prevalenti lo sviluppo di qualità e attitudini quali il riconoscimento, l’ascolto e l’espressione delle proprie emozioni e la capacità di applicare tali conoscenze alla risoluzione di conflitti e problemi che l’allievo potrà incontrare nel suo percorso scolastico così come nella vita. Sicuramente l’individuazione delle emozioni soprattutto di quelle disfunzionali per l’apprendimento e la motivazione, richiedono il riconoscimento delle cause che le scatenano; così la scuola diventa il luogo privilegiato dell’intervento che permette di affrontare le problematiche proprie dell’età evolutiva. Ognuno ha delle conoscenze, delle esperienze personali dalle quali non si può prescindere nel percorso scolastico, poiché queste, quali rappresentazioni mentali, condizionano la percezione delle proprie capacità e del proprio ruolo come persona che impara, funzionando insomma da filtro cognitivo e affettivo. Saper apprendere, allora, implica anche un saper essere ossia il saper essere disposto a scoprire l’altro, che si tratti di altre persone o nuove conoscenze. Tutto il sistema scolastico, quindi, deve strutturarsi in modo da dare agli elementi legati al saper apprendere, il posto di prim’ordine che spetta loro. Quello che va riconosciuto e valorizzato da parte dell’insegnante in tale relazione (quale relazione fra menti) nella quale il docente si pone come esperto formatore/mediatore, è la necessità di rilevare, riconoscere e favorire le differenze individuali, gli stili di apprendimento personali, i cambiamenti dai quali partire per fornire modelli, proposte, possibilità di scelta. Appare così evidente che lo sviluppo della personalità di ciascun individuo ha un certo rilievo e deve diventare un obiettivo educativo esplicito e primario. Così l’insegnante-caregiver, quale persona che si prende cura, dovrà fungere da modello di attaccamento e da contenitore, conciliando le differenze individuali con le limitazioni spesso imposte dai sistemi educativi. Si tratta di contribuire alla motivazione e a migliorare il proprio senso di auto-efficacia e autocontrollo grazie alla presa di coscienza delle proprie capacità e dei propri limiti nonché delle proprie emozioni. La risonanza emotiva, pertanto, può divenire il “clou” del processo didattico ed un prezioso strumento di conoscenza per l’insegnante, se usato con oculatezza, senza cedere a facili quanto immotivati ottimismi, date le implicazioni strettamente personali presenti nel rapporto. Ecco perché quando in un contesto sociale fortemente strutturato come quello della classe si assiste al deterioramento del tessuto relazionale, alla comunicazione che diventa inefficace nonché alla messa in gioco del delicato rapporto “autorità dell’insegnante-libertà dell’alunno”, la relazione insegnamento-apprendimento vira irrimediabilmente verso il negativo. Inoltre, tutto ciò si associa al forte stress del docente che trova difficoltà ad individuare una possibile via di emancipazione umana e professionale. Così il disagio dell’alunno che si accompagna a quello dell’insegnante, rende la scuola un luogo da attraversare privo di senso e di storia. L’unico modo per evitarlo è creare una scuola che non sia esclusivamente il luogo dell’acquisizione delle conoscenze per far sì che queste non siano prive dei significati affettivi ed emotivi che, invero, hanno. Per tale ragione, da tempo ormai, la scuola si pone di fronte al problema delle difficoltà d’apprendimento –a partire dalla scuola primaria per arrivare alla scuola superiore- mettendo al primo posto i processi interni, il mondo interno e la sua complessità rispetto al mondo esterno. Ma troppe sono ormai le difficoltà scolastiche che impongono alla scuola stessa di entrare nei processi interni. L’idea batesoniana di mente, intesa come continuo gioco relazionale ed interattivo stimolato dalle differenze, ha fornito indicazioni importanti per giungere a focalizzare l’attenzione sul tema delle interazioni fra menti, (nel contesto educativo: insegnante-alunno, alunno-alunno, alunno-alunni, ecc.) che permette di co-costruire la conoscenza quale presupposto dei processi sociali di cooperazione. Il rapporto tra docente e discente non è solo legato all’apprendimento o alla trasmissione di contenuti e nozioni: infatti riguarda anche lo sviluppo delle capacità di pensare, interiorizzando una mente in grado di riflettere gli aspetti confusi e difficili della propria esperienza. Solo in questo modo la mente del docente potrebbe divenire il luogo nel quale esperienze emotive troppo forti o spiacevoli possono essere rielaborate e metabolizzate così come la madre fa col suo bambino. Il nuovo sapere, come ogni nuova esperienza è fonte di preoccupazione, ansia e paura poiché, spesso, la mente non è in grado di affrontare situazioni sconosciute verso le quali ci si sente insicuri, impreparati e incapaci. Laddove manchi la possibilità nell’alunno di aprirsi fisicamente, mentalmente ed emotivamente, mancherà anche la voglia di scoprire il nuovo, il non conosciuto, l’ “altro da me”, l’ignoto. Da qui la necessità di una mente funzionale –quella dell’insegnante- che media tra la mente del discente e il sapere, in modo che l’esperienza col sapere stesso risulti bonificata e perciò non più terrificante e schiacciante. Solo così anche la mente dell’alunno diventerà funzionale e capace di riflettere sulle proprie paure e difficoltà per poterle affrontare e non lasciarsi sopraffare. Il bambino che va a scuola, il ragazzo che va all’università così come l’insegnante, sono stati modellati da diverse sequenze d’interazioni tra eventi esterni e interni i quali hanno creato nella loro mente dei modelli unici e individuali. Questi, a loro volta, influenzano il modo di percepire e interpretare il mondo e il comportamento di ognuno. (5) L’incontro tra insegnante e alunno è anche, e soprattutto, un incontro di menti per la funzione che queste hanno in vista dell’ascolto, del pensare e della consapevolezza di ciò che l’altro prova e di ciò che ognuno prova nel rapporto con l’altro. In questo senso la conoscenza è volta non già al controllo dell’oggetto quanto alla sua conoscenza, rispettandolo e conservandolo così com’è. Il processo di conoscenza pertanto si realizza nell’imparare, nella preoccupazione per l’oggetto da conoscere piuttosto che per se stessi (Blandino, Granieri 1995). Da qui l’influenza delle emozioni e degli affetti entro il processo educativo visto che “senza amore non si può conoscere”. Solo tenendo conto e rispettando la mente, la soggettività, l’emotività del discente come bagaglio esperienziale del quale deve divenire consapevole, si può arrivare ad un processo di apprendimento che sia il più globale possibile e che porti l’alunno a relazionarsi con l’ambiente attraverso la crescita articolata delle sue modalità di adattamento alla realtà. È necessario offrire la possibilità di conoscere le diverse opzioni per poter imparare a scegliere e dunque a costruirsi il proprio personale saper apprendere e, soprattutto, fornire strumenti e strategie “per affrontare l’imprevedibile” (6): in una parola, qualunque evento che modifichi lo spazio e il tempo, i contenuti, l’insegnante e gli studenti, le relazioni tra tutti questi elementi. Insegnare è far acquisire la capacità di agire strategicamente nel senso di saper improvvisare e immaginare per rispondere in modo adeguato ai continui cambiamenti, senza lasciarsi sopraffare dalle emozioni che li accompagnano. Ogni passo avanti lungo la scala significa maggiore libertà e indipendenza anche se implica la perdita di sicurezza e l’acquisizione di maggiori responsabilità (Salzberger-Wittenberg, Williams-Polacco, Osborne, 1993). Bisogna, allora, capire che “cambiare non significa gettare via tutto e sostituirlo con tutt’altro. Si può evolvere cominciando col riorganizzare in maniera diversa ciò che già esiste nella propria testa…” (Talleyrand, in De Vecchi, 1998), poiché, come diceva Proust, “l’unico vero viaggio di esplorazione non consiste nell’andare in posti nuovi ma nell’avere altri occhi”.
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