La lotta di Freud
Nella casa-museo di Maresfield Gardens si può tuttora ascoltare una registrazione della BBC effettuata all'arrivo di Freud sul suolo britannico. Siamo nel giugno del 1938, Freud è un uomo stanco, in fuga da una Vienna ormai occupata dai nazisti e giunto a Londra, dopo grandi resistenze, per "morire in libertà"(1). L'Europa si appresta a bruciare, ancora una volta. A fatica, la parola impastata per la recidiva del tumore alla mascella, ma nel suo inglese davvero esemplare, Freud pronuncia una frase il cui rimbombare nel silenzio della casa londinese ha ancora oggi qualcosa di inquietante: the struggle is not over, la lotta non è finita.
Nel contesto specifico dell'intervista, Freud si riferisce alla lotta tra la psicoanalisi e la cultura del suo tempo, ma l'aspetto perturbante della registrazione è la sensazione di essere davanti ad una balbuzie quasi mosaica, quel Mosé che è stato l'ultima grande fatica intellettuale di Freud e che anzi, come scriverà in una celebre lettera a Lou Andreas-Salomé: "mi ha perseguitato per tutta la vita"(2) (due settimane dopo il suo approdo in Inghilterra Freud è di nuovo alle prese con la terza parte del Mosé, come annota nella sua Chronik).
The struggle is not over, dunque. Se è vero che Freud fa riferimento alle resistenze (in gran parte mitiche direbbe la critica contemporanea(3)) incontrate dalla psicoanalisi nell'ambito medico e psichiatrico, certo si può pensare che in quell'espressione così terribile, che un ultraottantenne in esilio scaglia sapendo di non sopravvivere all'esito di quella battaglia (ancora una volta: come Mosé), tante lotte si condensino (la "Verdichtung" del lavoro onirico). La lotta contro Hitler(4), la lotta cosmologica tra Eros e Thanatos che segna le ultime riflessioni freudiane, e certo anche la lotta con la propria morte biografica, incarnata in quel tumore con cui Freud convive da oltre quindici anni. E perché non pensare anche alla lotta del Maestro intransigente contro un popolo, quello psicoanalitico, che agli occhi di Freud, da Jung a Rank, ha troppe volte ceduto alle lusinghe idolatriche non sapendo permanere in quei "parterres" e "souterrains dell'edificio" dove solo si può essere rivoluzionari, come Freud disse polemicamente a L. Binswanger(5)? Questi sarebbero dunque i fantasmi che si addensano nella testa di Freud rifugiato a Londra.
Ma oggi, quale lotta non sarebbe finita in tempi di paradigmi che si vogliono alternativi a quello psicoanalitico più per la messa fuori campo delle questioni freudiane che per una capacità di rielaborarle in maniera differente, nel tempo, in una parola, dell'inattualità e dell'invecchiamento di quella cultura del sospetto da cui sorse l'edificio della psicoanalisi? Oggi che Freud è caduto in discredito, come si dice con una semplicità liquidatoria sospetta, oggi che la sensibilità teorica prevalente sembra definitivamente riconsegnarne il nome all'arte o alla letteratura (come costantemente avveniva già nel corso della carriera freudiana) se non peggio, alla mitologia, ci si potrebbe chiedere se non sia tempo di archiviare una simile lotta tra i vecchi slogan di un uomo anziano che aveva sopravvalutato il proprio compito e accentuato in modo paranoico gli ostacoli che la cultura del tempo frappose alla propria affermazione. Non ci sarebbe dunque più alcuna lotta, né tempo da perdere con i conflitti, né spazio per una simile tragedia o per il tragico in generale. Dove sarebbe infatti un simile spazio nella mente intesa come macchina computazionale, o nei paradigmi più o meno razionalistici o cognitivistici che dominano di nuovo lo scenario filosofico?(6) Dove sarebbe lo spazio del conflitto nell'ideale di iperchiarezza(7) e naturalizzazione piena, senza resti e senza ombre, che muove la sensibilità teorica del nostro tempo?(8)
Bisognerebbe chiedersi, come ha fatto Derrida in una celebre lettura di Marx, che cosa sia tutta questa fretta di sotterrare il morto, senza verificare davvero, accertare, registrare, questa morte. Una compulsione di sotterramento(9), una volontà di scongiuro che renderebbe del tutto inattuale la riesumazione di una simile lotta. Una volta eliminate anche queste ultime tossine freudiane - "l'intossicazione" psicoanalitica di cui non manca di parlare esplicitamente H. Gardner nella sua celebre storia del cognitivismo - saremo infine liberati per mettere nero su bianco una nuova storia, senza resti né tragico(10). Senza tempi persi, o tempi morti, o tempo da perdere. Davanti ad un simile grande scongiuro, nessuna lotta più sarebbe attuale.
Tuttavia, ci si potrebbe chiedere con un certo grado di ostinazione e mediante una operazione di straniamento dal contesto storico di allora, se ci sia almeno un luogo dove la lotta di Freud sia degna di una continuazione.
"Dal dramma dell'alienazione, all'estasi della comunicazione"(11)
Il mondo contemporaneo è segnato dal trionfo di un'unica vera superpotenza planetaria e questa superpotenza non sono né gli Stati Uniti né la Cina che forse ne prenderà il posto nei decenni a venire politicamente (e lo sta già facendo in termini economici) ma ha il nome di 'società della comunicazione'. L'unica potestas che al di là di ogni ragionevole dubbio ha aperto il XXI secolo con un dominio incontrastato è la potenza dei riflettori e dei microfoni, delle scene e delle performances, dei media e degli spin doctors, degli auctioneers che hanno sostituito gli auctores e le actiones, per dirla con Baudrillard(12).
Se c'è un fatto davvero esemplare, tra i tanti, di questo trionfo della superpotenza comunicazione esso è plasticamente esemplificato da quanto si possano ritenere "maestri di comunicazione", e con meno certezza di ideologie alternative (che sono inessenziali), le principali figure di contestazione del mondo occidentale sorte nell'ultimo decennio: pensiamo naturalmente alla terribile miscela di terrore e spettacolo che caratterizza gli attuali fondamentalismi antioccidentali, ma pure, su un altro piano, a fenomeni dell'ultimo decennio segnati da una straordinaria abilità comunicativa quali il subcomandante Marcos nella rivolta del Chiapas o l'emergere dell'arcipelago no global, per non parlare ad un altro livello ancora della voce del Papa. Un fatto impensabile per le opposizioni "antisistemiche" del novecento: le rivoluzioni novecentesche miravano per così dire al controllo della sostanza; i tentativi del XXI secolo vogliono invece rapire l'immaginario, sedurlo ed egemonizzarlo. Anche le brigate verdi o di Maometto che sequestrano gli ostaggi occidentali in Irak mostrano bene questo connubio di antisistema e ipermodernità, di resistenza alla comunicazione e adesione al modello della performance generalizzata, affrettandosi a mandare VHS su VHS ad Al Jazeera e a inscenare barbari omicidi, finendo così col giocare perfettamente la parte dei selvaggi crudeli e senza scrupoli richiesta dalla strategia immaginaria del presente conflitto(13).
L'impensabile accostamento di fenomeni così diversi (il Papa, Marcos, la tragedia irachena), non pretende di essere provocatoria, dal momento che non siamo noi a mescolare sacro e profano ma è già l'ultra-piattezza dello schermo planetario dove gli eventi si manifestano, e per il quale "si confezionano"(14), che necessariamente sottrae ogni profondità, distinzione e sostanza alle cose: tutto si schiaccia nella "superficie liscia e operativa della comunicazione".(15) Come scrive Mario Perniola nel suo recente ed efficacissimo Contro la comunicazione, la società della comunicazione affoga tutto nell'indistinzione data la sua palese incapacità a reggere e sopportare le opposizioni: "si può star certi che qualsiasi cosa detta venga risucchiata nel gorgo del linguaggio che parla da solo attraverso la voce dello psicotico o del comunicatore"(16). Se, per continuare l'analisi di Perniola, la storia della filosofia è storia dei tentativi di pensare l'opposizione e la lotta, nel trionfo della comunicazione ogni differenza, e dunque ogni possibilità di pensiero (ma anche di arguzia), è oggi resa vana. Per questo la società della comunicazione sarebbe segnata da una "catastrofe dell'ordine simbolico", che ci condurrebbe sulla soglia di una sorta di 'trasformazione antropologica'(17). Un vero e proprio punto di svolta i cui caratteri principali sarebbero il trionfo di una "cultura della performance e del mantenimento dell'eccitazione", la fine di ogni determinazione, la rimozione stessa della realtà. Ma pure la sostituzione all'azione di una sorta di scarica emotivistica, vitalistica e immediata, in cui la frenesia dello spin finisce col distruggere la continuità dell'habitus, fondamento dell'etica e di ogni possibile elaborazione condivisa. Possiamo solo qui accennare a quanto una simile 'antropologia' emotivistica, in cui più che l'azione prevale qualcosa di simile all'acting out di cui parla la psicoanalisi, costituisca il comodo "correlato del dispotismo burocratico", dal momento che - come scrive P. Barcellona in un'analisi differente ma in un certo modo complementare a quella di Perniola - "l'io emotivista esclude per principio la possibilità di una elaborazione collettiva e sociale" e si depone perciò mani e piedi ad "una tecnostruttura di competenze specialistiche a cui è demandato il compito di agire secondo ragione"(18).
Questo ventre molle che costituisce il corpo sociale della comunicazione è quello in ultima analisi di una società basata su 'io' immaginari e narcisistici in rapporto speculare con tanti piccoli 'altri io", in cui il riconoscimento reciproco diviene letteralmente impossibile (e dunque impossibile diviene uno spazio pubblico o della politica(19) tout court): "è come se tutti, conclude la sua analisi Perniola, desiderassero essere riconosciuti e nello stesso tempo nessuno potesse esserlo, poiché è venuta completamente meno la struttura simbolica che rende possibile il riconoscimento".(20)
Il mondo della comunicazione è quello in cui trionfa una versione del linguaggio intesa come scambio generalizzato di messaggi e informazioni, in cui il codice segnico fa collassare quello simbolico, come è stato detto(21): e in un simile trionfo, la parola si fa satura e si autodistrugge. Il linguaggio è in fuga da sé, in quell'orbita e assenza di gravità di cui parla sovente un filosofo come J. Baudrillard ovvero in una sorta di rarefazione generalizzata. Appena ogni opposizione tenta di prendere la parola essa è in ultima analisi bene accolta come una comparsa in più sul teatro planetario e risucchiata nel gorgo del comunicatore(22). E questo perché, come è stato detto non senza ironia, la buona comunicazione è proprio ciò che si realizza attraverso l'annientamento del suo contenuto(23).
Nella rarefazione del linguaggio le cose perdono l'aura, lo spessore, l'immagine come scrive ancora Baudrillard: esse "non offrono più sostanza, distanza o resistenza (..) divengono immanenti ed elusive in un eccesso di fluidità e luminosità". Siamo davanti ad un fenomeno di 'imbiancamento' (blanchissement) generalizzato, all'installazione "di una trasparenza definitiva. E' un po' come l'uomo che ha perduto la propria ombra : è divenuto trasparente alla luce che lo attraversa, o meglio è come se fosse illuminato da tutte le parti, sovraesposto senza difese a ogni fonte di luce ".(24)
Questa trasparenza diviene minacciosa soprattutto per il pensiero: esso è come privato di attrito, gravità(25) e resistenza. In fin dei conti si parla per non scomparire e si comunica perché il sistema generalizzato della performance e della comunicazione lo richiede per non arrestarsi.(26) Nulla rimanda più ad altro perché la scena si è fatta unica.
Qui tanto vale anticipare subito un tema che soggiace alle riflessioni del presente lavoro: un mondo in cui trionfa questo genere di linguaggio, il linguaggio astratto e rarefatto della circolazione e della performance, il linguaggio etereo dei 'discorsi', lo sappiamo a partire da Marx e Freud, è un mondo in cui trionfa l'ideologia. A questo livello di rarefazione e pervasività, si può dire che il linguaggio si manifesti essenzialmente per nascondere e sviare: una cultura ipercomunicativa è anche una cultura ipermistificatoria. Al contrario si può pensare che una cultura non eterea, non in assenza di gravitazione come la nostra, diremmo una cultura del corpo o del lavoro materiale o dell'arte o di Eros o della morte, ha più possibilità, nel silenzio sordo della sua materialità, nel venire a manifestazione delle cose nella loro pesantezza necessaria, di indicare qualcosa in direzione del vero. "La verità, stricto sensu, non parla; essa lavora. La conoscenza parla, essa appartiene alla distanza"(27), così J. F. Lyotard in un testo degli anni settanta apriva la critica ai vari idealismi filosofici. La verità non parla, lavora (ma anche potremmo aggiungere: gode, soffre, desidera) potrebbe essere lo slogan sotto il quale operare una rottura rispetto al trionfo del linguaggio astratto e alla corsa verso la comunicazione generalizzata cui assistiamo ovunque(28).
Estasi, luce, pensiero filosofico
Nel trionfo attuale della comunicazione, riprendiamo ancora una volta l'analisi di Perniola, "si manifesta non una forma alternativa di pensiero, qualcosa di completamente differente dal pensiero occidentale, ma semmai proprio una deviazione e corruzione di tale pensiero"(29).
Si dovrebbe necessariamente rifuggire da ogni analisi ideologica, del tipo di quelle che imputano ad una certa curvatura nella storia delle idee un riflesso essenziale sulle condizioni sociali, magari di qualche secolo dopo. Ovvero cercare una corrispondenza necessaria tra mutamenti sociali e loro apprensione nella storia dei concetti. Davvero Descartes fu l'intestatario filosofico dell'enfermement generalizzato dell'età classica come ha scritto Michel Foucault nella sua Storia della follia? Tuttavia questa obiezione non può divenire un alibi per neutralizzare ogni interrogativo. Dobbiamo dunque tentare di chiederci che nesso ci sia tra questo blanchissement generalizzato a cui faceva allusione Baudrillard e la storia della filosofia? Chi siano gli eventuali intestatari di questo blanchissement e cosa leghi la società della comunicazione alla storia del nostro pensiero. Se questo "imbiancamento" non sia solo un divenire tutto trasparente ed etereo ma anche, sfruttando la sua ambivalenza semantica, indichi in direzione di un certo "incanutimento", come se la società della comunicazione fosse il modo di diventar vecchio del nostro mondo e del nostro arsenale teorico. Potremmo allora spingerci più avanti e chiederci se esista un sottile rimando tra il mondo della teoria e il mondo come teatro (parole che provengono dalla stessa radice greca, théa(30)), tra l'occhio onnivedente della conoscenza (Bacone: "I admit nothing but on the faith of the eyes") e quello pervasivo del regime televisivo. Se esista un nesso tra le origini dialogiche, dialettiche, agonistiche del pensiero e l'inter-locuzione, la concorrenza rivalitaria generalizzata del nostro mondo comunicativo. O ancora, tra il mondo appiattito sulla pellicola che produce "uno sguardo freddo e disincarnato su una scena completamente esterna" e quell'apprensione distante e neutrale dell'occhio propria della scienza, che evitando il contatto diretto, culmina nel concetto di oggettività, della cosa in sé come distinta dalla cosa che mi colpisce e mi affeziona(31). Davvero la storia del mondo come immagine del mondo, il mondo dell'onnipotenza visiva, il 'regime scopico della Modernità' come lo chiama felicemente Martin Jay nel suo fondamentale studio sulla "denigrazione della visione nel XX secolo"(32), la tele-visione generalizzata del mondo, si lega ad una qualche destinazione del pensiero filosofico, ad un suo concentrarsi ad esempio sul primato dell'occhio e della manifestazione, ad una sua ossessione per la messa in luce della presenza (cioè proprio, con un terribile paradosso, quello che è divenuto il refrain della società dello spettacolo)?(33) Come suona, molti secoli dopo, la frase di Platone che abbiamo posto in esergo sui filosofi come amanti dello spettacolo della verità?
La domanda che vorremmo avanzare, pur tra mille cautele e virgolette, è questa: il trionfo di una società eterea - società del simulacro, del marketing e della comunicazione generalizzata - non porta forse fino in fondo, in maniera folle e volgarizzandola, una certa idea greca di visione, luce, esibizione, ma pure e-staticità dell'ek-sistere, star fuori nell'Aperto? Qualche relazione concettuale lega l'idea che, come scrive un autore come Michel Henry, la nostra relazione originaria con l'Essere sia tradizionalmente pensata nelle forme dell'e-stasi e il trionfo osceno dell'"estasi della comunicazione" di cui parla Baudrillard?
Davvero il pensiero filosofico, particolarmente quello moderno, è dominato da un privilegio del "di-fuori", come si esprime ancora Henry, attraverso il cui predominio si impone l'ek-sistenza e l'apertura, la chiarezza della visione e della luce a ciò che al visibile si sottrae: l'affettività della vita, la pulsionalità del corpo, la potenza, la materialità dell'esistenza, un complesso invisibile che chiameremmo qui in-sistenza (e che Henry sovente definisce ipseità, oppure "patetico", "inestatico", inextatique, intesi nell'opposizione all'ek-sistere heideggeriano)?
Abbiamo fatto riferimento un paio di volte a Michel Henry perché ci pare che egli, più di altri autori contemporanei, abbia saputo interrogare provocatoriamente la storia della filosofia, particolarmente quello moderna, indicandone una certa inclinazione o predilezione: il trionfo dell'estatico come compimento di una tendenza fondamentale del nostro pensiero. La tesi su cui egli articola il suo progetto filosofico è che c'è stata una déviance historiale della razionalità moderna che avrebbe portato a compimento in maniera unilaterale l'oscillazione dentro cui Cartesio l'aveva fatta sorgere.(34) Secondo Henry, nell' at certe videre videor che Cartesio pone alla base della nascente soggettività moderna, ciò che viene espresso con videor "non è un duplicato del videre" ma il "sentire che si vede", "l'originario apparire a sé dell'apparire"(35) inteso come fenomenalità precedente i fenomeni, cioè affezione. Questo nucleo del pensiero cartesiano, per Henry, sarebbe ancora quello in cui la passione predomina mettendo in subordine la visione, l'interiorità rimane "l'estrema possibilità del pensiero" e "l'affettività regna su tutti i suoi modi e li determina segretamente"(36).
Il pensiero moderno nascerebbe tuttavia da una rottura di questo precario equilibrio, il cui effetto essenziale sarà nel determinare un privilegio esclusivo della visione sull'affezione: "ciò che si compie davvero per la prima volta è (..) la chiara differenza tra ciò che appare e l'apparire come tale, così che mettendo provvisoriamente fuorigioco il primo, essa libera il secondo, e lo propone come fondamento". "Oscuramento del videor attraverso il videre", nelle parole di Henry, risoluzione del sapere nella pienezza della luce e confinamento della vita nell'oscurità, fino ad una generale rimozione dell'affettività come spazio sorgivo dei fenomeni. Per Henry infatti le cose si danno o come enti in un mondo o come affetti nella vita. E questo secondo aspetto, per il quale "ogni rapporto col mondo in generale è in primo luogo affettivo"(37), sarebbe l'oscurato dal trionfo del visibile nel pensiero moderno. L'estatico è il piano su cui si regge il trionfo della visibilità generalizzata: "è l'Ek-stasi che crea la fenomenalità", sintetizzerà felicemente il filosofo francese in un'opera successiva(38).
Una simile svolta avverrebbe, nell'interpretazione di Henry, già dentro il pensiero dello stesso Cartesio che nella II Meditazione finisce con l' "escludere l'affettività dall'apparire per ridurlo al solo vedere": in questo modo, conclude, "il tentativo di una fenomenologia radicale capace di discernere, nell'ambito stesso del puro apparire e dietro la fenomenalità del visibile, una dimensione più profonda, in cui la vita raggiunge se stessa prima del sorgere del mondo, si interruppe".(39)
E' in questo modo che si apre la strada all'intellettualismo del cogito kantiano: "credendo di seguire in questo Descartes, scrive Henry, Kant dissocia radicalmente l'Io penso dall'io sono"(40), finendo così col collocare la sua metafisica della rappresentatività a pieno titolo nelle tappe di questa déviance. Dal momento che non è più "viva", la soggettività kantiana è costretta a cercare la vita fuori di sé: "privata della sua dimensione di interiorità radicale, prosegue Henry, ridotta a un vedere, a una condizione dell'oggettività che costituisce tale struttura (..) la soggettività del soggetto non è più niente altro che l'oggettività dell'oggetto". Dal cogito al cogitatum il varco si richiude, l'oscillazione che faceva la ricchezza del pensiero di Cartesio tra visione e affezione è andata perduta: la chiarezza, "modalità della luce", ora "scarta l'affettività". La vita diviene ciò che è oscuro, oppure, in maniera speculare, finisce col risolversi "nella chiarezza del sapere".(41)
A partire da questa griglia concettuale, Henry opera una critica radicale del pensiero occidentale moderno, che lo porta a scavare una linea per così dire minoritaria all'interno della tendenza fondamentale della fenomenologia il cui esito più vistoso, e unilaterale per Henry, risiede nel pensiero di Heidegger. Solo una linea eterodossa della filosofia moderna, un certo Cartesio (quello che Henry rilegge, contro Heidegger, come pensatore di un passione che è estranea al rappresentare), Schopenhauer "che pone bruscamente termine al regno della metafisica della rappresentazione"(42) intesa come velo di Maya, Marx inteso come pensatore della corporeità soggettiva che si esplica nel lavoro, Nietzsche, in cui "sfolgora per un istante il pensiero radioso che restituisce la vita all'apparire come sua essenza propria"(43), ed alcune potenti intuizioni di Freud(44), a discapito del paradigma naturalistico e ontico dentro cui Freud stesso le avrebbe pensate, avrebbero ritrovato quel "cominciamento perduto" del pensiero nella sua autoaffezione che Henry prova, con il suo progetto di fenomenologia materiale(45), a recuperare. La mossa freudiana in particolare significa, per Henry, che possiamo finalmente uscire dal campo della rappresentatività: quello che viene chiamato "inconscio" sarebbe infatti il punto massimo di tensione a cui poté pervenire, pur dentro il trionfo dell'ideologia rappresentativo-centrica, ciò che al visibile si sottrae. L'importanza filosofica di Freud consiste per Henry proprio in questo "rifiuto radicale della fenomenalità estatica", ovvero nel fatto che "la nostra relazione originaria all'Essere" non venga più pensata nelle forme dell'e-stasi.(46) "L'intuizione implicita, ma decisiva, della psicoanalisi, la ragione della eco immensa che ha incontrato a dispetto dell'insufficienza del suo apparato concettuale, è che l'essenza della psiche non risiede nel divenire visibile del mondo".(47)
Tuttavia, a dispetto di queste rotture disseminate nella storia del pensiero, di questa linea eterodossa della filosofia moderna, il visibile e l'estatico rimarrebbero per Henry l'articolazione più radicale della nostra metafisica(48): la grammatica stessa del pensiero filosofico si è organizzata intorno ad un simile campo di metafore.(49)
Ripetizione del problema: la triade filosofica
La filosofia nasce al sole, all'aperto, al mercato, in città. Non ama i sentieri ombrosi nella Foresta Nera. Vuole muscoli, una lingua potente, occhi fini per vedere l'idea, sguardi acuti per contemplare la teoria. La dialettica, prima che divenisse un ramo della Logica, richiamava il fronte: dialéghestai è certo il dialogo, ma è anche già battaglia, agone politico, contesa, guerra; i due che si confrontano, si affrontano, fronteggiano e contendono. "La dialettica che Platone definisce con l'amphisbetesis", la controversia, scrivono Deleuze e Guattari. E concludono: "sotto questo primo aspetto la filosofia si rivela essere una cosa greca, sorta insieme alle città: la formazione di società di amici o di eguali, ma anche la promozione, tra di esse e al loro interno, di rapporti di rivalità, grazie alla contrapposizione di pretendenti in tutti i campi, in amore, nei giochi, nei tribunali, nelle magistrature, in politica e anche nel pensiero"(50).
Agonismo della retorica, parola schierata come lama di coltello sulla linea dei reciproci fronteggiamenti: voler concludere, definire, persuadere. Tutta una vicenda di faccia a faccia non evitati, ma ricercati fino a far scorrere il Logos: "rivalità degli uomini liberi, atletismo generalizzato: l'agone" scrivono ancora Deleuze e Guattari. Esibizione muscolare di Logoi che non può non desiderare un proscenio dove manifestarsi, ambire alla luce(51). Regime inter-locutorio della dialettica che è anche un regime pienamente inter-visivo. Colpo d'occhio e colpo di fuoco stretti insieme.
La filosofia, la luce pubblica, la guerra (quella certa guerra greca che oggi non è più la nostra, quel certo modo di pensare l'amicizia e l'inimicizia, di mettere in forma il fronteggiamento e la reciprocità, di metter fuori campo l'oscurità per far avanzare il concetto)(52) ecco una triade davvero decisiva; i tre termini in un certo senso designano lo stesso, e la scoperta moderna della politicità di tutti i pensieri - anche o soprattutto di quelli che più si pretendono impolitici (sotto il nome di altisonante di critica della ideologia) - come pure l'odierno rinvigorimento della razionalità filosofica via ragione comunicativa, è forse solo una riscoperta di questa unità essenziale.
Bisognerebbe dirselo francamente: questa triade è tuttora il miracolo storico di cui disponiamo. Essa nasce da una messa al margine del Saggio che pensa in figure(53) e attraverso l'Oscurità e significa in definitiva una conquista della luce. "Tutta la storia della nostra filosofia è infatti una fotologia" dice Derrida nella Mythologie blanche(54): e non c'è qui davvero necessità di richiamare la platonica visione delle idee, il lumen dei agostiniano, il sensus magis cognoscitivus di cui parla a proposito dell'occhio Tommaso nella Summa teologica, il lumen naturale di Cartesio, il mezzodì nietzscheano, gli "sguardi chiarificatori" e la "visione delle essenze" attraverso cui procede la fenomenologia husserliana, per esibire la centralità del luminoso e della vista nel pensiero filosofico e confermare quell'"isomorfismo tra il visivo e il concettuale" di cui ha scritto recentemente Jean-Luc Nancy(55).
Molti sono i contributi che hanno mostrato con forza in anni recenti quanto pesi la metafora oculare e fotocentrica nella storia del nostro pensiero(56). "La superiorità della vista, esordisce U. Curi nel suo recente La forza dello sguardo, rispetto ad ogni altra esperienza che abbia origine dai sensi, è uno dei tratti più persistenti e caratteristici della cultura occidentale. Ne troviamo traccia già nel linguaggio, nelle differenze riscontrabili fra il modo con il quale viene designata l'attività del vedere, e gli oggetti intorno ai quali essa si esercita, rispetto all'universo dei significati connessi con l'udito o il tatto, con l'olfatto o il gusto. Nell'indoeuropeo unitario, ad esempio, è possibile ritrovare l'equazione lessicale e morfologica in base alla quale il conoscere dipende dall'aver visto, come risulta dalla corrispondenza fra l'indoeuropeo woida, il sanscrito veda, il greco óida, il gotico wait. Più in particolare, nel mondo greco classico il privilegiamento della vista risulta immediatamente dalla sostanziale identità sussistente fra i termini che designano forme e contenuti del vedere e del conoscere"(57). Gli occhi infatti, ha sintetizzato felicemente P. Sloterdijk, "sono il prototipo organico della filosofia. Il loro enigma è che essi non solo possono vedere ma sono in grado di vedersi vedere. Ciò gli dà la preminenza tra tutti gli organi del corpo. Una buona parte della riflessione filosofica è in realtà solo un riflesso dell'occhio, una dialettica dell'occhio, un vedersi vedere".(58) A sostegno di questa tesi, è sufficiente richiamare qui alcune metafore visuali più o meno "morte" o "latenti" come le chiama M. Jay nel suo Downcast Eyes: a partire da parole come teoria (theoría) composta di théa (vista) e di oráo (vedere), oppure storia che deriva da ístor, ovvero il testimone, "colui che vede" (Benveniste)(59), o al nesso tra éidos (aspetto), éidonai (appaio, mi mostro), éidolon (idolo, simulacro, fantasma) e idéa(60), fino alle latine demonstratio (da monstrare) e speculatio. Ma anche nelle lingue moderne l'influsso di parole come to inspect, prospect, introspect (provenienti dal latino specere); oppure la presenza di voir nel francese savoir; di Augen in Augenblick e Schau in Anschauung e Weltanschauung in tedesco(61).
Scrive Heidegger, e questo scrivere sorprende per la remissività con cui il grande terremotatore del pensiero si arrende qui in maniera davvero sospetta alla metafora oculare della tradizione: "la tradizione filosofica, fin dall'inizio, ha considerato il 'vedere' come modo di accesso privilegiato all'ente e all'essere. Per non rompere con questa tradizione si può formalizzare a tal punto la visione e il vedere da ricavarne un termine universale valido per ogni accesso all'ente e all'essere, cioè fornito di validità universale"(62). "Per non rompere con questa tradizione": è strana questa frase in un pensatore che volle la Destruktion "del contenuto tradizionale dell'ontologia antica"(63), ancora più strano per chi con tanta fermezza ha opposto gli esistenziali alle categorie universali di una tradizione accusata di velare in maniera decisiva l'accesso all'autentico. E fa venire in mente un altro passaggio di Essere e Tempo in cui a proposito della 'contrapposizione commisurante' Heidegger scriveva che: "quanto più questo modo di essere passa inosservato all'Esserci quotidiano stesso (.....) tanto più tenacemente ed originariamente opera in esso"(64). Qualcosa di simile forse avviene proprio per la metafora visuale o per quella estatica: passando inosservate esse hanno operato in profondità nella costruzione della nostra concettualità, agendo dentro di essa.
Intermezzo: un'analisi del tema dell'apertura in M. Heidegger
Proprio Heidegger rimane un autore di capitale importanza nel misurare la resa dei conti che il pensiero filosofico novecentesco ha svolto con il tema della luce e dell'apertura. Senza poter entrare qui nel merito di una valutazione storiografica del cammino di pensiero heideggeriano, vorremmo tuttavia accreditare ulteriormente la tesi di M. Henry per il quale Heidegger rimane l'erede più coerente di quella "concezione della fenomenalità che determina il pensiero occidentale" e particolarmente quello Moderno, in nome del primato del "Di-fuori", come lo chiama Henry, "preliminare (avant-plan) di luce nel quale ogni cosa diviene visibile". "Heidegger, scrive ancora Henry in una pagina densa, ha voluto eliminare i concetti di coscienza e di rappresentazione. Tuttavia, anziché minare il presupposto secondo il quale la fenomenalità si attua nel Di-fuori, la sua filosofia non fa che condurre questo presupposto all'estremo limite: il Dasein è In-der-Welt-Sein, vale a dire 'nel-di-fuori', in quel primo 'Di-fuori' che è il mondo. Il paragrafo 7 di Sein und Zeit mostra chiaramente che Heidegger intende il 'fenomeno' secondo la concezione greca, come 'ciò che si mostra nella luce'. Questa luce, quest'orizzonte di visibilità entro il quale ogni cosa può diventare visibile, è il mondo stesso nella sua 'mondità', l'esteriorità come tale"(65).
Si potrebbe ampliare questa critica di Henry affermando che l'intero Sein und Zeit è una consacrazione dell'evento dell'apertura: una delle tracce fondamentali dell'opera consiste proprio nel fatto che qualcosa di chiuso vada aperto e messo in circolazione, il nesso concettuale decisivo risulta essere quello tra Entschlossenheit (decisione) ed Erschlossenheit (apertura), termini che si richiamano nella comune opposizione al verbo schliessen, chiudere.(66)
E' sufficiente richiamare qui alcuni passaggi chiave dell'opera per mostrare come domini ovunque una simile costellazione semantica. Si prenda ad esempio il tema dell'Esserci: "das Dasein ist seine Erschlossenheit", "l'Esserci è la sua apertura" scrive ad esempio Heidegger al §28. Che l'Apertura sia la costituzione propria del Dasein, che le due parole si avvicinino fino quasi a divenire sinonimi, è ribadito en passant nel §34: "l'essere del Ci, ossia l'apertura dell'essere-nel-mondo"(67). Anche il primato del fuori è manifesto nella costituzione del Dasein: "l'Esserci in virtù del suo modo fondamentale di essere, è già sempre 'fuori' presso l'ente che incontra in un mondo già sempre scoperto".(68) Non solo: la traccia di questa apertura essenziale tra il Dasein e il mondo che rompe la sterile contrapposizione di soggetto e oggetto è ciò su cui si articola un'altra parola-chiave dell'opera, il fondamentale concetto di Cura, la Sorge. Quando nel paragrafo 39 Heidegger si metterà "alla ricerca della più ampia e della più originale fra le possibilità di apertura dell'Esserci stesso" troverà infatti proprio la Sorge. E ancor più chiaramente dirà al §44 dedicato ad esserci, apertura e verità che: "la struttura della Cura (....) porta in sé l'apertura dell'Esserci".(69)
Ciò che non esiste nell'interpretazione heideggeriana del Dasein è propriamente un dentro (in un certo senso, tutta la filosofia novecentesca da Wittgenstein fino a Davidson, si è sforzata di dissolvere questa illusione soggettivistica(70)): "parlando, l'Esserci si esprime (spricht ...aus); non perché sia dapprima incapsulato in un 'dentro' contrapposto a un fuori, ma perché esso, in quanto essere-nel-mondo, comprendendo, è già 'fuori' (draußen)", nota ancora Heidegger (71).
Sempre al paragrafo 34, anche l'ascolto viene pensato secondo questa modalità dell'apertura: "lo stare a sentire (das Hören) costituisce infatti l'aprimento (Offensein) esistenziale dell'Esserci al con-essere con gli altri. Il sentire è l'apertura (Offenheit) primaria e autentica dell'Esserci al suo poter essere più proprio, come ascolto della voce dell'amico che ogni Esserci porta con sé". O si pensi ancora, qualche pagina prima nel § 31, al nesso tra apertura e comprensione (Verstehen).
Un discorso simile vale pure per la situazione emotiva. Proprio la Befindlichkeit (situazione emotiva) e la Stimmung (tonalità emotiva), sono infatti ciò che realizza l'apertura del Dasein; al paragrafo 40 Heidegger parla esplicitamente di erschließende Befindlichkeit, "situazione emotiva aprente", mentre qualche pagina prima aveva scritto: "la tonalità emotiva ha già sempre aperto l'essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo così possibile un dirigersi verso".(72)
Infine, di un fenomeno decisivo come l'angoscia, che mette capo all'autenticità, viene detto che "isola e apre l'Esserci come solus ipse": "l'angoscia racchiude la possibilità di un'apertura emotiva privilegiata per il fatto che isola";(73) al contrario, scrive ancora Heidegger, la deiezione è ciò che "chiude e nasconde" (im Verfallen die Eigentlichkeit des Selbstseins verschlossen und abgedrängt).
Secondo la secolare tradizione fotologica della filosofia che richiamavamo nel paragrafo precedente, apertura/visione/luce formano una sorta di plesso unitario nell'architettura di Essere e Tempo: "il termini visione (Sicht) dev'essere messo al sicuro da un pericoloso malinteso. Esso corrisponde a quella luminosità che è caratteristica dell'apertura del Ci", scrive Heidegger. Al paragrafo 44 - dal titolo: Esserci, apertura, verità - il plesso è così costruito: verità significa lasciar vedere (apofansis) l'ente nel suo esser scoperto: "Esser vero (verità) dell'asserzione significa essere-scoprente". Ciò vuol dire che in ultima analisi l'apertura stessa è la verità: "poiché l'Esserci è essenzialmente la sua apertura (Erschlossenheit), in quanto in se stesso aperto apre e scopre (als erschlossenes erschließt und entdeckt); esso è quindi essenzialmente 'vero'. L'Esserci è 'nella verità'".
Lo scoprimento, l'esser-scoperto (Entdecktheit) si possono fondare solo su questo preliminare esser-aperto (Erschlossenheit) dell'esserci. Questi due termini in testi più tardi come Vom Wesen der Wahrheit diverranno Offenbarkeit essere-manifesto" e Offenständigkeit essere-aperto", determinazioni essenziali", scrive L. Amoroso in un importante saggio su questi temi, "che rinviano entrambe ad un terzo: l'aperto (das Offene) della Lichtung".(74)
Allo stesso modo, quasi vent'anni dopo Sein und Zeit, nel Brief über den "Humanismus" Heidegger radicalizzerà ulteriormente questa celebrazione dell'apertura, definendo l'e-sistenza come "abitare e-statico nella vicinanza dell'essere"(75). "L'uomo è, ed è uomo, in quanto è colui che e-siste. Egli sta fuori nell'apertura dell'essere (...) 'Mondo è la radura dell'essere in cui l'uomo sta fuori a partire dalla sua essenza gettata"(76). Commenterà Michel Henry parlando di una certa "monotonia" heideggeriana: "Poiché l'essenza fenomenologica dell'uomo è l'esteriorità (...) poiché c'è una sola essenza della fenomenalità e un solo compimento di questa essenza, una sola luce, i concetti che la formulano sono in effetti univoci (...) Ciò che vi è di più intimo in quest'uomo e nella sua humanitas è un'esteriorità radicale".(77)
Si potrebbe immediatamente obiettare a quest'analisi un po' sommaria che proprio l'opera heideggeriana ha inteso rovesciare la secolare grammatica della nostra metafisica; che Heidegger è l'ispiratore essenziale di tutti i pensieri antioculocentrici del novecento, per usare una categoria del saggio di Jay che abbiamo già citato, il pensatore del primato dell'orecchio(78) e della chiamata sull'occhio e sulla forma, della triade hören (udire), horchen (ascoltare) and gehören (appartenere) (e Jay aggiunge maligno anche Gehorsam, obbedienza). Heidegger è il pensatore che ha sostituito allo sguardo chiarificatore husserliano, come luogo di apprensione del mondo, il "salvaguardare" e il campo d'azione della Sorge, l'ispiratore di quell'indebolimento del primato del vedere(79) che è alla radice di buona parte della riflessione postmoderna in filosofia. Il pensiero filosofico del dopo Heidegger è stato in larga misura pensiero di quel "declino della luce" di cui parla in Italia P. A. Rovatti riprendendo la Lichtung heideggeriana; in generale tutta la proposta di "pensiero debole", come noto, si è voluta come pratica di un pensiero della "mezza luce"(80) contrapposizione esplicita di un orecchio capace di pietas ad uno "sguardo totalizzante" e riduzionistico che teme a ogni piè sospinto di smarrire il saldo riferimento "luminoso" (o che, specularmente, si affascina per il tenebroso). E certo, come ha commentato ancora Rovatti, una transizione dalla luce forte alla Lichtung(81) è accaduta dentro la stessa filosofia di Heidegger: "dall'esserci di Sein und Zeit, che era di per sé stesso luminosità, Heidegger è passato alla tenue luce, quasi un chiarore, che la radura chiama a sé diradando la foresta. Una luce indebolita che forse si può ascoltare"(82). La Lichtung appunto, parola che per riprendere ancora l'analisi che ne fa L. Amoroso, "rimanda alla metafisica della luce, ma, dall'altro, ne mette in questione i taciti presupposti e ne trasforma i lineamenti (...) Se l'essere continua a venir pensato anche in Heidegger con l'immagine della luce, non si tratta però più di una totale luminosità, di una chiarezza già data, costantemente presente e sempre disponibile, come nel caso della tradizionale metafisica della luce; non si tratta di una luce abbagliante, ma piuttosto di una luce scura, nel senso di una luce che ha un rapporto essenziale con l'oscurità"(83).
Tuttavia, a ben vedere, anche a proposito del tema della Lichtung la critica di Henry si rivela meno unilaterale di quel che poteva apparire a un primo colpo. Se è infatti vero che nella Lichtung la luce heideggeriana si indebolisce, è altrettanto vero che essa rimane concettualizzata con forza inalterata dentro il paradigma dell'apertura. Lichtung è infatti sia una luce che si attenua, sia un'Apertura, uno slargo, un'e-stasi che è il proprio del Dasein; si tratta di un "aprire-illuminare", come Heidegger dirà in maniera esemplare nella conferenza sull'aletheia del 1943, che permette "il risplendere (Scheinen)", ovvero uno "slargo" (Vattimo traduce così Lichtung nel testo)(84). E qualche pagina più avanti chioserà in questo modo: "l'evento dello slargo (Lichtung) è il mondo"(85). Insomma, per riformulare la tesi di Henry, il pensatore del declino della luce per eccellenza non abbandona affatto la retorica dell'e-statico, anche nel punto di massimo indebolimento della luce metafisica tradizionale. Proprio la Lichtung anzi finirà per incorporare tutta la retorica dell'ek-stasi che domina Essere e tempo: "oggi, dirà Heidegger nel seminario di Zähringen del 1973, non parlerei più semplicemente di ek-stasi, ma di Inständigkeit in der Lichtung"(86).
Il trionfo dell'estatico insomma non risparmia affatto il pensiero antivisivo e radurale di Heidegger. Come se anche in un luogo di scuotimento della tradizione quale l'elaborazione heideggeriana, si rivelasse un'incapacità propria del pensiero filosofico a liberarsi di una simile costellazione semantica. Si comprende così meglio perché Henry, partendo da una critica del pensiero filosofico moderno, finisca coll'interrogare qualcosa di non strettamente filosofico come la psicoanalisi, o almeno alcune sue intuizioni, nella ricerca di luoghi di rottura di un simile predominio.
Dove si rompe lo schermo: Freud nella società della comunicazione
Ci siamo chiesti in apertura di capitolo se della lotta freudiana si possa ancora dire qualcosa di attuale nel mondo contemporaneo. Ad un primo sguardo, l'affermazione di paradigmi restii a concepire in termini tragici, conflittuali, la mente umana sembrerebbe aver messo definitivamente fuori gioco una simile lotta. Abbiamo quindi tracciato un rapido schizzo di questo mondo come segnato dall'estasi e dalla rarefazione del linguaggio, preso nel gorgo della comunicazione. Abbiamo poi tentato di mostrare qualche nesso tra questa epifania del linguaggio etereo, la retorica della luce e dell'apertura che segna la società della comunicazione e la storia del pensiero da cui veniamo. Anche un pensiero dell'ascolto e della luce oscura come quello heideggeriano ci è parso, seguendo la lettura di M. Henry, parecchio incline alla retorica del Aperto e del Manifesto il cui privilegio farebbe la specificità del pensiero Moderno. E un cui esito si ritroverebbe direttamente nel carattere iper e-statico della società della comunicazione.
Come si colloca la vicenda freudiana dentro questo nesso? Quella lotta con cui abbiamo aperto il capitolo è stata anch'essa risucchiata nel gorgo del comunicatore? Oppure lo spettro di Freud è ancora in lotta da qualche parte contro la società eterea della comunicazione e anzi ha ragione Perniola quando scrive che "una critica della comunicazione che faccia a meno della psicoanalisi è ingenua e sprovveduta e condannata a restare tale"? (87)
Si è scritto molto, e con ragione, sulle differenze radicali tra la scenografia teatrale di Charcot, il visuel Charcot come lo definì proprio Freud nel suo necrologio(88), e l'intimità crepuscolare e antivisuale in cui si organizza lo spazio della tecnica freudiana. Basti qui richiamare alla mente il celebre quadro di Brouillet che rappresenta Charcot durante un consulto in presenza dei suoi studenti (Freud lo ebbe in studio sia a Vienna che a Londra(89)): Charcot al centro della scena espone l'isterica allo sguardo rapito e voyeuristico del pubblico presente alle Leçons du Mardi.(90) Nell'organizzazione dello spazio di Charcot abbiamo già in nuce gli elementi essenziali della società della comunicazione(91): l'esperto, il caso clinico, l'audience. Come ha scritto G. Didi-Huberman nel suo bel libro sull'iconografia fotografica di quella 'città dolorosa' che era la Salpêtrière(92), in quella 'messa in scena' siamo di fronte ad una sorta di arte pittorica e teatrale, capace di inventare l'isteria, o quantomeno di trasformarla in spettacolo(93). Charcot era il regista di questa recita dolorosa: a chi viene a seguire le sue lezioni, egli vuol far toccare la sofferenza con mano, manifestarla alla piena luce del suo anfiteatro. Non è un caso che proprio alla Salpêtrière sia nata in maniera massiccia una delle prime applicazioni della fotografia alla psichiatria che sfocerà in una sistematica collezione iconografica dei volti delle isteriche.(94)
Non c'è bisogno di sottolineare quanto questo universo teatrale e precinematografico(95), si opponga alla penombra e al regime antivisuale in cui si realizza la tecnica freudiana. Come commenta ancora Didi-Huberman: "Charcot era alla ricerca di una unità drammatica e non di una scissione. Anzi che interpretare, costruiva una scenografia, secondo una unità di luogo e di tempo di una rappresentazione molto 'classica'. (...) Non immaginava l'esistenza di un'altra teatralità, di un altro stile, quello ad esempio di un 'teatro privato', privato forse anche di uno spettatore. Charcot esigeva di assistere ad ogni cosa. Egli rifiutava in anticipo l'idea di 'un'altra scena' (cioè di una scena assolutamente irraggiungibile allo sguardo)"(96). In quella grande macchina ottica che era la Salpêtrière, il mondo della parola è soppiantato da un trionfo di immagini: l'occhio, nell'organizzazione dello spazio clinico-spettacolare voluto da Charcot, svolge una funzione totalizzante. "Non di rado, scriveva Freud del maestro di allora, lo si udiva affermare che la maggior soddisfazione che un uomo possa provare consiste nel vedere qualcosa di nuovo"(97).
Come nell'estasi attuale della comunicazione, tutto nell'anfiteatro charcottiano avviene sullo stesso schermo, nello stesso tempo, inibendo ogni pensabilità di una doppia scena o di un teatro privato(98), neutralizzando quel continuo sovrapporsi del passato sul presente (la spettralità del presente) intorno a cui si è articolata la riflessione freudiana. Una clinica oculare e visiva, ma in fin dei conti di una visione monca, di un solo occhio, priva di ogni possibilità di raddoppiamento o speculazione. Freud sarebbe dovuto passare per un simile regime onnivisivo prima di tentare il suo capovolgimento tecnico(99).
Se paragoniamo il maestro Charcot all'allievo Freud se ne dovrebbe concludere che il vero colpo di genio di Freud nacque dal "fastidio"(100) che gli procurava esser fissato per ore dai pazienti. Così egli escogitò quella tecnica tutta particolare attraverso la quale il faccia a faccia è evitato, la relazione inter-visuale, dialogica, dialettica, messa fuori gioco: l'incontro tra due esseri umani è realizzato senza che questo divenga comunicazione. E ciò avvenne alle origini di quella che di lì a poco sarebbe diventata l'età della comunicazione, del marketing, dello spettacolo, dell'inter-vista, dell'esibizione, del simulacro.
Nell'abbassamento della luce in cui si pratica, e nell'evitamento della contrapposizione inter-locutoria su cui si fonda la sua modalità relazionale - il lettino come via per evitare la relazione faccia a faccia, come modo per mettere fuori campo la pulsione di guardare del paziente(101) - la psicoanalisi ci mostra come si possa dare relazione, legame, senza che ciò diventi comunicazione. Anzi, non è proprio il trionfo della comunicazione ad opporsi in un senso profondo al legame interpersonale?
Ecco perché nella prassi freudiana è così decisivo che il medico sia "opaco per l'analizzato": "der Arzt soll undurchsichtig für den Analysierten sein und wie eine Spiegelplatte nichts anderes zeigen, als was ihm gezeigt wird", scrive Freud. "Il medico deve essere opaco per l'analizzato e come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato".(102) Questa UNDURCHSICHTIG (il Grimm definisce durchsichtig, come "was licht du durchläst, pellucidus", mentre per il Brockhaus-Wahrig sinonimo di durchsichtig è "transparent") che Freud così caldamente raccomanda, va presa alla lettera come divieto al fatto che la vista (sicht) possa attraversare (durch) ovunque.
Proprio l'Undurchsichtigkeit (che fa tuttora problema nel dibattito psicoanalitico contemporaneo in cui non mancano i tentativi di trasformare la tecnica freudiana in qualcosa di più trasparente e comunicativo, cioè più al passo coi tempi(103)) ci sembra la chiave di volta per riprendere la domanda con cui avevamo aperto il capitolo. Una simile opacità rappresenta infatti una sorta di opposizione alla nostra epoca comunicativa in cui parole e pensieri si rarefanno e perdono di densità e resistenza nello scambio generalizzato(104). E in cui il mondo viene sottoposto ad una teatralizzazione e ad una spettacolarizzazione generalizzata attraverso un'ipertrofia senza precedenti dell'organo della vista e delle tecnologie ad esso connesse. Quella stessa riconduzione al visibile, su un altro piano, che grazie allo sviluppo straordinario delle neuroscienze con le sue tecniche di imaging cerebrale arriva sino ad una modifica profonda "della figurabilità dello spazio antropico" come ha scritto recentemente C. Ossola(105).
E' proprio il mancato faccia a faccia della tecnica freudiana che libera il linguaggio dall'essere parte di una strategia comunicativa(106) facendolo invece divenire una sorta di cosa in sé da cui prendere le distanze secondo i modi di un vero e proprio ascolto 'poetico'. Aprendolo, nel transfert, ad una declinazione simbolica della parola, facendo in questo modo specchio alla comunicazione, speculando insomma sul linguaggio come informazione e scambio. E liberando la relazione dall'essere inter-locuzione, come invece avveniva nella maieutica filosofica, con tutto ciò che non è conseguito in termini metafisici: il dialogo, la dialettica, la controversia, la contesa, il conflitto. In questo senso, la relazione duale analitica non è quella maieutica su cui è nata la filosofia.(107)
In questo modo Freud si è fatto promotore di una relazione antiestatica, anticomunicativa e antispettacolare(108) che si oppone sia alla piena lucentezza del dialéghestai, che allo sguardo distanziante-oggettivante della relazione scientifica ma pure, naturalmente, all'oscurantismo dell'oboedienza religiosa(109). Finendo implicitamente col profilare un altro modello di razionalità e di relazionalità (relazione senza faccia e faccia, legame senza comunicazione) accanto a quelli noti: il faccia a faccia della società della concorrenza, della comunicazione, dello spettacolo, dello sport/agonismo/concorrenza/mimesi generalizzata; la relazione soggetto/oggetto della scienza e della tecnica; l'evitato faccia a faccia delle società tradizionali e burocratiche; il modello religioso dei monoteismi (dove dio non mostra il volto)(110).
Forse è proprio nel profilarsi di una simile posizione relazionale che si oppone sia al trionfo dell'occhio e della luce che caratterizza il mondo onnivisivo della comunicazione(111) e l'enorme complesso di tecnologie di potenziamento della vista che dominano il pianeta (e le modalità della guerra come direbbe Virilio), sia alla trasformazione del linguaggio in una merce di scambio inter-relazionale, che starebbe la rilevanza della lotta freudiana. Cioè in ultima analisi, prima ancora che in una terapeutica o in una scienza della mente, in una posizione etica. Questa è forse l'attualità che ha ancora oggi, oltre sessant'anni dopo, il risuonare di quel lontano: the struggle is not over. Un'etica nel trionfo dell'oscenità estatica, profilarsi di una linea di fuga e di rottura nella "superficie liscia e operativa della comunicazione"(112). Etica appunto, perché rovescerebbe la relazione strutturale che è la società dello spettacolo, la società dello spettacolo come relazione strutturale per dirla con le celebri parole di G. Debord: "lo spettacolo (...) non è una collezione di immagini, ma una rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini".(113) Etica del pudore, della distanza, della salvaguardia, per riprendere alcune suggestioni di P.A. Rovatti, decisamente affini alla prospettiva a cui ci riferiamo(114).
E infine ci si potrebbe chiedere quanto questa posizione di rottura sia debitrice di un'etica ebraica, etica del divieto dell'immagine, della rappresentazione interdetta. Concludiamo dando voce ancora per un attimo a J.F. Lyotard che, in un bel saggio di inizio anni settanta, contrapponeva azione teatrale (greca) e pratica psicoanalitica, vedere versus ascoltare, 'occhio di troppo' di Edipo contro 'terzo orecchio' della tradizione analitica (Th. Reik)(115). Riprendendo la provocatoria domanda di Freud al pastore Pfister sul perché tra tanti uomini pii si dovette attendere un ebreo del tutto ateo per inventare qualcosa come la psicoanalisi(116), Lyotard scriveva che: "bisognava attendere che fosse un ebreo perché bisognava che fosse qualcuno per il quale la riconciliazione religiosa (la 'sublimazione') fosse proibita, per il quale la rap-presentazione stessa, l'arte, non potesse assolvere la funzione greca di verità; bisognava attendere, poiché bisognava che questo qualcuno appartenesse ad un popolo il cui principio è la fine di Edipo e del teatro, popolo che ha rinunciato al desiderio di vedere al punto che vuole fare prima di comprendere (perché c'è ancora troppo vedere nel comprendere). E bisognava che questo ebreo fosse ateo perché la rinuncia al desiderio di vedere potesse tramutarsi in desiderio di sapere, (.....) la schiena voltata, senza sguardo, senza neppure il terzo occhio ma solo col terzo orecchio: quello che vuole ascoltare ciò che dice la voce dell'Altro, anziché esserne afferrato e spossessato".(117)
Note:
1 Come scrive in una lettera di qualche mese prima al figlio Ernst (si veda P. Gay, Freud: una vita per i nostri tempi, Bompiani, Milano, 2000, pp. 568-569)
2 Lettera del 6.1.1935. Si veda S. Freud - L.A. Salomé, Eros e conoscenza, Lettere 1912-1936, Boringhieri, Torino, 1983
3 Uno dei lavori critici di riferimento in questo senso "demitologizzante" rimane quello di F. J. Sulloway, Freud, biologo della psiche. Al di là della leggenda psicoanalitica, Feltrinelli, Milano (1982). Sulloway enumera ben 22 miti specifici della narrazione psicoanalitica e 4 generali, tra i quali spicca quello relativo alla presunta accoglienza "inadeguata, ostile e irrazionale" delle teorie freudiane su cui molto si sarebbe costruito, secondo l'Autore, dell'edificio psicoanalitico.
4 La lotta di Freud con Hitler, ma anche di Freud con sé stesso costretto ad abbandonare Vienna occupata dai nazisti ma recalcitrante nel farlo, è testimoniata da due episodi celebri della biografia freudiana. "Poche ore prima di lasciar partire i Freud, scrive Gay nel suo libro, le autorità insistono perché Freud firmi una dichiarazione che non ha subito maltrattamenti. Freud firma e aggiunge: 'Posso raccomandare vivamente la Gestapo a chicchessia -Ich kann die Gestapo jedermann auf das beste empfehlen'" (P. Gay, Freud, cit., p. 570). Un "elogio" sarcastico che rappresenta "un rischio mortale", commenta Gay, proprio a poche ore dalla liberazione di Freud: "l'ultimo atto di sfida che egli compie sul suolo austriaco". L'altro episodio celebre è la vicenda di Lightoller, ufficiale in seconda del Titanic, che Ernest Jones utilizzò per vincere le ultime resistenze di Freud a lasciare l'Austria: durante l'interrogatorio dopo il disastro venne chiesto a Lightoller 'quando avesse abbandonato la nave'; al che egli replicò prontamente: "Non ho mai abbandonato la nave, signore; è lei che ha abbandonato me" (Lightoller fu sbalzato in mare dall'esplosione delle caldaie). Si confronti sul tema E. Jones, Vita ed opere di Freud, vol. III: L'ultima fase (1919-1939), Il Saggiatore, Milano, 1962, p. 265, e P. Gay, Freud, cit., p. 567.
5 Le cui ansi religiose e filosofiche Freud dichiara di non poter soddisfare. Si veda l'episodio raccontato in L. Binswanger, Essere nel mondo, Astrolabio, Roma, 1973, pp. 8-10
6 Per una difesa dell'uomo tragico davanti all'uomo comportamentale, si veda ad esempio E. Roudinesco, Pourquoi la psychanalyse?, Fayard, Paris, 1999. Del tutto condivisibile la presente riflessione di Sergio Benvenuto, in "Lo 'svantaggio primario della nevrosi'", Sistemi Intelligenti, 3/1998, pp. 474-487: "L'utilitarismo e anche il cognitivismo non sono tragici, perché non ammettono che gli esseri umani possano derogare dalla loro ricerca della felicità e/o piacere, chiamato oggi 'vantaggio personale'; essi non ammettono che il soggetto alla ricerca della propria happiness o del vantaggio sia diviso, che ci siano insomma più soggetti entro uno stesso individuo (...) questa divisione del soggetto, su cui Freud (appassionato di Sofocle e Shakespeare) ha puntato tutte le sue carte, era il presupposto di tutti i grandi autori tragici" (p. 475)
7 Usiamo questo termine per riprendere, e rovesciare, una delle diagnosi che J. Habermas fa della nostra epoca come trionfo di quella che chiama Die Neue Unübersichtlichkeit (Surkhamp-Verlag, Frankfurt am Main, 1985): "la nuova oscurità" come è anche stato tradotto in italiano (Ed. Lavoro, Roma, 1998). Certo non mancano oscurità nella nostra epoca, vecchie e nuove, tuttavia qui crediamo opportuno iniziare con l'interrogarci sul trionfo di una certa Übersichtlichkeit, se così si può dire, un certo ideale di iperchiarezza che domina lo sguardo contemporaneo.
8 J. Mc Dowell, nel suo Mente e mondo (Einaudi, Torino, 1999) perora ugualmente la causa di quello che egli chiama "lo spazio delle ragioni" davanti ad un "crudo naturalismo" "che mira a inglobare le capacità concettuali nella natura come regno della legge" (p. 78)
9 Scrive Derrida a proposito del sotterramento di Marx: "Questo discorso dominante ha spesso la forma maniacale, giubilatoria e incantatoria che Freud assegnava a una certa fase detta trionfante nel lavoro del lutto" (Spettri di Marx, Cortina, Milano, 1993, p. 70)
10 Non è un caso che proprio un simile terribile 'resto' dell'esperienza umana come il fenomeno della crudeltà abbia fatto scrivere in uno dei suoi ultimi lavori a J. Derrida di una sorta di unicità dell'esperienza psicoanalitica, nella sua capacità di guardarvi dentro senza alibi di alcuna natura (Cfr. Etats d'âme de la psychanalyse. L'impossible au-delà d'une souveraine cruauté, Galilée, Paris, 2000)
11 Ci riferiamo al celebre adagio di J. Baudrillard: "Non siamo più nel dramma dell'alienazione, siamo nell'estasi della comunicazione. E questa estasi è oscena" (L'altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova, 1997, p. 11)
12 Si veda J. Baudrillard, L'illusion de la fin, Galilée, Paris, 1992 (tr. it. Milano, Anabasi, 1993).
13 Queste righe, scritte nel maggio del 2004, hanno trovato una terribile conferma nel corso dello sviluppo del conflitto in Iraq. Proprio sulla gestione della comunicazione e la messa in scena del terrore a uso e consumo delle opinioni pubbliche occidentali si è giocata, con crudele sapienza, la strategia dei sequestri. A questo modo di considerare le controfinalità della comunicazione, di solito viene obiettato che una tale società aiuti quantomeno a portare alla luce certi issues che altrimenti rimarrebbero nell'ignoranza della pubblica opinione. Si dovrebbe tuttavia far presente lo straordinario livello di arbitrarietà con cui certi temi e personaggi entrano sulla ribalta pubblica mentre altri ne vengono esclusi. Il caso del diverso trattamento riservato dai media alle due volontarie italiane rapite rispetto all'ostaggio italo-iracheno, ucciso pochi giorni dopo, porta ulteriore conferma alla natura emotivistica e irrazionale della società della comunicazione. L'esito terribile e profondamente antidemocratico di una simile società è accentuato dal fatto che il sistema politico, a rimorchio delle ondate emotivistiche della comunicazione, finisce col ragionare con il ventre e le copertine dei programmi TV e col determinare una spartizione radicalmente iniqua di quella risorsa pubblica fondamentale che è l'attenzione politica.
14 Si potrebbe a ciò aggiungere che oggi nessuno può davvero affermare senza tentennamenti la distinzione tra 'riprendere in Tv ciò che avviene davvero nella realtà' e la fiction, come testimonia largamente il trionfo del genere reality-shows, dentro il quale si rende vana ogni discontinuità tra questi due poli tradizionali del nostro vocabolario mentale. Il dibattito sul "mito del dato" su cui si è confrontata tanta riflessione teorica in filosofia ha trovato a suo modo una risposta definitiva nei palinsesti TV.
15 J. Baudrillard, L'altro visto da sé, cit, p. 8. Parafrasando il motto di S. Paolo potremmo dire qui: 'Nulla è impossibile alla comunicazione!'. Continua Baudrillard: "Tutte le immagini sono oggi possibili. Dal momento che tutto è informatizzabile, cioè commutabile nella sua operazione digitale, come ogni individuo stesso è a sua volta commutabile secondo la sua formula genetica (..) non c'è più atto né evento che non si rifranga in una immagine tecnica o su uno schermo (...)". J. Baudrillard, La Transparence du Mal. Essai sur le phénomènes extrêmes, Galilée, 1990, p. 64, tr. nostra (tr. it. SugarCo, Milano, 1991).
16 M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004, p. 36
17 ivi, p. 104 e p. 108: "scopo della comunicazione, continua Perniola, è favorire l'annullamento di ogni certezza e prendere atto di una trasformazione antropologica che ha mutato il pubblico in una specie di tabula rasa estremamente sensibile e ricettiva, ma incapace di trattenere ciò che è scritto su di essa oltre il momento della ricezione e trasmissione"
18 P. Barcellona, Dallo stato sociale allo stato immaginario, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, p. 51. Naturalmente il riferimento d'obbligo a questi temi è il libro di A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano, 1988.
19 Che sindromi narcisistiche dilaghino in mancanza di un organizzatore-contenitore (lo spazio della politica appunto, la cui funzione di teatro dell'esibizione e dell'eccellenza virtuosa degli uomini è stato messo in grande risalto dalla Arendt a proposito della polis antica) è uno dei temi centrali della riflessione di P. Barcellona, almeno a partire da un lavoro come L'individualismo proprietario, Boringhieri, Torino, 1987 (si veda ad esempio p. 32. e segg.). In una simile prospettiva, la politica diviene, se così possiamo dire, l'alternativa terapeutica al dilagare dell'io narcisistico, destrutturato e onnipotente, dal momento che "la costituzione sociale dell'individuo è la rottura della monade psichica e la trasformazione dell'autoinvestimento affettivo, del desiderio illimitato, in investimento affettivo su oggetti del mondo esterno, su cose e persone appartenenti al mondo storico sociale". In questo senso, "la passione politica è l'investimento affettivo sul processo di socializzazione", mentre "l'alternativa allo 'spazio pubblico' è costituita "dalla fantasia di diventare onnipotenti, di affermare che la cosa è creata dal nulla, attraverso il pensiero, dall'Io" (si veda ad esempio La strategia dell'anima, Città Aperta Edizioni, Troina EN, 2003, pp. 111-112; p. 21).
20 M. Perniola, Contro la comunicazione, cit., p. 53. Naturalmente la letteratura sul tema è sterminata, a partire dai fondamentali studi di C. Lasch, da La cultura del narcisismo (Bompiani, Milano, 1992) a l'Io minimo (Feltrinelli, Milano, 1996). Più recentemente, F. Ciaramelli, La distruzione del desiderio. Il narcisismo nell'epoca del consumo di massa (Dedalo, 2000) si interroga sullo 'scacco' del desiderio nell'epoca del consumo di massa, analizzando il nesso tra 'ossessione dell'immediatezza', 'onnipotenza narcisistica' e affermazione di "una figura monca di desiderio, oscillante tra l'estinzione e il fallimento", che viene a conquistare "il centro del nostro immaginario" (ivi, p. 6).
21 Si veda diffusamente su questo tema C. Castoriadis, L'istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino, 1995
22 Cfr. M. Perniola, Contro la comunicazione, cit., p. 35
23 Si veda J. Baudrillard, La Transparence du Mal, cit., p. 56
24 Ivi, p. 51. Traduzione nostra. Sotto una simile trasparenza prolifera l'opacità del male, continua Baudrillard, esso non è trasparente ma transparaît ovunque.
25 Si veda anche J.L. Nancy, "The Weight of a Thought", in The Gravity of a Thought, Humanities Press International, New Jork, 1997, p.75
26 "E se tutta la pubblicità - scrive ancora Baudrillard - fosse l'apologia non di un prodotto, ma della pubblicità stessa? Se l'informazione non rinviasse ad un avvenimento, ma alla promozione dell'informazione stessa come avvenimento? Se la comunicazione non rinviasse più ad un messaggio, ma alla promozione della comunicazione stessa come mito". J. Baudrillard, La Transparence du Mal, cit., p. 56, tr. nostra.
27 J. F. Lyotard, dipe juif, Critique 277, Juin 1970, ora in Dérive à partir de Marx et Freud, Galilée, Paris, 1994, pp. 183 - 200. (tr. nostra)
28 Un buon esempio delle illusioni spacciate dalla retorica comunicativa è dato dalla recente pubblicità di una nota impresa di telecomunicazioni che si chiede "che mondo sarebbe stato" se Gandhi avesse potuto comunicare a pieni polmoni disponendo del ben di dio tecnologico attuale. Questa illusione di fraternità intercomunicativa, meno ingenua di quanto si pensi come vedremo più avanti in alcuni suoi presupposti filosofici, riflette bene uno dei punti nodali dell'ideologia contemporanea (naturalmente, nel caso dello spot, ideologia legata a evidenti fini di marketing). Tale punto può essere così schematicamente sintetizzato: comunicazione significa in un certo senso trionfo del comune, dell'identico a cui tutti potenzialmente giungerebbero se solo avessero i mezzi per ottenere l'intesa comunicativa. Il comune della comunicazione è dato proprio dall'imperativo estatico ("Comunica!"), dalla richiesta di star-fuori, in contatto, di promuovere l'estroversione, che il sistema produce incessantemente. Ed è proprio il momento estatico a realizzare questa fusione in cui in fin dei conti l'alterità come tale scompare (come un pensatore del calibro di Lévinas, che in questo lavoro possiamo richiamare solo in maniera laterale, aveva così ben compreso). Ad un altro livello è la stessa retorica degli inizi del liberalismo sul dolce commercio. Tutti coloro che si stringono al tavolo degli interessi reciproci e degli scambi divengono in un certo senso dei sosia, interscambiabili anche loro. La guerra come possibile manifestazione di una radicale differenza polemica, di una insostenibile alterità, scompare di fronte alla comunicazione generalizzata. Quello che rimane sarà rubricato al più sotto la voce di lotta all'inumano, al terrore, alla canaglia, come profeticamente aveva intuito C. Schmitt.
29 M. Perniola, Contro la comunicazione, cit., p. 51
30 Il greco théa indica sia la vista, che l'oggetto di veduta e contemplazione e in questo senso lo spettacolo (théai sono le feste ad esempio in Plutarco), sia infine il luogo da dove si guarda (in questo terzo senso théatron è il luogo da dove guardare).
31 Cfr. sul tema, H. Jonas, The Phenomenon of Life: Toward a Philosophical Biology, Chicago, 1982, pp. 145-147.
32 Siamo molto debitori per questa parte al fondamentale lavoro di Martin Jay Downcast Eyes. The Denigration of vision in XX-century French Thought, Univ. of California Press, 1993. Jay lavora intorno alla nascita nel pensiero novecentesco, particolarmente di area francese, di quello che egli chiama "discorso ocularfobico".
33 E' quanto scrive a suo modo al §19 de La Società dello spettacolo, G. Debord: "Lo spettacolo è l'erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale, che fu pure una comprensione dell'attività, dominata dalle categorie del vedere; così come si fonda sull'incessante spiegamento della razionalità tecnica precisa che è uscita da questo pensiero. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà. E' la vita concreta di tutti che si è degradata in universo speculativo". (G. Debord, La Società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 1997)
34 Ci riferiamo qui in particolare a M. Henry, Genealogia della psicoanalisi, Ponte alle grazie, Firenze, 1990 e a Fenomenologia materiale, Guerini&Associati, Milano, 2001 (vers. it a cura di P. D'Oriano, or. fr. 1990). Ci permettiamo tuttavia di precisare che l'uso che abbiamo fatto in questo capitolo dell'opera di Henry è per così dire tattico. Ci interessava più che altro mostrare una certa costellazione del pensiero filosofico che Henry riesce bene a individuare. Al contrario, non possiamo seguire fino in fondo i presupposti filosofici dell'operazione del filosofo francese. La proposta di Henry rischia spesso di scivolare in uno spiritualismo metafisico - l'esaltazione dell'immédiation e della Vita - che costituisce forse il fratello nemico, ma mimetico, rispetto a quella déviance historiale che egli mette in causa.
35 Ivi, p. 34.
36 Ivi, p. 48
37 Ivi, p. 10
38 Idem, Fenomenologia materiale, cit., p. 62
39 Idem, Genealogia della psicoanalisi, cit., p. 15
40 Ivi, p. 113
41 Ivi, p. 63. E' la coscienza per Henry che tende ad assorbire tutto: "nihil in me cujus nullo modo sim conscius esse posse" come viene detto da Descartes nelle Risposte alle Prime obiezioni.
42 Ivi, p. 16. "Se Schopenhauer può oggi apparirci (...) come uno dei filosofi più importanti della nostra storia, è perché ha introdotto all'interno di questa una frattura radicale, respingendo espressamente e in modo decisivo l'interpretazione dell'essere come rappresentatività" (ivi p. 125).
43 Ivi, p. 17.
44 "Una delle intuizioni decisive di Freud, che lo situa nella scia di Schopenhauer e Nietzsche, è che questo pathos della vita determina la sua rappresentazione, e, di conseguenza, la rimozione (....) i testi migliori sono quelli in cui affiora questo primato dell'affettività, 'questa dipendenza dell'intelletto dalla vita affettiva' che affermano che il passato non ha bisogno di esser riconosciuto per agire, che (...) l'emozione vi nasce prima del suo contenuto rappresentativo, che un complesso è 'un gruppo di elementi rappresentativi omogenei, affettivamente investiti'". (ivi, p. 287)
45 Henry sintetizza così la ricerca intorno a cui gravita la "fenomenologia materiale": "prima dell'essere-al-di-fuori (..) dove ogni realtà si trova a priori svuotata e spossessata di se stessa e così a essere il suo contrario, un'irrealtà di principio, prima di questa dismissione e di questa disfatta (...) regna una fenomenalità che si edifica in modo così stupefacente che il pensiero, il quale è sempre il pensiero del mondo, non vi pensa in effetti mai", ovvero, "l'immediazione patetica nella quale la vita fa prova di sé" (M. Henry, Fenomenologia materiale, p. 63).
46 Idem, Genealogia della psicoanalisi, cit., p.21
47 Ivi, p. 240
48 Sull'opera di Michel Henry si veda anche la utile introduzione di G. Dufour-Kowalska, M. Henry, un philosophie del la vie et de la praxis, Vrin, Paris, 1980, particolarmente dove l'Autrice si sofferma sulla coincidenza di logos e affettività nel pensiero di Henry: "una tale identità, quella di affettività e di Logos originale, consuma la rottura (...) con la tradizione filosofica occidentale" (p. 66), tradizione che si organizza piuttosto secondo l'equazione essere=pensiero=linguaggio. Dufour-Kowalska parla anche di "affettività del soggetto trascendentale" (p. 79). Di Henry, sempre in questa prospettiva di critica del visibile, si veda: Vedere l'invisibile. Saggio su Kandinskij, Guerini & Ass., Milano, 1996. Per una ricognizione generale dei suoi temi in rapporto alla psicoanalisi si rimanda all'intervista di S. Benvenuto ad Henry: "Emergence of the Unconscious in Western Thought", in Journal of European Psychoanalysis, 12-13, 2001, pp.21-32
49 Come avrebbe detto J. Derrida in uno dei suoi testi d'esordio, pur su un diverso piano di lettura: "è difficile costruire un discorso filosofico contro la luce" ("Violenza e metafisica", in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971, p. 107). Il primo paragrafo di questo straordinario saggio, dedicato alla lettura di E. Lévinas, ha per titolo proprio "Violenza della luce". Diversamente da Henry tuttavia, Derrida è in un certo senso più problematico e sfumato circa le possibilità di una radicale fuoriuscita da un simile piano di luminosità: quale linguaggio sfuggirà mai la metafora della luce (che "non conosce contrario"), si chiede infatti, senza esserne prima imprigionato? "Se tutti i linguaggi si battono in essa, modificando soltanto la stessa metafora e scegliendo la luce migliore, allora ha ragione Borges, qualche pagina più oltre: 'forse la storia universale è solo la storia delle differenti intonazioni di alcune metafore' [La sfera di Pascal]"(ivi, p. 117).
50 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, Einaudi, Torino, 2002, X
51 "Luce intensa e implacabile della presenza costante di altri sulla scena pubblica"come si esprime la Arendt, in Vita activa (Bompiani, Milano, 2001, p. 38). Riprenderemo parzialmente la questione nel quarto capitolo.
52 Sul nesso sguardo/guerra, colpo d'occhio che si sostituisce a colpo di fuoco, e tra la contiguità tra i due, ci riferiamo ai contributi di P. Virilio. Si veda ad esempio Guerre et cinéma I. Logistique de la perception, Ed Cahiers du Cinéma, Paris, 1991
53 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, cit., p. 9
54 Si vedano fra i tanti contributi sul tema luce/filosofia, il completo saggio di L. Amoroso, "La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo", contenuto nella raccolta Il pensiero debole, (a cura di P.A. Rovatti e G. Vattimo), Feltrinelli, Milano, 1983; P. Gambazzi, L'occhio e il suo inconscio, Cortina, Milano, 1999; e il recente lavoro di U. Curi, La forza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004. In particolare nel capitolo quarto ("Vedere le idee"), Curi evidenzia come la paidéia sia in Platone nel senso più forte una terapia contro l'accecamento, una guarigione dalla menomazione della vista (seppur attraverso una via che è in un certo senso interminabile e conflittuale). "Apaideusía, scrive Curi, è la condizione di chi vede ombre, di colui che è incatenato, e pertanto non può fissare lo sguardo, se non su quello schermo, sul quale si riflettono skiái (....)" (ivi, p. 165).
55 Jean-Luc Nancy, All'ascolto, Cortina, Milano, 2004, p.6
56 Si veda ad esempio il contributo fondamentale di Richard Rorty - Philosophy and the Mirror of Nature (Princeton Univ. Press, Princeton, New Yersey, 1979, vers. it. Bompiani, Milano, 1992, con intr. di D. Marconi e G. Vattimo). Come spiega Rorty in apertura del suo capolavoro, proprio la potente metafora oculare ha orientato la storia del pensiero occidentale, e ciò secondo la convinzione metodologica dell'Autore che "sono le immagini piuttosto che le proposizioni, le metafore piuttosto che le asserzioni, a determinare la maggior parte delle nostre convinzioni filosofiche" (p. 12, tr. nostra)
57 U. Curi, La forza dello sguardo, cit., p. 9
58 Citato in M. Jay, Downcast Eyes, cit., p. 19
59 "Tra colui che ha visto e colui che ha sentito, è sempre a colui che ha visto che bisogna credere. Il valore fondamentale della testimonianza oculare si ricava bene dal nome stesso del testimone: ístor", scrive Benveniste a rafforzare un simile primato dell'occhio nel mondo greco. (Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. II., Potere, diritto, religione, Einaudi, Torino, 1976, p. 434).
60 Cfr. F.E. Peters, Greek philosophical terms. A Historical Lexicon, New York Univ. Press, New York, 1967; Frisk, Griechisches Etimologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1973
61 Ma anche in campo psicologico, scrive Jay, "vocaboli come paranoia, narcisismo e esibizionismo suggeriscono quanto l'esperienza visiva (...) possa essere potentemente legata ai nostri processi psicologici" (M. Jay, Downcast Eyes, cit., p. 11).
62 M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, §31; corsivi nostri
63 Ivi, §7
64 Ivi, §27
65 M. Henry, Genealogia della psicoanalisi, cit., pp. 9-10
66 Come segnalato da P. Chiodi nell'edizione italiana dell'opera: "non deve sfuggire la parentela tra Entschlossenheit ed Erschlossenheit (Apertura): schliessen è chiudere, chiusura, e la decisione è il modo autentico dell'apertura dell'Esserci alla propria verità in quanto toglie (ent-) la chiusura, apre".
67 Corsivo nostro. Per una ricognizione del tema dell'apertura sul crinale tra umanità ed animalità in Heidegger, il rimando d'obbligo è a G. Agamben, L'aperto. L'uomo e l'animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002
68 Ivi, §13, corsivo nostro.
69 Corsivo nostro. "La cura heideggeriana, ha scritto Lévinas, completamente illuminata dalla comprensione (anche se la comprensione stessa si dà come cura), è già determinata per mezzo della struttura 'dentro-fuori' che caratterizza la luce".
70 Questa è chiaramente la linea heideggeriana. Valga fra tutti questo riferimento del §29: "L'essere in una tonalità emotiva non importa alcun riferimento primario alla psiche; non si tratta di uno stato interiore che si esteriorizzerebbe misteriosamente per colorire di sé cose e persone"
71 Corsivo nostro
72 Ivi, §29. Si veda sempre nello stesso paragrafo: "l'affettività propria della situazione emotiva è un elemento esistenziale costitutivo dell'apertura dell'Esserci al mondo (.....) alla situazione emotiva è connesso un'aprente remissione al mondo in cui possiamo incontrare ciò che ci procura affezioni". Ancora al §34 viene detto che: "ciò che viene espresso è proprio l'esser-fuori, il modo particolare della sua situazione emotiva (la tonalità emotiva)".
73 Ivi, §40, corsivi nostri. Naturalmente nel testo heideggeriano anche fenomeni del Si/Man come la chiacchiera svolgono a modo loro funzioni di apertura, seppur verso l'inautentico.
74 Cfr. L. Amoroso, "La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo", cit., p. 155. Naturalmente ciò non toglie il punto essenziale che Heidegger abbia pensato nei termini della non-oltrepassabilità del nascondimento. Valga per tutti questa citazione di Saggi e discorsi: "il fatto decisivo che il disvelarsi non solo non elimina mai il nascondere, ma ne ha bisogno, per poter essere come è, cioè come dis-velare" (p. 186)
75 M. Heidegger, Lettera sull'"umanismo", Adelphi, Milano, 1995, p. 74
76 Ivi, p. 84. Corsivi nostri
77 M. Henry, Genealogia della psicoanalisi, cit., p. 97
78 Si veda ad esempio J. Derrida, "L'orecchio di Heidegger", in La mano di Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 81 e segg. "Il pensiero è un udire che scorge" scriverà Heidegger in un passaggio celebre del Principio di ragione.
79 P. A. Rovatti, La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano, 1987. Scrive Rovatti: "L'esperienza umana si produce come effetto (...) Le competerà non un potente vedere, ma un paziente e riguardoso ascoltare; non sarà una fonte che getta fasci di luce, ma una fenditura, un passaggio attraverso cui si lascia vedere qualcosa. E questo ascolto non potrà più essere una pura intellezione, bensì dovrà essere un ripiegarsi per cogliere nella propria solitudine il risuonare di una nota, di un tono, di una consonanza: forse un contrarsi e un oscillare dell'identità per ritrovare la strada del 'pensiero'" (p. 64).
80 Premessa di P.A. Rovatti e G. Vattimo a AA.VV, Il pensiero debole, cit., p. 9
81 Lichtung deriva dall'aggettivo licht ('luminoso'), sostantivo Licht (luce). Indica, come noto, lo 'slargo', la 'radura' che si apre nel bosco, l'alleggerimento/indebolimento della fittezza della Selva. Si veda sul tema l'articolo già citato di L. Amoroso. Scrive Rovatti: "Questa immagine della Lichtung si presenta come il Leitmotiv figurale di tutto il secondo Heidegger, almeno dal 1946 (Lettera sull'umanismo; ma è implicita in tutti i corsi e saggi su Hölderlin ...) e fino al seminario di Zäringhen del 1973, incrociandosi strettamente con il rapporto tra filosofia e poesia. E' lo stesso Heidegger a indicarci, a più riprese, la decisività di questa figura proponendo anche una retrodatazione della sua importanza alle pagine di Essere e Tempo" (P. A. Rovatti, La posta in gioco, p. 111, nota 19)
82 Ivi, p. 70
83 L'Amoroso, "La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo", cit., p. 139 e p. 149
84 M. Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1976, p. 176
85 M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit. , p. 189
86 M. Heidegger, Vier Seminare, Klostermann, Frankfurt a. M., 1997, citato in P.A. Rovatti, Guardare ascoltando, Bompiani, Milano, 2003, p. 41.
87 M. Perniola, Contro la comunicazione, cit., p. 48. Aggiunge Perniola: "Freud presenta infatti, sempre sotto forme diverse e inedite, il problema cardine della filosofia occidentale: come pensare gli opposti? Il suo pensiero dunque ha costituito per tutto il Novecento una formidabile barriera nei confronti del confusionismo fraudolento e oscurantista della comunicazione."
88 Scriveva Freud alla morte di Charcot nel 1893: "Non era un riflessivo né un pensatore, piuttosto una natura artisticamente dotata o, come diceva egli stesso, un visuel, un visivo" ("Charcot" in Opere Sigmund Freud, da ora OSF, vol. 2, p. 106)
89 Si veda: G. Didi-Huberman, Invention de l'hystérie: Charcot et l'iconographie photographique de la Salpêtrière, Paris, 1982.
90 A cui si accorreva come a teatro; non solo un pubblico di medici, ma di osservatori rapiti dalla magia rappresentativa, tra cui si contano personaggi come: Bergson, Guy de Maupassant, Sarah Bernhardt e naturalmente proprio Freud, allora giovane medico che fu borsista a la Salpêtrière per 17 mesi, tra il 1885 e il 1886 e tradusse in tedesco al suo ritorno a Vienna le lezioni del Martedì di Charcot (riproducendo poi in più tarda età qualcosa di simile con gli incontri del mercoledì della prima società psicoanalitica)
91 L'organizzazione dello spazio in Charcot sarebbe oggi l'ideale format di un reality show. Molto più forzata una simile trasposizione per lo spazio psicoanalitico, realizzabile al limite in qualche romanzo radiofonico.
92 Oltre quattromila donne isteriche e Charcot nelle vesti di un novello Dante che osa penetrare nell'inferno, secondo la rappresentazione che ne dà Didi-Huberman.
93 Naturalmente Didi-Huberman si dilunga sugli aspetti 'artificiosi' di questa reciprocità tra medico e isterica, sul carattere di invenzione che una simile patologia ha avuto nel contesto scenografico de la Salpêtrière, dove le isteriche "facevano l'occhio" (faire de l'il), per così dire, ai propri medici e sul cosiddetto 'teatralismo' dell'isteria: "l'isterica, prosegue, fomenta il desiderio dell'Altro (...) E resterà prigioniera di una situazione, lo spettacolo, in cui crede di poter (...) fare suoi tutti gli sguardi, tutte le 'libido spectandi'". E conclude: "l'isterica si fa, nel transfert, ad immagine del desiderio di sapere del medico" (G. Didi-Huberman, Invention de l'hystérie , cit., p. 170, tr. nostra)
94 Le prime foto della follia sono realizzate al Surrey County Asylum di Springfield in Inghilterra, diretto dal dottor H.W. Diamond, presidente della Royal Photographic Society. Anche alla Salpêtrière dal 1876, con il primo fotografo P. Régnard, cominciano le pubblicazioni sistematiche di una raccolta fotografica. Si tratta de "l'Iconographie photographique de la Salpêtrière". Vennero realizzate due grandi raccolte fotografiche: Iconographie de la Salpêtrière (1875-1877) e Nouvelle Iconographie della Salpêtrière (1888-1918). Come scrive Albert Londe, direttore negli anni '80 del servizio fotografico della Salpêtrière, la macchina fotografica è "la vera retina dello scienziato". (A. Londe, La photographie dans les arts, les sciences et l'industrie, Paris, 1888, p.24, citato in Didi-Huberman, Invention de l'hystérie , cit., p. 58). Allo stretto nesso tra follia e teatralizzazione, a partire dalla tradizione medievale di mostrare i folli, fa riferimento ad esempio M. Foucault nella sua Histoire de la folie.
95 Notiamo qui en passant che, secondo Freud, la presunta teatralità di Charcot è frutto della malevolenza di "stranieri" che non comprendevano lo stile originale del grande medico. ("Charcot", OSF, 2, p.111)
96 G. Didi-Huberman, Invention de l'hystérie , cit., p. 133, tr. nostra
97 OSF, 2, p. 106. Corsivo nostro
98 La metafora del 'teatro interiore', come molto altro della terminologia iniziale della psicoanalisi (talking cure, chimney-sweeping) si deve come noto ad Anna O, alias Bertha Pappenheim. Sul tema si veda S. Vegetti Finzi, "Le isteriche o la parola corporea", in Psicoanalisi al femminile, Laterza, Roma-Bari, 1992.
99 Freud doveva passare, scrive ancora Didi-Huberman, "attraverso il grande teatro dell'isteria, alla Salpêtrière, prima di dedicarsi all'ascolto, e d'inventare la psicoanalisi. Ci sarebbe stato bisogno dello spettacolo, e del suo dolore, bisogno di prenderne innanzitutto una piena visione." (G. Didi-Huberman, Invention de l'hystérie, cit., p. 81, tr. nostra)
100 Oltre che sopravvivenza del trattamento ipnotico, la tecnica del divano viene giustificata da Freud proprio con questo fastidio: "non sopporto, scrive, di essere fissato ogni giorno per otto (o più) ore da altre persone (...)" S. Freud, Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi: Inizio del trattamento (1913-1914), in OSF 7, 343
101 Jay sintetizza bene questa modalità anti-visuale contenuta nella tecnica del lettino, interpretata tra l'altro come stratagemma per "evitare il contatto diretto oculare tra paziente e analista". "Non solo questo espediente diminuisce gli stimoli percettivi che interferiscono con le libere associazioni del paziente nella 'talking cure', ma frustra anche il potenziale scopofilico ed esibizionista di una terapia faccia a faccia. Inoltre, essa facilita quell'opacità dell'analista così importante nel processo di transfert." (M. Jay, Downcast Eyes, cit., 334; tr. nostra). Scrive Freud: "il paziente avverte di solito la situazione impostagli come privazione e vi si ribella soprattutto se la pulsione di guardare (voyeurismo) ha una parte importante nella sua nevrosi" (OSF 7, 343). Il tema della scopofilia attraversa tutti i maggiori testi freudiani, dai Tre Saggi al lavoro sul Witz, da Hans all'"Uomo dei lupi". Si veda sul tema ad esempio il già citato lavoro di P. Gambazzi, L'occhio e il suo inconscio, particolarmente al cap. VII: "La Schaulust e il Fort/Da dell'immagine speculare (Freud 1914/1915/1920)".
102 S. Freud, Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico (1912), in OSF, 6, 539
103 Si veda ad esempio il recente volume di L. Aron, Menti che si incontrano, Cortina, Milano, 2004. Aron vorrebbe riabilitare l'aspetto inter-comunicativo della psicoanalisi, trasformandola in una sorta di svelamento reciproco, in nome di una battaglia progressista e umanistica. Freud respinse sempre con forza (vedi OSF 6, 539) una simile trasformazione intercomunicativa (l'"intimità" nelle parole di Freud).
104 Intendiamo qui questa opposizione-freno nel senso in cui C. Schmitt usava il termine neotestamentario di kat'echon.
105 "Nel secondo novecento le neuroscienze hanno avuto uno sviluppo considerevole riconducendo al visibile (al cervello e alle sue mappe) la rappresentazione della natura umana: ne sono nate modifiche profonde della figurabilità dello spazio antropico, talora affascinanti spesso pavloviane, in un gioco complesso, ma di corto campo tra stimoli e reazioni. L'uomo sta ritornando ad essere il proprio corpo: un arte della memoria resa plastica e spaziata da Tac e risonanze magnetiche dispiega un nuovo teatrino della mente ove tutto sarà ricollocato (.....)". (tratto dalla relazione di C. Ossola al convegno "Humanitas. Il paradigma di natura umana tra scienza e filosofia" organizzato da CNR e Istituto italiano di scienze umane, Firenze, luglio 2004). Naturalmente ciò non esclude che, come avviene in ampi settori del dibattito medico e scientifico, possa svilupparsi una alleanza tra psicoanalisi e neuroscienze (che spesso va di pari passo con il recupero di un immagine di Freud neuroscienziato). Non è su questo piano evidentemente che si colloca la nostra riflessione, ma su quello più generale e filosofico della dialettica tra trionfo dell'occhio e della comunicazione e possibilità di uno scarto, di una non coincidenza tra l'uomo e la sua piena dispiegabilità.
106 In termini psicoanalitici Freud si esprime così: "Insisto però su questa misura (del lettino, NM) che ha lo scopo e ottiene l'esito di evitare l'impercettibile commistione fra traslazione e libere associazioni del paziente, di isolare la traslazione e farla affiorare a suo tempo in modo spiccatamente delineato sotto forma di resistenza" Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi: Inizio del trattamento (1913-1914), in OSF 7, 343.
107 In una serie di saggi scritti tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta, Jean-François Lyotard ha messo in luce come lo spazio analitico - la cui natura si è costruita attraverso una serie di trasformazioni storiche in Freud che ne hanno messo progressivamente a margine gli aspetti dialogici, testuali, di processo secondario - rassomigli allo spazio della creazione artistica dove quello che Lyotard chiama il figurale, può esprimersi. (Cfr. ad esempio, " Voix: Freud ", oggi ripubblicato in Lectures d'enfance, Galilée, Paris, 1991, pp. 129-153).
108 Come abbiamo tentato di dire in queste pagine, Freud ha inventato una modalità che si è opposta storicamente alla teatralità di Charcot e alla società della comunicazione nascente: ma certo non è pienamente arruolabile nella demonizzazione ormai più che à la page dello sguardo, della vista, della teoria. Non è questo il mulino al quale, per così dire, può portare acqua Freud. Egli non si oppose affatto alla teoria e all'osservazione, da instancabile osservatore quale era, e non certo per un residuo di metafisica o di positivismo, come si usa dire ormai in un travaso di luoghi comuni. Freud è l'uomo dallo sguardo penetrante, l'uomo che specula continuamente, la psicoanalisi è la scienza dell'insight, della visione binoculare.
Tutta la retorica antioculare, il discorso 'oculofobico', ha ragione su questo M. Jay nel suo fondamentale contributo, rischia spesso di finire in braccio ad una forma di 'ascetismo mascherato' (p. 590), di ressentiment cioè nel senso nietzscheano. Uno dei massimi ispiratori di questo discorso rimane sullo sfondo S. Agostino con il suo tema, che farebbe la felicità di un analista, della concupiscentia oculorum. E uno dei rilanciatori contemporanei è il teologo J. Ellul. Il commento di Jay su Freud è ancora una volta condivisibile: "Freud, certamente, non era né Bataille né Irigaray, e si astenne da ogni speranza di una radicale rovina della civiltà oculocentrica (..) egli rimase fondamentalmente un uomo dell'Illuminismo, sebbene di una versione più sobria e disillusa di quella dei suoi predecessori. Le metafore di cui fece frequentemente uso come quella di gettare luce sugli oscuri recessi della mente o quella di illuminare il 'continente oscuro' della sessualità femminile erano coerenti con la speranza di dare una mappa alla inesplorata topografia della psiche" (M. Jay, Downcast Eyes, cit., p. 334, tr. nostra)
109 Come nota correttamente Curi nel suo lavoro sia in greco che in latino l'obbedire è dato da un rafforzativo dei verbi legati all'udito: hyp-akoúein e ob-audire (U. Curi, La forza dello sguardo, cit., p. 10). La forza della svolta freudiana sta anche nell'aver utilizzato un simile primato dell'udito liberandosi completamente (cosa che non avviene in pieno in un autore come Heidegger) di ogni possibile scivolamento su un crinale religioso o tenebroso. Le ragioni profonde di una simile capacità vanno oltre l'obiettivo di questo capitolo e attengono forse ad una modalità del tutto inedita all'interno dell'opera freudiana di articolazione del rapporto tra Atene e Gerusalemme, come a dire di una delle questioni davvero essenziali nella costruzione della grammatica culturale dell'Occidente.
110 Schematizzando all'estremo potremmo dire: nel primo modello abbiamo comunicazione con distruzione del legame (spettacolo, concorrenza, comunicazione); nel secondo, relazione oggettivante e manipolante (tecnica, scienza); nel terzo, legame gerarchico senza comunicazione (gerarchia); nel quarto, regressione (Antiragione, sottomissione religiosa, teologia); nel modello psicoanalitico invece relazione interpersonale senza "comunicazione".
111 Sul trionfo dell'homo videns, e sul carattere "antropogenetico" della televisione ha scritto, più su un piano legato all'attualità politica, G. Sartori in Homo videns, Laterza, Roma-Bari, 1997. "La televisione, scrive Sartori, ci consente di vedere tutto senza andarlo a vedere: i visibili ci entrano pressoché in casa da dovunque".
112 Si chiede Baudrillard: "Se non esistesse più altro comportamento possibile oltre a quello di imparare, paradossalmente, a scomparire? Se non ci fossero più fratture, linee di fuga e rotture, ma una superficie piena e continua, senza profondità, ininterrotta?" (J. Baudrillard, L'altro visto da sé, cit., p.70)
113 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., §4
114 "Abitando la distanza" è la metafora di Rovatti (Guardare ascoltando, cit., p. 15).
115 Il libro di Reik a cui si fa riferimento è: Listening with the third Ear, Farrar Straus and Giroux Inc, New York, 1948.
116 "Detto per inciso - chiedeva provocatoriamente Freud al pastore Pfister - perché fra tanti uomini pii nessuno ha creato la psicoanalisi?": S. Freud, lettera al pastore Pfister del 9/10/1918, in: Psicoanalisi e fede, Boringhieri, Torino, 1960
117 J.F. Lyotard, dipe juif, cit., p. 188. tr. nostra.