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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Area: Psico-socio-analisi

PER UN ASCOLTO PROGETTUALE DELLA MANCANZA.
VERSO UN MAGGIORE BENESSERE GRUPPALE E ISTITUZIONALE

Ermete Ronchi, 1998

In: G. Di Marco (a cura di), “L’istituzione come sistema di gruppi”,
Centro Studi e Ricerche di Psichiatria Istituzionale, 1999. Si ringrazia l’Editore.


      Absctract

      Oggi si può provare ad esercitare la capacità di ascolto e di comprensione di ciò che accade non solo sul livello interspersonale ma anche sui confini protetti da emozioni istituzionali e sociali. Forse si può provare ad abbattere una sorta di muro di Berlino virtuale al di là del quale - reciprocamente - viene depositato (con modalità psicotiche) tutto il male del mondo.

 

1. Salute come problema sociale e rischi di medicalizzazione del benessere

I temi del benessere e della prosperità, da elementi di un discorso circoscritto ad un ambito prevalentemente individuale, sono andati nel tempo permeando la dimensione del piccolo gruppo e di gruppi sempre più ampi, fino ad includere i più vasti gruppi sociali. Tuttavia lo stato del welfare, così come si è evoluto in occidente per effetto della rivoluzione francese, affonda le sue radici in un modello medico che soffre ancora di una modalità di relazione medico-paziente ben ancorata alla "visione" del medico.

Foucoult ha mostrato come nell'epoca della medicina delle classi, la forma di pensiero medico interessata soprattutto alla classificazione e alla nomenclatura dei sintomi e delle malattie, lo sguardo medico, utilizzi i propri oggetti, i corpi dei malati, come conferma o riconoscimento di un sapere che si suppone preesistente. Il corpo del malato ha la funzione periferica di provare la validità di una classificazione, di una codificazione preesistente di tipi di malattia, di sperimentare quindi la verità delle leggi patologiche. Al di fuori di questa funzione, il corpo del malato è un errore potenziale, una possibile resistenza all'intelligibilità della natura: L'autore della natura - scrive un medico settecentesco - ha fissato il corso della maggior parte delle malattie con leggi immutabili che si scoprono ben presto, se il decorso della malattia non viene turbato dal malato. (A. Dal Lago, 1981, corsivo mio).

Ricorda Dal Lago che nel corso della rivoluzione francese la salute comincia ad essere annoverata tra i problemi di polizia e che, oltre all'istituzione di tribunali della salute, fu da lì che partì un'organizzazione del territorio sociale fondata sul tema malattia/salute. Da qui datano i primi cambiamenti di paradigma della medicina: il territorio su cui il medico esercita "lo sguardo" non è più focalizzato solo sull'individuale, sul malato ed il suo ambiente naturale, che a quell'epoca era sinonimo di famiglia o microgruppo; da quel momento il medico abbraccia con lo sguardo gruppi sociali, soggetti collettivi.

L'individuazione di uno spazio sociale come luogo in cui le malattie trovano senso produce una sorta di rivoluzione anche nei criteri di definizione di salute/malattia e quindi di normalità/anormalità. Tra scienza della vita e scienze della società - ricorda ancora Dal Lago - si attua una sorta di mutuo scambio di paradigmi e categorie. La medicina scopre le malattie sociali ed ambientali "come dimensione più ampia che racchiude la causazione delle malattie individuali".

"Più in generale la medicina si attribuisce il ruolo di scienza della malattia nella società, mentre le scienze sociali cominciano a pensare alla società come luogo in cui i pubblici poteri possono esercitare naturalmente un'azione benefica, terapeutica (...) Da sistema di descrizione e di contenimento delle condizioni morbose, la medicina si muta in un contiguo sistema di prescrizione delle condizioni modello di salute e di normalità". (A. Dal Lago, 1981).

Questo tipo di modello terapeutico basato su prescrizioni è tutt'oggi fortemente attivo nelle società occidentali e tende ad essere alternativo a processi trasformativi nei quali le relazioni interpersonali non si configurano solo come relazioni fondate su assunti di dipendenza. Ne consegue una medicalizzazione sempre più spinta e ciò non fa nemmeno più notizia, tanto sembra ovvio. Noi sappiamo tuttavia che anche il transfert si regge su ovvietà messe lì per arginare una sofferenza relazionale e che queste risultano dolorose da ascoltare prima ancora che da accogliere. Credo che oggi sia più che mai opportuno confrontarsi su queste tendenze epocali visto che non si possono non includere nel campo di osservazione, oltre ai soggetti individuali, anche i soggetti collettivi, nuovi potenziali "pazienti", sempre più portatori di uno specifico e peculiare grado di sofferenza interna che chiede di essere affrontata con terapie adeguate. Come mai tende a dilagare, non solo sul versante dei medici ma anche su quello dei pazienti, l'equazione "terapia = medicalizzazione"? Qui si avanza l'ipotesi che questa presunta uguaglianza sia frutto di un errore di tipo logico che tende a forzare elementi appartenenti a classi diverse in uno stesso livello di comprensibilità. Come se si facesse confusione tra menù e cibo, ostinandosi però a mangiare menù e poi a lamentarsi che il cibo è cattivo.

In effetti l'urgenza, l'emergenza, spinge a "trattare" in modo sempre più "veloce" le mancanze che la situazione economica e sociale genera, ma spesso occulta meccanismi sociali di difesa. Le tecniche di frequente utilizzate nel "trattamento" dell'individuo tendono ad essere trasferite sul livello dei gruppi e di quelli in particolare organizzati attorno a compiti istituzionali: nel momento in cui lo "sguardo" incontra una sofferenza, questa, sotto l'influenza di un passato "rivoluzionario" ancora fortemente presente, tende a essere vista come "presenza cattiva", come un nemico da combattere al più presto e non anche come mancanza, come assenza di qualcosa di potenzialmente buono che potrebbe essere il momento di ricercare insieme.

Della necessità di muovere verso una demedicalizzazione si parla in vari ambiti. Riporto a titolo di esempio un frammento di A. Angelozzi, tratto dal dibattito suscitato dal caso Di Bella, presente nella lista PSIC-ITA, ripreso e rilanciato anche sulla lista "Psicoterapia" di Psychomedia :

(...) Quello che io trovo infatti è una "medicalizzazione con falsa coscienza". Medicalizzazione, perché comunque si abbonda in psicofarmaci di fronte a qualunque "problema" posto dal paziente, con un intervento che esclude l'ascolto e la comprensione. Si procede appunto per "anamnesi" e non per "biografia". Al paziente rimane la stessa confusione che spesso è nella testa del terapeuta: da una parte gli stiamo dicendo implicitamente che ha un organo ammalato, dall'altro non chiariamo il rapporto che il paziente ha con questo "organo" o peggio lo scindiamo, millantando quella finta "demedicalizzazione" ove il Serenase si mescola al disagio e la "utenza" al Moditen. Tutti i colleghi sanno quanto sia tuttora diffuso trovare pazienti che fanno da sempre uso di psicofarmaci (specie i Depot) e non sanno più il perché, ammesso che lo avessero saputo all'inizio, quando talvolta addirittura non credono che sia un "ricostituente" come mi è spesso capitato di sentire. Se non è questo il manicomio!? Non credo che sia malafede del terapeuta, credo che sia una gran confusione(...). Quello che temo per la psichiatria del futuro non è che sia senza mente o senza cervello, ma che sia senza coscienza di sé, che crei pazienti senza consapevolezza, perché senza consapevolezza sono i terapeuti.

L'approccio medicalizzato, quello che prescrive velocemente con una ricetta il da-farsi, è molto diffuso anche nel "trattamento" delle istituzioni. Anche qui l'obiettivo sembra quello di eliminare rapidamente il "sintomo" indesiderato, visto come causa di un crescente disagio organizzativo. Questa modalità di "diagnosi" offre una spiegazione logica circa le ragioni che bloccano il perseguimento degli obiettivi per cui quell'istituzione è nata e ha ragione di esistere. In genere nulla dice circa le emozioni istituzionali attive in quel contesto, quasi che queste fossero irrilevanti. Quando sono "viste" sono trattate come disturbo, come cose da tenere fuori dalla porta proprio per poter fare un buon lavoro. Il modello implicito di riferimento torna ad essere quello del medico già citato del '700 il quale scoprirebbe ben presto le leggi che regolano il tutto se il decorso della malattia non venisse turbato dal malato.

Le "ricette" in questo campo non a caso prendono il nome di "riordino", "ristrutturazione", in quanto implicano letteralmente il dover trattare una con-fusione a monte e perché l'intervento di cambiamento organizzativo prescrive il come la razionalità dovrebbe finalmente trionfare. È noto che interventi di questo tipo tendano a susseguirsi nel tempo con esiti scarsi o nulli o addirittura controproducenti e tali da innescare un rincorrersi di "provvedimenti urgenti", sintomo di uno stato operativo di perenne emergenza, come se l'intera istituzione si tramutasse in un inefficiente "pronto soccorso". È noto che alcune istituzioni rispetto ad altre godono di una maggiore salute, di un livello di maggior benessere organizzativo con vistosi esiti proprio sulla capacità di perseguire obiettivi sfidanti; si sa anche che questo esito non è casuale ma frutto di un adeguato e costante processo trasformativo nel quale c'è ascolto e attenzione, coinvolgimento e investimento sul valore delle emozioni, ossia sulla qualità delle relazioni professionali in essere. Quando si toccano questi punti i commenti sono spesso del tipo: "Sì, bello, ma da noi tutto ciò non è possibile perché manca questo, quello, mancano fondi e così via". Queste riflessioni aprono al tema della "mancanza" e della possibilità o meno di trattarla in modo progettuale.

 

2. Cursore del benessere e linguaggi d'oltre confine

Spostandosi di "livello logico" ed osservando il problema della "mancanza" dal punto di vista interno al territorio sociale su cui ha competenza l'autorità sanitaria, è possibile individuare una pluralità di soggetti e di gruppalità. Ciò può essere osservato sul continuum individuo, gruppo, istituzioni, territorio sociale/polis, ecosistema e ritorno (E. Ronchi, 1996).

Ogni mutazione di "tipo logico", ossia tra un livello e un altro, è possibile solo attraversando un territorio di confine popolato da conoscenze ed emozioni specifiche che occorre provvisoriamente abbandonare per poter incontrare quelle peculiari del nuovo livello, tutte continuamente da conoscere e da ri-conoscere. Diversamente la confusione e i conflitti diventano la regola e impediscono reciproci scambi. Sarebbe come pretendere di essere accolti con cordialità in un paese straniero, di cultura profondamente diversa, imponendo però con la forza la lingua, gli usi e i costumi della propria cultura di provenienza. C'è un'area di confine e di "rispetto" non solo tra individuo ed individuo, ma anche tra individuo e gruppo, ai vari livelli di funzionamento "mentale". Non riconoscerla implica il non potersi relazionare con soggetti altri e ciò genera ricorsivamente dis-funzioni su più livelli.

 

3. La scala gerarchica del benessere

Semplificando un po' a fini espositivi - pur sapendo che il discorso è di tipo ologrammatico - si potrebbe immaginare una sorta di scala gerarchica, sul tipo di quella che A. H. Maslow (1973) ha proposto per i bisogni degli individui che, in questa ipotesi, è però attiva in entrambe le direzioni (Scheda n. 2)

Transitare attraverso il confine e il "rispetto" posto a protezione dei cambiamenti di "tipo logico" richiede formazione adeguata. V. Andreoli (1984) ricorda che esiste una "logica razionale" e una "logica non-razionale". Anche se noi siamo abituati a trattare gli eventi in termini di logica razionale, esiste la logica non-razionale che non è affatto illogica, ma semplicemente coerente con il suo peculiare contesto di riferimento. Come la capacità di attraversamento di paradossi logici richiede competenze di tipo matematico e cognitivo (Russel e Withelad), allo stesso modo il transito attraverso paradossi di tipo emotivo richiede competenze di tipo pathematico. È anche noto come la capacità di entrare in relazione con il pathos costituisca una competenza professionale distintiva in ambito psicoterapeutico.

Adottando quest'ultimo vertice di osservazione e portando per un momento l'attenzione su quella particolare zona di rispetto e di confine nota come "set/setting", possiamo cogliere come sia una necessità professionale fissare riferimenti esterni ed interni, proprio per disporre di cornici in grado di delimitare e rendere comunicabili le peculiarità della relazione in essere, in quanto "inquadrata" in un certo modo. Chi usa professionalmente il setting come strumento di lavoro sa che esso è difficile da usare proprio perché è molto potente; questo strumento consente livelli di comprensione di ciò che accade nella relazione nell'hic et nunc, altrimenti inconoscibili.

L'inquadramento è al tempo stesso arbitrario e indispensabile. La possibilità di renderlo "dinamico", riducendo la confusione e favorendo l'instaurarsi di un maggior grado di benessere, non è cosa facile ed è un'arte che si può apprendere. Gli inquadramenti sono formalmente diversi su ciascun gradino della scala, ma quanto a struttura pathematica hanno molte assonanze. Il transito da un livello al precedente o al successivo della scala gerarchica è protetto da paradossi cognitivi complementari a paradossi emotivi; questi ultimi, proprio grazie alla ricerca in campo psicoterapeutico, possono divenire oggetto di maggiore ascolto e comprensione.

 

4. Pathematica istituzionale

J. Bleger (1989) ci ricorda - stando sul primo gradino - che all'avvio di un'analisi si riscontra una massiccia tendenza a depositare proprio nell'encuadre le parti più psicotiche della personalità e che un'analisi evolve e si conclude quando il paziente può riprendersi senza eccessivi patemi proprio quelle sue parti che tende a proiettare altrove, rendendole accessibili nella relazione con la sua gruppalità interna e con quelle esterne. Questo processo fonda la sua possibilità di successo prevalentemente sulla capacità di rêverie del terapeuta oltre che, potremmo aggiungere, sulla sua capacità "pathematica".

In campo psicoterapeutico è noto come al crescere della sofferenza cresce anche la "necessità" di proiettare su vari bersagli interni o esterni le parti inelaborabili, quelle che ancora non possono essere trasformate in pensiero e comunicazione. Nel sociale il gioco reciproco delle proiezioni assolve allo scopo di frammentare l'ansia individuale, che in questo modo va a distribuirsi in forma specializzata su una pluralità di figure professionali o di istituzioni di riferimento. Ciò porta vantaggi in termini organizzativi e di sviluppo di una pensabilità "ordinata", ma quando questo processo è fuori controllo produce anche notevoli danni. Si può fare l'ipotesi che, proprio per dare risposta alla gran quantità di parti inelaborabili proiettate sui confini della conoscenza, siano nate diverse nuove professioni e che queste siano andate a disporsi su ogni gradino della scala del benessere assolvendo al difficile compito sociale di fare da bersaglio visibile e vivente per le parti più primitive proiettate, quelle emotivamente generatrici di maggiore sofferenza.

Posto che da un lato è una necessità il dover inizialmente frammentare e distribuire l'ansia che si genera nell'incontro con gruppalità più ampie, va posta attenzione al rischio che nel tempo questo non diventi una difesa assumendo i connotati di una stereotipia e divenendo un sintomo di progressiva sclerosi, di irrigidimento, di perdita di potenzialità creative.

Ne consegue che ad ogni passaggio/cambio di setting/inquadramento si incontra il problema di gestire un sempre più difficile gioco proiettivo di parti psicotiche buttate sempre più in là, oltre la propria attuale possibilità di comprensione. L'esito di un processo di questo tipo porta ad una progressiva perdita di visione d'insieme; questo tende a rendere le relazioni tra sè, l'altro e l'ambiente, sempre più tossiche con rischi di inquinamento per l'eco-sistema. Prendendo a prestito un'idea di G. Bateson (1976), sembra quantomai urgente muovere proprio "verso un'ecologia della mente" intesa in senso non solo individuale, ma anche gruppale, istituzionale ed ecosistemico.

 

5. Ruoli direttivi come parafulmini sociali

Come già detto, nel sociale il gioco delle proiezioni porta con sè il vantaggio di poter frammentare l'ansia che va così a distribuirsi in forma specializzata su più figure di riferimento. Forse è il caso che qualcuno si occupi del difficile compito di informare di questa peculiarità coloro che professionalmente operano in tali ruoli. Tutti questi ruoli sono infatti, loro malgrado, anche dei veri e propri parafulmini sociali e non sempre le persone che li interpretano hanno la consapevolezza e la preparazione adeguate per muoversi professionalmente su questo specifico terreno. Forse è il caso di destinare risorse a sostegno non solo alla loro competenza "logica" ma anche di quella "psico-eco-logica", ossia aiutare queste leadership a dotarsi di una idonea strumentazione volta a rendere più vivibile e professionalmente utilizzabile il cosiddetto disagio organizzativo e sociale in cui molte istituzioni sembrano immerse. Si tratta di apprendere attorno alla capacità di restituire empaticamente questo disagio al mittente in forma di pensiero e non di agito.

Accade frequentemente che ruoli che svolgono funzioni complementari, pur operando a partire da contenuti specialistici diversi, volutamente si ignorino o agiscano i conflitti, decodificando i problemi ed i disagi esclusivamente sulla base della loro cultura di provenienza. Senza andare lontano basti pensare alla storia anche recente del movimento psicoanalitico, quando gli psicoanalisti "individuali" osteggiavano quelli che si occupavano di gruppi terapeutici. Un esempio per tutti è la vicenda di T. Burrow, già presidente della società psicoanalitica statunitense, espulso dalla stessa perché non volle rinunciare ad indagare le potenzialità terapeutiche della dimensione gruppale in un momento storico in cui questo era considerato inammissibile dai più "ortodossi".

Oggi forse è possibile provare ad esercitare la capacità di ascolto e di comprensione di ciò che accade anche sui confini protetti da emozioni istituzionali e sociali. Forse si può provare ad abbattere una sorta di muro di Berlino virtuale al di là del quale - reciprocamente - viene depositato (con modalità psicotiche) tutto il male del mondo.

 

6. Sul confine tra pubblico e privato

A partire da queste premesse si potrebbero allora indagare meglio le connessioni di fondo che rendono complementari e insieme simmetriche le logiche della cultura organizzativa dell'istituzione pubblica e di quella privata. Spostandoci di livello in modo da vedere pubblico e privato come due parti scisse di un unico organismo, potremmo forse vedere la cultura del "mondo produttivo" come luogo in cui il raggiungimento dell'obiettivo giustifica l'uso del meccanismo della scissione e dell'esclusione (sembra socialmente più giustificabile tagliare, pensionare, licenziare e così via); viceversa il "mondo pubblico", prevalentemente permeato dalla cultura di tipo assistenziale, risponde con l'intensificazione della "cura", intesa in senso tradizionale, molto medicalizzata e assistenziale.

Nel macrosociale poi, pubblico e privato tendono a specializzarsi e a non accorgersi di colludere nel produrre ulteriore disagio: il pubblico è infatti istituzionalmente a contatto con la sofferenza, con i bisogni di nascita, di crescita e di morte biologica e sociale della generalità dei cittadini.

Ricordavo in un precedente lavoro (E. Ronchi 1993) come nel pubblico la struttura organizzativa tenda a plasmarsi controtransferalmente in nome del primato del bisogno, contagiando in questo modo anche chi vi opera professionalmente, e come la risposta "assistenziale" tenda ad inibire le capacità professionali di operatori e funzionari.

Viceversa il mondo dell'impresa privata tende a negare i bisogni puntando tutto sulle capacità. Il soggetto risulta in questo modo scisso, con necessità di dover stressare le sue capacità nel contesto del lavoro "privato" e di fare altrettanto con i suoi incomprimibili bisogni, chiedendo quindi (pretendendo?) soddisfazione immediata altrove.

Entrambi i mondi possono chiedersi in che misura siano pronti a gestire la complessità che l'incontro apparentemente conflittuale tra bisogni e capacità sembra inizialmente generare. Essi devono sapere che scindere i bisogni dalle capacità, in entrambi i contesti, è una strategia generatrice di patologie che vanno a scaricarsi sui diretti interessati e sulla collettività nel suo insieme e che inoltre, nel contempo, agiscono sul grado di civiltà del pianeta.

 

7. Verso un maggiore benessere istituzionale diffuso

Va notato che molte aziende pubbliche e private hanno già colto l'importanza di questi temi assumendo la variabile "benessere" come variabile strategica per assicurare la propria possibilità di sopravvivenza, oltre che per muovere verso approdi innovativi. L'attenzione e l'investimento sono rivolti alla formazione ed allo sviluppo delle risorse umane.

Tuttavia, assumendo l'approccio che qui viene suggerito, le modalità di intervento si differenziano notevolmente dal tradizionale modo di intendere la formazione. Non si tratta infatti di intervenire con "pacchetti" di formazione tecnica precostituiti da "somministrare" al personale. È chiaro il rischio di riprodurre anche su questo livello una visione medicalizzata del problema contrabbandando una prescrizione farmacologica come intervento formativo. Qui si tratta invece di disporsi all'ascolto clinico di un soggetto collettivo inteso nella sua globalità. Il suo stato di benessere/malessere può essere rilevato attraverso un'indagine sul "clima organizzativo" condotta da professionisti ed effettuata "ascoltando" più livelli, interni ed esterni all'istituzione. Si tratta di cogliere non solo i problemi organizzativi che ostacolano il raggiungimento degli obiettivi auspicati, ma soprattutto individuare le emozioni istituzionali ricorrenti che affaticano l'operatività e inibiscono lo sviluppo del potenziale e delle capacità di individui e gruppi di lavoro. Solo dopo, a partire dagli esiti di quella specifica ricerca e in un confronto ricorsivo con i soggetti del cambiamento, può essere progettato un intervento di formazione a sostegno delle capacità che i cambiamenti realmente possibili richiedono.

Nel cosiddetto "privato", l'esigenza di certificare la qualità dei prodotti ha portato ad investire risorse sulle premesse di questo problema, ossia sulla qualità del clima organizzativo entro il quale qualsiasi prodotto o servizio prende forma, prima di essere offerto all'altro. La ricorsività sistemica di questo approccio è sempre più evidente.

Le organizzazioni sia pubbliche che private più capaci di porre l'attenzione su entrambe le istanze, quelle di contenuto e quelle di processo, si configurano come microsocietà più vitali, per se stesse e per l'intero ecosistema. In esse il benessere diffuso è maggiore in quanto globalmente tutti i ruoli sono interpretati da persone più capaci di trattare progettualmente la sofferenza sottesa a stati di mancanza e a sentirsi "gruppo" nell'affrontare e condividere gli eventi sfidanti che il transito tra differenti livelli di funzionamento "mentale" richiede.

 

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