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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING GRUPPALE
Psicoanalisi di Gruppo


La Matrice Relazionale e la Psicologia del Sé

Un Possibile Approccio al Piccolo Gruppo a Finalità Analitica

di Laura Selvaggi



Il presente lavoro si propone di valutare la possibilità e l'efficacia dell'applicazione alla terapia di gruppo analiticamente orientata di un modello relazionale complesso, che emerge da studi e riflessioni molto recenti. Le linee fondamentali di tale modello vengono ricostruite attraverso contributi teorici e clinici sviluppati in ambiti diversi, ma strettamente collegati.
In particolare, i punti principali possono essere individuati in:

1 - Una visione moderna dello sviluppo umano, basata sui risultati della Infant Research, che evidenzia la presenza di una matrice relazionale, all'interno della quale il bambino realizza le sue potenzialità innate, in un processo di mutua influenza con l'ambiente. All'interno di questa matrice relazionale (o sistema-diadico) vengono poste le basi per le strutture fondamentali della personalità.
Numerose ricerche dimostrano che il bambino è in grado, fin da un'età molto precoce, di organizzare la sua esperienza del mondo secondo alcuni parametri. Le capacità di distinguere le caratteristiche specifiche di un evento e di generalizzarle in rappresentazioni pre-simboliche (vedi ad es. la rappresentazione amodale) permettono al neonato di individuare le regole fondamentali dell'interazione con gli adulti significativi (struttura dell'interazione). Da tali schemi, arricchiti e rielaborati in forma simbolica, derivano le rappresentazioni fondamentali di Sé, dell'oggetto e di Sé-con-l'oggetto. In questo modo si formano le strutture, normali o patologiche, attraverso le quali l'individuo si orienta nel mondo e dà forma alla propria esperienza. L'origine delle strutture mentali si situa in eventi concreti ed osservabili, piuttosto che in processi interni al bambino.
Autori di riferimento: Stern, Beebe, Lachmann, Lichtenberg.

2 - Una rilettura della Psicologia del Sé in una chiave che privilegia gli aspetti relazionali, con particolare attenzione per i concetti di oggetto-Sé e di empatia.
L'approccio clinico è fondamentalmente basato sul recupero delle esperienze fondamentali per la costruzione di un senso di Sé sano e vitale. Nella prospettiva della Psicologia del Sé la patologia è essenzialmente una conseguenza della carenza di risposte ambientali adeguate alle necessità evolutive. Questa idea (presente in molte teorie delle relazioni oggettuali, ad esempio in Winnicott) è ampliata dai contributi critici di Mitchell e di Basch, che sottolineano, rispettivamente, l'importanza del conflitto relazionale e di una teoria più articolata dello sviluppo. In particolare, Basch prospetta un interessante collegamento tra i concetti fondamentali della Psicologia del Sé e la visione moderna del bambino elaborata da Stern: ciascuna delle diverse esperienze di oggetto-Sé trova riscontro in una delle tappe evolutive del senso di Sé descritte da Stern.
Autori di riferimento: Kohut, Bacal, Newman, Fosshage, Basch.

3 - Un approccio clinico intersoggettivo, che ridefinisce i compiti analitici in termini di esplicitazione e chiarificazione degli schemi primari di organizzazione dell'esperienza, che influenzano prereflessivamente il paziente.
L'azione analitica si sviluppa all'interno del campo (o "unità contestuale") costituito dall'intersezione dei mondi soggettivamente organizzati del paziente e dell'analista.
Il modello intersoggettivo di Atwood e Stolorow costituisce un'ulteriore evoluzione dell'approccio clinico della Psicologia del Sé, che tiene conto dei risultati della ricerca infantile. Il concetto di campo intersoggettivo inserisce al centro della teoria psicoanalitica i modelli di mutua influenza tra il bambino e chi lo accudisce. Lo sviluppo infantile viene descritto in base a un campo psicologico in continua evoluzione, composto dall'intersezione di due mondi soggettivamente organizzati. La patologia è il prodotto di asincronie croniche tra l'universo soggettivo del bambino e quello dei suoi genitori, che impediscono alla struttura psicologica del bambino di trovare risposte adeguate e ne distorcono lo sviluppo. La terapia analitica è rivolta dunque all'esplicitazione e al superamento dei paradigmi di organizzazione dell'esperienza soggettiva che risultano poco adattivi, attraverso le congiunzioni e disgiunzioni intersoggettive che analista e paziente sperimentano nel corso della terapia.
Autori di riferimento: Atwood, Stolorow, Lichtenberg.

4 - Una revisione del concetto di transfert, che si configura non più come uno "spostamento", ma come l'attivazione, nella situazione analitica, dei più precoci principi organizzativi dell'esperienza del paziente.
Se la comprensione della normalità e della patologia si fonda su modelli di esperienza, il transfert non può più essere definito come uno spostamento od una ripetizione nella situazione analitica di sentimenti e relazioni legate a figure dell'infanzia. Si tratta piuttosto di una manifestazione della più generale tendenza ad applicare all'esperienza gli schemi organizzativi che si sono formati nel corso dello sviluppo. Il modello organizzativo del transfert è inoltre caratterizzato da un'ottica fenomenologica, dal riferimento ad una realtà comunque soggettiva (non esiste una realtà oggettiva) e dall'inclusione dell'analista e del suo mondo soggettivo in tutto ciò che avviene nel rapporto analitico.
Autori di riferimento: Fosshage, Lichtenberg, Lachmann, Atwood, Stolorow.

Il lavoro di Lichtenberg (1989, 1992) rappresenta un interessante esempio di questo modello
relazionale. L'autore stesso afferma la continuità con il lavoro di Kohut e sceglie un approccio
che assegna un ruolo centrale alle moderne teorie dello sviluppo e all'intersoggettività. Il
concetto di "scena modello", inteso come modello esperienziale costruito congiuntamente dal
paziente e dall'analista per organizzare i dati introspettivi, costituisce la sintesi degli elementi riportati nei punti precedenti.
La "scena modello" consiste in un modello esperienziale, proposto dall'analista e accettato dal paziente, che fa riferimento ad una teoria della motivazione, quella elaborata da Lichtenberg, sufficientemente complessa e differenziata da rappresentare efficacemente l'esperienza soggettiva del paziente, senza forzarla in schemi fissi.

Il riferimento alla Psicologia del Sé media il passaggio alla terapia di gruppo, riproponendo in questo setting l'evoluzione del modello presentato. Sebbene Kohut si sia interessato ai fenomeni di gruppo solo nell'ambito della psicoanalisi applicata, le sue annotazioni sul Sé di gruppo rendono possibile l'applicazione del suo approccio anche al di fuori del setting duale. Le potenzialità esplicative e terapeutiche della Psicologia del Sé nel setting di gruppo vengono illustrate a partire dal confronto con la teoria di Bion. Il bisogno di oggetti-Sè e l'angoscia di frammentazione si dimostrano uno schema di lettura valida anche per
fenomeni tipici dei gruppi "bioniani" (Lofgren 1984; Basch 1991).

Altri contributi (Bacal 1990; Stone 1992; Ashbach e Schermer 1992) evidenziano inoltre come i principali fattori terapeutici individuati dalla Psicologia del Sé risultino amplificati nel setting di gruppo. La presenza di più persone - e del gruppo nel suo insieme - aumenta infatti le opportunità di sperimentare quelle forme di rapporto di cui ciascuno dei pazienti ha più bisogno. Ad esempio, le relazioni oggetto-Sé di tipo gemellare o antagonista sono enormemente facilitate rispetto al setting individuale dalla presenza di un "gruppo di pari". La complessità delle relazioni nel gruppo non è priva di rischi per l'individuo, per questo si richiede all'analista una particolare attenzione per l'esperienza soggettiva del singolo membro.

Proprio in considerazione della difficoltà del ruolo del conduttore, alcuni autori propongono di esaminare separatamente i suoi diversi compiti in base ai diversi piani dell'esperienza e alle varie fasi della terapia.

Stone (1992) analizza l'approccio della Psicologia del Sé alla terapia di gruppo distinguendo tre livelli di esperienza: fenomeni relativi al Gruppo-come-totalità (ad es. il gruppo come oggetto-Sé in un transfert idealizzato), fenomeni interpersonali (non solo relazioni di oggetto-Sé gemellare, ma anche idealizzato e rispecchiante, che assumono modalità diverse quando sono rivolti ad un altro membro e piuttosto che al terapeuta), fenomeni intrapsichici (i deficit ed i meccanismi di difesa individuali possono assumere nell'interazione gruppale la forma di "ruoli" distinti).

Ashbach e Schermer (1992) approfondiscono queste distinzioni, evidenziando come il lavoro analitico nel gruppo attraversi cinque fasi principali, ciascuna delle quali richiede all'analista specifiche modalità empatiche:

1. selezione dei pazienti
Poiché questo approccio si basa essenzialmente sugli effetti terapeutici dell'esperienza di risposte empatiche offerte dal gruppo, il paziente-tipo dovrebbe essere capace di recuperare un Sé coeso all'interno di un ambiente empatico. Interpretazioni empatiche "di prova" durante i primi contatti con un paziente possono essere utili per valutare questa possibilità, o per escludere soggetti per i quali sarebbe consigliabile un approccio più strutturato.

2. fase iniziale
La creazione di un ambiente sicuro e confortevole all'interno del quale sviluppare legami significativi richiede una speciale attenzione per i singoli partecipanti. Il setting di gruppo può infatti esporre i pazienti ad intensi sentimenti di vergogna per il fatto di essere riconosciuti "socialmente" come malati o di dover esprimere i propri sentimenti di fronte a tanti estranei. Anche il ruolo di "semplice membro" - non sentirsi cioè in alcun modo speciale o riconoscibile - può causare rilevanti diminuzione dell'autostima. E' pertanto sconsigliabile in questa fase un riferimento esclusivo al gruppo come totalità. Inoltre, un contatto empatico con ciascuno dei singoli membri permette all'analista di avvicinarsi alle esperienze soggettive di ciascuno nel momento e nel contesto specifico in cui si verificano. Questa opportunità di osservare dal vivo i pattern interattivi disfunzionali di un determinato paziente è particolarmente preziosa, perché come ha felicemente riassunto la Weinstein (1991, pag. 220) c'è una profonda differenza tra <<sentire da tuo figlio che ha un problema con un altro bambino ed accompagnarlo al parco per vedere direttamente che cos'è che non va>>.

3. transfert di oggetto-Sé ed intensificazione degli affetti narcisistici
Quando raggiungono uno stato di sicurezza sufficiente, i membri del gruppo possono sviluppare nel transfert quegli aspetti di Sé la cui evoluzione è stata interrotta. Le necessità di relazioni oggetto-Sé possono manifestarsi sia a livello individuale (es. il paziente timido esprime la sua grandiosità repressa diventando un monopolizzatore), sia a livello di gruppo (es. l'idealizzazione si esprime attraverso l'utopia del gruppo perfetto). Entrare in contatto con le proprie parti scisse può essere profondamente destabilizzante per i pazienti e sono indispensabili l'attenzione ed il sostegno del terapeuta.
E' compito del conduttore - attraverso una continua introspezione vicariante - mantenere il contatto empatico e modulare le espressioni del transfert per restaurare il legame ad ogni interruzione. In questa fase diventa fondamentale la personalità dell'analista, in particolare il suo equilibrio narcisistico nel comprendere e contenere le emozioni intensissime presenti nel gruppo, rimanendo però sufficientemente differenziato. In questo modo l'analista non solo evita le conseguenze estreme di questi stati affettivi, ma mostra concretamente come un individuo possa sperimentare i propri bisogni narcisistici e la propria vulnerabilità senza essere sopraffatto dalla vergogna o dalla rabbia, cioè conservando l'integrità e la coesione del proprio senso di Sé.
In questo stadio è possibile che l'analista si trovi a dover porre o ristabilire limiti e confini, per far fronte ai frequenti acting dei membri (divisione in sottogruppi, eccessivi contatti extra-analitici tra i partecipanti, ecc.). Tale funzione va vista come una forma di contenimento e in ogni caso non prevede giudizi o richiami ad una realtà "oggettiva".

4. interiorizzazione trasmutante e integrazione
La presenza di una matrice di oggetto-Sè affidabile e responsiva permette ai pazienti di riconoscere gli aspetti scissi della propria personalità; il passo successivo consiste nella progressiva integrazione di questi elementi negati. Questa evoluzione, secondo Kohut, è possibile grazie all'internalizzazione trasmutante. Per quanto riguarda questo processo di elaborazione, esistono alcune caratteristiche specifiche della situazione di gruppo. Ashbach e Schermer sottolineano l'importanza delle connessioni che l'analista stabilisce tra i ricordi e le esperienze collettive e quelle dei singoli, evidenziando sia la storia e l'evoluzione del gruppo, sia le "traiettorie di vita" dei membri come individui. L'interiorizzazione trasmutante si configura come un processo di apprendimento, nel caso specifico di apprendimento a stabilire legami tra le cose e gli eventi e a utilizzare nuove risposte e risorse.

5. fase finale
Secondo Kohut (1977) il successo di un trattamento terapeutico è segnalato da due fenomeni. In primo luogo, nella fase finale emergono manifestazioni di un "Edipo gioioso", libero cioè da distorsioni dello sviluppo del Sé. L'ambiente terapeutico fornisce agli impulsi esibizionistici e voyeuristici propri della fase edipica quelle risposte ottimali, che non erano state disponibili in precedenza. Il secondo aspetto critico è il consolidamento degli ideali e delle ambizioni, che segnala un più alto livello di strutturazione della personalità. Questi due elementi testimoniano l'acquisizione di un Sé più complesso, in grado di gestire ed interiorizzare relazioni più complesse.
In questa fase le connessioni dell'analista devono essere mirate a stabilire e rinforzare il rapporto tra l'esperienza e le abilità raggiunte nel contesto protetto del setting di gruppo alla vita quotidiana.

L'approccio della Psicologia del Sé al setting di gruppo attribuisce dunque una notevole importanza allo stato soggettivo del singolo paziente. Nell'analisi di gruppo, però, l'oggetto principale dell'osservazione e dell'intervento è ciò che accade tra i membri, cioè le interazioni e le relazioni che li uniscono. L'idea di un approccio intersoggettivo e fenomenologico non è peraltro nuova nella terapia di gruppo. Già Foulkes nel 1948 aveva affermato che il concetto di individuo è un'astrazione, rappresentando in realtà ogni persona semplicemente un "punto nodale" di una rete sociale, dalla quale è fondamentalmente e inevitabilmente determinata. Questa linea di pensiero prosegue poi con l'introduzione del concetto di "matrice" (Foulkes, 1964), definita come il terreno comune del gruppo dal quale deriva il significato di tutti gli eventi e di tutte le comunicazioni.

Un resoconto clinico pubblicato dalla Harwood (1992) fornisce un bell'esempio di come l'attenzione empatica per l'intersecarsi delle esperienze soggettive dei partecipanti consenta all'analista di creare forme di intervento complesse ed efficaci.
In un gruppo di recente formazione, condotto dalla Harwood e da un co-terapeuta, uno dei membri, Charles, è mancato alla seconda e alla quarta seduta a causa di impegni di lavoro. Un altro membro, Andrew, che non sopporta l'atteggiamento formale e arrogante di Charles, lo accusa di non volersi impegnare nel gruppo come tutti gli altri. Charles reagisce violentemente, esprimendo disprezzo per l'amicizia artificiale che lega gli altri membri del gruppo, aggiungendo che non esiste alcuna base per una fiducia reciproca e che tutti stanno semplicemente fingendo.

Durante i colloqui preliminari con i singoli membri, i terapeuti hanno raccolto alcune informazioni sulla storia passati dei due uomini che chiariscono il significato di questa interazione.
La storia familiare di Charles è stata caratterizzata dal continuo e violentissimo conflitto tra i genitori e la figlia maggiore "ribelle". La ragazza, allontanata da casa durante l'adolescenza, era diventata tossicodipendente ed era morta quando Charles stava per iniziare le scuole superiori. Questa vicenda lo aveva convinto del carattere pericoloso e mortifero dell'indipendenza, spingendolo ad un atteggiamento di acquiescenza nei confronti delle aspettative dei genitori che ha influenzato tutte le sue scelte professionali e sentimentali. Andrew, invece, ha interrotto da anni i rapporti con la sua famiglia a causa dell'intensa ansia che le continue richieste della madre e la sua aspettativa di essere sempre esaudita gli provocavano. Da allora l'esclusione da ogni relazione intima è stata per lui la difesa principale rispetto alla perdita di coesione del sé che il senso di "dovere" nei confronti dei desideri altrui gli procura.

L'atteggiamento aggressivo di Charles nei confronti del gruppo può essere letto come un tentativo di sfidare i "terapeuti-genitori" affermando un proprio punto di vista. Andrew, invece, ripropone nel gruppo l'adesione totale alle regole stabilite da altri, in particolare a quelli che crede siano le aspettative dei terapeuti. Questa interpretazione non può essere però offerta direttamente, perché nessuno dei pazienti ha ancora condiviso con il gruppo la propria storia personale. L'analista decide di centrare l'intervento su Charles pur rivolgendosi all'altro paziente, ed osserva: <<Mi chiedo se il fatto di esserti impegnato nel gruppo, di esserti aperto, magari pensando che fosse ciò che si richiede ad un membro del gruppo, e vedere poi che qualcun altro non lo fa, non ti abbia fatto sentire che tu hai rinunciato a qualcosa, mentre Charles no>>. Andrew risponde affermativamente e confessa di essere invidioso di Charles per la sua capacità di non sentirsi obbligato a rispettare le regole. L'analista sottolinea inoltre, per Charles e per gli altri, che l'acquiescenza a presunte norme non costituisce un ideale del gruppo e che ciascuno può e deve cercare il proprio modo di farne parte. In questo modo riconosce a Charles il diritto ad esprimersi ed il merito per averlo fatto e, nello stesso tempo, presenta ad Andrew la possibilità di accettare il rischio di fare altrettanto

In questo modo, l'analista dimostra come sia possibile intervenire accuratamente non solo sui singoli pazienti, ma anche sul contesto intersoggettivo: la compresenza di più piani nell'interpretazione corrisponde alla molteplicità dei mondi soggettivi coinvolti ed al loro complesso intersecarsi. In questo intervento, la Harwood ricapitola le due fondamentali strategie terapeutiche dell'approccio intersoggettivo, ovvero la trasformazione strutturale degli schemi disfunzionali e l'offerta di esperienze la cui mancanza ha prodotto un blocco nello sviluppo (Atwood e Stolorow, 1984).

Il modello relazionale presentato si configura quindi come una promettente linea di sviluppo
della terapia di gruppo analiticamente orientata. Inoltre, questo tipo di setting sembra
aumentare le potenzialità terapeutiche di tale approccio, creando un contesto più complesso,
ma anche più ricco di opportunità relazionali. Nel gruppo, infatti, essendo più numerosi i
partner disponibili, esiste per l'individuo una maggiore libertà di scelta ed una maggiore
possibilità di dispiegare i propri schemi interattivi fondamentali. Da questo punto di vista, è possibile ipotizzare che il piccolo gruppo analitico sia un tipo di setting particolarmente adatto all'applicazione di un approccio relazionale intersoggettivo.

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