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PSYCHOMEDIA
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TERAPIA NEL SETTING GRUPPALE
Psicoanalisi di Gruppo
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Il gruppo come strumento terapeutico d'elezione per i pazienti sieropositivi con disturbi di personalità
di Silvia Corbella
(Membro Associato S.P.I. - Vice Presidente A.P.G. - Viale Romagna 58, 20133 Milano)
Il lavoro che vi presenterò è il risultato di una riflessione critica seguita a più di un anno di supervisione di due gruppi formati da pazienti sieropositivi con disturbi di personalità. Questi due gruppi sono stati condotti dal dott. Raffaele Visintini all'interno del centro S. Luigi dell'ospedale S. Raffaele. Si tratta di gruppi misti, cioè di gruppi in cui sono presenti sia uomini che donne, con un massimo di otto pazienti per gruppo, aperti e con la presenza di un'osservatrice partecipante. I pazienti di cui riferirò sono persone con disturbi di personalità più o meno gravi, che, per ragioni diverse - tossicodipendenza, rapporti etero o omosessuali a rischio - si sono infettati.
Prima di entrare nel merito dell'utilità del lavoro di gruppo con questo tipo di pazienti, ritengo indispensabile fare una sintetica premessa su alcune caratteristiche dei disturbi di personalità. Innanzitutto vorrei sottolineare che non è un caso che questo tipo di patologia sia in continuo aumento nella società attuale. La rapidità dei cambiamenti sociali che dalla seconda guerra mondiale in poi hanno caratterizzato il mondo occidentale, ha generato confusione rispetto ai valori di riferimento ; ciò è stato accompagnato da una ridotta possibilità di disporre di aspetti sociali coesivi, e riparativi delle eventuali carenze famigliari. La frequente mancanza di affidabili modelli di riferimento nell'ambiente famigliare e in quello sociale e la sempre maggiore diffusione, da parte della televisione, di modelli, che in molti casi finiscono surrettiziamente col colmare quel vuoto, proponendo comunque valori inaffidabili e superficiali, non migliora la situazione. Inoltre il divario continuamente sperimentato fra ciò che la pubblicità televisiva mostra come "necessario" e facilmente fruibile e la realtà del quotidiano aumenta i sentimenti di delusione e di frustrazione che stimolano posizioni nichiliste e disperate, proprio nel senso di senza speranza, privando le persone più fragili della fiducia necessaria per fare progetti e cercare di condurli a termine.
Come sostiene Wilson (1980), oggi i ragazzi occidentali sono "ribelli senza causa" e se molti di loro, grazie ad ambienti famigliari affidabili e a loro doti naturali hanno saputo mantenere una condotta valida all'interno di un adeguato processo evolutivo, altri, o perché meno dotati o perché vissuti in ambienti particolarmente deprivanti, soffrono sempre di più di disturbi con irrisolti problemi di dipendenza che l'eventuale uso di alcool e droga non fa che aggravare.
Mi rendo conto che questo problema richiederebbe un discorso molto più lungo e complesso rispetto a quei pochi elementi cui ho accennato, ma non è questo il luogo per una digressione più ampia a questo riguardo. Inoltre non voglio qui entrare nel merito dell'eziologia specifica dei pazienti con disturbi di personalità da tempo riconosciuti come derivanti da una molteplicità di fattori, ma semplicemente sottolineare come attualmente il sociale non disponga di assetti istituzionali coesivi, e riparativi rispetto a eventuali gravi inadeguatezze dell'ambiente famigliare, ma anzi, in un certo qual modo, peggiori la situazione.
A questo punto faccio la mia tesi di Foulkes che sostiene che danni provocati nel macro o micro-sociale sono più facilmente riparabili in una situazione sociale adeguata. Questa potrebbe essere considerata la prima e più macroscopica ragione del perché ritengo la terapia di gruppo il setting di elezione per questo tipo di pazienti.
A proposito del micro-sociale, cioè dell'ambiente famigliare di origine, mi preme qui ricordare che molte ricerche hanno dimostrato che i pazienti con disturbi di personalità nella più parte dei casi hanno sofferto di rapporti parentali particolarmente carenti, e se questa non è una condizione sufficiente per il manifestarsi di disturbi di personalità, certamente costituisce un fattore di rischio. Inoltre da più autori è sostenuto che questo tipo di patologia ha la sua origine in fasi molto precoci dello sviluppo, conseguente alla mancanza o alla perdita di una adeguata holding che ha implicato una particolare difficoltà nei processi di separazione-individuazione.
In questa situazione la mancanza di costanza oggettuale ha determinato la l'impossibilità di una relazione integrata così che le relazioni oggettuali delle persone affette da disturbi di personalità sono dominate dalla scissione, dal momento che i processi di differenziazione non hanno potuto seguire un naturale sviluppo evolutivo. Tutto ciò ha prodotto una fragilità del Sé, un conseguente indebolimento della capacità dell'Io di assolvere le sue funzioni e un uso anacronistico di meccanismi di difesa molto arcaici. Ogni momento cruciale dello sviluppo ha poi rimesso in discussione questo equilibrio già instabile, aumentando i conflitti irrisolti.
Possiamo quindi concludere questo rapidissimo e conseguentemente riduttivo excursus sulla patologia tipica dei disturbi di personalità sostenendo che questa è una patologia tipica delle relazioni oggettuali. E a mio parere è proprio la teoria delle relazioni oggettuali che permette di considerare l'individuo ed il gruppo come punti diversi di un continuum, ma in questa occasione vorrei sottolineare alcune specificità del setting gruppale che me lo fa ritenere lo strumento terapeutico di elezione per questo tipo di patologia.
Per comprendere le tematiche gruppali è utile assumere una concezione del tempo definibile attraverso la metafora della spirale. La figura della spirale ruotante attorno ad un'asse ci consente di sintetizzare la pluralità di dimensioni e di movimenti che costituiscono la nostra esperienza temporale nel gruppo. Si può dunque andare avanti o indietro, con la possibilità di ritornare allo stesso punto relativamente alla distanza dell'asse, anche se su piani diversi, dal momento che in ogni seduta e per ogni individuo sono contemporaneamente presenti livelli multipli di realtà. Inoltre ho spesso sottolineato nei miei lavori che un elemento fondante e caratterizzante la terapeuticità gruppale è il movimento dialettico fusione-individuazione che è sotteso ad ogni seduta ed è quindi sempre fruibile.
Ma questa concezione di un tempo che si muove seguendo un spirale mi permette di sostenere che quando parlo di fusione nel gruppo faccio riferimento non solo alla possibilità di riattualizzre simbolicamente la fase della simbiosi con l'oggetto primario, ma anche a quella di poter condividere ulteriori e più evolute fasi di fusionalità. Per quanto riguarda però i pazienti con disturbi di personalità mi pare di fondamentale importanza il fatto che fra le varie potenzialità del gruppo vi sia anche quella di poter far regredire i suoi partecipanti a quei livelli molto primitivi dell'esperienza dove hanno avuto origine i loro problemi fondamentali. Si regredisce proprio a quella fase fusionale arcaica (che Balint definisce proprio "del difetto fondamentale") senza distinzione tra soggetto e oggetto, che caratterizza appunto il momento fusionale primitivo del gruppo, in cui emergono fantasie di onnipotenza. Questo livello di regressione è potenzialmente presente fin dall'inizio della storia del gruppo e continuerà ad esserlo per tutto l tempo della sua esistenza dal momento che essere in gruppo richiede la capacità di mettere in gioco le zone simbiotiche comuni e ciò è reso possibile dalla particolare permeabilità che le frontiere dell'Io assumono nella situazione gruppale.
L'aspetto positivo e trasformativo di questa regressione qui è dato dalla possibilità di tornare al tempo della relazione con l'oggetto e quindi di entrare nell'area del difetto originario per riparare il percorso del "Sé grandioso" (base per lo sviluppo del "vero Sé") e di fare magari per la prima volta esperienze fusionali rassicuranti, all'interno del gruppo vissuto come "holding", e in seguito di poter risintetizzare e integrare, grazie al lavoro gruppale e agli opportuni interventi del terapeuta, gli oggetti parziali in un oggetto totale. In questo caso la sincronicità che dovrebbe caratterizzare la relazione madre-bambino diviene il prototipo dell'interazione di gruppo.
Non è facile però portare un esempio relativo questa situazione proprio perché l'esperienza che questo movimento regressivo rende possibile si situa ad un livello preverbale ; in questo contesto il linguaggio perde il significato convenzionale adulto e le parole vengono usate come una sorta di oggetto transizionale. Così non si può riferire il contenuto preciso di una seduta in cui è stato esperibile l'aspetto positivo di questo livello arcaico di regressione, ma si può invece parlare dell'atmosfera positiva dominante che, condivisa da tutti, è solitamente di grande intensità e fiducia ; si partecipa tutti, terapeuta compreso, ad una sorta di immersione in una "serena fusionalità", esperienza questa, che molti pazienti con disturbi di personalità non avevano mai potuto fare.
Nel primo apparire, ancora superficiale, della possibilità di questa fase, si sente spesso usare il pronome "noi" ; "anch'io", diviene una sorta di parola d'ordine. Da questo inizio di fusionalità "formale", presente in un gruppo che esiste da poco, dal cominciare a star bene insieme, anche se in modo confuso, si origina la potenzialità di una fusionalità più autentica e profonda nell'evolversi dl processo gruppale.
Nel momento in cui nel gruppo si attua la possibilità di regredire a questo tipo d fusionalità arcaica, è importante che il terapeuta non faccia l'errore di interpretare questa situazione, peraltro non interpretabile se non con effetto di intrusività disturbante l'intensità dell'esperienza, ma la lasci svolgere liberamente e quindi pienamente esperire dai membri e dal gruppo nel suo insieme, per tutto il tempo che a suo parere mantiene una funzione terapeutica; altrimenti, poiché, come ho già detto, la regressione si situa ad un livello preverbale, si corre il rischio che le interpretazioni non vengano comprese a livello del linguaggio convenzionale adulto, ma vengano invece sentite come un elemento disturbante che distrugge l'armonia dell'insieme. Solo dopo che questa esperienza sarà stata completamente vissuta sarà possibile metabolizzarla e trasformarla in pensiero.
Quando l'aspetto positivo e rigenerante di questa esperienza sarà in via di esaurimento e quando cominceranno a farsi strada elementi disturbanti il lavoro terapeutico e quegli aspetti angoscianti della fusionalità legati al timore di perdere l'identità, e insieme a questi anche ansie relative alla paura di frammentazione rispetto all'emergere di rapporti con oggetti parziali, solo allora sarà opportuno che il terapeuta riveli i pericoli presenti nel perdurare di questa posizione e li tenga sotto controllo. Questa regressione, in quanto condivisa, mi pare aumentare, attraverso una maggior coerenza del gruppo proprio quel senso d fiducia che Balint ritiene fondamentale per l'uso benigno della regressione, e fornire le basi per un autentico "nuovo inizio" che stimola l'emergere di modalità più adeguate di rapporti e con sé stessi e con gli altri.
La condivisione di questa esperienza, inoltre riduce di molto le paure di eccessiva dipendenza, dal terapeuta, che spesso le situazioni massicciamente regressive provocano nell'analisi individuale. Il comportamento del terapeuta stesso che ha saputo essere presente senza interferire con l'atmosfera prevalente nel gruppo, ma anzi vi si è serenamente immerso aiutando così a mantenerla, ha permesso ai membri di comprendere che non il terapeuta, ma il "gruppo" consente di sperimentare quell'ambiente "sufficientemente buono" in cui si può con fiducia lasciarsi andare all'esperienza regressiva e che il gruppo nel suo insieme può fungere da sostituto adeguato dell'oggetto primario.
Per quanto riguarda specificamente le persone affette da disturbi di personalità che soffrono di dispersione dell'identità possiamo notare che la situazione fusionale può a volte suscitare angoscia e/o una reazione difensiva di svalutazione o di fuga. Per questo io tendo a inserire uno o due pazienti con questo tipo di patologia in gruppi di nevrotici così che questi ultimi possano fungere da modello e da sostegno per affrontare questa fase. Ritengo però che per quanto riguarda i pazienti sieropositivi con disturbi di personalità sia necessario fare un discorso a parte.
In molti casi ho infatti l'impressione che il presentificarsi alla mente della propria morte come evento non lontano nel tempo abbia una funzione individuativa e differenziante fra sé e il mondo dei "sani". Sembra così che spesso l'identità di sieropositivo permetta di meglio definire i confini dell'Io e di consolidare, seppure con profonda ambivalenza, il senso dell'identità per cui i possibili momenti di fusionalità vengono affrontati con minore angoscia rispetto agli altri pazienti affetti da analoghi disturbi.
Grazie alla mia esperienza mi sento così di affermare che un gruppo formato per intero da pazienti sieropositivi con disturbi di personalità sia non solo possibile ma anzi auspicabile per le ragioni cui ho già accennato e per quelle che ora riferirò. Infatti ho notato che in questo tipo di gruppi il sentimento di condivisione è immediatamente presente: la comunicazione colpisce per i suoi caratteri di immediatezza e di richiesta di autenticità.
Questi elementi sembrano stimolare una notevole accelerazione verso livelli molto approfonditi di comunicazione così che la circolarità affettiva, la coesione e la consapevolezza del gruppo come strumento terapeutico si presentificano molto prima con questo tipo di pazienti che negli altri gruppi terapeutici. Mi è parso anche, in molti casi, che la paura di morire, se in una prima fase stimola una profonda e quasi insostenibile angoscia, viene in seguito un po' messa da parte per lasciare spazio alla possibilità di tollerare il senso di incertezza e di precarietà in cui, anche se non ci si sente sani, se non si sta bene, è però possibile "sentirsi bene".
E' naturale in questa situazione interrogarsi su quale è il senso della propria esistenza e ricercarne il significato. Sostengono Lazzari, Campione e Chiodo (1993) : "Per liberarsi dal pensiero assillante e immancabile di un futuro incerto e pieno di dolorose sorprese, alcuni sieropositivi si dedicano ad attività nuove nella loro vita, in campo sentimentale, lavorativo e ricreativo. Si assisterebbe cioè a una "crescita" psicologica, a una specie di "illuminazione esperienziale ove ogni aspetto di sé e degli altri assumerebbe un significato nuovo, inaspettato, ma comunque vero". Sembra, un po' paradossalmente, che il pensiero di una morte "annunciata" permetta a questi pazienti, forse per la prima volta, la consapevolezza di avere diritto alla vita, alla qualità della vita, e il gruppo coeso stimola ulteriormente la richiesta di questo diritto attraverso la condivisione e il sostegno.
Infatti, al di là delle ovvie particolarità individuali, i membri dei gruppi di cui mi sono occupata come supervisore, mi sono parsi avere alcuni aspetti comuni nella loro storia personale. In particolare mi ha profondamente colpito il fatto che nell'evolversi del lavoro gruppale sia via via emerso, dalle loro comunicazioni relative alla loro storia passata e presente, che vi era stato per tutti questi pazienti un messaggio non necessariamente esplicito, ma proprio per questo ancora più pericoloso, da parte dell'ambiente d'origine, di non diritto alla qualità della vita, ma al massimo alla sopravvivenza. Infatti o erano stati quasi tutti figli non voluti, o avevano avuto figure parentali molto assenti e/o particolarmente narcisiste. Questi ultimi tipi di persone considerano i figli solo come un prolungamento narcisistico di sé e quindi li accettano pienamente se e solo se rispondono alle loro aspettative, altrimenti danno segni di intolleranza o di delusione. Così i pazienti in questione non si erano mai sentiti voluti, e voluti per quello che erano realmente, ma avevano dovuto assumere atteggiamenti adattati o falsamente compiacenti e/o reattivamente trasgressivi.
Altri membri del gruppo avevano invece avuto genitori con gravi patologie, a volte con disturbi specifici di dipendenza da alcool o da droghe; nessuno di loro aveva avuto un ambiente famigliare "sufficientemente buono" né figure parentali che avevano potuto fungere da modello affidabile e valido. Non a caso infatti ho parlato di ambiente di origine e non di genitori, perché in alcuni casi era mancata una vera e propria famiglia di riferimento ma vi erano state figure parentali più o meno inadeguate. Queste persone ancor prima di essere sieropositive si sentivano persone "marchiate" e non nel senso banalmente sociale ma, come scrive Zucca Alessandrelli (1995): " Il "marchio" consiste nel terrore primario di "non essere" come persone, cioè di non avere significato e valore come soggetto-oggetto di relazione vitale... La possibilità di affrontare le trasformazioni fondamentali e quindi le separazioni e con ciò la necessità di perdere le posizioni senza limiti, si scontrano con il fatto di dover accettare, in un'età molto vigorosa, addirittura la possibile fine dell' "oggetto fondamentale" di ciascuno di noi: la nostra stessa vita. Eppure proprio nell'imminenza di questo incredibile pericolo può sorgere la possibilità di riprendere la richiesta di avere significato".
A questo proposito, come ho già accennato prima, ritengo che il gruppo terapeutico sia luogo di elezione in cui questa richiesta possa essere accolta. Il gruppo infatti nel divenire del lavoro è considerato dai membri sia come un'estensione di sé, sia come un luogo in cui esserci e dire, guardare, ascoltare e capire. L'appartenenza al gruppo viene continuamente alimentata attraverso la messa in comune di vissuti personali, soprattutto di angoscia e di depressione, che, in quanto diventano comunicazione, possono essere accolti ed eventualmente modificati. L'esperienza di appartenenza è particolarmente importante per questo tipo di pazienti, in quanto fondamentale per la costruzione del senso di Sé come una persona che ha diritto a vivere e ad occupare uno spazio affettivo e di ascolto.
A questo proposito va sottolineato che il gruppo, come sostiene anche Neri (1995), assume spesso la fondamentale funzione di oggetto-Sé, cioè di oggetto che fa emergere e mantiene il Sé dell'individuo e gli dà significato. A volte assume il ruolo di oggetto-Sé gemellare che grazie alla presenza calda e affettiva di altre persone dà un essenziale contributo alla costruzione di sentirsi essere "umano tra gli umani" e per queste persone che si sentono così spesso "diversi" questo è molto importante. Vorrei anche sottolineare che l'esperienza di un rapporto con un oggetto-Sé gemellare è molto più forte e pregnante nelle situazioni di gruppo che i quelle di terapia individuale. Nel gruppo infatti, il fatto solo di vedersi e di essere in molti, rende la presenza corporea degli altri più consistente ed esplicita e stimola la consapevolezza di appartenere ad un contesto attivo e funzionante.
Tutto ciò però, in particolare con i pazienti sieropositivi, non va interpretato ma, come le fasi di positiva fusionalità, va lasciato esperire, tenendo anche conto del fatto che, per questo tipo di paziente, un ambiente facilitante ed accogliente rappresenta pur nella sua positività quel "nuovo" ed ignoto, che in quanto tale fa paura e induce reazioni di difesa, tra cui anche l'assentarsi dal gruppo. Anche questo eventuale "agito" che un paziente può fare ha però un importante valore di comunicazione per tutto il gruppo. Al suo rientro infatti il paziente, che ha "agito" la paura anche per gli altri, sarà accolto in un ambito che, diversamente dal suo passato, né lo disprezza né lo scaccia, ma anzi gli dà il valore aiutandolo a comprendere come egli abbia assunto per tutto il gruppo il ruolo di chi ha paura del nuovo.
Sarà quindi possibili evidenziare che la paura del nuovo è un vissuto condiviso che grazie al suo "agito" è diventato comunicazione che ne ha permesso la consapevolezza e la elaborazione. Il paziente in questione uscirà rafforzato da questa esperienza e con lui tutto il gruppo, grazie alla consapevolezza condivisa di poter essere compresi e di poter essere e fare anche per gli altri. Sull'importante uso del ruolo nel gruppo rimando al mio scritto in proposito (1988). Ritornando alla fondamentale funzione del gruppo come oggetto-Sé va anche ricordata la possibilità che il gruppo assuma il ruolo di oggetto-Sé ideale ed onnipotente, come sempre accade nelle fasi di positiva fusionalità. Questo oggetto è idealizzato ma non distanziato, anzi è vissuto come un'estensione del Sé e consente di sperimentare di essere tutt'uno con un ideale di calma e di forza. E' chiaro che da questa fase sarà poi necessario passare, e non una sola volta (tempo a spirale), a quella di una sana individuazione, ma è importante che questo passaggio, diversamente da quanto è avvenuto per la più parte di questi pazienti, non sia più traumatico e radicale ma graduale e condiviso e che questa esperienza rimanga nella storia del gruppo come serbatoio di energia cui accedere nei momenti di fatica e di difficoltà.
"Il gruppo come oggetto-Sé ideale quindi, mette a disposizione dei partecipanti una certa aliquota di "onnipotenza" condivisibile e fruibile" (Neri-1995).inoltre il gruppo come oggetto-Sé ideale può anche offrire un rispecchiamento gioioso, e partecipe delle conquiste positive dei singoli membri, formando e mantenendo un'immagine buona di sé che, togliendo la disperazione, ridà la speranza e incoraggia verso nuovi progetti, in un'area di profonda partecipazione affettiva. Nel gruppo che funzione bene infatti è sempre presente la consapevolezza che il successo di uno è la risultante del lavoro di tutti ed entra a far parte di una storia comune e condivisa, dal momento che le vicende del singolo individuo si collocano all'interno del campo storico gruppale. La storia del gruppo consente anche ai nuovi entrati la condivisione, almeno empatica, della fiducia di poter affrontare e risolvere insieme i problemi. Essa ha fra l'altro la funzione di alleviare la tensione di alcuni momenti drammatici, fornendo narrazioni confortanti relative a conflitti analoghi a quelli esperibili nell'hic et nunc delle sedute, già presentatisi nel passato e risolti, col risultato di diminuire le ansie depressive.
Di solito il racconto "storico" viene fatto da quel paziente che nel passato era stato portavoce di quelle problematiche che vengono riattualizzante nel presente e che ora può riguardare con occhio distaccato ma empatico e consapevole, o da un sottogruppo di pazienti, che avevano assistito e partecipato ad un lavoro comune: anche se, del sottogruppo, a volte, nei gruppi non di sieropositivi, alcuni dei pazienti che erano stati a loro tempo i portavoce avevano già finito la terapia. Nel gruppo di sieropositivi invece il ricordo, il più delle volte, non riguarda pazienti che hanno sospeso e terminato la terapia, ma pazienti che sono morti. Proprio per questo la storia diventa particolarmente importante per le persone sieropositive, perché assume anche la funzione di ricordare il percorso tracciato da tutti coloro che hanno partecipato al gruppo e ne mantiene viva la memoria, e la consapevolezza di ciò è di grande conforto per questi pazienti.
Quindi se la dimensione storico-comunitaria è un fattore terapeutico specifico del lavoro di gruppo che promuove l'evoluzione sia dell'individuo che del gruppo stesso, nel gruppo di pazienti sieropositivi ha una funzione fondamentale e ineludibile. Nel gruppo terapeutico la storia permette di andare oltre la frammentazione e l'episodicità dell'Io, verso la condivisione di esperienze umane universali e consente di attuare una sintesi positiva fra la prospettiva sincronica e quella diacronica, producendo un movimento contrario ma complementare a quello verso l'individuazione, fornendo le basi per andare oltre la paura della separazione e della solitudine, dal momento che collega l'individuo agli altri.
Quanto detto è naturalmente vero anche per i gruppi formati da membri sieropositivi, ma per essi la storia assume un'importanza ancora maggiore dal momento che li rassicura di lasciare "un'eredità di affetti" in un ambito di appartenenza dove il loro diritto alla qualità della vita è stato riconosciuto e condiviso e dove quindi si può anche accogliere il bisogno e il diritto alla qualità della morte, come evento ineludibile di tutti gli esseri umani di cui si può parlare, e non come a risultante di una personale colpa. Questo aspetto diversifica il gruppo terapeutico dal resto del sociale dove attualmente prevale la tendenza a negare maniacalmente la morte e il paziente sieropositivo viene colpevolizzato e ghettizzato anche perché rappresenta un concreto "memento mori".
Nel lavoro gruppale anche il terapeuta deve sapersi confrontare con questa realtà in modo autentico e profondo e garantire al paziente che insieme al gruppo saprà mantenere la memoria e la testimonianza di un'esistenza che ha avuto significato e valore. Non a caso quando in un gruppo di sieropositivi entrano pazienti nuovi o quando si formano gruppi nuovi con l'inserimento anche di pazienti che avevano partecipato a gruppi che poi per varie ragioni erano rimasti privi di un numero sufficiente di membri, un paziente assume il ruolo di "aedo" del gruppo facendosi portavoce della storia passata e rinnovando il ricordo delle persone che non ci sono più e in un certo qual modo mette alla prova il terapeuta per verificare se nella sua mente i pazienti sono e rimangono presenti. E ancora non è un caso che in questi gruppi più che in altri si festeggino le ricorrenze che spesso in famiglia non si erano festeggiate in modo adeguato (come il Natale e il carnevale): in queste occasioni si scattano delle fotografie che poi vengono date a tutti i partecipanti e quindi anche al terapeuta e all'osservatrice che le mantengano per il gruppo.
Per la conduzione di questo tipo di gruppi molte volte è necessario il riferimento ad un supervisore, perché numerose sono le difficoltà da affrontare e particolarmente profondo ed autentico è il coinvolgimento richiesto al terapeuta e problematica è la regolamentazione della distanza emotiva necessaria per affrontare al meglio le tematiche di volta in volta presentificate.
Avrei ancora moltissime cose da dire sulla specificità di questo tipo di gruppi e non pochi sarebbero gli esempi che mi piacerebbe riferire.
Voglio però sottolineare come sia importante essere consapevole che questi sono gruppi terapeutici e non gruppi di accompagnamento ad una "buona morte", perché condivido totalmente con i pazienti il loro diritto alla qualità della vita e alla comprensione del significato della vita prima di potere e dovere affrontare quello della morte.
Proprio in questi giorni un paziente ha finito la terapia in uno di questi gruppi e ha lasciato in dono agli altri membri la speranza di poter andarsene dal gruppo perché ci si sente bene e non solo perché si ha paura del gruppo e si fugge via, o perché si muore. Ciò naturalmente non significa negare la morte, ma poterla vedere e affrontare insieme alla vita. Il legame inscindibile vita/morte è ben rappresentato dalle parole di Sini: "ricordiamoci che al di là del sapere pubblico, e al di là di questo fatto che viene pensato come l'impensabile (la morte) e che d'altra parte apre alle fantasie del pensiero, al di là di tutto ciò, sempre, continuamente vincente su questo pensiero c'è l'incanto della vita, l'incanto di ogni istante che fronteggia il pensiero della morte, che da solo lo sconfigge in ogni istante, in una onnitemporalità che certo non può fare a meno della morte (altra sua faccia), ma che non è meno forte, non è meno pervadente, non è meno potente e, soprattutto, non è meno umana".
Ritengo di poter quindi concludere che il gruppo terapeutico, grazie alle specificità che ho evidenziato, sostiene i pazienti sieropositivi nel far sì che la morte ridia o dia per la prima volta il senso di sé e del proprio valore come persona, il senso della propria irripetibilità e unicità come esseri umani e permette che il passaggio dal tempo "infinito" del soggetto sano al tempo potenzialmente limitato del soggetto sieropositivo, sia un passaggio ad un più attento esame nell'hic et nunc, delle potenzialità positive reali che la vita può offrire.
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