Il gruppo interno come area di conflitto
nella psicoterapia individuale Un “personaggio” che si fa portavoce della “zolla lavica” La condizione di figlio con cui nasciamo - se ci riconosciamo adultescenti - è vitalizia.
Psicoterapia psico-socio-analitica Nell’attuale cultura psicoanalitica non possiamo prescindere dalla convinzione che l’identità soggettiva sia fortemente determinata dalla trasmissione generazionale. Nel modello psico-socio-anlitico il concetto fondante e maggiormente fertile è altresì quello di puer. E’ questa infatti la nozione teorica che va definendo ogni individuo come il figlio nato da un taglio ombelicale. Figlio che diviene aspettativa di un nuovo progetto, che dimora emotivamente nel mondo interiore di ogni individuo e che entra nei contesti reali attraverso una specifica matrice affettiva. Figlio che, alle volte, smarrisce il senso del suo futuro, che soffre per la sua oscura immaturità e che arriva a confondere realtà psichica con realtà esterna. Discendenza dunque che patisce, tribola e si ammala e che, a causa dei suoi tormenti, abbisogna di quella puer-cultura, cioè di quella pscicoterapia psicosocioanalitica, che sa aiutare l’individuo a trovare un posto specifico alla sua identità filiale senza che sia necessario che egli abdichi alla sua funzione adulta. Si tratta di accompagnare ogni paziente nell’individuazione dei luoghi psichici dove la linea di rispetto del genitore verso di lui è stata infranta. (cfr. Pagliarani, Il coraggio di Venere, Cortina, 1985). Si tratta dunque di risolvere interiormente il conflitto tra gli aspetti regressivi e gli aspetti evolutivi senza danneggiare l’animo curioso, dubbioso ed indagatore del puer. Il transito dei contenuti psichici da una generazione all’altra è infatti foriero di conflitti non solo per l’estraneità dei contenuti inoculati dal genitore nella mente del bambino, ma anche per la presenza, nella vita psichica del nuovo nato, di una rilevante quantità di oggetti bizzarri che sono stati depositati - proprio dai familiari - nel mondo interno del piccolo. Il passaggio del vissuto parentale, infatti, accumula nella mente della discendenza i detriti irrisolti che appartengono alle aree scisse e mute delle madri e dei padri. Dunque, più un genitore vive in un mondo lontano dalla verità, più trasmette al figlio degli agglomerati impensabili che costituiscono i semi di una probabile futura patologia. Parte della psicoterapia consiste dunque nello studio delle radici. Infatti “La psicoterapia aiuta l’uomo ad evolvere recuperando le proprie radici all’interno della sua storia familiare, vero alimento della sua esistenza” (Luis Kancyper, Il confronto generazionale, Franco Angeli 1997). Le aree traumatiche del familiare che non sono state elaborate dalle generazioni precedenti vanno a costruire, nella realtà psichica del paziente, un nucleo emotivo dolorosamente conflittuale perché a lui estraneo. I fantasmi trasmessi da una generazione alla successiva sono causa di strazianti, tormentate e irrisolvibili problematiche proprio perché rappresentano dei vissuti estranei trapiantati nella mente del paziente da chissà chi. Il paziente è legato a questi oggetti da delle relazione patologiche che lo imprigionano in un claustrum sovraffollato dove le identificazioni proiettive e le proiezioni evacuative lo isolano dalla realtà. A questi legami malati dunque lo psicoterapeuta si dedica.
Puer-cultura Nell’attuale fase storica è soprattutto la rapidissima trasformazione dei modelli educativi che fungono da supporto all’allevamento della prole che lascia mamme e papà fragili e vacillanti. I genitori perciò sono pieni di contraddizioni che vanno a depositarsi nella mente dei figli poiché i piccolini sono indifesi di fronte all’assalto mentale di mamma e papà (cfr. Berto - Scalari, ConTatto, la meridiana, 2008). I neo genitori abbandonano i principi dei loro avi e cercano nuovi supporti. Il più delle volte però non li trovano poiché i consigli che vengono loro offerti dalla società consumistica appartengono ad una scala di valori inconsistente ed intrisa di falsi miti. E, quando un genitore si arrocca in un mondo falso, non trasmette un pensiero in grado di mobilitarsi per la ricerca della verità. Potremmo dire che quando mamma e papà veicolano idee ripetitive e banali creano i presupposti per la sofferenza mentale. Essi infatti abdicano al compito di insegnare al loro piccolo come si fa a pensare. I contenuti mentali allora si fondono in un nucleo agglutinato, come lo definisce Joshef Bleger, che sta a monte degli aspetti schizoparanoici e depressivi e che quindi diviene più complesso da trattare nella psicoterapia. Esso infatti si deposita nel setting analitico poiché si era annidato nel confine familiare, nella burocrazia delle istituzioni e nel rituale organizzativo. Questo condensato emotivo “E’ come un tappeto liscio e lucido che ricopre i percorsi del già conosciuto, ma è un tappeto fatto da un insieme di gatti, o forse di tigri, accoccolati l’uno accanto all’altro; basta un qualsiasi scossone, e il tappeto si anima, si frattura e balzano vivi gatti, tigri, emozioni, dubbi, interrogativi; tutte cose che comportano ancora una necessità di - pensare ancora una volta -, laddove la tentazione di ognuno di noi e di ogni istituzione, compresa quella psiocoanalitica, è di quella di avere già pensato una volta per tutte” (Antonino Ferro, Il lavoro clinico, Cortina 2003). I genitori non possono allora fare a meno di passare nella mente del figlio i loro conflitti emotivi che non sono stati in grado di sgranare in pensieri. Sono questi dei conflitti che, oggi, li vedono sempre meno capaci di trovare una soluzione alla persistente ambiguità tra amore ed odio che provano nei confronti della prole. Il loro affetto parentale non trova infatti facili soluzioni in un mondo dominato dalla complessità, convinto del diritto alla felicità, ansioso di trovare l’immortalità. “Il XIX secolo ha prodotto un fascio di trasformazioni radicali in quella istituzione basica della società, data per naturale, e non per storico-culturale (com’è) che è la famiglia… C’è stata la fine dei - focolari chiusi – (Gide, 1897) che erano - nidi di vipere – (Mauriac, 1933) e che portavano a quel ruolo, estremo sì, ma presente in molte forme, di - famiglia che uccide - (Schatzman,1973); c’è stata la fine della famiglia non solo patriarcale (già oltrepassata da secoli nelle città) ma anche borghese, con tutti i suoi nodi edipici e le sue regole coatte. (Franco Cambi, La famiglia che forma: un modello possibile? in Educazione Familiare ed. Cerro, 2006) E’ il diniego del concetto di limite, di norma, di confine - e quindi di morte - che sta facendo franare il sapere educativo trasmesso da mamme e papà. L’impegno dei genitori non è allora mai soddisfacente poiché non è mai possibile accontentare completamente l’altro, risolvere facilmente ogni suo problema, offrirgli una beatitudine continuativa e garantirgli una vita intrisa di solo benessere (cfr. Berto - Scalari, Adesso basta. Ascoltami!, la meridiana, 2004). Madri e padri si trascinano pertanto dietro una scia di azioni incompiute, soluzioni inefficaci, atteggiamenti inadeguati che minano la loro autostima. Amano il figlio fino allo stremo poiché vengono gratificati dalla sua dipendenza, ma anche lo detestano perché sono insofferenti al sacrificio, alla caduta narcisistica e alla fatica che allevarlo comporta. Arrivano ad adorarlo senza riserve per ottenere in cambio un amore incondizionato che rimane impregnato di elementi libidici (cfr. Berto - Scalari, Padri che amano troppo, la meridiana, 2009). Nel modello psicosocianalitico ci si riferisce al concetto di sistema marsupio, così come declinato da Pagliarani, per potere analizzare il vissuto fusionale ed incestuoso dovuto al cambiamento del ruolo dei nuovi papà, E’ infatti questa concezione del terzo che fa da spartiacque tra salute e malattia prima nel triangolo familiare, poi nel gruppo sociale ed infine nello sconfinato mondo esterno. I genitori non riescono a frustrare il piccolo per il timore di venire rifiutati, per il terrore di diventare spiacevoli, per la voglia di evitare contestazioni. Ma l’amore a-conflittuale condanna ogni figlio poiché gli atrofizza l’apparato per pensare. Mancando il confronto serrato con gli adulti nella mente delle nuove generazioni viene meno la creatività che prende forma dall’assenza e dalla mancanza. L’ambivalenza degli elementi emotivi non digeriti, o come direbbe Wilfred Bion degli elementi beta, entra nella mente di ogni discendente provenendo non solo dalla generazione ascendente, ma anche dalle due stirpi che, in lui, si uniscono. Perciò per comprendere un sintomo del paziente dobbiamo prendere in considerazione non solo quali elementi emotivi ha assorbito da mamma e papà, ma anche cosa i genitori hanno depositato nella mente del figlio accogliendolo inconsciamente proprio dal campo affettivo dei quattro nonni. Tutti questi antenati lasciano un’impronta nella vita psichica del nuovo nato e vanno a costituire, assieme ai modelli educativi assunti coscientemente, le ombre psichiche inconsce che la abitano (cfr. Berto - Scalari, Divieto di transito, la meridiana, 2004). Si può ipotizzare che, oggi, l’assenza di un vero conflitto manifesto tra le generazioni, lasci molte volte irrisolti quei contenuti mentali che vanno poi a costituire il latente dei sintomi che compaiono nel paziente. L’area conflittuale familiare, infatti, viene baipassata mantenendo legami poco significativi tra genitori e figli e viene velocemente risolta con una rottura del vincolo matrimoniale nel caso si presenti tra i due coniugi. Ne sono una terrificante testimonianza gli efferati delitti di questo ultimo decennio compiuti sia dai figli che hanno ammazzato i familiari sia dai genitori che hanno soppresso prima i figli e poi i coniugi. I casi più conosciuti sono quello di Pietro Maso o di Erika ed Omar, ma ricordiamo anche la recentissima strage di Verona compiuta da uno stimato medico che ha fatto fuori tre figli e una moglie con un’unica micidiale raffica. Sono delle morti che rimandano a storie di vita prive di ogni contrasto. Osserviamo che i titoli dei giornali enfatizzano un “erano una coppia normale, facevano una vita normale, nella famiglia era tutto normale…”. Sono affermazioni che appaiono come il pesante ed oscuro sipario fatto scendere dal familiare per nascondere una vita senza passioni. Il rancore più efferato si è però nascosto proprio dietro a questo silenzio conflittuale che, ahimè, viene confuso con la normalità. E, l’odio, dopo essere stato a lungo covato, è infine esploso come una inaspettata bomba atomica. Se il conflitto, che non è mai guerra, viene puntualmente evitato, la sua assenza infragilisce le nuove generazioni. E’ la negazione del contrasto che quindi apre la porta alla parte mortifera cioè guerrafondaia. Se i giovani non vengono allenati al conflitto, che è discussione e contraddittorio, crescono incapaci di accettare quello scontro che dà il via alla ricerca della verità. Verità che di per sé è cibo per la mente e quindi sinonimo di salute mentale.
Unioni e separazioni Nella coppia coniugale l’unione di diversi stili relazionali e di contrapposte abitudini di vita lascia sempre spazio ad un’area conflittuale che è benefica quando avvia una ri-negoziazione dei modelli di riferimento con cui ognuno poi agisce ed è invece negativa quando implica in un coniuge il desiderio di imporre il proprio modo di essere sull’altro. Il vantaggio della coppia affettiva, tipica della nostra società occidentale, è allora quello di avviare in ciascun partner il desiderio di conoscere, capire, assecondare l’oggetto del proprio amore. Il sentimento di tenerezza, interdipendenza, affetto fa sì che il conflitto tra i due - pur alle volte duro, aspro, deciso - rimanga nell’area della benevolenza. Questa affettuosità permette che molte emozioni transitino dalle mente dell’uno alla mente dell’altro trasformando la qualità delle relazioni interne. Ed è così che i due coniugi imparano a staccarsi dai loro genitori, a riformulare il rapporto interiore con se stessi, a lasciare il caldo nido familiare per avventurarsi verso un nuovo mondo relazionale. Quando il conflitto è assente questo processo invece non avviene. E ciò non significa che la coppia sia più armoniosa, bensì significa che la coppia rimane legata ai modelli della famiglia d’origine. In questo caso essa investe con razionale parsimonia il suo mondo emotivo nella nuova relazione. Questo atteggiamento è foriero di precoci rotture coniugali poiché la mancanza del conflitto come ricerca, discussione, confronto, desiderio di conoscenza e bisogno di profondità lascia inalterato il rapporto con il gruppo primario che si è depositato nella mente di ciascun coniuge. Al primo ostacolo quel partner, che era stato solo introdotto nel gruppo familiare senza che avesse modificato la qualità relazionale tra i componenti del suo mondo interiore, risulta inutile ed ingombrante. Come un corpo estraneo facilmente viene perciò facilmente espulso, eliminato, estromesso. Se il gruppo interno, grazie all’incontro amoroso elettivo, non si modifica il rischio che la coppia affettiva arrivi ad una separazione coniugale è molto alto. Sono questi dei divorzi che avvengono in modo violento poiché nella realtà psichica il coniuge viene accusato di non essere stato capace né di assolvere al compito di essere una riedizione genitoriale né di modificare le dipendenze infantili da mamma e papà. (cfr. Berto – Scalari, Fili spezzati, , la meridiana, 2006) Come psicoterapeuti individuali o di coppia ci troviamo dunque ad analizzare sempre con maggior frequenza il conflitto distruttivo che attraversa la vita amorosa degli uomini e delle donne di oggi. Sono individui che si sposano con un unico scopo: venire amati. La sete di conferma, il bisogno di approvazione, il desiderio di sentirsi desiderati e la pretesa di venir capiti fanno da viatico ad una nuova psicopatologia del vincolo coniugale. La guerra privata che si dipana tra i due coniugi non riguarda però solo loro poiché coinvolge le due famiglie di origine, che si schierano l’una contro l’altra, le moltitudini di avvocati e periti, che vogliono soverchiare l’avversario, i giudici che si fanno trascinare nelle contese senza fine. Riguarda quindi l’individuo, il gruppo e le istituzioni. E’ dunque questa disputa nel microcosmo familiare che permette di comprendere come il tessuto sociale sia ammalato da un insano narcisismo che preferisce l’annientamento dell’altro piuttosto di dovergli riconoscere una qualche esistenza. Dentro a questo microcosmo istituzionale in guerra assistiamo alla morte psichica dei figli. E quindi del futuro. Con Franco Fornari condividiamo che la guerra, ogni guerra, quindi anche quella familiare, copre in modo paranoico l’elaborazione del lutto. E’ dunque per salvaguardare il frutto di così tanti amori infranti che assieme a Francesco Berto abbiamo messo a punto un trattamento psicoterapeutico rivolto alla riparazione delle funzioni genitoriali. Quella da noi ideata è una consulenza di natura psicoeducativa che allena, in tempi consoni alla crescita dei figli, le capacità emotive di madri e padri che devono affrontare il lutto per la fine dell’illusione matrimoniale (cfr. Scalari, La finestra infranta. La rottura dei vincoli familiari, in Educazione sentimentale - clinica del presente, N°10 2007 e in Mal d’amore, 2011). Utilizziamo un setting che si rifà più alla struttura mentale dello psicoterapeuta che alle coordinate esterne. Definiamo con chiarezza un compito manifesto che riguarda la salvaguardia dei piccoli di casa. Analizziamo attraverso il transfert e il controtransfert il vissuto genitoriale dando spazio all’evolversi del compito latente che riguarda la maturazione dei legami intrasoggettivi. Interpretiamo, segnaliamo e ricostruiamo le vicende familiari in modo da non promuovere la regressione. Cerchiamo invece di mettere in moto una trasformazione del testo narrativo ripetitivo per dare avvio ad un cambiamento, quello possibile. All’interno di questo processo il vertice rimane l’osservazione di dove la coppia genitoriale abbia intrappolato i suoi bambini per riparare ai propri dolori. Escono così allo scoperto le loro storie di figli incompresi, insoddisfatti, abbandonati, trascurati, maltrattati, abusati…. Se mamma e papà accettano i loro patemi liberano il bambino dal compito di viverli al posto loro. Questo deposito gruppale è quello che i genitori comprendono nel trattamento. Essi, dopo avere modificato il ruolo del depositario, in questo caso il figlio, definiscono i risultati da loro ottenuti “Miracolosi!”. Cioè quello che scoprono è sorprendente, inatteso, inimmaginabile. In una parola, nuovo. Ed è proprio la novità, che fa uscire dalla vecchia e stantia stereotipa, la vera rivoluzione che trasforma i legami familiari da mortiferi e ammalati in legami vitali e sani (cfr. Pichon Riviere, Il processo gruppale, Laurentana, 1985)
Nella stanza d’analisi Nella psicoterapia di ogni paziente intercettiamo almeno tre gruppi familiari. Ritroviamo infatti le storie dei nonni materni e paterni oltre a quelle della famiglia d’origine del soggetto che abbiamo in cura. L’analista si accinge quindi a incontrare più gruppi parentali mettendo in campo, nel transfert e nel controtransfert, i vissuti di ciascun componente di quei nuclei. Lo psicoterapeuta deve quindi entrare mentalmente in ognuno di questi contesti familiari per permettere al paziente una esperienza correttiva dei rapporti interpersonali. Incontrerà sicuramente delle aree conflittuali all’interno di ciascun nucleo, ma anche tra nucleo e nucleo familiare. Anche se oggi incontriamo molto spesso il silenzio conflittuale. Con questa definizione segnalo l’assenza di un scontro manifesto tra le diverse famiglie accanto ad una ostilità senza parole, senza nomi, senza ricerca di soluzione. Ma ciò che non è elaborato ricompare. Si potrebbe affermare che appare, il più delle volte, nel contesto della vita coniugale là dove il partner è vissuto come una riedizione genitoriale che dovrebbe adorare, prediligere, compensare e che invece di nuovo delude, abbandona, trascura. Nessun marito o moglie è infatti in grado di sanare le ferite provenienti da lontano. Nella psicoterapia osserviamo quindi la trasmissione e la rielaborazione nella coppia coniugale della eredità emotiva lasciata irrisolta dal contesto familiare. La analizziamo sia dove c’è una coppia di fatto, sia dove non c’è. L’assenza o la presenza di una relazione amorosa non fa infatti differenza nell’analisi dei conflitti derivati dalle capacità relazionali ed affettive ereditate nella catena familiare. Vediamo spesso nella vita sessuale la riedizione incapsulata delle patologie individuali trasmesse dalla storia familiare. Invece di fuggire dalla patologia il paziente si infila in una situazione dove si ripete il trauma. Il trauma affettivo non risolto ritorna. La ripetizione è la sua modalità per cercare una soluzione. La riedizione nel transfert è la via per modificarlo. Tratteggio un piccolo esempio del gioco relazionale interfamiliare che vede la ripetizione del trauma nella paziente. Beatrice è una giovane ed esile donna di trent’anni dalle folte chiome castane. Ha una madre psichiatrica che da sempre la comanda con ostinazione e la denigra con perseveranza. Quando Beatrice era piccina la mamma era in grado di svegliarla durante la notte per fare pulizia alla casa, di darle solo pane raffermo per non sprecare danaro, di schernirla se aveva paura, di negarle qualsiasi giocattolo o bene considerato voluttuario come un cappotto nuovo un po’ più costoso di quello in svendita. Beatrice ricorda con angoscia come a sedici anni si acquistò, con i suoi risparmi, una maglietta all’ultima moda. La nascose nell’armadio per paura delle invettive della madre. Che ovviamente scovò il corpo del reato. E, dopo una scenata inenarrabile, mise carponi Beatrice e le fece pulire tutti i pavimenti di casa. Ma la madre, non soddisfatta della punizione inferta alla figlia per la sua ambizione sfrenata, tagliò a pezzetti la maglietta che aveva costituito per la figlia l’oggetto del desiderio. Durante la terapia ritroviamo nel mondo interno di Beatrice un gruppo familiare materno composto da una grande famiglia nella quale la mamma della paziente è la piccola di casa. Compaiono scene di maltrattamento ad animali di casa come l’uccisione con le mani di un cane da parte di uno zio, le botte a sangue del nonno a nonna, la violenza continua verso una zia disabile. Beatrice arriva a sospettare che la madre abbia subito, in tenera età, delle violenze sessuali. Il gruppo interiore, derivato dal familiare materno, è mitigato da un contesto familiare paterno maggiormente affettivo. Zia e nonna paterna sono infatti da sempre il rifugio segreto di Beatrice che scappava in quest’altra famiglia ogni qualvolta riusciva a sottrarsi al controllo materno che, ovviamente, odiava ed odia questo ramo familiare sostenendo che la deruba e la schernisce. Beatrice a diciotto anni si innamora perdutamente di Filippo. Uomo mite, artista fantasioso, maschio accondiscendente. Decide di sposarlo immaginandosi finalmente felice. Ha finalmente un lavoro, dei soldi suoi, un compagno innamorato. Eppure. Ben presto Filippo si rivela un uomo dalla tiepida vita erotica. Ipotizziamo che inconsciamente la mette al riparo dalla sessualità violenta subita dalla madre. Il marito inoltre non ha per nulla i piedi per terra. Ipotizziamo che i soldi non hanno per lui alcun valore a differenza di ciò che viveva la madre della paziente ossessionata dalla povertà. Filippo è un fantasioso che, per diletto, cambia lavoro in continuazione e che non garantisce nessuna stabilità finanziaria. Beatrice si rende conto di essere imprigionata da questo marito-fanciullo e non sa spiegarsi perché lo abbia tanto amato. Vorrebbe un figlio per sentirsi meno sola, ma non riesce a decidersi poiché ha paura che la sua perenne insicurezza economica, anch’essa ereditata dalla mamma, possa riportarla ad avere bisogno dei suoi genitori. Il giorno che però Beatrice si trova carponi a lavare i pavimenti mentre lui, fischiettando felice, sta incidendo una inutile scultura, decide di chiedere una psicoterapia.
Il gruppo interno Le relazioni parentali entrano nella mente del bambino e vanno a costituire il gruppo primario che dà forma a tutte le interazioni gruppali successive. La qualità emotiva dei legami familiari viene però rimessa in gioco più volte nel gruppo orizzontale. Oggi questo avviene molto precocemente vista la tendenza attuale ad inserire i bambini, fin dalla più tenera età, nei contesti collettivi. Sempre di più i piccoli infatti frequentano l’asilo, la scuola dell’infanzia, la scuola obbligatoria e le molte attività del tempo libero. Il passaggio dal gruppo familiare al gruppo sociale costituisce, per ogni figlio, l’opportunità di colmare le macchie cieche, di rielaborare le zone traumatiche, di compensare le carenze affettive provenienti dal mondo parentale. Entrando in un contesto collettivo ogni individuo rimette in gioco il suo gruppo familiare. Egli infatti avvia relazioni collettive partendo dalla matrice emotiva impressa nella sua mente da mamma e papà. Le modalità di attaccamento, la competizione fraterna, l’ansia dell’esclusione dalla coppia genitoriale, il desiderio di essere unico, il bisogno di prevalere, in una parola il gioco edipico, determinano quindi il modello relazionale con cui ciascuno entra in un nuovo gruppo. Alla fine del percorso collettivo però l’esperienza di incontro e scontro con i componenti modifica le interazioni tra i membri, ma modifica anche i rapporti tra i soggetti interni che vivono nella mente di ciascun individuo. E’ attraverso il transito nei gruppi sociali che la qualità emotiva del gruppo familiare trova quindi possibili correzioni, arricchimenti, risoluzioni. Non c’è dunque un destino da cui non ci si possa emancipare, ma ci sono incontri che sono o non sono vivificanti. E’ questa convinzione che rimette al centro del nostro lavoro di psicoterapeuti l’arte dell’educare, del formare e del far apprendere prima ancora di quella del curare. Crediamo infatti, con Bleger, (cfr. Il mio debito verso Josè Bleger in Josè Bleger, Psicoigiene e Psicologia istituzionale, la meridiana, Molfetta, 2011) che la prevenzione sia una forma democratica di psicoterapia. La psicoigiene infatti non rappresenta un intervento psicoterapeutico di minor rilevanza. Essa, attingendo dal sapere clinico, offre ad una vasta popolazione la possibilità di modificarsi. E se cambiare è sinonimo di salute poiché è la fissità a rappresentare la malattia arriviamo a non differenziare i processi di apprendimento da quelli di cura. Perciò utilizziamo l’attività di promozione del benessere come opportunità di incontro che garantisca un processo di mobilitazione della ansie primitive (cfr. a cura di Sartori e Scalari, Il bambino trasparente, FrancoAngeli, 1999). E’ la possibilità di trasformazione del legame che ci fa annoverare anche la psicoigiene nel campo psicoterapeutico. “In ciascuna delle pietre miliari della “concezione operativa” dei gruppi vediamo recuperato lo spirito critico che i primi approcci istituzionali definirono “cessione di opportunità”. E precisamente quando la concezione suddetta tende a rompere con la distinzione rigida tra terapia e apprendimento; a porre la necessità di una concezione strutturale di gruppo; di una psicologia degli ambiti e dell’istituzione considerata come relazione intergruppale e strumento di psicoterapia multipla; ad instaurare l’operatività come una nozione processuale, oggetto di una dialettica inscindibile tra insegnare ed apprendere…” (Armando Bauleo - Marta De Brasi, Clinica gruppale e clinica istituzionale il poligrafo, 1994) In ogni gruppo è allora necessario segnalare, interpretare e rielaborare i conflitti che emergono grazie all’incontro di mentalità diverse. Là dove sono riunite più persone compare dunque l’opposizione tra mondo narcisistico e dimensione sociale. E’ dunque lo psicoterapeuta che, segnalando questi alterni movimenti emotivi, porta ciascuno a riconoscere come utilizzi l’altro negandone o riconoscendone la soggettività. E ogni paziente, cliente o utente può rimettere in scena ciò che il genitore incompetente ha depositato su di lui. Il familiare è dunque la struttura che sostiene colui che attribuisce all’altro pensieri propri o di colui che chiede all’altro attenzioni improprie. Ed è quindi grazie all’affiorare delle disfunzione del legame che l’analista può dare avvio a quel processo di conoscenza di sé e dell’altro che mette in moto il cambiamento. L’esperienza nella coordinazione di un gruppo costituisce un apprendimento da cui non si può prescindere quando si voglia lavorare anche con il paziente singolo a partire da un pensiero teorico che vede la mente di ogni individuo costituita da un gruppo di oggetti internalizzati che devono imparare a dialogare, capirsi, amalgamarsi, trasformarsi e mobilitarsi. Il gruppo infatti permette di vedere direttamente in scena come i diversi membri assumano, per ogni partecipante, il significato di diversificate parti di Sé. Parti che inizialmente sembrano solo conflittuali, contrapposte, antitetiche e che, invece, grazie al processo analitico, vanno a costituire un solido corpo gruppale in grado di affermare la propria identità unica ed irripetibile grazie all’uso del pronome Noi.
La mente gruppale La mente, come diceva Frued, è un prodotto relazionale. Perciò essa si struttura come un insieme di cui le voci interiori sono le diverse componenti. Queste voci possono essere accordate o scordate. Sono intonate quando sono capaci di armonizzarsi di fronte ad ogni evento conflittuale perché sanno scoprire nuove consonanze. Sono invece stridenti quando non possono trovare adeguati equilibri di fronte alle rotture che la vita riserva a tutti. Questo complesso mondo di voci interiori prende vita nel Romanzo Familiare che, con le sue consonanze e le sue divergenze, connota e colora emotivamente la vita di ogni individuo. Nella storia di ciascuno infatti vi possono essere anche aree gravemente contraddittorie che non sempre attingono alla verità dei fatti, ma che sempre connotano la realtà psichica. Queste aree incongruenti sono, quasi sempre, incapaci di esprimere la loro dissonanza poiché la rabbia, il livore, il senso di ingiustizia, la sensazione di schiacciamento le rende così drammaticamente dolorose da arrivare ad impedire la possibilità di pensarle. La sofferenza per una storia personale irrisolta si manifesta allora attraverso i sintomi. Un piccolo flash. Elena è una figlia devota. Ama il padre sopra ogni cosa. Crede di essergli affezionata poiché lo adora da sempre. E’ una giovane donna ossessionata da diverse fobie (dell’aria, nella deglutizione, dei luoghi chiusi, dell’automobile in autostrada, del treno, dell’aereo…) e da sogni angoscianti nei quali, in modo ricorrente, vede serpenti e vipere che l’attaccano e l’avvelenano. Scopre durante l’analisi che quel pene paterno da cui si è sentita desiderata e che ha tanto desiderato è divenuto da una parte l’oggetto che alimenta il suo senso di colpa e dall’altra l’oggetto da evitare per non manifestare il suo peccato. Soprattutto perché la madre e la seconda moglie del padre nulla sappiano del suo desiderio di farle fuori. Solo al quarto anno di analisi potrà dirsi che la sua convinzione di essere l’unica donna amata dal babbo a discapito della madre e della nuova moglie del padre è una sua fantasia alimentata dall’atteggiamento seducente di questo importante uomo che le è anche papà. Dovrà allora rinunciare al suo romanzo costruito sull’idea che è lei che ha manovrato tutta la vita amorosa del padre per riposizionarsi in quella funzione di figlia di un uomo così potente e affascinante da lasciarla senza respiro.
La psicoterapia allora modifica il racconto familiare e cerca non solo di far armonizzare le diverse parti, ma anche di accordare i diversificati personaggi che animano la vita interiore . La realtà interna prende forma attraverso l’introiezione delle rappresentazioni dei singoli soggetti, ma soprattutto attraverso la qualità dei legami che uniscono le rappresentazioni riferibili a delle persone significative o a particolari aspetti di queste. La qualità del vincolo costruisce la premessa per la costruzione del legame tra pensieri quale atto creativo. Se invece il legame è distruttivo al posto delle idee si strutturano delle non idee che possiamo individuare attraverso il rimuginare maniacale o l’incapacità di uscire da fantasie ossessive. Tanto quanto il pensiero ripetitivo apre dunque la strada alla follia, il legame empatico crea invece il senso dell’esistere proprio e altrui. Nell’attività analitica quindi offriamo una nuova qualità del vincolo che permetta la riparazione dei legami sfilacciati, inconsistenti, bizzarri che hanno caratterizzato la storia personale del paziente. La relazione tra analista e analizzato è dunque il tramite per quella esperienza forte, sincera, premurosa e schietta in grado di andare a modificare i legami scadenti, le rotture insanabili e le assenze spaventose che producono la sofferenza psichica. Essa alimenta il benessere del paziente, ma garantisce anche una continua riparazione alle sofferenze incistate nella storia personale dell’analista. Quindi la relazione analitica cura entrambi poiché entrambi utilizzano i loro gruppi interiori per parlare e parlarsi. E’ solo la responsabilità della cura del legame che è diversamente distribuita tra chi presiede il processo e chi lo utilizza. La teoria del vincolo, così come viene formulata da Enrique Pichion Riviere, diventa quindi la prospettiva teorica e metodologica del modello psicosocioanalitico. La teoria dei legami è dunque il nostro punto di riferimento anche durante le sedute psicoterapeutiche che riguardano un singolo individuo . Anche la psicoterapia individuale è dunque una terapia gruppale che lavora per modificare la qualità dei legami tra i “personaggi” interni al fine di creare una trasformazione in grado di cambiare i rapporti con il mondo esterno e quindi con la realtà. Se questo poi crea benessere è solo la conseguenza, non è mai l’obiettivo. Nell’analisi l’unico obiettivo possibile è osservare e riformulare il legame con l’analista anche attraverso le diverse narrazioni che compaiono nel testo della seduta. Prendiamo dunque in considerazioni il legame a prescindere dall’asse narrativo con cui viene esplicitato. Ecco un accenno a come il paziente può parlare della sua relazione con l’analista. Vi è quello storico “da piccolo mio padre mi faceva un sacco di ramanzine…”; quello attuale “il mio capoufficio mi dice sempre come devo eseguire quello che devo fare..”; quello sessuale “durante l’erezione il pene del mio compagno entra prepotentemente dentro di me…”; quello proiettivo “ho visto un film dove il capo di stato credeva di essere un dio…”. Pur nei diversi contesti il paziente sta parlando sempre del tema del predominio. La domanda dello psicosocioanalista è dunque: “Non è che stia soverchiando di interpretazioni il paziente?”. Ed è su questo interrogativo che stimola la ricerca del paziente. Ogni volta può decidere se, a sua volta, ricorrere al testo narrativo storico, attuale, sessuale o proiettivo. Ma la consapevolezza di fondo è quella di lavorare su questo testo per aiutare il paziente a guardare alla qualità di quel legame che la relazione con lui sta riportando in scena. Sarà dunque l’atteggiamento dell’analista, diverso da quello del padre, del capoufficio, del partner o del protagonista del film, così come vengono narrati dal soggetto in cura, a modificare i vissuti affettivi. Tale trasformazione modifica via via il rapporto tra il paziente e gli altri. Quando ciò avviene cambia la dinamica tra i personaggi interni che abitano la vita psichica del paziente e predominano tolleranza, benevolenza, comprensione, accettazione, riconoscimento... Senso della realtà.
Il testo analitico come testo onirico Il lavoro clinico va nella direzione di analizzare il Sogno Interno del paziente che, in seduta, dà voce alle immagini del suo mondo fantasmatico. Per dare voce al suo sogno della veglia il paziente ricorre al mondo esterno con le sue contraddizioni, i suoi sistemi sociali, le sue angosce collettive. Se l’inconscio è innominabile sono narrabili solo i suoi derivati che pescano immagini, dialoghi, soggetti ed azioni dalla realtà esterna. Quanti analisti nel mondo hanno raccolto le narrazioni di crolli dopo l’undici settembre e la distruzione terroristica delle torri a New York? Quasi tutti! Perciò come nel sogno notturno compaiono i residui della vita diurna, nel testo analitico compaiono i personaggi, le situazioni, le scenografie della vita quotidiana. La psicoterapia psicosocioanalitica è dunque il metodo che consente di sciogliere gli affetti in narrazioni e di creare storie che diano forma alle emozioni. E le sensazioni di cui parliamo in seduta sono sempre quelle del - qui ed ora -. Tutto avviene, si cucina, si accoppia, si penetra, copula… nel momento presente. Nel modello psicosocioanalitico quindi nulla è verità fattuale, tutto è verità onirica. Cioè tutto è verità emotiva. E’ questo presupposto che lascia aperto un campo conflittuale tra analista e paziente. Il paziente infatti resiste dal ri-introiettare i derivati emotivi che aveva trasportato su questo o quella persona appartenente al mondo esterno. L’insight, che fa comprendere come non sia l’altro la causa del malessere, non è dunque mai privo di ansie, contraddizioni, dinieghi e resistenze. Divenire consapevoli che ognuno è responsabile della propria vita psichica è dunque il fine ultimo di ogni psicoterapia. Dirigersi verso questo traguardo implica però l’attraversamento, a diversi livelli e in diversificati contesti, di quelle aree conflittuali che avevano trovato soluzione nella proiezione su altri di ciò che non risultava accettabile a se stessi. Se Didier Anzieu dice che in un gruppo si lavora come in un sogno si può affermare che durante la seduta analitica i racconti di vita vissuta devono essere trattati sempre come un prodotto onirico che compare proprio per evidenziare un’area conflittuale irrisolta, indigesta, sovraccaricata emotivamente. E, se qualsiasi sogno è sempre gruppale, anche la narrazione è sempre un testo collettivo. Non c’è infatti racconto senza io narrante che parla dei diversi protagonisti. La teoria della narrazione sostiene pertanto il modello psicosociaoanlitico in quanto aiuta a leggere il testo che il paziente presenta per far conoscere il suo sogno ad occhi aperti. Quel mondo di confine tra conscio e inconscio che Antonino Ferro, amando il pensiero bioniano tanto quanto il nostro maestro Luigi Pagliarani, definisce come un derivato narrativo del pensiero onirico della veglia. E proprio per questo Pagliarani stesso non ha potuto che scrivere in forma narrativa trasognata il suo testo base Il coraggio di Venere, antimanuale di psico-socio-analisi della vita presente. Il racconto del paziente però prende forma grazie alla presenza dell’analista. E’ coscientemente a lui che il riferire è rivolto. Ed è ancora lui stesso che, inconsciamente, dà corpo alle vicende dei protagonisti interni assumendone via via le loro connotazioni emotive. E’ poi sempre lui che fa da coordinatore tra i componenti del gruppo interno ogniqualvolta legge la dinamica tra i diversi protagonisti della vita del paziente. Egli dunque, con le sue interpretazioni, sollecita, costruisce e dà senso alle produzioni emotive che provengono dall’inconscio. La sua coordinazione nella seduta individuale implica la giusta distanza dal gruppo interno del paziente per poterlo osservare, la passione per quel che dice quale legame affettivo con quanto propone di analizzare e la capacità narrativa che, unica, sa creare storie che vanno a trasformare il mondo emotivo. Lo psicoterapeuta pertanto non aderisce all’ipotesi di nessun protagonista, bensì dà voce all’analisi della relazione tra paziente e oggetti interni che hanno le sembianze di questo o quel personaggio reale e che attraverso di lui divengono attuali. E questo atteggiamento lo mantiene anche se “La pluralità suona offensiva per il nostro narcisismo originario, che ci vorrebbe, sotto sotto, in intima, esclusiva e privilegiata unione interna ed esterna con un unico equivalente genitoriale o narcisistico specularmene confermante”. (Stefano Bolognini, Passaggi segreti, Boringhieri, 2008) Un esempio classico. Nessuna “suocera vipera ed invadente” è tale nel processo analitico. Questo personaggio, o i suoi derivati, come “la vicina di casa invadente; l’amica saccente; la sorella competitiva; eccetera eccetera, rappresentano il nucleo emotivo edipico della rivale. Anche l’analista dunque con il suo sapere, affermare, voler avere ragione è “la suocera”. Ed è proprio grazie a questa riedizione emotiva che l’analisi può modificare la relazione. Lo psicoterapeuta dunque svela, rinarra, interpreta, costruisce la storia analitica leggendo gli emergenti che attraversano la relazione tra il paziente e i suoi interlocutori interni visti come figure provenienti dall’inconscio che abitano da tempo la mente del paziente e che ora, grazie a lui, possono essere ospitate nella stanza d’analisi. I personaggi che la occupano con le loro azioni portano alla lettura degli emergenti intesi come i narrami o gli agiti che contengono la condensazione massima di elementi conflittuali non esprimibili direttamente. L’individuazione degli emergenti implica che l’analista mantenga la sua mente sempre in un assetto insaturo di ricerca. Si potrebbe dire che l’analista continuamente cerca di ripulire la sua stanza interna dai depositi non solo dalle molteplici vicende della sua vita personale, ma anche dalle contraddittorie storie messe in scena dai suoi pazienti. Egli inoltre deve sempre monitorare i suoi transfert con il suo gruppo teorico, formativo, esperienziale, di appartenenza istituzionale poiché essi possono incidere sulla sua capacità di rimanere ad ascoltare in maniera trasognata. Ascoltare, come direbbe Freud, in modo fluttuante. Ascoltare, come affermerebbe Bion, senza desiderio e senza memoria. Ascoltare, come sostiene Pagliarani, per trovare una nuova armonia frutto della ricomposizione del conflitto. “Da uno stile sbagliato, contratto, a uno stile sano, espanso. Dalla viltà al coraggio. Dall’assenza di prospettiva alla progettualità che investe il patrimonio, tutto quello che c’è, di cui è dotato il puer di ognuno, nei suoi meriti nei suoi limiti. Uno stile che si riscatta dal peccato” (Luigi Pagliarani, Il bambino trasparente, FrancoAngeli, 1994) Ascoltare dunque senza pregiudizi teorici, prefigurazioni istituzionali, ripetizioni pedisseque a conferma del proprio punto di vista. Il controtransfert in questo modo diventa davvero una sonda per capire. Facilita l’incontro tra due gruppi interni, quello del paziente e quello dell’analista, che determinano un nuovo schema concettuale per entrambi. Nella psicoterapia impara infatti il paziente, ma apprende, cambia, si trasforma anche l’analista con il suo sapere su di sé e sul mondo interno dell’altro. E’ questo processo trasformativo che, richiedendo continuamente la capacità di stare in movimento, di tenere aperta l’indagine, di evitare scorciatoie concettuali, determina un’area interna sempre critica e perciò sempre conflittuale. Eppure senza scontro interiore non c’è analisi, scoperta, curiosità, crescita. Non c’è Ricerca.
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*Psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Tecniche di conduzione del gruppo operativo nella consociata Ariele. Fa anche parte del comitato scientifico di ARIELE Psicoterapia. Nel 1988 ha fondato i Centri età evolutiva, un servizio di aiuto della famiglia, nel Comune di Venezia di cui è stata responsabile fino al 2000. Consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipes per enti ed istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico. Autrice con Francesco Berto – per le edizioni la meridiana – Incontrare mamme e papà. Strumenti e proposte per aiutare i genitori (1999); Divieto di transito. Adolescenti da rimettere in corsa (2002); Adesso basta. Ascoltami! Educare i ragazzi al rispetto delle regole (2004); Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola (2005); Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati (2006), ConTatto. La consulenza educativa ai genitori (2008) e Mal d’amore (2011) Cura per Armando editore le collane Quaderni per crescere e Intrecci e per la casa editrice meridiana Prove… storie dall’adolescenza e Premesse… per il cambiamento sociale.
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