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PSYCHOMEDIA
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Coppia e Famiglia


Il rapporto con le famiglie

di Anna M. Pandolfi

(lavoro presentato al convegno "Strumenti Psicoanalitici in Psichiatria. Scenari Terapeutici con pazienti gravi" organizzato a Bologna, 24 Maggio 1997 dal Centro Psicoanalitico di Bologna)


È opinione ormai abbastanza diffusa che un'attenzione specifica ai rapporti con i familiari dei pazienti gravi e spesso il trattamento diretto anche della famiglia siano parte integrante della presa in carico diagnostica e terapeutica di pazienti.
Questa consapevolezza, molto diffusa negli Stati Uniti, in Francia e paesi francofoni è ancora relativamente poco nota e utilizzata nel nostro Paese.

In Italia, che pure è stata teoricamente all'avanguardia di una nuova concezione della psichiatria, le difficoltà ma anche le risorse presenti nelle famiglie dei pazienti non hanno ricevuto in generale l'attenzione che meritano e che può essere di consistente aiuto non sol ai pazienti ma anche agli operatori, riducendo almeno in una certa misura le estenuanti difficoltà del loro lavoro. Questa relativa disattenzione è un fenomeno presente sia negli ambienti istituzionali che presso gli operatori privati. Dunque lo scopo di questo lavoro è di presentare, sia pure assai concisamente, la prospettiva della moderna clinica psicoanalitica della famiglia e delle sue disfunzioni e di come essa si costituisca come strumento, in una buona parte dei casi, irrinunciabile per la comprensione e la cura dei pazienti psichiatrici gravi, massimizzando quindi tutte le risorse a disposizione e minimizzando le difficoltà.

Lo scopo dell'attenzione cognitiva ed emotiva dei clinici, nei confronti della famiglia dei pazienti psichiatrici non è necessariamente quello di curare e guarire la famiglia in modo completo e definitivo, evenienza che può effettivamente darsi, ma solo in una certa percentuale di casi, quelli che riguardano le famiglie a patologia non troppo elevata e senza eccessive componenti narcisistiche e perverse ; lo scopo di questa attenzione è invece soprattutto quello assai meno velleitaristico di ridurre l'influenza che la famiglia disturbata e disturbante ha nel mantenimento e nell'aggravamento della condizione del paziente, e nel liberare almeno in parte quest'ultimo da quei vincoli interpersonali, generalmente molto stretti e primitivi che concorrono a impedirgli una modificazione significativa del suo modo di vivere e utilizzare al meglio il proprio trattamento terapeutico e riabilitativo fruendo di un'alleanza il meno possibile conflittuale con gli operatori che a vario titolo si occupano di lui. Se per esempio il paziente percepisce che non c'è alcuna attenzione e tanto meno veruna alleanza tra gli operatori e la sua propria famiglia, può sentirsi intrappolato in un conflitto tra l'appartenenza emotiva a due differenti famiglie in lotta tra loro, fenomeni per ceri aspetti analogo a certe drammatiche situazioni osservabili nell'ambito delle adozioni e affidamenti minorili.

Questo primo esempio però ci induce a segnalare l'importanza fondamentale di stabilire e poi mantenere un'equidistanza cognitiva ed emotiva nei confronti del paziente da un lato e dei suoi familiari dall'altro, riuscendo a compiere identificazioni empatiche e funzionali con gli uni e con gli altri, ma evitando nel contempo che si instaurino alleanze disfunzionali che possiamo definire perverse, sia con il paziente, contro i familiari, che con i familiari contro il paziente, fenomeno che segnalo perché si tratta di una trappola più o meno criptica in cui è facile cadere.

I ritardi e le difficoltà presenti nel nostro Paese in questo settore riconoscono una serie di motivi dei quali il principale si può individuare nel fatto che per lunghissimi anni sia la psicoanalisi che la psichiatria tradizionale, ma successivamente anche la psichiatria dinamica ad orientamento psicoanalitico, ma anche ad orientamento cognitivista e comportamentista, per il oro stesso modello teorico di riferimento, hanno sempre considerato il disturbo psichico come fatto e processo, strettamente o prevalentemente individuale. E questo orientamento permane nell'ambito della prassi clinica anche oggi nonostante che ormai il modello relazionale sia riconosciuto a livello teorico ed eziopatogenetico da tutti i più recenti modelli psicoanalitici che informano la prassi psichiatrica. Si può affermare che per quanto concerne la visione monistica dell'essere umano, la psichiatria biologica e la psicoanalisi, pur così differenti tra loro per impianto, metodologia di pensiero e prassi clinica, si apparentano per quanto riguarda una assai modesta considerazione dei problemi dei familiari dei pazienti. Su un versante differente da quello della psicoanalisi, era difficile, se non in casi particolari, che si potesse utilizzare largamente il modello sistemico in quanto questi tendeva, soprattutto ai suoi inizi, non solo ad escludere tutti gli altri tipi di intervento, in particolare le terapie biologiche, ma soprattutto a vedere nel solo "gioco familiare" e nelle "patologie della comunicazione", la genesi del disturbo psichico. Bisogna tuttavia riconoscere che molte lezioni teoriche dell'approccio sistemico, sono state irrinunciabili per la comprensione della rete disfunzionale familiare e della patologia che da essa emana.

Nel corso degli anni ci si è comunque resi conto che la multilivellarità, multidimensionalità e complessità dell'essere umano, rendevano indispensabile un approccio che fosse capace di usare vari modelli e vari strumenti metodologici e tecnici corretta mente integrati tra loro. A questo approccio, l'unico veramente in grado di affrontare le patologie psichiatriche gravi, si è opposto spesso il narcisismo settoriale dei vari modelli, il fraintendimento e l'uso svalutante del termine e del concetto stesso di eclettismo, l'inerzia caratteristica di molti operatori, per ceri versi non dissimile da quelli di tutti gli esseri umani e degli stessi pazienti, ad affrontare cambiamenti.

Sicché è dovuto passare molto tempo perché ci si rendesse conto che il disturbo psichico non si confina all'interno dell'individuo separato dal suo ambiente, ma al contrario individuo e ambiente sono consostanziali e non separabili in due entità distinte. Questo cambiamento di prospettiva si è reso possibile a livello teorico e nella prassi terapeutica bipersonale con l'intervento della psicoanalisi relazionale e più recentemente di quella intersoggettiva e ciò è stato possibile perché si è potuto meglio conoscere la dinamica delle relazioni oggettuali interne, soprattutto nelle sue versioni più primitive, ma anche la particolare stretta connessione esistente tra oggetti interni e oggetti esterni e addirittura l'appartenenza degli oggetti a entrambi questi mondi, interno ed esterno. Ciò che ancora in parte sfugge è che questa stretta interrelazione tra mondo interno e mondo esterno non si confina ai primi anni di vita, nel corso i quali è per la sopravvivenza e lo sviluppo mentale, ma che tale stretta interrelazione e interattività perdura in forme varie e con varia intensità anche nell'età giovanile e adulta, quando non sarebbe più necessaria, ma anzi può svolgere, se cronicizzata, un ruolo antievolutivo e alla lunga patogeno. Un altro dato a ciò conseguente da ricordarsi, è che i fattori familiari mantengono la loro influenza, spesso assai maggiore di quanto si pensi, anche nell'età giovanile e adulta, quando i processi evolutivi di separazione - individuazione siano stati per varie ragioni bloccati e distorti. Oggidì esiste infatti un generale consenso relativamente all'importanza dei traumi reali i quanto fattori eziopatogenetici di rilevante importanza ; ora, molti ambienti familiari mantengono con il concorso attivo, per quanto inconsapevole, del paziente, la loro carica micro e macrotraumatogena e patogena lungo l'intero corso della vita. Si pensi per esempio a certi ambienti familiari pesantemente e cronicamente squalificanti e disempatici.

La natura di queste difficoltà e ritardi risiede nel fatto che la psicoanalisi da un lato non disponeva ancora fino a 20-30 anni fa di una serie di nozioni teoriche relative alle prime fasi evolutive e relazionali, e dall'altro non era spinta dalla tipologia dei suoi tradizionali pazienti, relativamente evoluti in termini di rappresentazioni separate ed individuate del Sé e dell'oggetto, a occuparsi del paziente nell'ambito del suo contesto familiare. A queste ragioni del ritardo - difficoltà ad accostarsi alla famiglia dei pazienti e alla loro patologia, più spesso presente di quanto non si credeva molto verosimilmente, va aggiunta anche la particolare posizione di Freud al riguardo, il quale, come noto, pur avendo perfettamente intuito l'importanza che la famiglia aveva nell'evoluzione della cura, importanza da lui considerata solo nel suo versante negativo e sabotatore, aveva pensato di aggirare quest'ostacolo escludendo tassativamente la famiglia dal trattamento, mediante quindi una misura burocratica e non clinica. Il che se aveva o poteva avere dei vantaggi nel caso di pazienti "nevrotici", era incongruo nel caso dei pazienti gravi. Al contrario di Freud infatti, Fredern, che fu tra i primi psicoanalisti ad occuparsi di pazienti psicotici, ritenne fondamentale occuparsi anche della famiglia, avendo fin da allora intuito i potentissimi legami presenti e agenti nelle famiglie dei pazienti, soprattutto quelli ad alta patologia. Credo inoltre che un altro motivo delle difficoltà ad occuparsi anche della famiglia dei pazienti gravi, è che queste famiglie fanno paura e presentano difficoltà intrinseche ad essere approcciate, capite, e, per quel tanto che è possibile, modificate, difficoltà forse maggiori di quelle costituite dai singoli pazienti. Ciò non solo per la particolare intrinseca numerosità e complessità delle variabili in gioco, ma anche per l'intensità, violenza e, talora, ineluttabilità delle forze, delle angosce e delle passioni che animano i legami familiari, ovvero quando questi sono carenti o inesistenti, la deserticità psichica con cui ci confrontano.

Un impulso particolare allo studio e al trattamento delle famiglie di pazienti gravi, ci viene dalla Francia dove P. C. Recamier, del quale piangiamo la recente scomparsa, ha da ormai molti anni creato con S. Decobert, D. Anzieu e molti altri valenti colleghi, un'Associazione Psicoanalitica che si occupa di dinamiche familiari, e che edita una rivista su tali temi. Altro impulso di notevole efficacia, ci è provenuto nel passato dal mondo anglosassone con la scuola di I. Boszormenyi - Nagy, G. Spark, M. Bowen, T. Lidz e Stierling che anno approfondito la terapia familiare, in particolare mettendone in luce la sua caratteristica intergenerazionale. Più recentemente G. Brown e coll., in Inghilterra, hanno elaborato il concetto teorico e pragmatico della Expressed Emotion (E. E.). questi autori avevano infatti osservato attraverso studi empirico - epidemiologici che si poteva osservare un maggior tasso di recidive in pazienti schizofrenici i cui genitori, mediante interviste individuali standardizzate, mostravano una particolare tendenza all'ipercritica, all'ostilità e all'ipercoinvolgimento emotivo. Ulteriori ricerche dimostrarono anche che tali attitudini presenti nei genitori, si costituivano come fattori predittivi significativi del funzionamento sociale dei pazienti dopo la dimissione dall'ospedale.
Ma negli Stati Uniti, parallelamente al diffondersi della convinzione della natura esclusivamente biologica della schizofrenia, i cui risvolti psicologici sono letti come un prodotto secondario del deficit cerebrale, si sviluppò un grande entusiasmo per i modelli psicoeducativi a orientamento comportamentale da applicarsi a famiglie con un membro schizofrenico. Tale tipo di intervento è illustrato nel libro di Seltzer, nel quale si può osservare come coerentemente al modello eziopatogenetico sostenuto dagli autori, non esiste alcuna capacità, anzi alcun interesse, a interrogarsi sulla personalità e sulle attitudini affettive e relazionali dei familiari, e meno che meno sul valore e significato del clima emotivo - affettivo, comunicativo e relazionale esistente nella famiglia come codeterminante del disturbo o delle sue varie espressività ; per esempio chiedendosi il come e il perché alcuni pazienti presentino quasi di regola delle ricadute poco dopo il rientro in famiglia dopo la dimissione. E' interessante a questo proposito segnalare come le potenti Associazioni dei familiari di pazienti psichiatrici, operanti negli Stati Uniti, si siano recisamente opposte ad ogni forma di ricerca che tendesse a valutare l'Expressed Emotion. Come si vede questo costituisce un estremo viraggio reattivo alla concezione dio marca sistemica del cosiddetto "paziente designato", posizione nella quale la patologia familiare era pesantemente chiamata in causa, con una tendenza indubbiamente e ingiustamente colpabilizzante.

Gli psichiatri sono ben consapevoli e praticamente da sempre dell'importanza e dell'influenza della famiglia e dei familiari nelle vicende dei loro pazienti, in particolare di quelli molto gravi. Sanno anche gli psichiatri che la famiglia è, nella vita del paziente grave una presenza ineluttabile e irrinunciabile sia nel male che nel bene. Ineluttabile perché l'appartenenza al gruppo naturale in cui si nasce è un dato che fa parte dell'umana esistenza, così come le vicende di tale gruppo sono delle codeterminanti delle vicende di ogni vita individuale. Irrinunciabile perché è molto spesso la famiglia che si accolla in più o meno larga misura il compito dell'assistenza e delle cure necessarie alla sopravvivenza del paziente.
Da questo punto di vista appare quanto meno bizzarra la tendenza ad escludere o a marginalizzare la famiglia del paziente grave, quanto meno a non curarsene granché, per poi chiedere o pretendere che si occupi del congiunto malato in maniera empatica e comprensiva accollandole un compito difficile, a volte impossibile. Fatto, questo, che concorreva e forse ancora concorre a spiegare quella che si può definire la sindrome della porta girevole, per cui un paziente viene a più riprese, ricoverato, dimesso e riconsegnato alla famiglia senza che questa abbia nel contempo ricevuto un consistente e significativo supporto terapeutico che la renda più idonea o meno inidonea al compito, dopodiché il paziente viene di nuovo ricoverato e poi nuovamente dimesso secondo modalità ripetitive che ovviamente tendono a cronicizzarsi, come anche gli esperimenti sulla Expressed Emotion paiono dimostrare.

E' ormai abbastanza superato il periodo storico in cui la famiglia veniva esclusa, marginalizzata e spesso colpabilizzata in modo più o meno rozzo, talora privo di tatto, se non crudele con conseguenze jatrogene spesso gravi o gravissime su tutta la condizione clinica, sul destino e la sopravvivenza stessa del paziente. Alcune sacche di questi comportamenti ancora permangono ma appartengono alla patologia professionale e individuale di singoli operatori.

Tuttavia dobbiamo comprendere che l'atteggiamento escludente, marginalizzante nei confronti dei familiari è ancora in parte dovuto alla bizzarra idea che essi non dovrebbero "intrudere" nella relazione terapeuta - paziente, quasi che essi dovessero essere magicamente al corrente e per giunte d'accordo con la rigorosa delimitazione di un mitico setting psicoanalitico classico, tra l'altro trasferito in modo assolutamente incongruo nella situazione psichiatrica, esempio di una cattiva utilizzazione della psicoanalisi. Ma questa singolare posizione ha anche a che vedere con la difficoltà cognitiva a percepire anche i familiari come portatori di una loro eventuale patologia, non solo in quanto si presenta in modo più criptico di quella dei pazienti, ma anche perché, dato che è il paziente ad essere percepito come malato e molto malato, si tende a percepire pregiudizialmente, per un effetto di confronto - contrasto, i familiari come più sani o "sani tout court".
Tanto è vero che quando la patologia viene percepita dall'operatore, questi è spesso indotto a dare giudizi moralistici o estetici, per lo più colpabilizzanti e che di perciò stesso escono dalla prassi clinica. Inversamente può accadere che quando i familiari non sono marginalizzati o esclusi, si accorda loro una singolare credibilità, anche qui pregiudizialmente superiore a quella del paziente ; tendenza che può favorire un'alleanza perversa tra dottore e familiari con esclusione del paziente, il quale a sua volta potrà essere indotto ad interpretare questa alleanza come un complotto ai suoi danni. Da queste considerazioni deriva la necessità di un'attenta posizione di equidistanza, sia cognitiva che emotiva, nei confronti del paziente e dei suoi familiari, posizione necessaria ma certo non facile ad attuarsi e a mantenersi.

Ho già espresso in un altro lavoro che è mia profonda convinzione che, in quanto "dottori", noi dobbiamo utilizzare con i familiari dei nostri pazienti un'attitudine strettamente clinica, considerandoli nel nostro foro interiore, mediante la nostra capacità empatica e l'ascolto transferale - controtransferale, alla stregua di pazienti, anche e anzi soprattutto se essi mai potranno tollerare di essere considerati e di considerarsi tali. Soprattutto per questo motivo sono persuasa che la famiglia non deve essere presa in carico in modo esplicito (e questo vale anche per i colleghi che inviano agli esperti "familiaristi") in quanto "famiglia malata che è necessario vada a farsi curare". Anche quando ciò sia clinicamente vero, e spesso lo è, si tratta però di una verità intollerabile per la famiglia e tanto più quanto più essa è davvero e molto malata. Questo modo di presa in carico terapeutica della famiglia in quanto malata, è ingenuo e antianalitico. Esso è stato a mio avviso una delle cause dei numerosi "drop out" dell'approccio sistemico, che pretendeva che la famiglia rinunciasse d'emblè alle complesse operazioni circolari di proiezioni e di identificazioni proiettive che gli avevano permesso di esportare la follia su uno dei membri, il cosiddetto paziente designato. A parte il fatto che non mi piace questo tipo di denominazione, anche se non è facile trovarne una più convincente, questo tipo di procedura esitava spesso, come era prevedibile, non solo nell'abbandono traumatico della terapia, ma in gravi angosce persecutorie, e una volta superata eventualmente la barriera del diniego, in sensi di colpa inelaborabili a causa della profonda ostilità vendicativa che una tale presa in carico destava nella famiglia.

La famiglia deve piuttosto essere presa in carico in modo esplicito con uno scopo conoscitivo e come un'alleata dei dottori a beneficio del paziente. Si obietterà che in ciò esiste una buona dose di manipolazione e ciò è apparentemente vero ; dico apparentemente in quanto in realtà tale condotta è dettata semplicemente dalla necessità di mettersi al livello di funzionamento della famiglia, e di non contrastare l'ideologia, per quanto patologica, che la sostiene e con la quale a noi si presenta.

Non diversamente facciamo del resto, con il paziente che ci racconta il suo delirio. Non stupisca troppo questa similitudine che ad alcuni potrà apparire forzata ; non si rischia infatti di sbagliare granché se si ipotizza che i familiari dei nostri pazienti psichiatrici sono spesso disturbati quanto i loro congiunti "ufficialmente" malati, in quanto, come tali, diagnosticati anche se le ripetitive patologie hanno evidenze ed intensità molto differenti dal punto di vista fenomenico.
Chi si occupa di famiglie sa infatti benissimo quanto malate possano essere le persone cosiddette "sane", soprattutto nel senso di distorsioni narcisistiche e perverse della personalità e della relazionalità.

La psicoanalisi è oggi uno strumento che permette di considerare non solo la patologia individuale artificiosamente avulsa dal contesto familiare, patologia individuale che è stata il suo ambito tradizionale quando il modello prevalente era quello intrapsichico, ma anche di comprendere trattare il nuovo oggetto - paziente costituito dalla famiglia della quale il paziente si costituisce come l'evidenza fenomenica più appariscente, in quanto membro consenziente e attivamente partecipe del gioco familiare, inconscio ma potentissimo, che fa di lui il matto, il dittatore folle, la delusione atroce, il persecutore, la croce della famiglia, il rappresentante eccelso, la vittima sacrificale e via con una serie di configurazioni in cui si declinano i miti, le fantasie, i segreti di tutti e di ciascuno.

La moderna clinica lettura psicoanalitica della famiglia, permette di uscire dalla posizione ideologica caratteristica sia della psicoanalisi unipersonale intrapsichica inidonea a percepire la situazione del paziente nel contesto familiare, sia quella caratteristica dell'approccio sistemico che inversamente ma in modo sostanzialmente speculare vedeva la patologia del paziente come il prodotto esclusivo del gioco familiare. Noi ci poniamo invece ad un livello di maggiore strazione, per così dire, al di sopra della psicoanalisi e al di sopra della sistemica. Le procedure che via via nel corso degli anni abbiamo messo a punto, ci permettono di avere una visione per così dire bioculare, con lo sguardo rivolto contemporaneamente sia all'intrapersonale che all'interpersonale, e ciò tanto nei confronti del paziente quanto nei confronti della famiglia e dei suoi singoli membri.

I fattori familiari e le loro complesse relazioni attraversano e sostanziano sia la patologia individuale che quella familiare propriamente detta. A questo proposito è importante sottolineare che dal punto di vista metodologico la possibilità di considerare l'influenza dei fattori familiari passati, ma soprattutto attuali, non passa necessariamente per una concreta consultazione familiare, anche se questa è molto spesso auspicabile, ma si realizza soprattutto mediante una particolare prospettiva e di conoscenza e di intervento. In questo senso il termine "terapia familiare" può essere fuorviante. Infatti talora non è necessario , né utile procedere ad una terapia familiare propriamente detta. Non solo il rapporto con la famiglia deve sempre iniziarsi con una modalità consulenziale volta ad un approfondimento conoscitivo delle dinamiche relazionali, sia che tale consulenza avvenga all'esordio della psicopatologia, che è la condizione migliore, sia che avvenga a disturbo già conclamato e quando ci si trova in una situazione di stallo terapeutico. A mio modo di vedere, questo assetto consulenziale può e in molti casi deve essere mantenuto anche quando di fatto ci si avvia su un percorso terapeutico nel senso sostanziale del termine.

Voglio ancora aggiungere che è un errore epistemologico e clinico pensare che, soprattutto nella fascia dei pazienti gravi, esistano casi individuali e casi familiari, poiché il versante individuale e quello familiare sono due facce, non le uniche verosimilmente, della realtà interna ed esterna del paziente. E' solo il criterio clinico che ci indicherà se occuparci dell'un versante o dell'altro o per meglio dire quale privilegiare nel timing delle nostre valutazioni diagnostiche e poi eventualmente terapeutiche. In linea di massima si può affermare che nella fascia dei pazienti gravi una compromissione più o meno grave dell'assetto e del funzionamento familiare in senso patologico, è praticamente sempre presente. Il fatto che la patologia familiare non sia approcciabile, e ciò tanto più quanto più essa è severa, non significa che non sia utile per noi rendercene conto. In più di un caso mi è successo che solo sulla base della conoscenza e della comprensione di un gioco irriducibilmente patologico e chiuso a qualsiasi cambiamento, ho potuto aiutare il paziente a poter rinunciare alla giusta ma velleitaria sua attesa magico - onnipotente, che la sua famiglia magicamente disfunzionante potesse cambiare e diventare quella famiglia di cui aveva sempre avuto bisogno e che era sempre mancata. Passo necessario perché sia possibile realizzare una collocazione extra familiare, senza che questa debba essere percepita come espulsiva dal paziente e come punitiva dalla famiglia.

Da alcuni anni abbiamo ulteriormente modificato alcune nostre procedure e tendiamo ad utilizzare contemporaneamente sia il trattamento individuale che quello familiare. Ci sembra infatti che questa modalità ottenga buoni risultati anche perché costituisce, sia agli occhi del paziente che a quelli dei familiari, la viva testimonianza (Recamier direbbe un'azione parlante), del fatto che ci si prende cura sia dell'aspetto individuale che di quello familiare.

Mi pare a questo punto opportuno illustrare alcune caratteristiche della famiglia quale nostro nuovo oggetto di comprensione e di intervento, poiché solo così potranno essere acquisiti come significativi e convincenti alcuni criteri metodologici che permettano di capire queste famiglie ed eventualmente di trattarle, ma soprattutto ci indicheranno ciò che è opportuno e possibile fare e ciò che è meglio evitare di fare :

1. Le famiglie delle quali qui trattiamo si presentano spesso come gruppi tendenzialmente narcisistici, poco differenziati al loro interno sia nel senso che poco netti sono i confini tra i loro vari membri e i vari psichismi, tanto che più di gruppo è stato evocato lo stato di amalgama, sia nel senso che sono poco chiare le distinzioni generazionali e quindi si rendono opache le differenze in termini di ruoli, si potere e di rapporti di dipendenza e di autorità tra i due fondamentali sottogruppi della famiglia mediamente ben funzionante, il sottogruppo dei genitori e quello dei figli. Al posto di questa struttura fisiologica della famiglia, almeno per quanto ci è nota da due o tre secoli in qua, e che è funzionale a quegli scopi generali chiamati da T. Lidz, e che nella famiglia disfunzionale vengono invece sovvertiti, si instaura una rete di alleanze perverse che tendono a bloccare il normale ciclo evolutivo della famiglia, nel suo insieme e dei suoi vari membri. In questa ottica una nostra prima cura sarà quella di restaurare o qualche volta cercare di instaurare per la prima volta, una certa fisiologia della mappa familiare, per esempio ottenendo di avere come interlocutori parentali entrambi i genitori se ciò non è concretamente possibile nei primi incontri, introducendo il genitore assente nel colloquio, non colludendo tacitamente che lui o lei semplicemente non esistano. Diversamente avvalleremo con il nostro solo comportamento questa mappa disfunzionale. Sappiamo bene come certe assenze siano delle massicce presenze. E tuttavia talora dobbiamo lasciare passare del tempo perché queste correzioni possano avere luogo, per esempio quando percepiamo che la relazione assolutamente diadica e privilegiata, spesso a colorazione incestuale, tra madre e figlio, non tollera per il momento neppure la più piccola messa in crisi che già l'evocazione del terzo potrebbe far precipitare. Così come accetteremo che sia il genitore, incapace almeno all'inizio di ridurre il suo assoluto possesso controllante sull'appendice - figlio, a darci indicazioni sul modo di comportarci con il figlio. Ciò comporta che :

2. Il funzionamento psichico di queste famiglie si attesta in generale su livelli primitivi con il prevalere di meccanismi di difesa poco evoluti e tendenzialmente condivisi, anche se apparentemente contestati. Le relazioni oggettuali sono anch'esse primitive e gli investimenti sono più narcisistici che oggettuali, il che significa che per esempio i figli sono percepiti più come l'estensione narcisistica di sé o del coniuge, o delle famiglie di origine che non come persone distinte. Questo insieme di osservazioni ci mostra che la famiglia, in modo tutto particolare quella ad alta patologia, funziona come un unisono, per quanto differenti possano superficialmente apparire i comportamenti. Infatti se ad un livello più superficiale essa appare intessuta di conflittualità e di incomprensioni disperanti, ad un altro livello vediamo all'opera uno straordinario, per quanto inconsapevole, "gioco di squadra" ; gioco che ha lo scopo condiviso, anche se all'apparenza negato, di mantenere lo "status quo" e di ottenere il cambiamento. E ciò in quanto il cambiamento è percepito come terrifico da tutti e da ciascuno perché foriero di una di una differenziazione fantasmata come una intollerabile separazione di odore mortifero.

Per quanto bizzarro possa apparire insieme all'odio distruttivo, esiste in queste famiglie una serie di profondissimi legami anche amorosi e colmi di devozione. Il compito di noi terapeuti è di disvelare, quando ciò sia possibile, questa seppellita quota libidica e favorirne una trasformazione evolutiva e differenziatrice. Poiché abbiamo presente la profondità e intensità dei terrori relativi al cambiamento e delle gravissime angosce di separazione che esso sottende, siamo generalmente assai cauti nel promuovere o anche solo consentire dei cambiamenti, magari a gran voce invocati da tutti, e ci rendiamo garanti della coesione familiare che per quanto patologica possa essere, costituisce a volte una salvaguardia nei confronti di pericoli maggiori. E tuttavia è nostro compito, e no è certo compito facile cercare di trarre la famiglia dal suo disperante immobilismo e restituirla ad una possibilità di flessibile adattabilità alle vicende di tutti e di ciascuno o se si vuole, di immetterla nel fluire del tempo. L'esperienza di molti anni di lavoro con le famiglie mi ha persuasa che già il fatto che ci si occupi anche di loro e della loro difficile situazione, riduce il disperante senso di abbandono e di impotenza e ostilità in cui i familiari vivono e restituisce loro quel barlume di speranza che "qualcosa si sta facendo", riducendo per tale via gli impulsi distruttivi rivolti al congiunto malato come l'unico responsabile della situazione.

3. La comunicazione verbale è in queste famiglie tendenzialmente squalificata come reale tramite comunicativo, anche se può avere superficialmente l'apparenza della normalità, fino a diventare un caotico insieme di agiti verbali usati per colpire, squalificare, sedurre, confondere, immobilizzare, etc.. La comunicazione in queste famiglie è spesso assai disturbata e fuorviante, anche se sembra eccessiva la distinzione di chi interpreta la natura profonda del disturbo familiare come un solo ed esclusivo disturbo della comunicazione. Infatti come psicoanalisti ci chiediamo da dove nasce tale disturbo e che scopi persegue. La dequalificazione della comunicazione verbale è anche determinata, per quella indifferenziazione degli psichismi e per l'assetto sostanzialmente narcisistico prima evocati, dalla convinzione di sapere già ciò che l'altro dirà, affermerà, negherà, e per quale motivo farà ciò. Quindi un reale ascolto per ciò che l'altro dice è in generale assai ridotto ; fatto che spiega almeno in una certa misura il senso di inutilità a comunicare presente in molti membri di queste famiglie e che spesso invade con reazioni di rabbiosa impotenza anche gli operatori. Di nuovo osserviamo l'indistinzione e confusione tra sé e l'altro, l'espandersi dei fenomeni proiettivi e di identificazione proiettiva, meccanismi spesso in queste famiglie intensi e pervasivi sì che la comunicazione degli stati affettivi avviene per questi canali estremamente primitivi che rendono inutilizzata la comunicazione verbale. Del pari anche la nostra comunicazione sarà più proficua se terrà in conto più la comunicazione comportamentale che quella verbale, che sovente scivola inavvertita su queste persone. Le interpretazioni, come noi siamo abituati a considerarle e ad usarle, sono spesso infatti inefficaci. Sicché dare la parola via via a ciascuno perché esprima il proprio punto di vista e avendo cura che non sia interrotto (se non da noi operatori, quando lo riteniamo necessario), cominciando dai due genitori per passare solo dopo ai figli in ordine di fratria, segnala attraverso delle azioni, appunto parlanti che : a) noi teniamo in considerazione in modo paritetico i punti di vista di ciascuno, indipendentemente dal loro statuto di "pazienti" o di "sani", e che quindi ognuno ha diritto alla sua "verità", concetto questo peculiarmente psicoanalitico. b) che come "dottori" abbiamo in mente una mappa della famiglia che contempli e differenzi i due sottogruppi fisiologici, quello dei genitori e quello dei figli. c) mostriamo che siamo interessati a ciò che ciascuno ha da dire, senza essere imbrigliati da pregiudizi. d) mostriamo altresì che è possibile passare dagli agito verbali a una comunicazione, la quale ha come caratteristica specifica la capacità e la volontà di ascoltare e capire quello che ciascuno ha da dire.

Questo insieme di condotte da parte nostra ha spesso l'effetto di promuovere un primo abbozzo di differenziazione e di riportare un certo ordine e senso in una situazione confusiva e confusa.

In queste famiglie dall'assetto prevalentemente narcisistico e indifferenziato dovremo sempre considerare gli effetti che ciò che facciamo e diciamo a qualcuno, hanno su tutti gli altri : infatti in tutti i gruppi, e quindi e specialmente in queste famiglie, è fondamentale rammentare la caratteristica di circolarità e di reticolarità dei comportamenti e delle comunicazioni. Se per esempio noi rileviamo, senza alcuna connotazione rimproverante, una certa tendenza protettiva, poniamo, della madre nei confronti del figlio, ciò potrà essere utilizzato dal padre nel dare ragione a lui, che dell'iperprotezione aveva sempre rimproverato al moglie, la quale a sua volta aveva sempre rimproverato al marito di essere rigido ed esigente. La madre uscirà perdente, frustrata e ostile verso di noi ; il marito uscirà vincente e trionfante, e troverà illusoria giustizia dall'essere stato tendenzialmente escluso dall'alleanza madre - figlio. L'ostilità intracoppia parentale sarà aumentata. L'alleanza della madre sarà probabilmente compromessa, quella del padre potrà trasformarsi in un'alleanza perversa con noi (cioè non a beneficio del figlio ma contro la moglie). Meglio avremmo operato se avessimo mostrato il nesso circolare esistente nella triade, per cui la madre è iperprotettiva in quanto il padre è rigido e che questi è rigido in quanto la madre è iperprotettiva ; e che ciò ha portato alla costituzione di un circolo vizioso schizopoietico che tenderà ad esasperare le posizioni.

4. La capacità di pensare è ridotta, soprattutto nei termini della possibilità di intravedere prospettive differenti da quelle abituali e di creare o acquisire nuovi vertici di osservazione ; sicché è ridotta o perduta la normale possibilità di adattarsi flessibilmente a situazioni nuove, come quella rappresentata dall'intervenire del comportamento patologico del congiunto malato per finire in un modo di pensare ripetitivo ed automatico. Si tratta di una vera e propria coazione a pensare sempre allo stesso modo e a funzionare secondo un modello altrettanto rigido e invariante. Questo spiega ad esempio il fatto che la famiglia resta pervicacemente ancorata all'idea che il congiunto non è poi così sofferente, oppure che è solamente cattivo, ingrato, pigro, senza iniziativa, senza poter riconoscere che è anche malato. Fenomeno, senza dubbio, determinato dal fatto che per la famiglia e soprattutto per la sua immagine narcisistica "è meglio cattivo che matto", convinzione che costituisce una imponente difesa antidepressiva e allontana il rischio di un dolore intollerabile e di un destino che si pensa senza speranza, nonché dalla percezione del proprio congiunto come "diverso".

L'utilizzazione della prospettiva psicoanalitica familiare nell'ambito della psichiatria, si realizza o meglio può utilmente realizzarsi se l'attenzione degli operatori è allertata in questo senso fin dalle prime prese di contatto con il servizio o con l'operatore privato. Sappiamo quanto spesso, se non di regola, i familiari sono i primi invianti, invianti la cui peculiare posizione non sarà mai abbastanza considerata e indagata con quelle modalità e capacità tecniche che, come ho ricordato, vanno usate anche con i familiari. Essi sono, e quanto, parte in causa, carica di ambivalenza e conflittualità della condizione di sofferenza e disfunzione, che affidano con altrettanta ambivalenza e conflittualità a noi operatori estranei.

Un primo rilievo, fondamentalmente dal punto di vista della nostra posizione emotiva e che se appena ci si pensa diventa chiaro, riguarda la grave difficoltà in cui si trovano i familiari che chiedono il nostro intervento per un loro congiunto psichicamente malato : un narcisismo profondamente ferito, l'incapacità a capire il come e il perché di quanto succede, gli spesso negati sensi di colpa, la serie di insuccessi determinati dai loro vani e spesso distruttivi tentativi di far fronte alla situazione, la delusione tremenda, l'impotenza, la vergogna, la disperazione. Questa rinuncia ad una serie di negazioni, estrema difesa nei confronti di una intollerabile realtà, tanto più intollerabile quanto più lede un assetto narcisistico tendenzialmente precario, è per i familiari un passo necessario ma estremamente difficile e doloroso. In tale percorso, quando esso sia possibile, la famiglia va accompagnata con tatto e pazienza.
Da ciò deriva che la nostra prima cura, cura nel senso di darsi pensiero e di curare nel senso di recare sollievo, è quella di restaurare l ferito narcisismo dei familiari. E l'unico modo autentico di fare ciò è quello appunto di percepirli come pazienti sofferenti, anche se tale loro natura è seppellita sotto una imponente coltre difensiva, coltre che andrà entro larghi limiti rispettata.

Un secondo rilievo è quello di resistere alla tentazione, spesso molto forte, di precipitarsi subito a fornire consigli, raccomandazioni, divieti di sapore psicopedagogico, che nonostante vengano a volte insistentemente invocati, si mostrano sovente del tutto inutili. Ma tuttavia solo con molto tatto possiamo evitare di fornirli d'emblè ; possiamo invece cercare di capire cosa spinge certi familiari a comportamenti a volte gravemente controproducenti.
Consigli, suggerimenti potranno magari essere utilmente impiegati successivamente solo dopo che si sia stabilita una sufficiente alleanza di lavoro tra dottori e familiari, e quando quindi la inconscia posizione di acquiescenza ostile di questi si sia ridotta, ma soprattutto solo dopo che ci si sia resi conto del tipo di struttura di personalità delle persone che abbiamo dinanzi, dei legami tra loro esistenti, del significato che i nostri interventi possono avere per loro e dell'uso che verosimilmente tenderanno a farne sia con il congiunto malato che per esempio all'interno della coppia parentale, come ho cercato di illustrare nel modo più semplice in un esempio più sopra riportato.

In generale, però, la frequentazione clinica di queste famiglie mi ha portato a ritenere che anche quando diamo suggerimenti, consigli, divieti, questi dovrebbero essere forniti non tanto nell'intento manifesto ed esplicitato di promuovere un cambiamento, che sappiamo quanto angosciante e quindi fonte di resistenza sia, ma piuttosto nell'intento di provare per un tempo determinato una modificazione a scopo sperimentale e conoscitivo.
Sappiamo, per esempio, che esistono in tutte le famiglie, ma in quelle patologiche hanno un rilievo tutto particolare, le cosiddette "abitudini". Si tratta di regole ferree, mai apertamente esplicitate che perciò sono difficilmente trasgredibili, che non hanno un origine né un motivo, ma che tuttavia sono a volte pilastri su cui si regge un funzionamento familiare, specie nel suo versante disfunzionale. Mettiamo che in una famiglia esista per esempio l'abitudine di non chiudere mai la porta del bagno ne quale si entra e si esce "come alla stazione centrale", abitudine che la dice lunga sul livello di privacy di una certa famiglia e sull'accettazione degli "spazi privati del sé" di ciascuno. Avrebbe poco senso, anzi, potrebbe gettare un dannoso allarme, suggerire di chiudere la porta del bagno, o, almeno, che la chiuda chi lo desidera. Ciò può essere fatto solo dopo che abbiamo capito il senso di questo bizzarro comportamento che tanto più sfugge agli occhi dei vari membri della famiglia, quanto più si tratta, appunto, di un'abitudine" ; e dopo che abbiamo capito quale significato avrebbe un'eventuale trasgressione a quest'abitudine. In questo caso abbiamo notato che esso veniva crudelmente ridicolizzato come "vergognoso eccesso di pudore" e un "volersi sempre fare i propri affari sporchi" (sic !).

Questo esempio, ma è chiaro che infiniti altri se ne potrebbero fare, dimostra anche come importanti e significative informazioni sul tipo e sul livello di funzionamento di una famiglia e di una persona, si possano ottenere molto spesso mediante la conoscenza di evenienze apparentemente banali e che paiono distanti anni-luce dalle complessità dello psichismo umano, soprattutto nelle sue versioni metapsicologiche.

Altrettanto importante è quello che noi chiamiamo il calendario degli avvenimenti e delle vicende di una famiglia e che hanno apparentemente poco a che vedere con il processo psicopatologico. La morte di un nonno... l'uscita di casa per un matrimonio di una sorella... uno scacco lavorativo del padre o il suo precoce pensionamento. Avvenimenti che hanno a volte il potere di sconvolgere un equilibrio, patologico o non poco importa, ormai comunque consolidato, la cui messa in crisi coglie tutti impreparati e che può avere effetti ben più rilevanti di quanto ci si potrebbe aspettare.

Ci si sente chiedere speso se è più opportuna la presa in carico del paziente o dei familiari. Come è noto nella clinica non esistono, né possono esistere, ricette ; ciò infatti snaturerebbe il nostro lavoro, da clinico a burocratico, e inoltre negherebbe la qualità peculiarmente psicoanalitica del nostro metodo che pura tanto si discosta dalla tecnica abituale.
Siamo noi per esempio a dover chiedere delle informazioni che ci servono per capire l'intrico della situazione clinica ; molte cose importanti, infatti, non ci vengono dette non solo per una specifica reticenza, intenzionale o no, ma semplicemente perché ad esse non viene attribuita alcuna importanza, mentre ai nostri occhi di clinici ne hanno, e di assai significativa.
Per tornare all'interrogativo esposto nel capoverso, ricordo quanto detto poc'anzi : poter considerare i fattori familiari anche nel contato individuale con il solo paziente, e, viceversa, poter conoscere il paziente, soprattutto il paziente per come è percepito dai familiari, negli incontri con questi ultimi. Per fare ciò possiamo però di re che in linea di massima è più facile passare dal campo familiare allargato a quello più ristretto individuale che non l'inverso. Questa procedura ha anche il vantaggio di ridurre le resistenze del paziente, che, abbastanza spesso, ci potranno apparire nel prosieguo degli incontri non solo comprensibili, ma anche giustificate, ad essere tanto trattato come "il solo matto di casa" ("mentre i veri matti sono loro") e quindi rifiutare per questo motivo il contatto con i "dottori".

È raro ormai che nella presa in carico diagnostica, soprattutto dei pazienti gravi, non ci si occupi anche dei familiari, in particolare dei genitori. Tutti, o quasi tutti, sono ormai consapevoli della straordinaria fonte di informazione rappresentata dalla famiglia, non solo per quanto riguarda le vicende dei primi mesi ed anni di vita del paziente, ma anche e soprattutto per quanto concerne l'immagine spesso differente e, ancor più spesso, divergente e contraddittoria che i vari familiari ne hanno. Tanto preziosa è questa fonte informativa che è sempre motivo di meraviglia che essa venga così spesso trascurata. Ciò dipende a mio avviso in parte dal fatto che l'intero momento diagnostico conoscitivo e valutativo , che preceda la presa a carico terapeutica, momento a mio avviso irrinunciabile per una corretta e realistica indicazione, viene tendenzialmente trascurato. Altro esempio di una erronea trasposizione di una procedura della psicoanalisi classica, peraltro, a mio avviso, molto discutibile.

L'attenzione alla rappresentazione interna che i vari membri della famiglia hanno del congiunto malato ci fornisce un collage estremamente significativo dei vari pezzi rappresentazionali talora convergenti, ma molto spesso divergenti, disordinati, contraddittori, autoescludentisi e caotici con cui il paziente è percepito, e ci da una misura indiretta del suo vissuto di frammentazione.
È questo un modo di integrare l'oggetto-figlio, parziale, scisso e collocato nei due genitori per trasformare il contrasto in una acquisizione di una nuova e creativa prospettiva che presenta anche l'utile secondario, ma fondamentale, di porre le basi di una alleanza all'interno della coppia parentale, riducendo le estenuanti lotte per far prevalere le proprie opinioni e per sabotare quelle dell'altro.
Da questo punto di vista dobbiamo rammentare che le conflittualità irrisolte, gli asti che si conservano intatti nonostante gli anni, all'interno della coppia parentale, quasi sempre ereditati dalle famiglie di origine, costituiscono spesso il terreno in cui trova nutrimento la patologia psichica di un figlio. Le storie di alcune famiglie sono di fatto la storia di trasmissioni transgenerazionali di fantasmi, di lutti inelaborati, di lavori psichici non fatti.
Una fonte spesso trascurata, ma invece assai preziosa per noi, sono i fratelli "sani" che si rivelano, al di là delle loro conflittualità, dei personaggi-testimoni assai preziosi per le nostre esigenze di comprensione della situazione e delle dinamiche familiari ; sono infatti osservatori spesso molto più lucidi dei genitori, anche in quanto meno feriti sul piano narcisistico dalla patologia del congiunto.

Sulla base della nostra esperienza consideriamo assai efficace la possibilità di utilizzare un "setting mobile", soprattutto nella prima fase della presa in carico, quando prevale la necessità di comprendere la rete dei dinamismi familiari rispetto a quella di modificarli. Il "setting mobile" ci consente di vedere tutta la famiglia insieme, oppure di incontrare i vari suoi membri, separati o in coppia a seconda di quanto giudichiamo clinicamente opportuno. Ricordo nuovamente che queste nostre decisioni di operatori riguardanti, per esempio, chi incontrare e in che modo, contengono anch'esse delle comunicazioni implicite o "azioni parlanti" ; per esempio convocare tutta una famiglia insieme e dopo una più o meno breve seduta in comune vedere separatamente il sottogruppo dei genitori e poi quello dei figli, conferma da un lato la coesione della famiglia, ma anche contemporaneamente la possibilità di una differenziazione separativa, ma non necessariamente su base conflittuale.

Per quanto concerne le iniziali modalità di incontro tutte sono possibili e utili sulla base delle necessità cliniche, e su questo solo criterio vanno scelte. Non è invero molto frequente che paziente e familiari siano visti in modo congiunto, procedura che ha invece straordinarie capacità di disvelare come realmente sono, stanno e comunicano tra loro queste persone che vivono male insieme, ma che non possono separarsi. Tuttavia, non di rado, per arrivare ad una seduta congiunta il percorso può essere lungo e tortuoso.
È noto, per chi ne abbia fatto talora l'esperienza, che molte persone, indipendentemente dall'essere o no ufficialmente malate, si comportano in modo differente da come ci aspetteremmo se dovessimo credere in modo acritico a come ci vengono descritte. Per esempio una madre porta in consultazione un figlio che presenta comportamenti molto preoccupanti di tipo ora violento, ora gravemente depressivo, tra cui delle intenzionalità suicidarie ; preoccupazioni che entrambi, madre e figlio, ascrivono alla nefasta influenza di un padre violento e di recente anche alcolista, padre che mai accetterà, a loro dire, di venire alla consultazione, della quale, anzi, è stato tenuto all'oscuro. Sappiamo solo che questo padre è da due anni in cassa integrazione e non riesce a trovare una purchessia attività lavorativa sostitutiva ; che passa lunghe ore a letto o al bar. Si viene anche a conoscere che al posto dei sottogruppi fisiologici costituiti dalla coppia parentale e da quella dei due figli, esistono due coppie disfunzionali, perverse rispetto alla mappa fisiologica della famiglia : la madre con il figlio primogenito "malato" e il padre con il secondogenito "sano" con il quale si comporta in modo "normale".
È evidente che è necessario poter vedere anche il padre, ma l'incontro dovrà essere realizzato mediante un contatto diretto con lui richiesto dall'operatore (ed in effetti è l'operatore che ha bisogno di sentire l'atra campana), poiché se fosse convocato attraverso la madre o il figlio verrebbe, qualora accettasse, nelle vesti di accusato responsabile della drammatica situazione familiare, e con un'attitudine sospettosa od ostile e con probabilmente la tendenza ad emarginarsi attivamente da questa, e quindi con una scarsa o scarsissima possibilità di una alleanza costruttiva con gli operatori prima, e con gli altri membri della famiglia poi.
Il prosieguo degli incontri familiari ci ha confermato che il padre era in realtà anche una persona non solo molto mortificata e sofferente, ma anche assolutamente capace di collaborare. Il lavoro successivo di comprensione, realizzato con sedute individuali e poi di coppia dei genitori e dei figli, e solo successivamente sedute congiunte, ci ha permesso di constatare che la coppia si è costituita contro il volere delle famiglie di origine dei due genitori, pesantemente contrarie al matrimonio che è stato un tentativo velleitario e ribellistico di emancipazione traumatica di due persone che non erano emotivamente mature per fare una vera e reale nuova famiglia.
Le predizioni dei genitori dei due sposi si sono puntualmente avverate. Il figlio primogenito è sempre stato percepito emotivamente come il figlio della madre e della famiglia materna, una sorta si ostaggio riparativo, con l'esclusione del padre che si è rivolto al secondogenito. Questi, a sua volta, richiesto di portare il suo contributo ai dottori perché potessero meglio capire, si è mostrato apertamente preoccupato non solo per il fratello, ma anche per il padre, essendo lui l'unico ad aver percepito la sua "cattiveria e il bere" come segni di malessere. Stiamo considerando che i disturbi gravi del primogenito possano essere determinati anche da un suo modo patologico di identificarsi al padre e di denunciare la sofferenza sua propria personale, ma anche i legami di essa con quella di tutta la famiglia.

Questo esempio si presta bene a mostrare come la presa a carico comprenda non solo la famiglia nucleare, ma anche la famiglia estesa. Per fare ciò non è necessario contattare concretamente nonni e zii, ma farsi un'idea il più precisa possibile dell'influenza che i membri della famiglia estesa hanno sulle vicende della famiglia nucleare. Ci si rende conto, per questa via, di come la famiglia nucleare non ha confini sufficientemente netti rispetto alle famiglie di origine dei genitori, il che costituisce un segnale-indizio di mancata emancipazione emotiva dei genitori e quindi del loro permanere indefinitamente nel ruolo di figli. È questo un dato importante per quanto concerne la trasmissione transgenerazionale che spesso si presenta in modo imponente in certe famiglie e che può indurre a ipotizzare erroneamente una trasmissibilità genetica.
Penso che uno dei nostri compiti di terapeuti sia quello di tentare di interrompere queste drammatiche e talora tragiche catene di destini.

Spero di aver fornito una serie di spunti di riflessione relativamente al ruolo fondante che la moderna clinica psicoanalitica familiare fornisce sia nel momento della presa in carico diagnostico-valutativa di un caso psichiatrico, diagnosi che se vuole essere effettivamente una buona guida ai momenti successivi, deve essere per forza di cose di tipo contestuale, sia nel momento della presa in carico terapeutica.
Spero di aver mostrato che per fare ciò esistono delle metodologie e delle tecniche trasmissibili, procedure che servono a cercare di realizzare i nostri progetti terapeutici secondo il metodo clinico e a non confinarci nell'area inefficace delle sole formulazioni verbali relative alle "buone intenzioni" umanitarie e alla solidarietà sociale.
Occuparsi dei familiari dei pazienti non può più essere considerato un "optional" della pratica psichiatrica, ma piuttosto una delle fondanti prospettive da cui cercare di capire e trattare i nostri simili psichicamente malati.
E ciò tanto più oggi che ci apprestiamo sempre più ad accoglierli e mantenerli nell'alveo della comune convivenza umana.


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