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PSYCHOMEDIA
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Società, Trauma e Solidarietà
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Un modello di lavoro psicologico psicoanalitico durante e dopo la guerra in Bosnia. Storia di un'esperienza
Patrizia Brunori, Gianna Candolo, Maddalena Donà dalle Rose e Maria Chiara Risoldi
Associazione Onde Amiche Bologna-Tuzla
Con questo lavoro vi descriviamo un modello di intervento ad orientamento psicoanalitico svolto durante e dopo la guerra in Bosnia.
Il progetto è nato da una richiesta di formazione per le operatrici che lavoravano in Bosnia con le donne traumatizzate dalla guerra.
In un primo incontro con la dottoressa Irfanka Pasagic, psichiatra corresponsabile del progetto "Amica Tuzla", che girava l'Europa cercando un aiuto specialistico, si è deciso di orientare la collaborazione verso l'attività di counselling del lavoro condotto dalle colleghe bosniache e verso l'approfondimento delle problematiche psichiche e psicoterapeutiche che tali tipi di traumi pongono.
Si viene costruendo un gruppo a Bologna, sulla base di conoscenze personali e professionali, composto da 8 psicoterapeute ad orientamento analitico, che svolgono la loro attività sia nel servizio sanitario pubblico sia nel settore privato con competenza nell'aerea infantile, adolescenziale ed adulta.
Tale gruppo inizia a riunirsi a scadenza quindicinale dal 1994.
Nel riflettere sulle motivazioni soggettive ad iniziare un percorso così singolare per ognuna di noi, nell'ambito degli aiuti umanitari, ci siamo incontrate con il nostro bisogno di esprimere solidarietà, di fare esperienze umane ed epistemologiche nell'area delle situazioni estreme create dall'essere umano. Ci siamo incontrate con il bisogno di mantenere un pensiero su queste vicende estreme in cui la violenza è così tanto impensabile da renderci inerti e passivi e da farci pensare "a noi ciò non può succedere". Ci siamo interrogate su come la psicoanalisi potesse fornirci un aiuto ad avvicinarci a comprendere i percorsi di tale distruttività e ad elaborare che cosa di utile potevamo offrire come risposta alla richiesta di aiuto specialistico che ci era stata rivolta.
All'inizio gli argomenti di discussione vertevano prevalentemente su come organizzare questa attività di counselling e su come avvicinarsi alla comprensione dei traumi prodotti dalla violenza della guerra.
Ci siamo interrogate sulle nostre esperienze cliniche riguardanti situazioni traumatiche di violenza sessuale, di lutto, di perdite di abbandono e di sradicamenti. In questo lavoro abbiamo incrociato le riflessioni di autori che avevano lavorato su queste tematiche e contemporaneamente abbiamo fatto una ricerca di materiale teorico attorno a questi temi. In questo contesto abbiamo incontrato più volte la dott.ssa Silvia Amati Sas, una psicoanalista che da molti anni si interessa a questi temi e ha avuto esperienza clinica con pazienti traumatizzate da situazioni di drammatica violenza sociale.
Il nostro progetto prevedeva la strutturazione di incontri trimestrali con le colleghe bosniache in un sede neutra rispetto ai luoghi di guerra e equidistante per entrambi i gruppi.
Questa scelta era il frutto di una riflessione approfondita rispetto alla necessità di poter lavorare in uno spazio in cui fosse possibile un contatto e un pensiero libero da eccessive identificazione con la situazione traumatica della guerra. Era importante per noi mantenere una distanza prudenziale per riuscire a pensare un counselling di contenimento, di riconoscimento e di concettualizzazione. Solo così potevamo avere un ascolto emotivo per tornare con un secondo sguardo sul già detto.
Pensavamo che questo potesse essere per tutte noi un'avventura psicoanalitica che favorisse la possibilità del pensiero.
Non era stata una scelta indolore in quanto all'inizio ci eravamo confrontate da una parte con l'urgenza dei bisogni delle colleghe impegnate quotidianamente con la situazione drammatica e pericolosa della guerra che richiedevano la nostra presenza a Tuzla, dall'altra con i nostri sentimenti di paura e di impotenza suscitati dalla guerra in atto.
L'elaborazione di questi aspetti ci aveva messe di fronte al lutto per la perdita di nostri aspetti ideali , onnipotenti ed eroici e alla colpa per non rispondere alle aspettative di condivisione della realtà vissuta dalle colleghe bosniache.
A questo punto è importante che vi descriviamo il contesto politico culturale presente in quel momento a Bologna in cui ci siamo potute inserire.
Il progetto "Amica Tuzla" dove lavorano le colleghe bosniache (due psicologhe e una psichiatra) nasce all'interno di Spazio Pubblico, gruppo di riflessione di donne sulla politica internazionale, nato a Bologna all'interno del Centro di documentazione delle donne. "Amica Tuzla" ha un obiettivo ambizioso: la cura e la raccolta di documentazione contro i crimini di guerra alle donne. Le donne bolognesi appoggiano questo obiettivo cercando di mettere in relazione vari gruppi di donne che lavorano a Tuzla (Amica Friburgo e Amica Basilea) e costruire rapporti più stabili e organizzati per permettere la gestione del progetto alle professioniste bosniache fornendo solo il supporto materiale. In questo modo si mette in pratica una politica basata sulla responsabilità diretta delle professioniste che lavorano in loco, capaci di leggere i bisogni per arrivare autonomamente a gestire e valorizzare in prima persona il loro lavoro. Si attiva un preciso contratto tra GVC (Gruppo volontariato Civile) Casa Amica e Casa per la salute (struttura pubblica di Tuzla) per quel che riguarda la fornitura del materiale sanitario e il pagamento delle professioniste. Viene affittata una casa dove lavoreranno 18 professioniste e viene attivato un contratto preciso con Amica Friburgo per permettere uno scambio attivo tra le attività delle due strutture. Amica Tuzla fornisce gratuitamente prestazione sanitarie e psicologiche alle donne, Amica Friburgo fornisce aiuti umanitari e gestisce l'asilo per bambini: entrambe le strutture sono in collegamento per quel che riguarda lo scambio di conoscenze dei progetti e della documentazione.
Questo era un progetto di emergenza e a termine.
In questa struttura le nostre colleghe avevano attivato dal 93 un lavoro di psicoterapia di gruppo che iniziava dopo un primo colloquio con tutte le donne che si rivolgevano alla struttura. Per alcune donne era necessaria una presa in carico psicoterapeutica individuale. Usufruivano inoltre di una supervisione di gruppo condotta dalla psichiatra e partecipavano a seminari di formazione e supervisioni fornite dalle organizzazioni umanitarie, tra cui l'OMS.
Le colleghe bosniache ci segnalano che la loro esigenza prioritaria non è tanto quello di una formazione teorica, infatti le organizzazioni umanitarie ne fornivano a sufficienza, quanto quella di uno spazio in cui essere ascoltate per condividere e riflettere sull'immane esperienza clinica che stavano conducendo. Tale esperienza evocava in ognuna potenti emozioni, che necessitavano di poter essere elaborate: anche loro, le terapeute che lavoravano con donne altamente traumatizzate, vivevano in una realtà di pericolo, di paura e di trauma continuo.
In questo percorso abbiamo elaborato il modello di formazione permanente derivato creativamente dal modello Balint.
Tale formazione permanente ci pareva tanto più urgente e necessaria quanto più sapevamo che la loro situazione era di contatto continuo con l'impotenza e l'assenza di prospettive. Ci pareva che avessero bisogno di evacuare sofferenza perché loro stesse erano contenitori di esperienze ed emozioni drammatiche, dolorose e intollerabili.
Avevamo in mente naturalmente che uno dei funzionamenti di base della mente umana riguarda la tendenza a separare ed espellere fuori di sé aspetti e sensazioni avvertite come insopportabili e che in questo quadro affrontare l'angoscia e il dolore equivale a sbarazzarsene illusoriamente seguendo una spinta evasiva ed evacuando nell'operatrice queste sensazioni penose. Immaginavamo che si creasse per loro una situazione analoga a quella di un individuo che rinchiuso troppo a lungo in un piccolo ambiente sia costretto a reimmettere nei polmoni aria inquinata dalle sue stesse scorie. Una realtà siffatta, rovinata dalle reciproche proiezioni catastrofiche, può rendere l'ambiente sempre più desolato e minaccioso, creando così un circuito disperato che tende ad autoalimentarsi. Ipotizzavamo che l'introiezione di una buona esperienza di condivisione ed elaborazione con noi avrebbe potuto mitigare le angosce del loro mondo interno contribuendo così a gettare sul loro mondo esterno così buio un po' di luce rassicurante e benevola.
Avevamo in mente di creare spazi di lavoro di gruppo nei quali la sostanza del lavoro di ciascuna venisse presa in carico dal gruppo in modo che ciascuna operatrice potesse vedere accolte le istanze relative al conoscere le proprie potenzialità e i propri impedimenti. In tali spazi la massa informe di fatti e di sensazioni poteva essere elaborata fino a trasformarsi in rappresentazioni mentali che contengono un significato e sono capaci di imprimere, a loro volta, nuovi significati alle esperienze successive. Assumendo un significato ogni esperienza, anche la più traumatica diventa occasione per apprendere.
Durante questo percorso di riflessioni anche il progetto di incontri a Spalato falliva perché la guerra era ripresa cruenta in tutta l'area.
Finalmente, nonostante la guerra una sola delle colleghe di Tuzla, nell'aprile del 1995 riuscì a venire a Bologna dopo un viaggio molto difficile. Dunque dal primo incontro con la dottoressa Irfanka Pasagic è passato un anno.
Il lavoro con la collega bosniaca si è svolto in cinque incontri di gruppo, nell'arco di una settimana, senza orario predefinito e ritrovandoci ogni volta ospiti in una delle nostre case.
Siamo quindi le otto colleghe bolognesi, la sola collega bosniaca e l'interprete: Liliana.
A posteriori ci rendiamo conto che l'interprete non è solo colei che traduce ma un mediatore facilitante questo primo incontro. Liliana è un infermiera professionale fuggita da Belgrado a Bologna, poco prima dell'inizio della guerra. A Bologna è fin dall'inizio molto impegnata nei progetti umanitari a dar voce ai bisogni della Bosnia. Per questo garantisce la fiducia reciproca. Sarà sempre lei l'interprete dei nostri incontri sia a Bologna che a Tuzla.
Pensiamo sia utile presentarvi qualche verbale degli incontri di quei giorni. Il verbale è uno strumento di lavoro che ci eravamo date all'interno del modello di counselling come una memoria del Hic et Nunc del gruppo ed elemento strutturante il setting di lavoro. Ve li presentiamo nell'estemporaneità e condensazione con cui sono stati presi in quei giorni, per permetterci di ritrovare con voi il clima emotivo e la storia della costituzione del nostro gruppo, rinunciando a saturare lo spazio con l'elaborazione teorica che abbiamo successivamente affrontato.
Nel primo incontro,(29 aprile 95) dopo un lungo silenzio carico di attesa, ci ritroviamo davvero "senza memoria e senza desiderio", la collega Rabia Radic inizia raccontandoci che in Bosnia si dice che quando c'è un silenzio sta per nascere una bambina.
L'atmosfera si stempera e la collega inizia ad ci esporci il loro modello di lavoro e il tipo di pazienti che vedono.
Si tratta di donne prevalentemente profughe (i profughi a Tuzla, cittadina di meno di centomila abitanti sono all'epoca, 60000), con un basso livello di istruzione, politraumatizzate: hanno subito la perdita di persone care, di ogni bene alcune sono state stuprate. Il loro lavoro inizia andando nei campi profughi.
Ci racconta la collega che quando cominciarono a lavorare nel 93 erano prive di qualsiasi esperienza specifica. Erano psicologhe e psichiatre che lavoravano in vari ambiti con formazioni mediche (per quel che riguarda le psichiatre) e per quel che riguarda le psicologhe di formazioni varie esclusa quella psicoanalitica. Sono state costrette ad adeguare i loro usuali metodi di lavoro ai bisogni dei profughi.
Si sono mosse facendo colloqui senza alcun criterio con le donne che arrivavano alla Casa: mai si sarebbero aspettate di trovarsi in guerra. Non avevano nulla, neanche cibo ed elettricità: erano sotto assedio dei serbi. Non avevano una bibliografia a cui fare riferimento, non potevano credere di avere qualcosa da dare non avendo nulla.
A questo punto chiediamo che cosa le avesse spinte ad organizzare la Casa.
La collega ci risponde che era stato il desiderio di trovare un modo per aiutare. Non potendo dare cose che non avevano potevano dare l'ascolto e una parola calda.
A nessuna di noi viene più in mente di intervenire. Tutte, istintivamente restiamo in ascolto.
In questi anni (93-95) grazie all'esperienza hanno fatto molti passi avanti, sono arrivate a formulare criteri per la presa in carico con la psicoterapia individuale o di gruppo. Hanno imparato che è meglio non mettere nello stesso gruppo persone con legami di parentela, donne nubili con donne sposate e che può essere molto utile mettere nello stesso gruppo donne giovani con donne anziane con molta esperienza di vita capaci di testimoniare la possibilità di sopravvivere alla guerra.
Qualcuna di noi commenta quanto sia importante l'esperienza di vita.
La collega ci racconta che solo successivamente sono arrivate a formulare un questionario contenente una serie di domande riguardanti i sintomi. Il questionario viene usato per dare una valutazione iniziale e viene ripetuto a metà e alla fine del lavoro.
Il nostro gruppo le chiede come si presentano.
La collega ci spiega che nel primo colloquio dicono chi sono, che cosa possono offrire, espongono gli obbiettivi e quello che si aspettano dalle partecipanti al gruppo. I gruppi sono costituiti da sette otto pazienti, che si riuniscono una volta alla settimana per la durata di un'ora e mezza due . Generalmente il lavoro prosegue per sei o sette mesi a frequenza decrescente. I cambiamenti mano a mano che il lavoro va avanti sono molto evidenti a cominciare dai cambiamenti dalle posture: ad esempio il corpo da abbandonato e racchiuso in sé, viene tenuto più eretto.
L'obiettivo è la diminuzione dei sintomi in quanto la traumatizzazione è continua.
Nel secondo colloquio la terapeuta ribadisce che è la paziente a decidere se e fin quando partecipare alle sedute del gruppo: può dire basta quando vuole, è lei a decidere il livello di resistenza. Le sedute iniziano con un dialogo volutamente guidato dalla terapeuta attorno ad aspetti leggeri: che cosa è successo nella settimana, che cosa hanno fatto ... Quando arrivano a lavorare sul trauma per ricostruirlo, la terapeuta aiuta la paziente ad aprirsi e ha cura che ci sia una persona fisicamente vicina per evitare fenomeni dissociativi durante la ricostruzione del trauma.
Emergono frammenti e l'obiettivo è mettere assieme questi frammenti in modo da creare come un film degli avvenimenti. Si cerca di far recuperare ogni più piccolo dettaglio. La collega ci spiega che stanno molto attente che siano presenti le emozioni adeguate se queste mancano ne prendono nota mentalmente per ritornarci. Sanno che non devono avere fretta perché la ricostruzione del trauma è traumatica essa stessa. Un obiettivo è arrivare al punto in cui la paziente possa raccontare gli eventi senza emozioni incontenibili, catastrofiche e disintegranti.
Viene focalizzato insieme come l'obiettivo sia che l'esperienza diventi pensiero e parola. Raccontare l'esperienza è fondamentale perché è il primo passo per uscire dalla confusione. Le persone traumatizzate sono molto confuse, raccontare significa organizzare cioè pensare. Raccontare significa condividere l'esperienza, le persone molto traumatizzate tendono ad isolarsi. Uno degli obiettivi dell'esperienza del gruppo è far socializzare le donne, creando la possibilità di autoaiuto. Generalmente si crea una grande coesione tra le partecipanti che con il procedere del lavoro si ritrovano anche fuori. L'omogeneizzazione del gruppo inizia dopo la terza quarta seduta. Dopo la ricostruzione del trauma c'è il problema dell'ansia del gruppo.
La collega ci dice che all'inizio del lavoro facevano ricorso a tecniche di rilassamento servendosi anche di fantasie guidate, ci dice però che le usano con molta cautela perché possono essere molto pericolose. Ci racconta infatti di una seduta durante la quale una donna si è scompensata; la fantasia era quella di immaginare di essere su un prato: la paziente ha cominciato a piangere temendo di essere uccisa.
Noi osserviamo che si ricorda ma si ricorda ciò che si può. Condividiamo che il parlare è fondamentale perché permette di arrivare a una prima narrazione della storia.
La collega ci dice che lavora con un gruppo di donne diverso al giorno, oltre alle terapie individuali e ai primi colloqui. Ci dice che il periodo in cui nel gruppo emerge il trauma, lei la notte non riesce a dormire bene.
A questo punto ci presenta il primo caso clinico.
Ci presenta un gruppo formato da donne che hanno perso i figli in guerra. Ci racconta la storia di una donna profuga che aveva tre figli.
Prima della guerra la sua era una famiglia di buon livello economico molto unita dal punto di vista affettivo.
Nel gruppo questa donna parla solo dei due figli maschi, uno di 19 e l'altro di 21 anni, uno ucciso al fronte, l'altro mentre stava liberando un lager con altri compagni.
Un figlio lo ha visto morto e lo ha seppellito lei stessa, dell'altro non sa niente, non lo ha visto, nessuno l'ha visto.
La terapeuta ci dice che lei sapeva che questa donna aveva una terza figlia ma la paziente non ne parlava mai, parlava solo del figlio che aveva visto morto e aveva sepolto, pochissimo dello scomparso.
La terapeuta, seguendo un metodo di tipo catartico per l'elaborazione del trauma, faceva molte domande su questa esperienza per permettere alla donna di poterla ricostruire fin nei minimi dettagli.
Dopo alcune sedute questa paziente, spontaneamente, aveva detto nel gruppo di aver avuto tre figli. Un'altra paziente le aveva chiesto notizie della figlia e la risposta era stata che la figlia era morta durante una fuga dal villaggio in cui vivevano.
Si trovavano in una colonna di profughi quando la ragazza aveva voluto ritornare in casa per prendere un oggetto personale che aveva dimenticato. Dopo alcuni giorni era stata ritrovata dal padre, tornato al villaggio, morta sgozzata dai cetnici, già circondata da cani randagi. "Non è possibile!" commenta una paziente del gruppo e lei dopo quell'intervento aveva smesso di parlare.
A questo punto i nostri pensieri si focalizzano su questo arresto della comunicazione nel gruppo terapeutico.
L'ipotesi che avanziamo è che l'impossibilità a sopportare l'angoscia di un'esperienza cosi traumatica, che aveva portato la paziente al silenzio sulla storia della figlia, aveva pervaso il gruppo terapeutico, incapace di proseguire ed ascoltare :"non è possibile".
Nel secondo incontro (2 maggio 95) si inizia riprendendo alcuni aspetti riguardanti la metodologia di presa in carico per psicoterapie di gruppo e individuali focalizzando l'importanza per le terapeute di mostrarsi come "donne normali" in modo da favorire la relazione con donne che per la maggior parte sono profughe provenienti da villaggi contadini e spesso analfabete.
Hanno verificato che per alcuni tipi di trauma, per esempio lo stupro, esiste la difficoltà a parlarne in gruppo e quindi una relazione duale sembra la più adatta per permetterne l'elaborazione. Un altro elemento è il grado di istruzione: il gruppo favorisce la circolazione di parole ed emozioni indipendentemente dal livello di istruzione che appare invece significativo nella terapia individuale.
La collega sottolinea come la ricostruzione del trauma, comportando la diminuizione dei sintomi, permette alle donne di ritrovare l'investimento in progetti di lavoro per poter riprendere contatti con la vita.
La collega ci presenta un'altra situazione clinica che stimola un ricco scambio di riflessioni su alcuni aspetti dei traumi da guerra: quali sono i meccanismi di difesa più' utilizzati: diniego, rimozione, regressione. Quali sono le emozioni legate al trauma che più emergono: paura, rabbia, aggressività, vergogna e il senso di colpa. Quest'ultimo pone dei problemi nella relazione terapeutica: sembra che la guerra non l'attenui perché emerge il senso di colpa per essere sopravvissuti.
Per quel che riguarda l'aggressività sembra che le donne che hanno perso tutto non mostrino desideri di vendetta: alcune rimangono in contatto con le conoscenti serbe, non vogliono aprire altri fronti di guerra ed è probabile che ci sia il bisogno di rimanere in contatto con la terra d'origine, di mantenere tutti i legami possibili.
Appare inoltre l'identificazione delle donne con i mariti e i figli combattenti, su di loro sembra vengano proiettati sentimenti di lotta e rivalsa. E' più difficile parlare delle figlie morte durante la fuga oppure prigioniere poiché forse si evocano sentimenti di impotenza che hanno a che fare con emozioni primarie difficilmente elaborabili come se le morti femminili in stato di passività fossero senza senso o troppo cariche di angoscia.
La guerra è un trauma vissuto differentemente dalle profughe che hanno perso tutto, da chi ha perso familiari in fuga e in combattimento, dalle donne di Tuzla che hanno perso la pace.
I sentimenti evocati in questi due incontri sono stati di sorpresa verso questa collega arrivata da lontano dopo un viaggio difficile ed avventuroso, piena di dignitosa fierezza, non certo vinta dai bombardamenti e dalle perdite quotidiane, ma capace di suscitare rispetto e trasmettere professionalità e di trasformare il nostro senso di colpa di vivere in un paese in pace, ma che offre asilo a profughi di guerra, in uno sforzo comune di pensiero.
Nel quarto incontro (7 maggio 95) si parla dello stupro come arma politica e di aggressione etnica partendo da un caso clinico di una psicoterapia individuale che la collega ci porta. Le riflessioni su questo caso ci portano ad individuare insieme due tipi di stupro. Lo stupro è sempre un'umiliazione che mira a distruggere l'altro nel corpo e nell'identità.
Un tipo di stupro è quello che ha come obiettivo principale l'umiliazione prevalentemente "etnica": mettere incinte le donne del nemico e farle partorire dei "bastardi" che sono la prova vivente del disprezzo, attraverso l'uso del corpo delle donne. In questo caso la donna è vista come appendice e assimilata al nemico: il corpo femminile è usato per lanciare messaggi di spregio e umiliazione al nemico stesso.
Un altro tipo di stupro è l'umiliazione sistematica della femminilità attraverso parole e gesti miranti ad annientare psicologicamente le vittime.
L'impressione è che in molti casi di donne stuprate sia fallito ogni tipo di protezione affettiva e sociale e che da questo derivi il silenzio, l'isolamento, la vergogna e la colpa.
Perché lo stupro sia riconosciuto come arma politica di guerra è necessaria la condivisione con altre donne per dare un senso a ciò che appare insensato e viene riassunto nella domanda che ancora perseguita quella paziente come tante altre, "perché proprio a me?" In questi casi lo stupro non è solo un atto sessuale violento ma un tentativo di annichilire la volontà e l'identità della donna attraverso l'eliminazione della differenza umana originaria, quella tra uomo e donna, che porta poi al genocidio come eliminazione della differenza etnica.
Le bambine e le adolescenti stuprate vengono spesso rigettate dalla comunità: ci si chiede perché non scatta la solidarietà e si ricordano casi analoghi anche in Italia.
Riflettiamo come la solidarietà possa scattare quando si riesce a tenere in vita l'identificazione con l'altro essere umano. In una situazione estrema come la guerra questa è molto più pericolosa a causa dell'impotenza che viene evocata di fronte alla violenza invasiva. I meccanismi di difesa più usati sono la negazione e l'attribuzione ad altre dello stupro stesso "è successo a lei non a me".
Si affrontano i temi legati alla religione mussulmana e alla rappresentazione della donna nella società bosniaca , è un circolare di racconti e interpretazioni e condividiamo che questo è un tema difficile per tutte noi: perché siamo donne? perché è un impensato dell'umanità?
Vi abbiamo presentato la nascita del nostro gruppo transculturale. Sono passati tre anni durante i quali abbiamo continuato il lavoro attraverso altri incontri con le colleghe bosniache sia a Bologna che a Tuzla secondo il modello presentato, con un setting che non ha potuto non tener conto degli eventi esterni: la guerra, i finanziamenti per i viaggi che slittavano, l'assenza per propri impegni di lavoro della nostra interprete ... Ci sembra comunque di avere costruito una rete di pensieri e di riflessioni, uno spazio mentale che, soprattutto all'inizio si è costituito, pensiamo, come un'ancora per le colleghe che lavoravano nell'isolamento drammatico della guerra.
Pensare che altre colleghe, fuori, conoscevano, facevano conoscere e riflettevano sulla loro immane esperienza clinica, e si davano da fare per rendere possibili aperture e scambi scientifici aveva un significato emotivo e scientifico importante. Da qui potevano prendere avvio i confronti e le riflessioni teoriche e cliniche sulla loro enorme e profonda esperienza. Durante questi anni abbiamo vissuto i cambiamenti della situazione politica, soprattutto per quel che riguarda il passaggio dalla guerra alla pace e alla costituzione dello Stato bosniaco. Tali avvenimenti hanno comportato una modificazione ed evoluzione nella costruzione di nuove strutture di aiuto alle persone traumatizzate dalla guerra. In particolare è emersa la necessità e l'urgenza di lavorare anche con i bambini politraumatizzati e le loro famiglie.
L'esistenza del nostro gruppo di lavoro sui traumi da guerra ha permesso di accogliere i nuovi bisogni presentati dalle colleghe bosniache dando vita da settembre 1998 a un nuovo progetto di formazione per medici, pediatri psichiatri e psicologi che sono quotidianamente impegnati in questo lavoro.
Attualmente due di noi si recano ogni due mesi a Tuzla, con la stessa interprete, per tenere un Seminario di lavoro diviso in due moduli. La modalità del Seminario è stata richiesta e concordata con i colleghi di Tuzla. Si articola in un'unità teorica sullo sviluppo del bambino dal punto di vista psicoanalitico, e in un'unita di supervisione su casi clinici presentati da loro.
Tale progetto ha ottenuto in finanziamento per le spese di viaggio, vitto e alloggio, in quanto la nostra prestazione professionale è gratuita, da Ministero degli Esteri con il sostegno della Regione Emilia Romagna.
Ci sembra importante sottolineare a questo punto alcuni aspetti che abbiamo imparato da questi anni di esperienza:
1) rispetto per i bisogni e le richieste provenienti dalle persone che vivono e lavorano nell'area colpita dalla guerra;
2) accoglimento e valorizzazione delle risorse e delle competenze delle professionalità locali;
3) approfondimento e dialogo continuo sulle proprie motivazioni all'aiuto umanitario;
4) attenzione alla costruzione di legami di fiducia che permettono la continuità del lavoro;
5) consapevolezza che il lavoro più delicato comincia nel silenzio del dopoguerra e dopo la risoluzione dei problemi di prima emergenza.
Il lavoro e l'esperienza di questi anni ci ha fatto avvertire la necessità di mostrare l'impegno professionale, politico e personale delle donne e degli uomini che hanno utilizzato tutte le loro risorse per la vita in uno scenario di guerra, distruttività e morte.
Se la guerra è violenza e rottura di tutti i punti di riferimento della realtà sociale, che è il fondamento e la cornice dell'identità umana, ogni lavoro per la sopravvivenza psichica e simbolica dei soggetti si oppone alla distruttivi allo scopo di mantenere i legami affettivi e sociali indispensabili per l'idea stessa di futuro.
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