La psicologia e gli insegnanti: la formazione alla relazione
L’insegnante, come “mediatore culturale” che conosce i saperi ha, da un lato, il compito di trasmetterli nella correttezza della loro struttura epistemica, così come previsto dai programmi ministeriali; dall’altra di utilizzarli come strumenti, facendosi guidare dall’assunzione responsabile delle mete educative che la società gli ha affidato (Bertogna, 2005). In questa mediazione si confrontano, da una parte, le “rappresentazioni del mondo” elaborate a livello sociale e scientificamente fondate: le discipline; dall’altra, le “rappresentazioni del mondo” degli allievi, certamente più soggettive, meno elaborate, non sempre coerenti, ancora informi, talvolta ingenue, frutto della loro storia personale, che fungono comunque per loro da modelli ai quali fare riferimento per orientarsi nella propria esperienza di studio e di vita. Senza dimenticare il mondo emotivo dei quali sono portatori e che fa da sfondo alla loro modo di “essere nel mondo”, influenzando ogni aspetto dell’apprendimento e della relazione all’interno del gruppo classe sia coi pari sia con gli insegnanti. Nel mezzo, dunque, sta proprio l’insegnante col suo mondo interno fatto, anch’esso, di vissuti fortemente impregnati di emotività, dei quali è necessario divenga consapevole, per far sì che non influiscano negativamente sul processo di insegnamento-apprendimento. In questo senso il ruolo dell’insegnante si carica di una responsabilità molto forte, che non si riduce semplicemente nel trasmettere cultura e non si può più limitare alla lezione frontale ma deve comunicare soprattutto fiducia, stima, consenso, ottimismo, fondamentali nello stabilire relazioni positive tra insegnante e allievi, al fine di creare un clima di classe adeguato a sviluppare l’apprendimento. In altre parole, l’attività dell’insegnante si muove su due piani prevalentemente collegati, l’affettività e la capacità comunicativa, in quanto essi giocano un ruolo fondamentale in quell’ “imprinting emotivo” che segnerà (forse per tutta la vita) il rapporto dello studente con la scuola (Chiari, 1994). L’insegnante diventa così il centro di una tensione morale ed emotivo-affettiva finalizzata a creare un clima positivo in cui sviluppare l’apprendimento, lontano da forme di permissivismo ma carico di emotività e di capacità relazionali e comunicative. Pertanto è fondamentale, per la scuola, analizzare lo stretto rapporto emotività-apprendimento, prendendo le mosse da alcune osservazioni nate in campo psicanalitico, in considerazione del fatto che la psicologia comportamentista, nello studio dell’apprendimento, poco spazio ha dato agli aspetti emozionali e alla fantasia. “La conoscenza che gli insegnanti hanno acquisito dello sviluppo sociale del bambino è fondata su una combinazione tra la teoria piagetiana, l’approccio comportamentista e l’idea che la famiglia sia in qualche modo coinvolta nell’adattamento al contesto scolastico. Istruire gli insegnanti significa aiutarli a comprendere meglio il comportamento dei bambini in classe.” (Pianta, 2001). In tale contesto è indispensabile la figura dello psicologo scolastico quale formatore degli insegnanti affinché, i docenti, siano aiutati a superare la “scissione tra sapere intellettuale e sapere emozionale” nonché “l’idea che l’apprendimento sia un fatto solo di contenuti o di tecniche”, (Blandino, Granieri, 1995) scevro delle dinamiche emotive e dei problemi che chiunque vive in sede di formazione. La formazione alla relazione e alla comprensione delle dinamiche emotive implicate nel processo di apprendimento, (quindi la comprensione delle funzioni della mente) nonché alla loro gestione e utilizzazione, è uno dei compiti che spetta principalmente allo psicologo scolastico. È indubbio che funzione principale dell’insegnante riguardi essenzialmente la formazione ma è pur vero che se l’apprendimento è intriso dell’emotività e dei vissuti interni che l’alunno porta con sé e da essi è influenzato, non può prescindere da questo per favorire l’acquisizione delle nuove conoscenze e competenze. Purtroppo, però, formazione e aggiornamento degli insegnanti, sono ancora fortemente caratterizzati dall’acquisizione di nuove tecniche o metodologie e trascurano l’importanza della relazione e della comunicazione quali aspetti pregnanti dell’intero processo educativo. In conseguenza di tali considerazioni, risulta evidente quanto, da tale punto di vista, relazione, comunicazione ed emotività siano la chiave di volta per “la formazione alla formazione” del carattere e per l’apprendimento in generale, anzi, forse ne è il motore più importante (Salzberger-Wittenberg et all., 1993). “Sapere”, “saper fare”, “saper essere”: a questa tripartizione, in voga fino ad oggi nel panorama della formazione, bisognerebbe aggiungere il “saper essere con” ovvero, il saper essere in relazione con se stessi e con gli altri già a partire dagli insegnanti i quali, nella maggior parte dei casi sono, a questo, generalmente impreparati. Allora, una delle dimensioni che lo psicologo-formatore deve necessariamente attivare nelle competenze dei docenti, deve essere quella legata allo sviluppo delle forze interiori della motivazione intrinseca, della capacità di investire sul problema, dello sviluppo della capacità di accogliere la sfida alla ricerca di linguaggi e relazioni che gli alunni pongono a coloro che li affiancano. L’acquisizione di tali capacità, avrà senz’altro una ricaduta positiva, sul rapporto dei docenti con i formandi nel corso del processo d’insegnamento-apprendimento. Gardner (1994), ha chiamato queste dimensioni di competenza: intelligenza intrapersonale e interpersonale, riferendosi all’area dell’io e all’area del noi. Nonostante la sua estrema peculiarità, è purtroppo, un settore ancora poco inesplorato dalla formazione, sia iniziale e sia in servizio, benché costituisca, invece, uno dei principali fattori, se non il più rilevante, per una corretta adesione al ruolo che ognuno (insegnante e alunno) interpreta. Il mestiere dell’insegnante, è una delle professioni di aiuto riconosciute tra quelle più delicate, quindi più a rischio, per il coinvolgimento delle dimensioni profonde dell’io. Se poi l’educando è in una situazione di particolare difficoltà (emotiva, comportamentale, di apprendimento) e richiede un aiuto speciale, allora la chiara consapevolezza del proprio essere, del proprio ruolo, della propria funzione rispetto alle richieste esterne, è indispensabile per individuare, innanzitutto, la propria posizione, prendere le distanze dal rischio di fusione/invischiamento con il problema del quale l’alunno è portatore per individuare la modalità di intervento maggiormente adeguata e funzionale (Petter, 2004). I vissuti profondi, le emozioni, i sentimenti costituiscono le risorse vere in grado di sostenere un ruolo così difficile: un insegnante capace di emozionarsi di fronte alla reazione di un alunno, non può che essere capace di comunicazione autentica, relazione empatica e ascolto attivo (Blandino, Granieri, 2002). La nuova professionalità insegnante deve quindi coniugarsi con questo aspetto, assumerlo e declinarlo in parallelo all’area relativa alle competenze specifiche di tipo disciplinare e metodologico, sebbene nella consapevolezza che i docenti dovranno essere a ciò preparati e sostenuti sia in fase di formazione iniziale sia in itinere durante tutto il percorso che gli stessi costruiscono (e co-costruiscono e si va delineando) nel tempo. Lo psicologo deve tener conto del fatto che, talvolta, tra l’azione dell’insegnamento e i risultati in termini di apprendimento, c’è una correlazione molto stretta, spesso viziata da un rispecchiamento unidirezionale per cui uno diviene speculare all’altro: allorquando l’insegnante ha una classe che apprende con facilità, si sente bravo, professionalmente gratificato e realizzato dall’auto-conferma ottenuta attraverso gli esiti positivi raggiunti dagli alunni (Spaltro, 1990). Tuttavia, se il risultato non è congruente all’aspettativa e allo sforzo profuso, si ricavano sentimenti di inadeguatezza, frustrazioni, amarezze che vanno ad intaccare la propria immagine professionale, con rischi di disinvestimento e demotivazione che ricadono sulla prestazione e innestano circoli viziosi e giochi al ribasso. Non sono infrequenti situazioni che producono malessere nel docente e sottraggono energie positive all’intero sistema scolastico. Vengono così a delinearsi quelle sottili dinamiche, (o prerequisiti cognitivi ed emotivi) che inducono nell’insegnante quelle emozioni che fanno da humus al burn out (Lodolo, 2004). Anche in questo caso, l’intervento dello psicologo scolastico mirerà alla preparazione psicologica dell’insegnante quale aiuto a conoscere meglio se stessi e a sviluppare un’idea di sé unitaria e coerente. Inoltre permetterà una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni risvegliate dai comportamenti reattivi degli alunni in fase di apprendimento e che risalgono, anch’esse, ai vissuti infantili personali. Solo in tale modo sarà possibile, non lasciarsi sovrastare dall’ansia e dalla confusione che blocca e opprime portando, spesso, alla chiusura e all’assunzione di atteggiamenti rigidi e difensivi o, al peggio, a trascurare l’alunno fonte di disagio e perdendo totalmente interesse per la relazione. L’alunno, in particolare quello con bisogni specifici, diversi, esprime spesso una domanda di formazione secondo modalità inconsuete e ambivalenti, con linguaggi che vanno decodificati. Al docente, resta il non facile ma essenziale compito di cogliere segnali, provare strategie didattiche, esplorare vie nuove, ricercare modalità comunicative e percorsi in grado di diventare significativi e di tradursi in processi di apprendimento. Di certo l’affermazione “il compito dell’insegnante è quello d’insegnare”, presenta un manifesto carattere di razionalizzazione difensiva con l’evidente finalità di respingere il contatto con la problematica emotiva e relazionale posta dall’allievo: proprio il compito di insegnare infatti non esclude bensì presuppone lo sforzo per comprendere e contrastare, per quanto possibile quelle interferenze emotive sui processi di apprendimento, che rappresentano un evidente ostacolo alla crescita culturale ed educativa di un bambino o di un ragazzo (Francescato, 2001). La ricerca psicologica, psicoanalitica e pedagogica ha dimostrato in modo incontrovertibile i legami profondi, soprattutto nell’età evolutiva, fra sviluppo emotivo e sviluppo cognitivo, fra affettività e desiderio di apprendere (Pontecorvo, 1993; Bion, 2006). Un bambino sofferente non impara o impara male (Tesio, 1992) ma parimenti si può dire che un insegnante demotivato o incapace di relazionarsi e rilevare e contenere sentimenti e bisogni propri e del proprio gruppo classe, non insegna bene o nulla. I corsi di formazione e aggiornamento per insegnanti puntano, nella maggior parte dei casi, alla didattica tralasciando spesso l’importanza della relazione affettiva che si instaura fra maestro e allievo. Dare spazio alle emozioni riconoscendole e accettandole migliora, invero, anche il rendimento scolastico poiché in tal modo si attua quel processo di autoregolazione e caregiver utile soprattutto per i bambini che non hanno ancora dimestichezza con tali argomenti. “Un insegnante sostanzialmente fa due cose: promuovere l’apprendimento valutando il grado di raggiungimento e gestire relazioni che sono concomitanti ad suddetto lavoro; tali relazioni sono personali, con ogni singolo allievo, e di gruppo, per quanto concerne la classe. Inoltre deve anche saper partecipare costruttivamente (in termini di competenze specifiche e capacità cooperative) ai gruppi di lavoro coi colleghi nell’ambito dell’interazione organizzativa che costituisce il contesto che sta intorno al gruppo classe”. (Blandino, Granieri, 1995). Appare perciò evidente che un aspetto fondamentale della professionalità dell’insegnante consiste proprio nell’impegno ad entrare in relazione interpersonale (in particolare con gli allievi) per stabilire un buon canale di comunicazione utile all’apprendimento, per valutare le potenzialità e le caratteristiche della personalità del bambino, per tentare d’individuarne eventuali problemi o difficoltà che possono incidere nei suoi processi di socializzazione, maturazione e crescita personale e culturale. Ma tale capacità difficilmente è acquisita nel corso della formazione professionale, e ancor meno personale, da parte dei singoli docenti (Petter, 2004). Per affrontare il compito educativo, connotato da un così alto contenuto di “relazionalità” ed “emotività”, di contatto continuo con le persone, gli allievi, i colleghi o i genitori, e soprattutto da un orientamento assiduo al cambiamento, è necessario un repertorio di competenze che la preparazione scolastica, prevalentemente teorica, da sola non è in grado di fornire. Ecco perché la psicologia scolastica deve partire dalla necessità di indagare ciò che avviene nel momento in cui l’insegnante costruisce passo per passo, la propria professionalità, basandosi certamente sui contenuti appresi ma soprattutto sulla propria esperienza personale (Andreani, 1979). Indubbiamente, le capacità richieste agli operatori scolastici sono amplissime: spaziano dalla gestione dei contenuti comunicativi alla padronanza dei processi coinvolti; dalla sensibilità all’ascolto attivo alla restituzione attenuata di paure, ansie, angosce; dalla capacità di gestire ruoli simmetrici ma specifici, alla capacità di negoziare significati e prospettive di intervento educativo. Oltre a ciò, la funzione peculiare della scuola è di tipo pedagogico-didattico e pone al centro la relazione tra il bambino e l’adulto-educatore; è la zona della co-costruzione, della creazione comune della risorsa più proficua in assoluto, costituita dalla relazione. Ecco perché diventa fondamentale formare alla relazione e all’ascolto attivo, empatico (Tuffanelli, 1999). Ma la posizione dell’ascolto empatico è costituita da tre elementi senza dubbio impegnativi: l’accettazione, la disponibilità mentale e la vicinanza emotiva. E tutto ciò richiede un impegno mentale e relazionale tutt’altro che semplice e scontato. Per questo gli insegnanti, come tutti gli educatori, devono essere aiutati a sviluppare tali competenze. Queste devono, necessariamente, essere oggetto di formazione e di supervisione da parte della figura dello psicologo, affinché venga migliorata e favorita, successivamente, nei bambini e nei ragazzi la capacità di comunicazione dei loro problemi, disagi e difficoltà. Senza peraltro mai dimenticare che “la comunicazione inizia non già dalla bocca di chi parla, ma dall’orecchio di chi ascolta”. Solo con un percorso psicologico-formativo, il docente, imparerà ad ascoltare i piccoli studenti particolarmente quando emergono difficoltà o riluttanze nello svolgimento delle attività: queste sono spesso sintomo di disagi e angosce vere e proprie anche se, di frequente, vengono vissuti dagli adulti educatori, come meri capricci o momenti di pigrizia e mancanza d’interesse. Tutto ciò porta sovente alla stereotipizzazione soprattutto se un bambino presenta ripetutamente questi comportamenti. Il centro del cambiamento di tutta questa innovazione culturale sta negli insegnanti: solo se essi cambiano è possibile costruire un ambiente formativo e inclusivo basato sulla formazione psicologica alla relazione e allo sviluppo della mente. L’insegnante da mero funzionario, diviene in grado di diventare un professionista con ampi spazi di autonomia progettuale e di implementazione, di ricerca delle strade più efficaci per sviluppare le competenze, sia personali sia degli allievi, ma anche con l’obbligo di rendere conto all’utenza e alla società delle scelte operate e dei risultati raggiunti. Uno dei più importanti problemi per la scuola in ambito didattico ed educativo nella situazione attuale consiste nel coordinare validi interventi per il contenimento e sostegno degli alunni che presentano difficoltà di apprendimento. Capita di frequente che, nell’ambiente classe, emergano soprattutto difficoltà legate alle ansie e alle insicurezze incontrate da alcuni alunni durante il percorso scolastico che spesso di traducono in vere e proprie difficoltà ad apprendere, a modulare la propria concentrazione e attività in funzione di sollecitazioni esterne, per periodi di tempo prolungati (Salzberger-Wittenberg, 1993).Per poter creare un adeguato rapporto di collaborazione con tutti i bambini e gli adolescenti, in particolare con quelli con tali problematiche, sono necessarie una profonda competenza in ambito pedagogico e di psicologia evolutiva nonché una notevole preparazione emotiva e creativa, affinché il soggetto possa apprendere le abilità necessarie, di autocontrollo sociali e didattiche, per superare le proprie difficoltà. È, inoltre, ormai sempre più evidente la necessità di realizzare un intervento realmente globale e concretamente multidisciplinare, con il coinvolgimento di tutti gli insegnanti, dei compagni di classe e della famiglia. Fondamentale, ancora una volta, è il prerequisito della formazione e preparazione emotiva dell’insegnante, per una gestione della classe che miri a cambiare l’ambiente che circonda ogni bambino specie quelli con difficoltà di apprendimento, in modo da facilitare i comportamenti adeguati che favoriscono socievolezza e coinvolgimento positivo alle attività di classe, diminuendo al massimo i comportamenti non favorevoli. Considerando poi la difficoltà di alcuni alunni a controllare le tendenze impulsive e reattive, i problemi che si manifestano nel seguire le regole e la loro bassa tolleranza alla frustrazione, non sorprende che molti di essi abbiano problemi di aggressività. Infatti, oltre agli accorgimenti didattici e gestionali del singolo e della classe, per una maggiore efficacia sarebbe opportuno la consulenza e la supervisione di uno psicologo esperto in problemi scolastici o di uno psico-pedagogista veramente preparato. Una conoscenza pratica, anche approfondita, delle varie strategie cognitivo-comportamentali non può essere sufficiente se non si è in grado, come insegnanti, di mantenere un buon livello di autocontrollo sulle proprie reazioni emotive e comportamentali. Appare evidente, di conseguenza, che la finalità formativa ultima sia di sviluppare, negli insegnanti, una mente. Si tratta di permettere l’acquisizione non già di informazioni quanto di aumentare la disponibilità mentale a riceverle, nel senso bioniano. Lo scopo è far apprendere (o far riscoprire) ai docenti la capacità di riflettere su ciò che accade all’interno del gruppo classe nel contesto di insegnamento-apprendimento anche nella propria interiorità. E, così come l’insegnante deve creare uno spazio fisico e mentale per il singolo alunno e il gruppo all’interno della classe al fine di riflettere e pensare insieme sul vissuto quotidiano, allo stesso modo il formatore dei docenti creerà un ambiente (fisico e mentale) per riflettere anche sui suoi stati emotivi relativi al suo operato per riflettere sulla sua esperienza, elaborarla e apprendere direttamente da essa. Sotto il profilo psicopedagogico, la “negoziazione di significati” all’interno del contesto classe si pone come elemento cruciale per la costruzione della conoscenza; ma tale nozione di contesto richiede anche una ridefinizione della funzione e del ruolo dell’insegnante. Questa figura, nell’ottica socio-costruttivista, non può essere concepita come “monade” isolata dal resto della classe, come un nodo essenziale ma piuttosto (benché non esclusivo) nella costruzione della trama comunicativo-educativa che si pratica nel gruppo (Gordon, 1991). Infatti la qualità e l’efficacia formativa di tale processo dipendono in gran parte dalla competenza comunicativa realmente esercitata dall’insieme dei partecipanti, ciascuno secondo i limiti delle capacità di controllo e di definizione della situazione resi possibili nelle situazioni specifiche. Per l’insegnante, essere nodo essenziale nella trama comunicativo-formativa del gruppo classe significa soprattutto responsabilizzarsi professionalmente rispetto alla necessità di padroneggiare per primo tale competenza. Infatti, l’insegnante, è primariamente responsabile della promozione di un “contratto di comunicazione” che renda il gruppo realmente capace di comprendere il senso e il significato formativo del contratto stesso (Gordon, 1991). È altresì professionalmente deputato a promuovere la competenza comunicativa necessaria al gruppo per favorirne l’avanzamento cognitivo e culturale. In ogni caso, qualsiasi contratto formativo, per quanto formalizzato e codificato, non può sperare di avere successo e di esplicare i suoi effetti positivi se l’insegnante non lo alimenta tramite l’impiego di una ulteriore competenza comunicativa: quella che analizza la comunicazione medesima ovvero la metacomunicazione. Watzlawick (1971), afferma in proposito che “la capacità di metacomunicare in modo adeguato non solo è la conditio sine qua non della comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata con il grosso problema della consapevolezza di sé e degli altri”. La metacomunicazione (in particolare se attivata dal docente) porta, da un lato, a riflettere e prendere atto del proprio e altrui sistema di codificazione linguistica e, dall’altro, a mettere in luce gli aspetti relazionali dell’interazione stessa; tutto ciò produce due effetti benefici, uno cognitivo ed un secondo di tipo emotivo-affettivo. Per quanto riguarda l’aspetto cognitivo si ha una migliore flessibilità cognitiva, che permette a sua volta il decentramento prospettico e una migliore comprensione del contesto formativo specifico; per quanto riguarda l’aspetto emotivo-affettivo, la metacomunicazione facilita i processi di percezione empatica e di comunanza reciproca che, a loro volta, favoriscono lo sviluppo di un clima positivo nel gruppo classe. A tale proposito sembra tuttavia necessario e importante precisare che la metacomunicazione funziona (vale a dire esplica effetti positivi nel contesto classe) quando al momento dell’interazione prevale la dimensione cooperativa e non quella di competizione-sopraffazione reciproca (Padoan, 2000). Il clima che di volta in volta vive la classe è quindi la chiave di lettura che mette in grado l’insegnante di decidere se attivare o meno questa struttura comunicativa molto delicata. Infatti, per la pragmatica della comunicazione umana, non può essere ignorato il fatto che si tratta di una dimensione che investe in modo molto delicato la diretta responsabilità deontologica dell’insegnante: la definizione di sé e degli altri nel corso dell’interazione comunicativa e quindi investe la natura della relazione piuttosto che il suo contenuto (Padoan, 2000). La formazione che lo psicologo deve attuare coi docenti riguarda, quindi, principalmente l’acquisizione di capacità autenticamente emotivo-relazionali e di apprendere dall’esperienza, quella quotidiana che giorno dopo giorno viene vissuta accanto ai loro alunni e agli altri insegnanti. Tutti i giorni, infatti, l’insegnante è chiamato a gestire la classe in chiave didattica ma soprattutto emotiva. Le difficoltà compaiono quando all’interno del gruppo degli alunni insorgono fenomeni di comportamento o quando vi sono ragazzi che hanno bisogno di cure più attente dal punto di vista emotivo, che non didattico. Così l’insegnante, da un lato, deve continuamente sollecitare e motivare l’alunno all’apprendimento, e dall’altra deve gestire, contenere, dare una cornice ai suoi vissuti affettivi. Lo psicologo ha, qui, una grande funzione pedagogica e psicologica, poiché, come lo stesso S. Freud sosteneva, al docente viene richiesta (come a tutti coloro che svolgono una funzione sociale) un minimo di conoscenza dei propri vissuti, al fine di sfruttare al meglio la propria creatività. Tuttavia la gestione delle emozioni da parte degli insegnanti, non si esaurisce all’interno della classe, poiché anche con i colleghi e superiori, spesso, possono emergere altre dinamiche, conflittuali e non, che possono alimentare ulteriormente lo stress. Obiettivo ultimo della formazione psicologica dell’educatore è di far crescere le complessive competenze emotive e relazionali dei bambini e dei ragazzi impegnati nel cammino scolastico; un obiettivo che presuppone una crescita preliminare o quanto meno parallela degli insegnanti stessi. Per tale motivo il docente non può essere lasciato solo in questo non facile cammino in considerazione anche del fatto che, come afferma Winnicott, “il training e la pratica psicoanalitica deve essere altamente valutata nel momento in cui un uomo o una donna desiderano essere educati a trattare con gli esseri umani, sani o malati che siano”. Non a caso è sentito sempre più urgente da parte di insegnanti e dirigenti e dai vari operatori scolastici, la necessità d’avere spazi e possibilità di pensare ai sentimenti e alle emozioni che li attraversano nell’operare quotidiano, ben consapevoli che la possibilità di “pensarli” costituisce un bisogno reale senza il riconoscimento del quale non ci si deve illudere di poter davvero lavorare meglio e davvero migliorare la scuola. Spazi che consentano sia a tutti indistintamente, di “pensare” e di “pensare i pensieri” (Freud, 1911; Klein, 1946; Bion, 1962). Di conseguenza la buona qualità della scuola è da considerarsi come conseguente, prima di tutto, alla buona qualità dei rapporti interpersonali i quali, a loro volta, sono possibili quando vi sono soggetti e gruppi emotivamente maturi, cioè capaci di essere in contatto con i propri sentimenti, capaci non solo di pensare razionalmente, ma anche di sentire. Sono individui e gruppi che si muovono nella prospettiva di lavorare insieme per individuare soluzioni di problemi e per dialogare, piuttosto che non nella prospettiva di stare insieme per difendersi o contrattaccare qualcosa o qualcuno; o per propagandare acriticamente quello che establishment decide che si deve pensare; o per affidarsi a qualcosa o qualcuno da cui aspettarsi soluzioni magiche per evitare lo sforzo di pensare e di ricercare insieme (Blandino, 2002). In altre parole il cambiamento della scuola dipende dal numero, e dalla quantità di individui e gruppi sociali che sanno porsi in rapporto con gli altri e tra di loro con uno stato mentale adulto il quale si caratterizza per il rispetto dell’interlocutore, per la tolleranza della frustrazione e del dissenso, per la pazienza e per la tendenza a cercare la verità delle cose piuttosto che non per la manipolazione cinica del consenso (Blandino, 2002). Tutti coloro che aspirano a svolgere un lavoro educativo, che per definizione è molto complesso perché opera con una utenza particolare, come sono i bambini e gli adolescenti ovvero i giovani, in crescita, dovrebbero intraprendere un serio processo di formazione personale e psicologico, orientato allo sviluppo di capacità relazionali. Lo strumento per eccellenza é l’analisi personale. Ma poiché non si possono obbligare le persone a farla né tutti sono disponibili per i più svariati e legittimi motivi, in alternativa potrebbe essere altrettanto utile almeno un percorso formativo di base (istituzionalmente predisposto) che vada davvero in profondità e conduca, chi dovrà gestire il processo educativo, a una sviluppare riflessione personale. (Blandino, 1997). L’importante è che gli insegnanti siano formati a riconoscere e gestire, non manipolatoriamente, le dimensioni emozionali e relazionali che accompagno l’apprendimento. In questa ottica, la scuola che si pone come principale artefice della formazione globale dell’educando, deve favorire una sua gestione democratica, cosa che implica però, l’uguaglianza delle opportunità educative, che sono indissolubilmente legate alle relazioni interpersonali. Così si esprime Chiari (1994): “l’uguaglianza delle opportunità interazionali (...) coinvolgono con pari forza aspetti cognitivi, affettivi, sociali e relazionali”. Attraverso le molteplici interazioni, nelle quali i ragazzi portano il loro bagaglio culturale ed emotivo, nascono valori e regole di comportamento frutto di un’esperienza comune. In modo particolare, in un articolo, Giugni (1994), presenta il problema come esprimibile attraverso la proprietà naturale dell’individuo di utilizzare l’energia psichica ai fini dell’azione. Giorgio Blandino, in un suo articolo, osserva: “non è possibile svolgere efficacemente il proprio compito educativo se non si è in uno stato mentale etico.” Il riconoscimento delle esigenze degli altri, sia come persone che come studenti, non può eliminare l’alterità, né facendo ricorso alla partecipazione emotiva, né a forme di identificazioni razionalmente dirette. Da questo punto di vista, si tratta di rapportarsi a qualcosa o a qualcuno che eccede le nostre capacità di conoscenza (Giugni, 1994). Nella consapevolezza che solo la diversità è alla base di ogni relazione, l’autore mette l’accento sullo stato mentale in cui dovrebbe trovarsi l’insegnante e sul tipo di relazione che intrattiene con gli studenti, relazione aperta al riconoscimento delle loro esigenze emotive. Le relazioni interpersonali, però, non riguardano solo pulsioni o stati d’animo, ma coinvolgono altre capacità meno implicite, infatti un’ “etica genitoriale” presuppone delle differenze non solo emotive tra insegnante ed alunno, ma sicuramente, l’insegnante, ha una maggiore integrazione culturale e una migliore capacità comunicativa. L’empatia come “capacità di sintonizzarsi cognitivamente ed emotivamente (con la mente e con il cuore) con gli altri” e con ciò che stanno vivendo, favorisce la conoscenza dell’altro e la buona qualità della relazione di aiuto. Numerose ricerche hanno trovato proprio nell’empatia uno dei fattori motivazionali più importanti del comportamento prosociale. Batson (2001), sostiene che c’è uno stretto collegamento tra empatia e altruismo. Evitare l’empatia porta al disinteresse per i bisogni degli altri. Esiste un’empatia centrata sull’altro e un’empatia focalizzata su se stessi. Si richiede uno sviluppo notevole della propria capacità cognitiva ed un esame accurato di quella persona in difficoltà che rifiuta l’aiuto, perché lo considera come una minaccia alla propria autostima, specie quando non è nella possibilità di ricambiare, può vedere l’aiuto come un segno di inferiorità dentro un rapporto che crea e mantiene dipendenza, da qualcuno definito “prosociale” o anche comportamento di aiuto. Due studiosi, Latané e Darley (1976), descrivono il comportamento di aiuto come un processo che comporta alcuni passaggi fondamentali: notare una persona, un evento, o una situazione che possono richiedere aiuto; interpretare il bisogno; assumersi le responsabilità di agire; decidere la forma di assistenza da offrire e il tipo di implicazione personale; realizzare l’azione. Uno dei principali fattori di sviluppo della psicosocialità è l’esperienza di una sicurezza affettiva, la presenza di modelli positivi (di amore altruistico) con i quali, già da bambini, ci si possa gradualmente identificare. È anche evidente, tuttavia, che tale responsabilità non può essere lasciato totalmente nelle mani dell’insegnante senza che questo sia supportato da un percorso personale, formativo e psicologico, di un certo tipo, e sostenuto in itinere nei mille dubbi, ansie e preoccupazioni che insorgono durante il percorso scolastico (Hoffman, 1987). Il processo di sviluppo della professionalità docente si configura come un processo di sviluppo interattivo e critico, come risultante di una complessa azione di specifici fattori (Piagentini, 2002), come un viaggio nel quale la professionalità acquista spessore e consistenza attraverso l’azione del soggetto stesso, la sofferenza delle proprie posizioni e decisioni, attraverso l’elaborazione progressiva della propria esperienza, attraverso la cura di sé (Jedlowski,1994; Cambi, 2001). La maturazione dell’identità professionale dell’insegnante si colloca, dunque, all’interno di un processo di apprendimento e di sviluppo complesso, inevitabilmente percorso da crisi e comunque legato all’esperienza e all’agire individuale; un processo nel quale gioca un ruolo importante la capacità di riflettere sul proprio lavoro, la capacità di rielaborare e riorganizzare le proprie esperienze con le loro perturbazioni, per maturare competenze e identità professionale (Schön, 1993; Fabbri, 1999). Guntrip afferma l’importanza della relazionalità o meglio “le dinamiche emozionali della crescita del bambino che sperimenta se stesso come un diventare una persona nelle relazioni significative, in primo luogo con la madre, quindi con la famiglia e infine con il sempre più vasto mondo esterno”. In tal senso le relazioni significative sono quelle che permettono al bambino di scoprire se stesso in quanto persona attraverso l’esperienza del significato che riveste per le altre persone e del significato che le altre persone hanno per lui, arricchendo in questo modo la propria esistenza con quei valori che derivano dalle relazioni umane e che rendono la vita piena di significato e degna di essere vissuta (Guntrip, 1971). Ancora una volta è sottolineata la fondamentale preparazione, per gli insegnanti, che preveda la formazione alla relazione tenendo conto del fatto che il Sé del bambino continua a formarsi nel corso del tempo e che, come caregiver, deve essere sufficientemente buono e prevedere l’insuccesso quale incentivo per la crescita (Winnicott, 2005). In linea coi teorici, Steele e Fonagy (1996), si riconosce che il bambino può avere diversi attaccamenti implicando così la presenza di modelli operativi interni multipli. Per ciò si può affermare che anche la relazione con l’insegnante dà luogo a modelli differenti ma importanti di attaccamento: i teorici kleiniani parlano di posizione riferendosi ad una costellazione di relazioni oggettuali, fantasie, angosce e difese cui un individuo farà probabilmente ritorno nel corso della vita. Specifici ambienti possono innescare diverse reazioni oppure un pattern relazionale sicuro o insicuro. Il bambino può infatti sviluppare relazioni scure o insicure con differenti caregiver (Steele, Steele, Fonagy, 1996) e la relazione con l’insegnante può essere senz’altro tra queste. Per questo motivo possono coesistere diversi modelli operativi interni nella mente del bambino nel contempo sicuri e insicuri e il modello che diverrà dominante nell’adulto può dipendere dall’importanza dello specifico caregiver nella vita del bambino. L’insegnante è partecipe di un’esperienza condivisa, nella quale l’alunno non è soggetto neutrale ma parte integrante del contesto interpersonale. “Il concetto di mente individuale isolata è una finzione teorica o un mito che deifica l’esperienza soggettiva di diversità individuale… l’esperienza della diversità richiede un legame relazionale intersoggettivo che incoraggia e sostiene il processo di auto-delineazione in tutto il ciclo vitale” (Stolorow e Atwood, 1992). I docenti sono parte integrante del campo relazionale che include, contemporaneamente, la soggettività, l’individualità e l’intersoggettività: l’uomo, infatti, raggiunge la propria individualità e rende la propria esperienza unica, significativa e personale attraverso la relazione (Mitchell, 2000). “Tutti gli individui vivono un’esistenza comune, continua, coi loro ambienti necessari e l’ambiente umano include relazioni costanti con gli altri”. Ed effettivamente, le interazioni tra il bambino e il suo ambiente sono capaci di modellare una serie praticamente infinita di risorse umane potenziali per fare in modo che si adeguino alla nicchia interpersonale cui quelle risorse finiscono per adattarsi (Sullivan, 1953). Lo stesso Bowlby ritiene che l’attaccamento intimo ad altri esseri umani costituisce il perno intorno a cui ruota la vita di una persona, non solo nell’infanzia, nella pubertà e nell’adolescenza ma anche negli anni della maturità e poi ancora nella vecchiaia. Tant’è che la visione corretta della personalità riguarda ciò che fanno le persone l’una con l’altra e con altri, più o meno personificati. Un insegnante con una formazione alla relazione sa, quanto alcune interferenze di tipo emotivo-affettivo, possono influenzare il percorso d’apprendimento e relazioni coi pari e utilizzerà, ove necessario, le strategie, personali e professionali, utili ad accogliere, contenere, ascoltare empaticamente e comunicare al fine di creare l’ambiente (fisico e psicologico) utile al superamento delle difficoltà che la scuola, inevitabilmente produce, coi suoi nuovi saperi e le sue richieste. Il tutto nel tentativo di offrire nuove, e più sicure, esperienze di attaccamento positive, per ristrutturare e correggere i prototipi internalizzati tramite nuove interazioni con altri adulti significativi e coi pari coinvolti affettivamente. Si tratta, in ultima analisi, di offrire quella che Heisenberg chiama “esperienza emozionale correttiva” attraverso una mente (quella del docente) che, prima di poter agire come regolatrice e contenitore degli stati affettivi negativi del bambino, ha già ripristinato il proprio senso di benessere. Il “luogo” dell’apprendimento si trova ovunque la mente diventi viva (Hillman, 1997). Si tratta altresì, di “far parlare l’anima dell’uomo stesso, in modo che egli comprenda dall’interno come stanno le cose per lui” (Jung, 1978). Solo in tal modo può essere possibile favorire un reale, proficuo e funzionale apprendimento che è realizzabile grazie alla capacità dell’alunno di riflettere sui propri vissuti interiori e sulla propria esperienza, supportata dalla relazione sicura col proprio insegnante-caregiver e con il gruppo classe. 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