Abstract Questo saggio intende metter in luce il momento specifico nel quale si decide di allontanare un minore dal suo gruppo familiare al fine di proteggere il percorso evolutivo del bambino. La rottura del setting familiari produce però un sentimento ambiguo che ci riporta alla teoria di Bleger così come da lui espressa in Simbiosi ed ambiguità (1992). Il tentativo di contenere questo sentimento grazie ad un gruppo pensante vede il modello del gruppo operativo divenire strumento privilegiato del passaggio dal non detto al nominabile. Parole chiave: allontanamento, separazione, gruppo operativo, appartenenza. Sommario 1. Bambini e ragazzi fuori casa
Bibliografia
1. Bambini e ragazzi fuori casaI bambini e i ragazzi hanno diritto a vivere nella loro famiglia. E’ questo un principio che la carta dei Diritti del Fanciullo di New York, ratificata dall’Italia nel 1992, e la legge 149 approvata dal Parlamento italiano nel 2001 richiamano come principi inalienabili degli interventi sociali a favore dei piccoli. In queste leggi si prevede anche l’allontanamento temporaneo del minore dai suoi genitori quando i suoi diritti non vengono rispettati. Diventa quindi necessario interrogarsi non solo sui motivi che portano a decidere l’allontanamento di un minore dal suo contesto familiare, ma anche sulle strategie operative che favoriscono il suo rientro in casa. Ogni piccolo infatti ha diritto a non venir strappato dal suo conteso familiare, ma ha anche il diritto di poter sviluppare in modo armonico la sua identità. Il bambino perciò, quando subisce in famiglia maltrattamenti o trascuratezze, sia corporali che psicologiche, non deve essere lasciato da solo. Egli va perciò tutelato, va cioè protetto ed aiutato. Ed è proprio per garantirgli questi suoi diritti che, alle volte, va anche allontanato dal suo contesto familiare. Recidere il vincolo familiare è però un’azione complessa poiché si tratta di intervenire in un gruppo dove i rapporti interpersonali servono a contenere il senso della propria identità. La simbiosi familiare, che vede i diversi membri del gruppo depositare parti di sé nell’altro, è infatti caratterizzata da un intreccio relazionale simbolico che funziona da collante quando è sufficientemente sano e che diventa un magma che inghiotte ogni individuo quando invece è insano. Il processo di defusione infatti avviene fisiologicamente quando madri e padri possono accompagnare i bambini a transitare dalla simbiosi all’indipendenza, mentre diventa un’evoluzione impossibile per quei genitori che non possono rinunciare ad identificarsi con i propri figli. La simbiosi patologica però è muta e silente e quindi, per modificarla, bisogna rompere i confini dentro ai quali si annida. “Le perturbazioni del processo di proiezione-introiezione sono alla base dei conflitti di dipendenza-indipendenza” così afferma Josè Bleger (1989,1992) ed è quindi al suo modello teorico che ci si può rifare per pensare alla rottura dei sistemi familiari nei quali è necessario metter in moto il processo di autonomia dei bambini e dei ragazzi che sono avviluppati da una filiazione narcisistica. Il nucleo agglutinato, fatto di identificazioni e di proiezioni tra i diversi soggetti che compongono il gruppo familiare narcisistico, non permette infatti la separazione tra figlio e genitore rendendo impossibile la nascita della soggettività nel bambino. I minori a rischio sono dunque bambini e ragazzi ai quali viene negato il diritto di vivere come individui autonomi (Berto F. Scalari P., 2002). Ed è proprio questa fusione depersonalizzante che l’intervento di protezione rivolto verso il minore va a spezzare. L’assenza provocata dall’allontanamento del bambino dal suo nucleo familiare crea un vuoto di presenze genitoriali. Vuoto che diventa poi possibile riempire attraverso la costruzione di rapporti capaci di sostenere percorsi di differenziazione. Una volta offerta al minore l’esperienza della diversificazione dall’altro, cioè della sua individuazione, egli può rientrare nel nucleo familiare facendo fronte da solo alla custodia della sua identità specifica. E’ dunque cruciale che coloro che accolgono il minore allontanato per svolgere temporaneamente i compiti della famiglia stiano attenti a non confondere il bambino reale, verso il quale svolgono funzioni genitoriali, con il bambino ideale. Questa sovrapposizione del piccolo desiderato con il piccolo in carne ed ossa rischia infatti di far ripetere al bambino l’esperienza di negazione della sua individualità. Quando si decide di allontanare un minore dalla sua casa occorre allora valutare la disponibilità di risorse (famiglie affidatarie, comunità educative, gruppi famiglia) in grado di accogliere non solo il bambino così come egli è, ma anche i suoi genitori così come essi sono. E’ dunque l’accettazione della diversità tra l’aspettativa di un bambino capace di rispondere ai desideri affettivi degli educatori o delle famiglie professionali e il bambino reale che mette in gioco la sua sofferenza anafettiva nel nuovo gruppo di appartenenza, che dà vita all’individualità del piccolo garantendogli una nuova nascita psicologica. La ricerca psicosocioanalitica ricorda come le emozioni che si incontrano caratterizzano ciascun individuo al momento della nascita biologica. Queste emozioni, se non adeguatamente riattraversate, si riattivino nel momento dell’incontro con l’istituzione, cioè nel momento della nascita sociale. Ed ogni tempesta affettiva rende particolarmente angosciante e doloroso il processo di individuazione, di crescita, di apprendimento delle emozioni e cognizioni necessarie per interpretare e gestire in modo più adulto ruoli familiari, lavorativi e sociali (Pagliarani, 1985a; Bertolotti, Forti, Varchetta, 1982, Ronchi 1997). Crescere è un percorso pieno di insidie poiché la patologia della filiazione narcisistica, sia essa naturale che professionale, è un fattore di psicopatologia diffusa nella società odierna. Ed è un pericolo che o induce il bambino ad un nuovo adattamento alle esigenze altrui che lo condanna a divenire un ospite perpetuo delle strutture educative oppure lo imprigiona in un disadattamento altrettanto perpetuo che lo porta a venire di nuovo allontanato (Berto F. Scalari P., 2003). Ed è invece una chance far fare al bambino un’esperienza di inserimento e di distacco da un nuovo gruppo di appartenenza formando in lui, attraverso la lettura della dinamica gruppale, la capacità di vivere le relazioni. 2. Il lavoro socialeIl genitore fragile, narcisistico ed incompetente ha bisogno di operatori sociali che sorveglino, diano ordine e limitino il tempo che egli trascorre con il figlio poiché la loro presenza ha lo scopo di avviare, sostenere e portare a termine il processo di defusione tra genitore e bambino. L’operatore sociale, trovandosi quindi ad intervenire su un vincolo inadeguato perché malato, incontra madri e padri che devono essere aiutati ad offrire al figlio affetti rispettosi dell’Alterità. E, non essendo questo diritto né prescrivibile né imponibile dalla legge non è quindi il Tribunale che lo può garantire. Diventa pertanto necessario che l’operatore avvii un percorso psico-socio-relazionale basato sull’ascolto dell’altro su più scenari: quello individuale, quello delle gruppalità familiari e dei contesti istituzionali e sociali (Berto F. Scalari P. 2004). Non si tratta allora di prescrivere un comportamento adeguato quanto invece di rendere il genitore capace di assumere atteggiamenti conformi alle esigenze del bambino e, nel contempo, di aiutare il piccolo a far buon uso di quanto la famiglia è in grado di offrirgli. L’ esigenza di far evolvere i rapporti tra le generazioni è il nodo cruciale di questo processo. Si sono individuate tre tipi di metodologie.
3. Il Contributo della psicosocioanalisiC’è una precisa metodologia sottesa all’esperienza che qui sto per narrare. Si tratta di una teoria ad orientamento psico-socio-analitico che si prende cura dell’insieme del sistema di cura. Questo orientamento consente di riconoscere e far evolvere operativamente non solo le emozioni specifiche che rendono critica la relazione nell’hic et nunc, in questo caso genitori-figli, ma anche le emozioni che, grazie ai cambiamenti qualitativi attivati dal progetto stesso, creano aree di criticità cognitive ed emotive nei ruoli e nei nodi dalla rete individuale, gruppale e istituzionale di riferimento (Pagliarani 1985b, Burlini e Galletti 2000, a cura di Ronchi e Ghilardi, 2003). E’ importante che questi diversi setting non siano casuali e che, soprattutto, non si passi in modo automatico, o ancor peggio confuso, dall’uno all’altro. La prima decisione dunque riguarda la regia che l’assistente sociale prefigura, sviluppa e sostiene attorno alla situazione. E’ una gestione attiva che lo vede decidere il susseguirsi delle scene e degli attori in campo e che gli richiede di rimanere in una posizione decentrata al fine di poter osservare complessivamente il processo. E’ infatti la posizione di regia, o più precisamente di coordinamento, che gli permette di dare visibilità ai legami tra i membri del gruppo familiare. E se è necessario allora che sia chiaro con chi la famiglia si deve incontrare, dentro a quale cornice questo avvenga e con quale obiettivo, è altrettanto essenziale che gli operatori che lavorano nel campo familiare sappiano leggere anche le dinamiche di gruppalità sempre più complesse poiché esse sono loro utili sia per coordinarsi sia per rappresentarsi i vincoli tra i membri della famiglia estesa. E diventa quindi cruciale per chi incontra la famiglia problematica mantenere una posizione differenziata poiché, affrontando legami narcisistici dominati dalla confusione tra ascendenza e discendenza, si trova esposto ad un campo emotivo sincretico che cancella i limiti travalicando lo spazio individuale. Infatti più una famiglia è fragile più contiene al suo interno il nucleo agglutinato (Bleger 1992), cioè quella parte psicotica che la rottura provocata dall’allontanamento del bambino dovrà far emergere. 4. Sostenere gli operatori nel momento dell’incontro con l’irruzione della psicosiInterrompere la permanenza di un bambino all’interno della sua famiglia significa dunque recidere il rapporto confusivo tra genitore e figlio facendo esplodere il nucleo silente che si colloca prima della fase schizo-paranoide e depressiva. L’operatore però non sempre coglie l’aspetto evolutivo del vissuto scisso e distruttivo. Eppure, se utilizziamo il linguaggio psicoanalitico è proprio il dirompere della fase PS che, se contenuta, introduce verso la fase D (Bion W. R., 1976) da cui può aver origine la rielaborazione della perdita insita nel passaggio da una generazione all’altra. Ed è proprio il processo luttuoso il filo rosso che congiunge le diverse azioni a favore del minore poiché, solo il sentimento di perdita, permette di lenire i torti del destino senza che i genitori ne chiedano riparazione ai figli in una trasmissione di depositi malati che transitano da una generazione alla successiva. Interrompere la simbiosi familiare, che nega i limiti generazionali, implica perciò dare spazio alla psicosi con alterazioni del senso di identità e di realtà. E’ una follia che si manifesta attraverso gli atteggiamenti irragionevoli dei genitori che si vedono allontanare il bambino. Poco importa se erano d’accordo o no sulla separazione poiché la loro capacità di comprendere la situazione è sovente offuscata proprio dai loro vissuti problematici. Gli affetti bizzarri esplodono quindi con la rottura della simbiosi e l’allontanamento del bambino apre, seppur tra travagli, dolori e sofferenze, la ferita del distacco. L’aver provocato la cesura familiare permette di iniziare a curare il dolore della perdita senza che sia suturato dal vischioso attaccamento del genitore al figlio e del figlio al genitore. Delle volte è necessario che il trauma del lutto faccia il suo corso e quindi la reazione folle alla perdita del figlio appare in tempi non predefinibili. Ecco allora che la mancata reazione non indica che tutto procede per il meglio, bensì che la negazione ha vinto anche sul trauma provocato! I bambini e i ragazzi, anche se d’accordo nell’andare fuori casa, conoscono a loro volta, l’esperienza della separazione solo dopo che il distacco è avvenuto. E la ferita per la rottura del setting familiare, appena viene avvertita, sanguina copiosamente mostrando il travaglio emotivo che aspetta il bambino e il ragazzo che devono iniziare il processo di individuazione. E’ una angoscia che spesso i minori manifestano con una violenta aggressività ed una sfibrante incontenibilità inducendo gli operatori ad attuare, dopo l’allontanamento dalla casa parentale, nuovi allontanamenti dalle famiglie affidatarie o dalle comunità educative. Questi bambini e questi ragazzi agiscono infatti in modo da provocare dei rifiuti che portano le famiglie affidatarie a stancarsi di loro e le comunità educative a ritenersi incompetenti a tenerli al loro interno. Ogni ulteriore allontanamento è il sintomo che si ripete. Diventa quindi necessario studiare il rapporto tra defusione familiare e nuova proposta educativa per non far precipitare i minori allontanati in una situazione ripetitiva priva di evoluzione. Il minore che viene separato dal gruppo familiare porta con sé l’ansia depositata su di lui dagli altri membri della famiglia. Ed è un’angoscia che ha a che fare con la mancata separazione e quindi con l’impossibilità di vivere delle relazioni. Si può allora pensare che l’allontanamento è il sintomo che il gruppo familiare ha depositato sul minore per liberarsi della problematica, non risolta, della separazione generazionale. Se questo deposito non viene svelato ed interpretato la famiglia non solo non sarà mai più disponibile a riprendersi il figlio-sintomo, ma si comporterà proprio in modo da rendere impossibile il suo rientro in famiglia. E’ dunque necessario vigilare affinché il lavoro degli operatori sociali che allontanano i minori non sia un atto di complicità con la struttura malata del gruppo familiare. 5. Genitorialità diverseE’ complesso pensare a dei genitori non competenti nella cura dei piccoli poiché, da un lato, implica la rinuncia ai pregiudizi su come dovrebbero comportarsi madri e padri e, dall’altro, impone un’indagine sui bisogni-diritti del figlio. Il bisogno del bambino di avere una relazione con mamma e papà può contrastare con il suo diritto di avere degli adulti competenti che lo seguono nella sua crescita. Il diritto agli affetti non può essere garantito dalla legge poiché riguarda il mondo relazionale, le capacità interpersonali, i vissuti intersoggettivi e gli aspetti intrapsichici. Il diritto legale ed il processo psicologico possono dunque non coincidere aprendo una frattura tra principi della legge e operatività dei servizi sociali. All’interno del Servizio infanzia adolescenza di un comune che ha mantenuto la titolarità dell’area della tutela minorile nel 2002 questa contraddizione viene assunta come ambito problematico. Ed è appunto per indagare questo vertice che si decide di dar avvio al gruppo definito Unità Operativa Progettuale (UOP). E’ un gruppo costituito da una parte stabile e da una parte mobile. La parte stabile è composta sempre dagli stessi professionisti, mentre quella mobile è invece rappresentata ogni volta da un assistente sociale diverso che o sta prefigurando una separazione, o ha deciso un allontanamento o sta lavorando con un bambino già inserito in una struttura educativa come alternativa al vivere nella sua famiglia. Tutti gli operatori del Servizio infanzia adolescenza che contempla diverse aree di intervento una definita preventiva, un’altra di tutela dei minori, un’altra ancora che si occupa dei neomaggiorenni ed infine un’ultima che si prende cura dei minori stranieri non accompagnati, condividono e riformulano il progetto. Nelle riunioni in plenaria infatti si decide che ciascun assistente sociale possa invitare alla UOP gli altri operatori che si occupano del minore da allontanare e del contesto familiare nel quale vive. Sono questi degli operatori di altre aree del Servizio o di altri servizi comunali od anche dei colleghi di altre istituzioni quali l’Azienda Sanitaria Locale e le Comunità Educative nei quali si è inserito o si sta per collocare il minore. Sono allora molte le menti che concorrono a contenere una sofferenza difficile da pensare. Per questo la UOP è stata ideata come un gruppo operativo con il compito di costruire, condividere ed interrogare le idee sul progetto di separazione e di ricongiunzione del minore dai suoi contesti familiari. La UOP vuole porre l’accento sulla necessità di fermarsi per pensare al senso di ogni separazione trasformando l’idea di allontanare il minore dal conteso parentale, quasi esso fosse in sé un pericolo, al concetto di separazione temporanea del piccolo dai suoi genitori al fine di riattivare, con il trauma della lontananza, il processo relazionale tra i membri del gruppo familiare. Si tratta di rompere il nucleo agglutinato permettendone una elaborazione (Bleger J., 1992). Bisogna dunque dare nomi a questo vissuto. Bisogna rappresentarsi i vincoli tra i membri del gruppo familiare sia nucleare sia allargato poiché è nell’intreccio generazionale che si trova il canale sotterraneo che ha veicolato la sofferenza. Bisogna costruire un progetto per rompere il deposito familiare che ha determinato la filiazione narcisistica. 6. Elaborare la differenza tra allontanamento e separazioneE’ dunque necessario elaborare concettualmente la differenza tra allontanamento e separazione comprendendo come la prima implichi un falso concetto che comporta l’illusoria idea che esiste un luogo dove il minore sarà in salvo poiché, in realtà, questo posto non esiste mentre la seconda salva psichicamente la relazione tra figlio e genitore. E’ necessario dunque custodire un regolare rapporto tra il piccolo e le sue figure parentali. Il rientro in famiglia diventa un concreto ritorno a casa, quando ciò è possibile, o un abitare in una famiglia interiore capace di dare senso a quanto ognuno ha ricevuto dai propri genitori, quando il minore deve fare i conti con una prolungata mancanza del rapporto reale. Si potrebbe allora dire che si procede ad una separazione tra genitore e figlio proprio per dare aiuto al puer interno della madre e del padre. E’ questo puer (Pagliarani L., 1992) che ha bisogno di un tempo dedicato a lui stesso per evolvere, per superare gli eventi traumatici che hanno bloccato la sua maturazione, per poter usufruire di uno spazio e di un tempo al fine di crescere. Questo punto di vista, solidale con il bambino-genitore, implica un’empatia che va al di là dell’ingombrate corpo adulto e necessita di una rappresentazione con i più profondi bisogni di chi è fragile e smarrito. Per fare questa operazione si deve uscire dal sistema vischioso indifferenziato dei nuclei familiari narcisistici al fine di non comportarsi nel medesimo modo immaturo degli adulti che in essi vivono. 7. Dare forma all’esperienza: il gruppo UOP Il gruppo UOP, per rappresentare che l’appartenenza non è fissità, congiunge una parte stabile con un’altra mobile. La prima è formata da quattro operatori, due psicologi-psicoterapeuti, un assistente sociale ed un educatore, tutti con una formazione personale sulle tecniche del gruppo operativo (Pichon Riviere E., 1985, Bauleo A. 1973, Scalari P., 1991). La seconda è invece costituita dal restante personale del Servizio, composto da educatori professionali, psicologi, assistenti sociali ed assistenti domiciliari. La condivisione dello schema di riferimento della parte stabile funziona come integrato - luogo mentale che accoglie le parti confuse degli operatori della parte mobile. Le due parti devono trovare insieme il pertugio per uscire dalla vischiosità patologica dei gruppi familiari che vengono portati per essere discussi. Nella UOP si tratta dunque di mettere a disposizione uno spazio, il gruppo, che sa dare visibilità a ciò che sta accadendo ai genitori, al bambino e anche agli operatori che con loro si relazionano. I quattro professionisti che vanno a formare la parte stabile della UOP introducono nel gruppo, oltre al comune schema di riferimento concettuale, anche una diversificata esperienza professionale. C’è infatti chi si occupa della prevenzione del disagio, chi degli affidi familiari e chi infine delle comunità educative. Il quarto rimane equidistante da tutti questi ambiti operativi ed assume la funzione di coordinatore per facilitare sia le comunicazioni sia l’elaborazione del compito manifesto e latente. Il setting della UOP è dunque la cornice invariabile che contiene le ansie confusionali di quelle famiglie che non conoscendo il senso delle regole, dei confini e dei limiti non hanno un setting mentale. Le precise regole del setting operativo della UOP rappresentano quella barriera concreta capace di evidenziare la vischiosità portata dall’operatore. E’ la discriminazione del setting dentro a cui si fa UOP che permette infatti la rielaborazione della zona confusa che gli operatori hanno assorbito dal nucleo familiare. Il setting della UOP, quindi, si pone come zona di discriminazione tra interno ed esterno che avvia il processo di differenziazione attraverso il movimento dell’entrare ed uscire dalla cornice. Ed è questa esperienza dell’utilità della separatezza che diviene poi un sapere utile all’operatore per poter riflettere sulla situazione dell’uscita e dell’entrata del minore dal suo contesto familiare. La parte stabile si pone dunque come obiettivo di ancorare gli operatori ad una appartenenza alla famiglia sociale affinché tale identità professionale moduli la distanza tra l’operatore stesso e la famiglia di cui si sta occupando. La parte stabile, quindi, non esposta al contatto diretto con l’utente, diventa gruppo di riferimento affinché la parte mobile non sconfini dentro alla patologia invischiante delle famiglie che ha in carico. Il gruppo UOP è dunque l’articolatore tra le famiglie problematiche, il fuori, e la famiglia sociale, il dentro. E’ proprio il fatto che la UOP stabile appartenga al Servizio infanzia adolescenza che aiuta la UOP mobile a sentirsi appartenente al gruppo istituzionale. Per questo, seppure tra inevitabili fantasie di supervisione, essa deve attestarsi come un gruppo di colleghi che incontra altri colleghi al fine di condividere le decisioni a partire da una orizzontalità che elimini ogni idea di verticalità. Trovarsi in una posizione orizzontale permette infatti di sviluppare la rappresentazione concreta dell’entrare in un - gruppo familiare - pronto a condividere piuttosto che ad insegnare. L’UOP dunque mostra concretamente la possibilità della differenziazione dentro ad una appartenenza unitaria. Ed è questa una rappresentazione che nessuna formazione monotematica può veicolare poiché il supervisore, per definizione e per necessità tecniche, è non solo estraneo al servizio, ma è anche investito della funzione di trasmettere competenze. Il Servizio, con l’UOP, ha dunque fatto una scelta tanto originale quanto significativa. Si è ritenuto infatti che questo dispositivo potesse incrementare la pensabilità della separazione dentro al gruppo familiare cogliendo, nei vissuti controtransferali degli operatori che vi appartengono, i segnali degli affetti invisibili che contraddistinguono le famiglie problematiche. 8. Analisi del transfert e del controtransfert del gruppo UOP L’analisi del transfert e del controtransfert all’interno del gruppo definito UOP è divenuto quindi l’oggetto della ricerca-azione proprio perché il coordinatore è riuscito a contenere e rielaborare le fantasie, presenti in tutti i partecipanti, di trovarsi in un gruppo di supervisione. I movimenti emotivi apparsi nel gruppo UOP, invece, sono stati letti, segnalati, interpretati e ricostruiti dal coordinatore come rappresentanti dei vissuti provenienti dalle parti simbiotiche del gruppo familiare agite a più livelli. La UOP ha immesso dunque nel Servizio un gruppo che fa della condivisione empatica, propria di chi sa vivere la separatezza, il punto di snodo tra vicinanza e lontananza. La UOP è divenuta nel tempo il luogo/contenitore dove prende forma la relazione d’aiuto senza far sentire incapace chi si trova in una posizione di dipendenza.
Il processo che prende forma nella UOP crea dunque uno spazio dove poter depositare, elaborare ed abbandonare le inquinate proiezioni degli utenti per far entrare, digerire e metabolizzare il sapere di un Servizio sempre più capace di sostenere una ampia rete genitorialiale. 9. Dare confini: aspetti di setting e recupero di un’identità plurale La UOP si incontra dentro ad un setting preciso poiché è in gioco la rottura del setting familiare. Per poter allontanare un bambino da casa in modo pensato è necessario che la famiglia sociale si riunisca in una salda cornice che permette di recuperare il senso di questo agito. Il compito di analizzare il significato dei percorsi di separazione traumatica decisi dal Servizio e/o dal Tribunale per i minorenni o dai contesti familiari stessi, è tenuto dall’inquadramento (Bleger J., 1989). Lo spazio e il tempo dell’incontro implicano una sede fissa e la predisposizione di due ore per l’analisi di ogni caso. Una funzione di coordinamento viene assunta dalla UOP stabile che si pone come strumento per la rottura degli stereotipi al fine di immettere nuovi pensieri nell’analisi della situazione. La funzione di coordinamento assunta dalla UOP stabile implica l’idea che solo un gruppo, e in specifico un gruppo rete interistituzionale, possa regolare lo spazio di separazione nelle famiglie multiproblematiche. Si tratta allora di comprendere che nel genitore incapace entrano in gioco in modo scisso quattro aspetti della sua identità: il sé bambino, il sé figlio, il sé coniugale ed infine il sé parentale. Nella caduta delle competenze genitoriali sono allora in campo le diverse identità dell’adulto che vanno osservate in funzione di una comprensione dell’effetto che hanno su ciascun specifico figlio. Sono perciò necessarie, in contemporanea, le identificazioni con ogni piccolo che vive nel nucleo familiare e con ogni adulto che con lui si relaziona per rappresentarsi i diversi legami tra le diverse generazioni. L’esperienza della UOP mostra che il fermarsi a pensare in un gruppo composto da una parte stabile, che tiene la continuità del compito, e da una parte mobile, che porta la situazione familiari da analizzare, permette di costruire un pensiero su quanto prima era impossibile nominare. E’ un pensiero che riconnette vissuti e decisioni, che dipana affetti e razionalizzazioni, che articola depositi familiari e compiti istituzionali. Il gruppo si presta dunque ad una immediata distribuzione dei diversi aspetti emotivi in gioco e permette di mettere direttamente in scena i legami difettosi. Ogni componente della parte stabile assume su di sé una visone dei giochi familiari e li ripropone nello scambio gruppale. Tutto il gruppo fa fronte al pensiero sul lutto sopportando emotivamente il travaglio affettivo che esso richiede. E’ la comparsa di questo sentimento che permette agli operatori coinvolti nella storia familiare di transitare da posizioni onnipotenti a posizioni depressive. Le fasi di questo processo iniziano con la richiesta dell’assistente sociale di andare a discutere la situazione nella UOP. E’ il primo atto per entrare nel gioco gruppale e comporta il dovere scegliere con chi farlo tra tutti coloro che si stanno occupando della situazione. Questa decisone implica la rottura con il legame simbiotico che ognuno crea con la situazione che ha in carico. Per l’operatore, accettare di analizzare ciò di cui si è fatto carico attraverso il legame con il - suo - caso, significa accettare l’intromissione di altri. Il vincolo impenetrabile diventa così analizzabile. E la frattura nel setting familiare che lascia fluire dall’utente all’operatore il vissuto di vischiosità da silente diviene narrabile. Lo spazio tra il depositante e il depositario si assottiglia. La UOP stabile richiama allora all’elaborazione del deposito familiare attraverso l’accoglienza di quanto è stato depositato dal gruppo familiare nel professionista. La conferma scritta di essere accolti nel gruppo UOP è il secondo atto che prelude all’incontro. La seduta gruppale poi prevede una parte informativa, a cura di coloro che conoscono la situazione, ed una successiva discussione in gruppo. Il transfert quindi si crea per tutto il periodo che va dalla richiesta di un appuntamento al momento dell’incontro. In questo lasso temporale che trascorre tra domanda e risposta avviene una prima elaborazione mentale del caso. Il sapere di dover discutere una situazione familiare suscita, negli operatori che a diverso titolo intervengono nella storia di un bambino, un processo di pensiero che innesta una ricognizione degli eventi, una ricostruzione dei fatti, una tessitura emotiva delle azioni, una ricomposizione della rete tra i servizi. Nella mente dell’operatore si apre un dialogo tra sé e il gruppo UOP stabile che funziona da contenitore del pensiero ancor prima che la seduta gruppale abbia luogo. Al momento dell’incontro dunque un’importante parte del lavoro è stata compiuta. Il transfert con la UOP stabile è già costruito e si evidenzia nella modalità narrativa della situazione. Lo stile del racconto mostra il pezzo di lavoro compiuto prima della seduta ed evidenzia lo stato di ricucitura di significati fatto in funzione del - breve - tempo a disposizione per narrare storie che spesso hanno avuto luogo in anni ed anni di operatività, di interventi e di azioni. L’assenza di una trama significativa appare attraverso racconti confusi. La costruzione di una storia significativa appare invece attraverso chiare ed avvincenti narrazione accompagnate dalle specifiche tonalità emotive. L’esplorazione del linguaggio attraverso il quale viene esposto il caso rappresenta il testo che rivela come la storia di vita di quella famiglia sia contenuta nella mente del professionista. La trama narrativa evidenzia allora il legame tra l’operatore e la storia della famiglia alla quale si sta pensando di togliere il figlio. La parola che narra diviene dunque primo atto che separa gli eventi e prima forma che li ricongiunge. Ed è questa modalità espositiva che risuona nel mondo interno di ciascun componente del gruppo UOP stabile. Il predisporsi poi a discuterla diviene, per tutti, mettere a disposizione ciò che lì si è sentito, vissuto e provato. Significa cioè accettare di ascoltare con l’orecchio interno per dare voce alle proprie emozioni. Dolore e rabbia non mancano mai. Sofferenza e smarrimento accompagnano questi momenti. Destabilizzazione e ricerca di senso diventano il lavoro da fare in comune. Incertezze e accettazione di preoccupazioni sono i pensieri maturi che entrano in campo. Il gruppo contiene questi sentimenti e permette ad ogni componente della UOP di rompere con le mute fissità per andare alla ricerca del filo narrativo che collega le vite degli utenti che separati dovranno poi essere unificati. Il gruppo UOP mette allora in campo il processo di separazione attraverso il processo di narrazione. L’incontro, per essere fecondo, richiede quindi l’esposizione significativa di una storia che, per esser raccontata, deve uscire dalla confusione interna per articolarsi in parole, discorsi, linguaggi che richiedono un lavoro di separazione tra il sentire e il dire, tra l’aver vissuto e il raccontare, tra l’essere dentro e il metter fuori, tra la persona e il ruolo istituzionale che ricopre. E’ questo un esercizio narrativo che richiede una matura separazione ed una originale legatura tra i pensieri. Ciò che era condensato si frammenta. E sono proprio questo spezzettare, rompere, dividere, separare i pezzi di vita che permettono di uscire dalla fusione per dare forma prima ad una nuova organizzazione del pensiero e poi ad un innovativo progetto. Quando il senso dato dal distanziare i fatti e riconnetterli trova una ricomposizione il dolore diviene speranza, la rabbia si trasforma in azione, la sofferenza diventa elaborazione, lo smarrimento assurge a sicurezza, la rottura trova valore nella progettualità e le decisioni sono certezza operativa. Sostenere il discorso narrativo significa poter uscire dal pensiero invischiante tipico delle famiglie problematiche, significa anche operare una separazione di idee che diventa fondamentale per accompagnare il bambino fuori della famiglia. E la separazione del bambino dai suoi genitori, quando è operata tenendo una trama narrativa, rimette sempre in moto la possibilità di far rientrare a casa il minore. Ed è questo un percorso che ha, come nelle fiabe, un inizio e una fine. L’assistente sociale G. chiede di accedere alla UOP per discutere della situazione di Letizia, una ragazzina di dieci anni, figlia di Elisa, una giovane esponente dell’alta borghesia cittadina che soffre di disturbi mentali, che è in cura da uno psichiatra del servizio di igiene mentale e che ha anche subito un ricovero obbligatorio nel reparto psichiatrico su richiesta del proprio padre. Questa signora ha un’altra figlia minorenne, Laura, scappata di casa a quindici anni per andare a vivere con il padre che, non solo l’ha accolta, ma l’ha anche sostenuta a segnalare al Tribunale per i minorenni la difficile situazione nella quale viveva la sorellina rimasta con la mamma. In verità Letizia le è sorellastra poiché la madre l’ha concepita con un signore anziano, un alcolista cronico, di professione netturbino. Elisa, oltre a discendere da nobili origini, è anche una donna avvenente. Vive in un palazzo aristocratico della città, relegata però nel sottoscala. E’ infatti figlia di facoltosi latifondisti che le hanno assegnato come abitazione un buio magazzino che rappresenta il luogo di confino, lo spazio di negazione dell’appartenenza familiare e l’antro buio dove vengono alla luce oscure rabbie e fosche malvagità. Questa misera abitazione rappresenta infatti per Elisa la metafora concreta dell’essere calpestata, relegata, disconosciuta. E sono questi sentimenti che via via generano in lei la perdita di una identità sicura. Il patrimonio economico è importante e l’esserne esclusa è sicuramente angosciante per Elisa, ma è la sua estromissione dal patrimonio affettivo della famiglia che la penalizza maggiormente poiché la fa pensare di non essere né amata né considerata dai genitori. Aleggia così l’idea che sia una figlia illegittima. Poco importa se questa supposizione corrisponda a realtà, molto invece importa che sia proprio questa convinzione che Elisa ha passato agli operatori incaricati di seguire il caso e che questi ultimi hanno a loro volta trasmesso alla UOP. Nel gruppo di lavoro UOP la congettura di abuso diventa per la prima volta dicibile anche se da tempo l’assistente sociale la custodiva nella propria mente. L’esprimerla dà via ad altre associazioni che portano i componenti della UOP a fantasticare che Elisa sia stata una bimba abusata. Un fantasma incestuoso aleggia adesso nel gruppo e consolida il pensiero che ad Elisa sia mancata la funzione genitoriale. Le domande: - Padre assente? Padre biologico che non ha riconosciuto la figlia? Padre legale che ha custodito il segreto di una adozione imposta? Padre incestuoso? - circolano nel gruppo anche se rimangono senza risposta. Sono però interrogativi che danno una motivazione, una giustificazione alla confusione mentale di Elisa. Ed è infatti l’incesto, con il suo carico di violenta destrutturazione del mondo simbolico della famiglia, che rimane matrice della storia di questa donna colorando di nero la sua esistenza. Poco importa se questa signora sia stata o no violentata dal padre. Importa invece moltissimo quello che rivela questa fantasia poiché permette di capire cosa sta passando intergenerazionalmente nella vita di Letizia. L’incesto, come caduta della barriera generazionale e della funzioni di protezione, è ora transitato nella mente di Letizia che, violentata mentalmente, si vive uguale alla madre, come cioè una sua pari. L’incesto, come metafora dell’annullamento dei limiti tra i membri della famiglia, dà senso alla confusione dei ruoli tra madre e figlia. Mescolanza disordinata che si manifesta proprio nel senso di colpa espresso dalla piccola per fare in modo che la madre ne sia liberata. L’incesto, come mancata funzione di protezione materna e paterna, è ciò che ora è visibile sintomaticamente nella bimba. Letizia è infatti una ragazzina senza l’involucro pelle, senza un contenitore che la tenga unita, senza un sé distinto da quello della mamma. Letizia non esiste se non come parte della madre tanto quanto Elisa sussiste in quanto sostenuta dalla figlia. Elisa e Letizia, nella mente del gruppo UOP, divengono così le - Cenerentola - a cui nessun principe si è ancora avvicinato. Sarà l’assistente sociale G. il loro cavaliere che le farà rinascere entrambe a nuova vita? Letizia alter ego della madre, nella nobile famiglia d’origine che è già attraversata da sentimenti di vergogna per Elisa, la figlia pazza, non può che rivestire il ruolo di Cenerentola perché anche lei, in quanto figlia dello spazzino, è fonte di vergogna per gli aristocratici parenti. Letizia, pertanto, provenendo dalla sordida immondizia del padre, rappresenta proprio quella parte concreta che incarna - il disonore e l’immoralità - quindi la vergogna. Nella UOP ci si chiede se questo scenario di un padre-“immondizia“ che genera una figlia rifiutata non sia nient’altro che la ripetizione del sintomo da cui ha avuto origine la storia dolorosa che Elisa,adesso, racconta attraverso la figlia. Elisa dunque in quanto vittima designata è la -pecora nera- della famiglia o meglio il - paziente prescelto- e come tale agisce. Fin da giovane cerca invano la sua identità di bambina negata e, in questa ricerca senza validi strumenti per poterla orientare, sbaglia ripetutamente la scelta dei suoi partner, viene brutalmente rifiutata dalla prima figlia, si ritrova irrimediabilmente abbandonata dai mariti. E, come se non bastasse, ha pure perso la misera dimora, dove l’avevano relegata, finita in cenere a causa di un improvviso e violento incendio. E’ una afosa serata estiva. Tutta la famiglia è riunita nella villa di Porto Azzurro per festeggiare il compleanno del padre. Elisa non c’è. Non è stata invitata. La notte è senza luna. L’oscurità rende ancora più angosciante la solitudine. Elisa è rannicchiata sul letto con accanto la piccola Letizia. E’ inquieta. Il sonno agitato della piccola la preoccupa. Accende le candele. Forse per illuminare la figlia. Più probabilmente per evocare un po’ di calore. Ma anche per trovare un po’ di luce nel buio dei suoi pensieri. Od ancora per illuminare la scena attorno a lei. Oppure, più verosimilmente, per attenuare la sua angoscia. Ma, improvvisamente, le fiamme divampano, il bagliore l’acceca, la verità le oscura la mente, tutto brucia. E si trova seminuda, in istrada, con la figlia stretta in un abbraccio fusionale a sperare di vedere andare in fumo l’ultimo legame che le teneva ancora vincolate a quel palazzo ed ai suoi abitanti. Ora Elisa vive in uno squallido residence. Contraddizione concreta tra l’appartenenza ad un gruppo familiare ricco che la vuole però solo tanto quanto accetta di stare lontana dalla vita familiare. La sua unica ricchezza è allora Letizia, la figlia che le è rimasta.
La segnalazione del Tribunale per i minorenni, avvenuta dopo la denuncia della sorellastra, la caduta delle competenze scolastiche e la fragilità corporea della ragazzina sono le motivazioni che inducono l’assistente sociale a prendere in considerazione l’opportunità di un allontanamento di Letizia dalla madre. Visite domiciliari nella casa di Letizia e di sua madre, colloqui con la famiglia allargata, incontri con i parenti del ramo paterno dimostrano però che l’ammalata è Elisa e che questa donna è sgradita ed indesiderata. Nessuno infatti la vuole, nessuno ha il tempo per occuparsi di lei. Ognuno si difende da questa donna mostrando le sue stanchezze, ciascuno la rifiuta elencando i suoi problemi. Il risultato è che tutti si tirano indietro. Di fronte a questo totale disinteresse i parenti designano Anita, la sorella di Elisa, a prendere con sé Letizia. Anita è vedova con quattro figli, vive in una lussuosa tenuta in campagna, ha subito delle denunce per uso ed anche per spaccio di sostanze stupefacenti e, ciononostante, è ritenuta idonea all’affido della nipote dal Consultorio familiare dove la donna risiede. La UOP però rileva subito l’incongruenza dell’affidare ipso facto la bimba alla zia e propone perciò di fare prima un lavoro intermedio di defusione tra madre e figlia che porti sì ad una lacerazione dei confini fusi tra le due, ma anche ad una loro sutura al fine di costruire una barriera tra madre e figlia che garantisca il mantenimento del contatto.
La UOP si ritrova a mettere a punto il progetto di separazione tra madre e figlia attivando tutta la famiglia sociale. Ecco allora il responsabile del servizio assumersi il compito di leggere il decreto del Tribunale alla madre. Ecco l’assistente sociale, accompagnata da una poliziotta in borghese, prelevare Letizia da scuola e portarla altrove. Ecco gli educatori dell’area prevenzione intervenire subito con insegnanti e alunni al fine di aiutarli ad elaborare la scomparsa violenta della rispettiva alunna e compagna. Ecco ancora un’altra assistente sociale convocare la famiglia per parlare con i nonni e gli zii della bambina sull’evento. Ed infine ecco pure lo psichiatra pronto a sostenere la donna. Tutto sembra preparato per recidere il legame simbiotico e per curarlo. Ma… C’è sempre un evento imprevisto a rompere la linearità delle storie di vita, a rendere consapevoli che la realtà è impossibile conoscerla prima di averla vissuta.
La UOP è stata attaccata da una collega che ha partecipato alla fase operativa dell’allontanamento e che, a riedizione del vissuto familiare della parte nobile ha sconfessato, annientato, sminuito e mortificato il lavoro della UOP.
Ora però, a differenza di Elisa, la rete emotiva e cognitiva che un gruppo interistituzionale ha attivato attraverso il progetto UOP può pensare a queste emozioni, può quindi rielaborale per tornare ad occuparsi dell’utente invece che di se stessa e attraverso di esso della polis. Lo sconfinamento del setting della collega accusante diventa la rappresentazione dello spazio senza confini nel quale Elisa vive. Tutto nella sua famiglia d’origine fuoriesce in un delirante accusare che affossa e mortifica Elisa. La fuga mentale della donna è dunque la sua difesa dal sentirsi attaccata. Nella UOP bisogna invertire la rotta e passare dalla denigrazione all’apprendimento di una nuova capacità di ascolto emotivo verso una nuova comprensione, verso una più sviluppata e complessa competenza in grado di accostare e gestire simultaneamente emozioni individuali, gruppali e istituzionali senza fare confusione tra di esse. Ed è questo che cerca di mettere in atto. G. racconta un sogno che ha fatto il giorno precedente l’incontro con la UOP. Si trova a casa sua con il figlio più piccolo e deve trapiantare su di un vaso pieno di terra l’albero di Natale. Mentre scava per preparare la buca, dal vaso escono pezzi di bambine morte, teschi, ossa, braccia, gambe che forse, rimessi insieme, potrebbero tornare a rivivere e salvare così le bambine morte. Ma G. non sa come rianimare i teschi. Arriva la madre. La incoraggia dicendole che nulla è perduto. E tenta la rianimazione assieme a lei. Il sogno si interrompe. Come finirà? G. lo collega agli eventi traumatici degli ultimi giorni che l’hanno vista protagonista dell’allontanamento di Letizia e chiede alla madre-gruppo-contenitore di rianimare le parti morte, dolorose, rotte che sono depositate in lei per poter dar vita ad un Natale, cioè ad una nuova nascita psicologica e sociale. Ed è mesi dopo, proprio alla vigilia di Natale, che la UOP si rincontra per fare il punto della situazione. Letizia è in comunità e comincia a esistere come persona in relazione con la madre. La bimba sta raccogliendo dentro ad una scarpa dei sassolini che la porteranno, come Pollicino, dalla madre. I sassi però non le faranno smarrire la strada di ritorno alla comunità, cioè lo spazio di distanziamento tra sé e la mamma. Ed Elisa passa con la figlia il giorno di Natale. Mangiano insieme alla presenza di un educatore. Poi Elisa torna a casa e Letizia rimane in comunità. Ed il terzo, rappresentato dalla comunità, che rimette in moto l’esclusione, diventa così concreta presenza che riavvia il processo edipico che ha interrotto l’evoluzione della bimba. Adesso, attraverso la separazione, si dà il via alla maturazione, alla conoscenza della realtà, all’accettazione dell’alterità. Anche a quella di una madre malata, sofferente, smarrita nuovamente in contatto con il suo processo di crescita. Bibliografia
* Paola Scalari è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista membro ARIELE PSICOTERAPIA e COIRAG; è membro della commissione cultura e formazione dell’Ordine degli psicologi del Veneto. Da anni è consulente di Enti pubblici e privati nel campo educativo, sociosanitario e psicosociale. Nel 1988 ha fondato i Centri Età Evolutiva del Comune di Venezia: un servizio che lavora con bambini, ragazzi, genitori ed insegnanti. Consulente della rivista Io e il mio bambino e collaboratrice per le riviste Conflitti e Animazione Sociale, cura la collana PROVE: Storie dall’adolescenza, per la casa editrice la meridiana Molfetta, Bari. E’ autrice con Francesco Berto di "Incontrare mamme e papà. Strumenti e proposte per aiutare i genitori" (1999), “Divieto di transito. Adolescenti da rimettere in corsa” (2002) e adesso basta. Ascoltami (2004) per la casa editrice la meridiana cura la collana -Quaderni per crescere- ed Intrecci della casa editrice Armando nella quale è autrice dei volumi I sì e i no. Concedere o proibire (1997), Paure. Bambini spaventati, Essere fratelli. Scontri e incontri (1998), I figli ingannano. I bambini raccontano bugie (2001), Qui comando io ( 2003). |
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