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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING GRUPPALE
Psicoanalisi di Gruppo


Il paziente psicotico nel gruppo a finalità analitica

di Stefania Marinelli



Vorrei presentare il tema, quello dell'approccio agli elementi e ai pazienti psicotici all'interno del gruppo terapeutico, dal punto di vista di una prospettiva particolare, sulla quale da qualche tempo si è concentrato il mio interesse e il mio lavoro: quella del sentire, o del sentire psicoanalitico, se così possiamo denominare e delimitare la nozione di un oggetto di ricerca creato dal processo di ricerca stesso. Freud si è occupato lungo tutta la sua opera, in particolare nello studio dell'isteria, del sentire sia come evento fisiologico, sia come base del conoscere e del pensare e anche come modello dell'attività rappre-sentazionale della mente e dei processi cognitivi; e del sentire come campo di stimolazione per l'attività psichica e come fonte delle sue alterazioni e patologie. Anche la psicoanalisi a lui successiva, particolarmente quella che si è cimentata, come quella inglese, nello studio delle psicosi e ha formulato una modellizzazione in tal senso, ha tenuto in sempre maggior conto l'aspetto e l'esperienza soggettiva del sentire. Bion l'ha teorizzata e inclusa soprattutto dal punto di vista del valore conoscitivo della esperienza inconscia, a cui il pensiero ogni volta ritorna per sviluppare rottura, cambiamento e conoscenza (vedi l'idea della differenza fra le due forme di conoscenza, K e O).
La prospettiva utilizzata, relativa al sentire prima che al pensare, o come preludio e forma della possibilità di pensare, e relativa al sentire psicoanalitico in particolare, rinvia infatti al processo e alla relazione di analisi, come fulcro dell'attività conoscitiva e di trasformazione, e vuole indicare in special modo quelle particolari condizioni della sofferenza psichica e mentale, limitative della facoltà di compiere l'esperienza, di elaborarla e di trasformarla, il cui approccio durante l'analisi richiede soprattutto un coinvolgimento della persona dell'analista e del suo sistema e metodo di pensiero: gli richiede un esame dal punto di vista della sua possibilità di utilizzare a regime costante soprattutto pensieri sorgivi e interi.
La ricerca nell'ambito del sentimento soggettivo (soggettivante) del paziente o del gruppo in analisi e della protezione di tale nucleo coesivo - anche e in special modo quando è di carattere illusionale o illusorio - riguarda quindi l'uso dei modelli e delle teorie che li hanno prodotti; e conduce anche a trattare un tema di ordine tecnico, relativo ai tempi e ai modi di promuovere il processo analitico, e relativo alle sue connessioni con i diversi livelli o istanze che via via l'analizzando può o non può portare e rappresentare nella relazione analitica. Infatti il modo di sentire dei pazienti durante l'analisi è in questo senso considerato come se fosse insieme la scena delle loro risorse e produzioni personali, e quella delle loro difese e resistenze: come l'oggetto del cambiamento, cioè del desiderio e della paura. Come il sogno. E come il sogno sarà da rispettare, da accogliere, da conoscere; da interpretare.
La trattazione di questa prospettiva e della sua reversibilità, come alternanza di vertici utilizzabili, variando dall'analisi del sentire dell'analista a quella del paziente o del gruppo, che presento come appena abbozzata, merita nel futuro di evolvere verso enunciati maggiormente espliciti e correlati. In questo senso è prezioso l'apporto del gruppo nel quale essa viene condivisa.
Vorrei comunque, dopo questa premessa, sottolineare una necessità ulteriore che si pone all'analista o al terapeuta che tenti di confrontarsi, con un metodo psicoanalitico, con il trattamento di pazienti francamente o prevalentemente o segretamente psicotici.
Non si tratta infatti solo della necessità per l'analista di porre costantemente in campo e nella relazione di analisi un pensiero, si diceva all'inizio, dalle qualità sorgive e intere; ma anche quella di offrirsi come soggetto totalmente sincero per quello che egli è realmente, al di là, o meglio al di qua, della finzionalità analitica; come contenitore anche preventivo delle ansie intollerabili e rifiutate del paziente; e come soggetto virtualmente capace sia di parziali prestiti integrativi (di funzioni mentali assenti o rimosse o distrutte nel paziente), sia di momentanei o prolungati alloggiamenti in sé di attività e materiali psichici che il paziente non può o non vuole o non sa di ospitare in sé. La flessibilità che l'approccio a questi pazienti richiede e insegna, presume che l'analista disponga della possibilità di fare fusioni "buone" con il paziente e con il suo mondo di sentimenti nascosti, ma anche rapidamente di saperne uscire e procedere in direzioni e spazi completamente diversi, spesso paralleli o lontani, che necessitano comunque di una marcata discriminazione di sé e sufficiente auto-differenziazione. Credo che la verosimiglianza di un trattamento analitico con un paziente psicotico o un gruppo, tragga la sua possibilità di successo dalla capacità che ha l'analista di utilizzare il "come se" analitico come un dato concreto e il dato concreto "come se" non fosse reale: poiché in questi pazienti manca la dimensione della finzionalità, e al contempo quella concreta, spesso arroccata in sistemi difensivi rocciosi e unilaterali, occupa tutto lo spazio dell'espressione e dello scambio, allora dobbiamo immaginare che tale scena o dimensione finzionale sia da creare, deducendola dai dati disponibili, e che i suoi personaggi siano da attivare attraverso la mente dell'analista (e del gruppo) e al suo interno. Se i poli dialettici non sono disponibili per l'analisi come nella relazione con il paziente nevrotico, i procedimenti dell'analista dovrebbero renderli virtualmente disponibili. Dunque, non un soggetto che analizza un oggetto, ma un teatro a più voci, capace di farsi e disfarsi, mutare, trasferirsi, improvvisarsi: la funzione analitica risiede nella sua allestibilità mobile, nel ribaltarsi continuo delle voci in campo e nella tollerabilità alla frequente sparizione e riemersione delle qualità finzionali della recita, che risorge continuamente dalle sue ceneri. Questo teatro finzionale potrebbe essere utilizzato dal paziente psicotico per rendere sia meno monolitici sia più funzionali i meccanismi, di cui egli fa abuso, di scissione e negazione: crederà più facilmente che il negato potrebbe essere vero, e che il vero, così dialetticamente dedotto e specie se molto minaccioso, sia in realtà non plausibile; questo aumento dell'oscillazione potrebbe aumentare la possibilità della percezione e avvicinare l'ipotesi di un contatto realistico con se stesso, anche se breve e parziale - ma non per questo meno proficuo; anzi.
Se ci troviamo a pensare emozioni e pensieri selvaggi, primitivi, informi, caotici, e ad alloggiarli in noi per comprenderne la forma e il senso, allora dobbiamo anche un po' accompagnare il loro destino e le loro modalità, e viverne concretamente la qualità definitiva e materiale. "Reverie", nel senso di Bion, nel nostro caso significa disporre di un apparato di pensiero trasformativo che funzioni come una rice-trasmittente a più stazioni simultanee e con diversi sistemi di amplificazione contemporanei: il paziente psicotico è sempre più intelligente di noi nel percepire la qualità profonda della nostra risposta, la sua eccessiva unilateralità o unidirezionalità; è più sensibile di noi al vuoto, alla passività, all'inautentico; teme il monotono, il ripetuto, l'indugio; è intollerante dell'incertezza e pretende un tipo di assertività particolare, contenente tutti gli opposti, la massima semplificazione, la verosimiglianza, la trasmissibilità veloce e diretta; la giusta profondità. La complessità lo affatica; egli irride alle tracce dei nostri movimenti acrobatici e paradossali - per lui così facili - quando li percepisce. Se sospingiamo la sua mente verso il contatto, si aspetta da noi che ne lo rassicuriamo con opposizioni totali, negazioni, contrari; e che siamo pronti come la tartaruga di Achille a trovarci continuamente in un altrove nuovo e veloce.
La presenza del paziente psicotico non ammette margini di controllo, progetto, previsione del piano terapeutico e della evoluzione della relazione di analisi, e l'analista (e il gruppo) è sottoposto ad un regime di cambiamento e di astinenza che può invadere la sua comune fiducia nell'uso di funzioni mentali e affettive, che lo sostengono abitualmente nella lotta contro l'offesa degli elementi distruttivi, e che tende a disordinare i suoi investimenti e le sue identificazioni di base. Nell'analisi di un transfert psicotico non c'è posto per l'ordine delle preferenze e neppure per la preferenza per la vita stessa; e nello stesso tempo questa astinenza analitica e questa mobilità richieste e necessarie costituiscono il rischio che la mente psicotica le vanifichi o le controlli come un territorio di manovre tiranniche e svuotanti, che tenderebbero a esaurire il tentativo di auto-differenziazione dell'analista. E' difficile conoscere il confine fra accoglimento, elaborazione, respingimento dei contenuti e delle modalità psicotiche, dato il loro aspetto saldato di bisogni del narcisismo coesivo e di invasione pervasiva e maniacale del narcisismo distruttivo. La sostanza con la quale abbiamo da trattare è una sostanza insieme molto complessa e elementare, molto primitiva e molto evoluta, stupida, opaca e insieme geniale e brillante; presente in modo concreto e evasiva in massimo grado. Il suo dolore bruciante e la sua freddezza disorientano la ricerca di un registro emozionale e l'incontro con lo stato di continua intermittenza e frattura dei contenuti correlati, o che correlati non sono, rischia di accelerare la ricerca di un approdo qualsiasi, che attenui l'angoscia del vuoto e dell'esplosione che minacciano di travolgere tutta l'esperienza di condivisione.
Se queste sono le condizioni di minaccia e di scacco della mente dell'analista durante il lavoro con questo genere di pazienti, quale sarà il destino e la funzione del corpo dell'analista? Esso dovrà essere
sottratto all'invasione delle identificazioni proiettive del paziente. Ma quale corpo allora le albergherà, fornirà soggiorni momentanei o
duraturi alcorpo fisico e fantasmatico del paziente, spesso inesistente, indefinito, espulso o anestetico? O fornirà un corpo alla sua fisicità scissa? O potrà restituire selettivamente corporeità al mentale e pensiero all'eccesso di sensorialità?
Il gruppo, quale luogo di alloggiamento di questo genere di condizioni confuse e di rappresentazioni primitive, può sviluppare alcune di queste funzioni a qualche livello del suo funzionamento? Con quali rischi e limiti e quali prospettive di successo? Che ne è dell'analista impassibile sulla poltrona? Quello descritto è un analista vorticante e proteiforme e la sua difesa del pensiero e della funzione analitici è complicata e faticosa. Ma spesso remuneratrice.
Assumerò allora l'idea di alcune funzioni terapeutiche, specifiche del gruppo, che aiutino a consentire un'esperienza di contatto e di riappropriazione di sé nei pazienti psicotici: sia nel senso comparativo (mettiamo, nel confronto con l'esperienza terapeutica duale); sia nel senso specifico (per le qualità proprie del setting di gruppo). Utilizzando anche esempi clinici, proporrò di riflettere sulla possibilità di promuovere alcuni fattori terapeutici, che possono svilupparsi (in gran parte spontaneamente) nel gruppo, e la possibilità di finalizzarli, conservandoli attivi, anche quando il suo campo, reso intasato periodicamente da elementi e esperienze distruttivi, fatichi a mantenere attiva la funzione analitica e la formazione di una memoria, e di un patrimonio di affetti e idee in grado di restituire proprietà trasformative e evolutive all'esperienza.
In particolare indicherò come un gruppo terapeutico, da me condotto presso una istituzione psichiatrica, abbia reso esprimibile e modificabile l'esperienza di tre elementi fortemente distruttivi che erano stati portati o si erano prodotti al suo interno: il primo, quello della violenza; il secondo, quello della vendetta; il terzo, quello della ribellione contro il dipendere e della fantasmatizzazione primitiva ad essa correlata. Questi elementi infatti si erano di volta in volta aggregati e disaggregati fra loro, in una costellazione ruotante, ancorata nel narcisismo distruttivo, rendendo per molto tempo la comunicazione nel gruppo carica di rivalità, emarginazione e isolamento. Però l'esperienza di potervi depositare ripetutamente e in molte forme sempre diverse, vissuti caotici e disgreganti, senza che l'attenzione del gruppo rinunciasse alla possibilità di accoglierli, esplicitarli e ricordarli, restituendo l'idea di sentirli riconosciuti e legittimati come costitutivi dell'esperienza di sé, aveva aiutato il gruppo nel suo insieme a reperire un fondamento comune in una qualità nuova del narcisismo di ognuno e di tutti, non mortifera e distruttiva, ma al contrario desiderante e orientata verso passioni accomunanti e condivise, che consentivano la cognizione delle differenze individuali e l'uso dell'esperienza soggettiva, ancorché meno idealizzata, per qualificare l'identità e l'apporto personale all'interno del gruppo. La comunicazione si era resa prima più fruibile e con caratteri di solidarietà, poi più differenziata; la rivalità si era trasformata in stimolo; l'intolleranza in compassione di sé e dell'altro.
Credo inoltre che senza l'apporto della percezione, traumatica per il gruppo, della presenza al proprio interno di quegli elementi psicotici accennati sopra, di cui alcuni suoi membri erano espliciti portatori, il gruppo nel suo insieme e soprattutto ogni suo membro, non avrebbe potuto compiere la stessa esperienza profonda di riconoscimento di sé e di arricchimento trasformativo.
Vediamo più da vicino: un partecipante, Mario, che non riesce a liberarsi di un proprio delirio violento, a sfondo suicidario e omicidario, confessato privatamente all'analista, non può riferirlo al gruppo, poiché se ne vergogna, ma soprattutto perché percepisce che vi resterebbe del tutto coinvolto, o presume che il gruppo, coinvolgendosi e spaventandosi, non potrebbe aiutarlo; e sceglie di comunicargli la propria decisione di tacere. Il gruppo, che è costretto ad accettare l'idea di una "stanza di Barbablù" al proprio interno, entra però inconsciamente in contatto con i contenuti segreti di Mario, li elabora sotto altra forma, impara a tollerarne l'impatto drammatico e mostra in questo modo di fornire una mente-pancia tranquillizzante a Mario, che tace per molto tempo, ma è profondamente grato per aver condiviso un peso ritenuto inelaborabile e soprattutto sente ospitalità per elementi reputati troppo mostruosi.
Carlo, che non può perdonare alla madre di averlo "tradito" o di averlo fatto cadere dal trono assoluto della massima idealizzazione amorosa, porta nel gruppo per anni i prodotti di un'attività sterminatrice di sé, esibendosi ripetitivamente e drammaticamente prima come suo tiranno violento, poi come sua vittima devastata e svuotata; fino a che, sentendo che questo comportamento viene tuttavia pensato come possibile e umano, può confessare la sua colpa: al pari di Medea che ha distrutto i suoi figli per giustiziare l'indifferenza del marito Giasone alla sacralità dei suoi ideali e dei suoi sentimenti, egli maledice e devasta la madre e la sua progenie devastando i propri oggetti-figli, cioè i prodotti della sua mente, i suoi sentimenti, i suoi atti e trascina nel gruppo i brandelli vendicativi della sua sconfitta. Dopo, infine, può piangere e dolersi insieme al gruppo.
Gemma, che non è stata aiutata a dipendere e a riconoscere il bisogno infantile, da una madre che aveva esibito una coppia coniugale ultra-sessualizzata, idealizzata e invidiata, resiste per anni al gruppo senza confessare il suo desiderio di dolcezza e di amore, le sue vergogne di femmina e di figlia, e organizza una falsa se stessa brillante e intellettuale; ma quando sarà stata rassicurata, smetterà di fare l'amazzone e l'adulta, sentendo accolti i bisogni più vergognosi, rievocando ricordi e vissuti attuali preziosi per l'analisi e il riconoscimento, e può scambiare nuovi affetti e pensieri con i compagni.
Vera, una paziente anoressica, è segretamente pervasa da un mondo di fantasmi divoranti e sbrananti, che comprime con la forza del rifiuto e dell'astinenza. Incoraggiata dal sentire che le sue passioni disperate e mostrificanti hanno riscontro in altre esperienze accolte, prossime e ugualmente dolenti, si affida ad ammetterle alla coscienza e alla memoria e a riviverle nel gruppo.
Senza l'attività di accoglimento e riconoscimento del valore e dell'esperienza degli elementi psicotici trattati, e se non si fosse consentito e attraversato l'universo di legami e identificazioni profonde con tali elementi del gruppo, questo valore rigenerante e coesivo dell'evoluzione comune non sarebbe stato attinto: i costi e le perdite erano stati grandi e dolorosa l'esperienza di confusione e di intasamento che essi avevano scatenato. Ma la loro iscrizione, la registrazione attiva che si era potuta depositare nel gruppo, aveva formato una memoria corresponsiva, un'attenzione, un discernimento al quale nelle occasioni più difficili sempre meglio il gruppo poteva ogni volta fare ricorso.
Per descrivere in modo più prossimo la pena di tale esperienza, riporterò ora il sogno di un paziente, un operatore psichiatrico particolarmente intelligente e sensibile, il quale aveva fatto un lungo e fortunato percorso di gruppo; il sogno, che sintetizzava bene alcuni elementi dell'esperienza a un dato momento, si presta a indicarne il carattere doloroso, espanso e intenso, come si può provare all'interno di un gruppo. Il paziente, Carlo, mi disse nel seguito, molti anni dopo aver partecipato al gruppo e rievocandone il valore di aiuto e apprendimento, che vi aveva trovato qualcosa che gli era mancato in una precedente esperienza individuale troppo intensa e idealizzata, e che finalmente lì, nel gruppo, si era potuto "sfogare". Sfogarsi nel gruppo, pensai, non vuol dire, appunto, poter inscrivere in un contesto allargato, anonimo e collettivo, sensazioni, esperienze, comportamenti indicibili con parole o nell'ambito di una relazione troppo vicina? Sperare di sentire apprezzato il se stesso più vituperato e frantumato, potendo attribuirgli, nell'attività di reiterazione e moltiplicazione prodotta dal gruppo, quell'accoglimento particolare, dettagliato, infinitesimale che il progressivo decantamento del magma del gruppo, del suo viluppo sensoriale, ideativo, affettivo, gli avrà offerto? Potremmo forse pensare che la costanza e la pietà del gruppo siano sentiti come potenti, ma meno pericolosi per il sé fragile e disprezzato? Come più legittimanti?
Questo era il sogno:Carlo vedeva un gruppetto di persone in una piazzetta di un paese, le quali tenevano e roteavano una corda con un gatto legato in cima, allo scopo di penetrare nelle porte o finestre dei piani alti, che in altro modo non si era riusciti a raggiungere, per entrarvi. Carlo tentava di chiamare i pompieri, che non arrivavano mai; soffriva; non sa dire come la cosa si potesse concludere.
Introducendo questa immagine, così disorientante, vorrei soprattutto legarle un'idea, quella che si era prodotta a quel tempo nel gruppo dopo l'ascolto del sogno, e dopo che erano stati notati una serie di fatti: quali lo stato d'animo soggettivo del sognante, che in quel periodo si sentiva"scaraventato" qua e là dal suo datore di lavoro; l'assurdità e gratuità dell'uso, da parte dei giovani del sogno, di un soggetto vivo per fare funzioni di corpo contundente; l'incertezza di poter porre riparo; il non prevedere l'esito. L'idea è la seguente: sembra che il sognante descriva il gruppo come un luogo dove i pensieri, i sentimenti e le persone in generale possano sentirsi vorticati, anche molto ingiustamente e crudelmente, dal trovarsi in un gruppo; e che un soggetto dipendente e indifeso possa diventarvi come un mezzo cruento per raggiungere i piani alti - cioè, mettiamo, un'organizzazione mentale e affettiva più adulta o qualificata, o anche il benessere del gruppo. Come se il pensiero del gruppo e il suo lavoro attivante, nel trattare i suoi elementi più deboli e concreti (il gatto), potesse essere sentito come un vortice frullante, cui bisogna chiedere periodicamente di disattivarsi (i pompieri) o comunque di mantenersi in contatto con i piani bassi (la piazzetta e la corda tenuta da terra; e la possibilità di risituarvi il gatto). Sembra che il paziente dica: vortichiamo, ma con qualche pausa per riprendere terra.
Credo che qualcosa che si avvicina a questo sia stato espresso da E.Gaburri, relativamente all'idea di fare una conduzione dei gruppi con pazienti gravi, che preveda lunghi processi di iscrizione all'interno del gruppo e della mente dell'analista, di materiali caotici e disorganizzanti che richiedono un loro tempo per depositarsi; e che solo dopo che il gruppo abbia acquisito nel suo proprio registro tali stati (di assunti di base) e ne abbia vissuto il senso e la dimensione, divenga possibile riordinarli, elaborarli, comprenderli: riprendere terra. Diciamo che solo allora sarebbe possibile utilizzare organizzatori sintetizzanti di elementi emersi in modo disordinato e discontinuo, perché il gruppo possa trovare una esperienza altra degli stessi elementi, possa riconoscerli, trasformarli, organizzarli in un insieme proprio.
Una cosa ancora vorrei considerare, relativamente alla gravità di queste condizioni di cui siamo venuti parlando, e riguarda l'indicazione di una funzione da reputare eventualmente come duplice, all'interno del gruppo, nel fronteggiamento dell'ansia che vi si può produrre. Mi riferisco alla possibilità di immaginare che vi si distinguano due funzioni di contenimento differenziate: una, quella del gruppo nel suo insieme, che sviluppa una propria capacità di analisi e di elaborazione - che né individuo né coppia riuscirebbero a promuovere -; l'altra quella dell'analista e della sua mente più pronta e specializzata, che può risolvere diversi piani di lavoro, compreso quello di fare da cerniera fra singolo e gruppo nei momenti nei quali la disgregazione sia eccessiva per un singolo e la necessità momentanea di proteggere la sua intimità vada rispettata; oppure altre funzioni di raccordo fra l'attività del singolo e del gruppo, le quali difficilmente vi si svilupperebbero in modo plausibile e protetto, senza l'apporto personale dell'analista, il quale può operare e pensare a mio avviso, in un contesto che non coincide momentaneamente o in modo completo con il contesto del gruppo. Ma questo tema potrebbe essere meglio sviluppato nel seguito e con una trattazione specifica.
Qui abbiamo promosso e apprezzato, anche nei suoi versanti più impervi, il sentire e lo sviluppo di un sentire proprio del singolo e del gruppo, come possibilità di riorganizzare elementi caotici e altrimenti persi dell'esperienza psichica, i quali, per approdare alla pensabilità, avranno prima dovuto segnalarsi in una condizione vivibile e adeguata dello sviluppo e dell'esperienza del sentimento e di una ricerca indipendente di esso.


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