Sommario
Il titolo potrebbe a prima vista far pensare ad un intento liquidatorio della psicoanalisi come modello della mente e come pratica clinica. L'A. intende, al contrario, offrire una prospettiva che, sulle tracce della psicagogia - pratica magica che evoca i defunti, "coloro che hanno compiuto il tempo della vita", ai fini di una divinazione - consenta agli psicoanalisti di far compiere alla psicoanalisi il tempo della sua morte. La psicoanalisi sopravvive a se stessa, oltre i mille limiti che l'epistemologia, l'antropologia, la sociologia, la biologia, i costumi che, nel loro tumultuoso sviluppo degli ultimi cento anni, sempre più restrittivamente le hanno imposto. "Evocare" la psicoanalisi significa rifare la storia della sua lunga agonia, schiacciata dall'egemonia colonizzatrice di discipline eteronome, e riprendere quei germi di un pensiero complesso, storicistico, relazionale e relativistico che sia Freud che molti suoi epigoni hanno più volte annunciato senza trovare per loro un accoglimento congruente all'interno delle loro stesse costruzioni e nell'ascolto del movimento psicoanalitico.
Il concetto di genesi è uno di quei concetti cardine intorno ai quali può girare la porta che se da un lato fa compiere alla psicoanalisi il tempo della sua morte, riconoscendone la sua condizione di fossile culturale e istituzionale, d'altro lato apre uno spazio adeguato ai suoi elementi germinali, embrionali. La psicoanalisi ha, nei suoi fondamenti, elaborato il concetto di genesi nel senso dell'originario, e, in particolare, di quel già noto che è stato reso ignoto (la rimozione), lasciando pressocché del tutto in ombra l'altro versante semantico, che riguarda il generativo, il divenire, l'eventuale, il creativo, il propriamente e irriducibilmente ignoto. Tutto ciò che si riferisce a questo procedere (e non processo) resta facilmente ingabbiato e strozzato da quel che Bion definisce il "Gergo satanico" della psicoanalisi.
Qui si fa ampio riferimento a Bion, a partire dal suo geniale e spietato attacco al suo bionese, per proporre un pattern della psicoanalisi che sia isomorfo alla condizione neotenica dell'uomo, l'unico animale embrionico che sviluppa la propria morfogenesi, la formazione della propria formazione, senza alcun traguardo predeterminato, in una indefinibile e costitutiva apertura cognitiva.
C'è oggi, in Italia, un gran parlare sulla legge dello Stato che vuole "normalizzare" la professione di psicoterapeuta, attraverso diplomi da conseguire presso le Università o presso scuole legalmente riconosciute. In effetti la psico-terapia si inscrive nelle pratiche tecno-scientifiche: si offre, per quanto ambiguamente, a rientrare nell'ordine dei mestieri tecnologici, come una pratica medica (la terapia, appunto) per la quale si presuppone la conoscenza di un oggetto del tutto autonomo rispetto al suo osservatore - la psiche piuttosto che il corpo - e al quale vengono di conseguenza applicate tecniche che si avvalgono di strumenti: non bisturi, farmaci o diete, ma parole e comportamenti (suggestivi, prescrittivi, consolatori, pedagogici o quanto altro) tesi a rimediare al male/malattia. Quale che sia il modello teorico di riferimento, ogni psicoterapia applica un insieme di ipotesi che si ritengono confermate sperimentalmente o statisticamente: un'informazione esauriente su questo corpo disciplinare ed un esercizio che sviluppi il coordinamento senso-motorio necessario per quella specifica tecnica (il tirocinio) sono momenti fondamentali per questa formazione professionale, metodologicamente analoga ad ogni altra formazione tecnologicamente definibile.
Questo discorso non farebbe una grinza se del termine complesso "psico-terapia" ponessimo l'accento sul suo secondo termine, lasciandone in ombra il primo. Ma se prendessimo in considerazione proprio il termine psiche, potremmo proporre un discorso altrettanto lineare? Potremmo parlare con altrettanta lievità di una terapia della mente se considerassimo l'irrisolta - e forse irrisolvibile - problematicità della sostanza a cui il concetto mente intende riferirsi? A quale sapere obbiettivo, o fermamente creduto tale, a quale episteme (contrapposto, come volevano i greci, all'opinione o all'empiria) facciamo ricorso quando discorriamo dei fatti della mente? Diceva Foucault (1978):
"Solo rendendo il proprio discorso conforme alla struttura della pratica discorsiva [cioè all'episteme dominante, a quell'insieme di regole imposte in una determinata area storica, il cui uso presiede non solo il linguaggio parlato ma financo il pensiero intorno a qualsiasi cosa che entri nell'esperienza dell'uomo] il soggetto può accedere al discorso, prendere la parola".
Ma se l'epistemologia della psicologia è costituita da un insieme di supposti saperi certi e obbiettivi, ciascuno derivato da un campo disciplinare diverso e in sé sufficientemente definito (dalla biologia alla sociologia, dall'etologia alla teologia, dalla filosofia alla cibernetica), l'area della psicologia sarà una piazza gremita di imbonitori, ciascuno con il suo prodotto più vero degli altri, urlanti, ciascuno, la parola che intende coprire le altre. Nessun ascolto reciproco, come avviene in ogni altro campo epistemico, nessuno stimolo reciproco, ammirato e magari invidioso, come avviene nel campo delle arti, ma un tendenziale esclusivismo più pertinente ai fondamentalismi religiosi.
Sull'attuale incerto statuto della psicologia James Hillman (1979) dice:
"Ma è possibile scoprire il modello collettivo, l'essenziale metafora radicale, della psicologia stessa? Possiamo forse trovare il mito generale valido nel nostro campo, nel quale si accordano e agiscono le nostre specifiche varietà individuali? Scoprire questo pattern significa cercare il nostro patron, (voci allotropiche fino al 1700), il padre che crea e che è il principio creativo in noi. Questo è il primo compito. (...) Fino a che non verrà chiarita la confusione sulla nostra paternità, ci sarà sempre una giustificazione per chi afferma che la nostra psicologia è una bastarda, né arte né scienza, né medicina né religione, né accademica né libera, né investigativa né curativa, bensì un'amplificazione sincretistica, un pot-pourri, o un pot-pour rire, di qualunque ed ogni cosa che ha a che fare con l'anima umana. Fino a che il padre non viene trovato, ciascuno di noi deve dibattersi tra i fenomeni, inventando linguaggi, diagnosticando, approntando tecniche per separare e legare assieme le diecimila cose dell'anima, incerti su che cosa facciamo perché siamo incerti sul nostro autore, dal quale deriverebbe sia la nostra autorità sia la nostra autenticità ".
Non so se le diverse psicologie troveranno mai un "padre"; forse rimarranno ben visibili solo i colonizzatori (filosofie, scienze, religioni) che, magari accoppiandosi variamente tra loro, hanno messo il loro marchio su quell'area del pensiero che pensa se stesso, all'ombra dell'impensabile. Finchè la psicoanalisi si propone come uno dei tanti banditori di una propria verità sulla psiche, e finché essa corre dietro alla fata morgana dell'efficacia terapeutica della sua prassi (rispondendo o con arroganza o con compiacenza contrita ai moniti di un Popper o di un Grünbaum), essa rientra nel grande coro dissonante delle psicologie e, abbagliata dall'effimero sfarzo del suo colonizzatore (la Medicina), rischia di non riconoscere più il suo Autore con la conseguente perdita di autorità e di autenticità. In questa prospettiva il processo di formazione degli psicoanalisti diventa estremamente problematico: allora la formazione dei candidati analisti deve ribadire la stessa procedura di colonizzazione che prima di tutti Freud (nonostante i suoi appelli perché la psicoanalisi non diventasse un'ancella della medicina) e in seguito le istituzioni psicoanalitiche nel loro insieme hanno adottato, o deve liberare la psicoanalisi da queste ipoteche abolendo ogni formalizzazione del processo di formazione? Ritengo che sia ora di un radicale ripensamento della visione adattiva della mente, della finalità della pratica analitica e quindi del modello di formazione dei candidati; ma ritengo, d'altra parte, che la via breve del diventare analisti, il limitarsi alla loro autolegittimazione, sia più un ribellismo anti-istituzionale che non un progetto culturalmente fondato. Senza autorevolezza nell'autenticità, la psicoanalisi rischia di sfilacciarsi in mille rivoli privi di mordente sia nel dibattito scientifico che nel mercato professionale.
Conveniamo nell'affermare che l'Autore della psicoanalisi sia stato Freud, nella sua intera vita e nella sua opera. Con questa convenzione includiamo Freud nella folta schiera dei padri mitologici, dei padri delle patrie o delle chiese. Di queste figure, così compatte e univoche nel loro alone sacrale, non possiamo essere altro che gli esegeti, ciascuno convinto che la propria lettura sia quella che, più di qualunque altra, chiarisca definitivamente "quel che veramente Egli disse!" Esclusive depositarie del Verbo, si moltiplicano per ciò le cosiddette scuole di pensiero freudiano, che, come capita per le sette religiose o per i partiti politici che fanno riferimento ad un unico padre fondatore, si combattono e si scomunicano tra loro, invece di ripercorrere criticamente la storia dei loro padri.
La straordinaria avventura freudiana (Freud stesso si definiva "un avventuriero più che uno scienziato") esordisce con quella pratica da lui definita "auto-analisi": non c'è congettura sull'oggetto "psiche" che possa essere minimamente credibile se non tiene conto della mente che la produce, della sua storia singolare e dei vincoli affettivi, emozionali e (pre)giudiziali che la rinserrano. Esemplarmente, nella prefazione alla seconda edizione della Traumdeutung, la cui stesura iniziò nel 1897, l'anno successivo alla morte di suo padre, Freud scrive:
"Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la mia reazione alla morte di mio padre, dunque all'avvenimento più importante, alla perdita più grave nella vita di un uomo".
Quest'esplicita menzione delle sue vicende familiari da un lato è un trasparente e coraggioso indicatore di quanto siano intimamente intrecciati i percorsi esplorativi nella mente con le trame affettive e cognitive che costituiscono il tessuto storico della mente esplorante, e proprio questa indicazione sulla necessità dell'auto-analisi (questa sì mai esaurientemente compiuta o "terminabile") dovrebbe rappresentare il più prezioso retaggio dell'insegnamento freudiano; d'altro lato questa menzione indica il costitutivo statuto di menzogna di qualsiasi enunciato che la mente propone. In italiano l'unica declinazione verbale della parola mente è mentire. Eppure l'atto narrativo del mentire è l'unico di cui con certezza possiamo dire che è "vero" perché indubitabilmente "vero" è l'aver consapevolmente detto una cosa per l'altra. E qui incontriamo l'affermazione di Bion: "la bugia necessita sempre di un pensatore". Ma a quale menzogna facciamo riferimento quando ci facciamo carico del significato di mentire inteso come il fare mente? La mente si fa, i pensieri vengono in mente, e a partire da quest'evento autopoietico un soggetto pensante costruisce i suoi enunciati. Ma sia l'evento che si produce, sia la costruzione che qualcuno ne fa, scaturiscono da uno specifico e singolare terreno di esperienze cognitive ed affettive. Non c'è dato della realtà oggettiva, non c'è incontro col mondo, che non sia un ibrido, cioè l'esito di una violenza (ubris) (1) di preconcezioni individuali sui dati percepiti. Ogni concetto compiuto, ogni esperienza vissuta è inconsapevole menzione di tale violenza originaria, e quindi ogni atto mentale non può prescindere dalla relatività e dalla casuale relazionalità in cui si è formato e in cui può essere coltivato.
In questa prospettiva anche il processo analitico è dunque necessariamente mentitore: che esso sia rivolto a se stessi, all'altro o alla relazione nel suo insieme si è comunque sempre alle prese con questo tipo di ubris. Freud l'ha chiamato transfert e ha fatto di questo mentire il caposaldo di tutta la sua pratica analitica. Ma il campo transferale ha avuto per lui dei limiti molto ristretti: esso compariva solo nella situazione analitica e la qualificava come tale; era di esclusiva pertinenza del paziente e non dell'analista; era mobilitato da pulsioni le cui vicende originarie rimosse potevano riattivarsi nella relazione analitica grazie ad un errore di persona favorito dal nascondersi dell'analista (l'analista-schermo); il transfert consisteva solo nella traslazione dell'oggetto, restando costante il soggetto di tale operazione; il transfert si risolveva con la sua elaborazione mirante ad una rammemorazione cosciente delle vicende rimosse; il successo dell'analisi coincide con la scoperta del carattere menzognero del transfert come di qualsiasi altro comportamento sintomatico od onirico (travestimenti, spostamenti e simili) e quindi con il trionfo della verità. Cento anni di storia del pensiero psicoanalitico hanno visto dibattere questi temi in tutte le direzioni, sia nel senso di un rafforzamento delle proposizioni freudiane sia nel senso di un loro relativo ampliamento.
Il transfert è menzogna nel senso che la persona a cui si fa in verità menzione è nascosta nelle sembianze della persona attualmente presente, in specie dell'analista. Nell'accezione classica sempre lo stesso soggetto ebbe una volta un'esperienza, che poi gettò fuori della mente (la cosiddetta rimozione), e infine se la ripropone camuffata. Ma se fossero molteplici i soggetti di questi atti mentali, all'interno della complessità individuale? E se ciascuno di essi vedesse la medesima cosa con i propri occhi ibridandola quindi con la propria personale storia in modo del tutto singolare? E se l'universo mentale, supposto essere "uno" in quanto espressione dell'unico individuo che lo esprime, fosse piuttosto un multiverso?
Freud ha anticipato questa visione già con la costruzione della seconda topica, riprendendola poi con il concetto di identificazione introiettiva fino ad affermare (1921) che la psicologia individuale è prima di tutto una psicologia sociale per la moltitudine di presenze che animano la vita psichica del singolo; ed ha quindi concluso l'anno successivo (1922) con questa affermazione:
"Se l'Io fosse soltanto la parte dell'Es modificata attraverso l'influenza del sistema percettivo, e il rappresentante del mondo esterno reale nella vita psichica, avremmo a che fare con una situazione semplice. Ma c'è dell'altro"
Quest'altro, che implica un salto in un'altra dimensione, consiste nel processo d'identificazione introiettiva, cioè in un processo di alterazione dell'lo che dobbiamo descrivere come l'erigersi dell'oggetto stesso nell'Io. E in seguito:
"comunque il processo, soprattutto nelle prime fasi di sviluppo, è molto frequente [Freud non ci dice perché esso dovrebbe essere solo frequente e non costitutivo dello sviluppo dell'identità individuale], e autorizza a pensare che il carattere dell'Io sia un sedimento degli investimenti oggettuali abbandonati, contenente in sé la storia di tali scelte oggettuali (...) Se e quando esse prendono il sopravvento, o diventano troppo numerose, soverchianti e tra loro incompatibili, si è prossimi a un risultato patologico; (...) è forse il segreto dei casi di cosiddetta 'personalità multipla' consiste nel fatto che le singole identificazioni si accaparrano a turno la coscienza dell'individuo".
L'identificazione alterativa dell'Io, il progressivo affollamento di presenze intenzionali (e cioè non di presenze inerti o di tracce mnestiche) in quel campo di esperienze dell'individuo connotato come il proprio mondo interno, e il carattere espropriativo di questo processo - l'accaparramento della coscienza individuale - costituiscono il fondamento di una prospezione teorica dell'uomo, non più inteso come la risultante di aggiustamenti reciproci, più o meno riusciti, tra istanze impersonali e solo metaforicamente antropomorfizzate: la conflittualità intrapsichica si prospetta cioè in termini gruppali, cioè tra una soggettualità nascente ed un'alterità (composita) assunta come propria, non solo in conseguenza dei dispositivi fusionali o simbiotici che caratterizzano la più primitiva relazione madre-bambino, ma anche in conseguenza delle induzioni attivamente intenzionali esercitate sul bambino da parte delle persone del suo universo famigliare, tra l'altro, il più delle volte, in conflitto tra di loro proprio sul figlio - sulla sua nascita, sulla sua educazione, sull'egemonia sui suoi affetti.
Abbiamo dunque tre ordini di argomentazioni per dar ragione alla lingua italiana per la quale l'unico modo per declinare la parola mente è mentire:
1. Ogni enunciato sulle esperienze empiriche come sulle esperienze vissute non è espressione di un'adaequatio intellectus rei ma è frutto di una copula (ubris) tra un dispositivo preconcettuale e la cosa di volta in volta rilevante nell'esperienza attuale. Probabilmente l'espressione dominio cognitivo riferita alla conoscenza umana implica la sopraffazione violenta che la preconoscenza (il dominus) esercita sull'oggetto che viene conosciuto (2).
2. Gli oggetti dell'esperienza sono per lo più tra loro fungibili, quando fungono da rappresentanti (significanti) di oggetti con cui si è stati in una relazione particolarmente significativa. Il concetto di transfert è stato coniato per intendere la mentalità del paziente nei confronti dell'analista, ma esso non qualifica la relazione analitica (che sarebbe piuttosto elaborazione del transfert), poiché esso può essere utilizzato per comprendere particolari modi di qualsiasi relazione interpersonale, o particolari trasferimenti ideo-affettivi su insiemi somatici o comportamentali (le strutture sintomatiche, come manifestazioni di un transfert intrapersonale).
(3). Il multiverso identificatorio indebolisce grandemente la presunta sovranità dell'Io. Quest'indebolimento non si dà perché questa figura culturale dell'intimo scenario immaginario subisce la presenza di quella figura naturale, l'Es, che ha dalla sua il potere economico delle pulsioni. La favola di natura versus cultura non regge più; così il conflitto va inteso a volte come reiterazione dei conflitti tra i personaggi identificatori (ivi compreso il personaggio figlio che in qualsiasi momento può "accaparrarsi la coscienza individuale", per dirla con Freud3), e a volte come contrasto tra le necessità trasformative indotte da ogni pensiero nascente (in quanto ri-organizzatore del proprio rapporto abituale col mondo) e necessità conservative pertinenti al fondamento identico dell'individualità.
La pratica psicoanalitica non può quindi esimersi dall'ipoteca del "fare mente", nel senso del mentire, dato che questa stessa pratica ha reso rilevanti le dimensioni storicistiche, relazionali, eventualistiche (in contrapposizione alle dimensioni metastoriche, monadiche, causalistiche che costituiscono l'ossatura metafisica della metapsicologia). Ogni "verità scoperta" è quindi un inganno, nel senso di un'approssimazione fantasiosa a "come stanno veramente le cose". La differenza sostanziale tra il "mentire" psicoanalitico e il "mentire" in qualsiasi altro ambito cognitivo consiste nel fatto che le scienze fanno, operano cioè trasformazioni nel mondo e nel rapporto dell'uomo col mondo, scoprendo verità (di giorno in giorno più transitorie e parziali) che non riguardano la sostanza delle cose ma solo il loro modo di presentarsi ad uno sguardo sempre più sottile e potente per dotazioni strumentali, che lo rendono sempre più lontano dallo sguardo nudo del bambino. Lo psicoanalista invece dispone solo di questo sguardo nudo col quale potrebbe aprirsi all'ignoto, nella sua relazione col paziente, con tutto lo stupore, lo scandalo, i dubbi, e l'angoscia, provati da Freud all'inizio della sua storia. Per nudità dello sguardo intendo un modo di vedere non finalizzato ad uno scopo, sorpreso e sorprendente, aperto alla comprensione e disinteressato della spiegazione, che non si impiglia nelle sagome al di qua dell'orizzonte perché vede (allucina?) quel che vagheggia al di là del limite sensibile. Lo sguardo del mistico, del poeta. Uno sguardo disarmante, che induca cioè, in chi ne viene investito, la dimissione di quelle armature o armi con le quali affronta il mondo, per lo più pregiudizialmente ostile. Uno sguardo nudo rende nudi, e in questa circolarità di rimandi ciò che è rimasto fin lì costretto trova la possibilità di crescere. Il reciproco affronto ostile cede allora il campo ad un con-fronto in un reciproco interessamento amoroso: non ubris ma eros, nella tensione a concepire che gli è propria.
È con questo sguardo che con ogni probabilità Freud ha iniziato a guardare le sue pazienti, trovandosi ad un certo punto coinvolto in situazioni affettive tanto sconvolgenti (4) da indurlo a riprendere il suo armamentario "scientifico", guarnendo il suo sguardo con la cultura naturalista e positivista del suo tempo. La cultura non rende più acuto o più profondo lo sguardo disarmante, ma lo indirizza selettivamente verso gli orizzonti che le sono propri.
Di questa brusca ibridazione abbiamo una testimonianza nella corrispondenza con Fliess (Freud, 1887-1904): dopo tante lettere in cui Freud espone al suo mentore la sua teoria sull'origine storico-relazionale (grossolanamente indicata come teoria traumatica) delle nevrosi, fino a quella del 31 maggio 1897, il 21 settembre di quell'anno gli scrive di aver abbandonato tale prospettiva, accennando ad una serie di considerazioni che colpiscono per la loro frettolosa superficialità, come se volesse seppellire in tutta fretta un cadavere ingombrante. Ciò avviene proprio all'inizio di quel processo che Freud definì "autoanalisi", che ha come esordio la testimonianza che ne dà nella lettera del 21 settembre a Fliess:
"Influenzato da queste considerazioni [quelle frettolose a cui mi sono prima riferito] mi sono sentito pronto ad abbandonare due cose: la risoluzione completa di una nevrosi e la sicura conoscenza della sua eziologia nell'infanzia. Ora sono in grave imbarazzo, poiché mi è fallito il tentativo di raggiungere la comprensione teorica della rimozione e il gioco delle sue forze (. .). Per questo motivo il fattore della predisposizione ereditaria ricupera una sfera d'influenza dalla quale io mi ero riproposto di estrometterlo, nell'interesse a far luce sulle nevrosi".
Freud continua sottolineando come, benché l'abbandono del suo tentativo di vedere nel sintomo la traduzione di esperienze realmente vissute rappresenti per lui una "catastrofe generale", egli non si senta affatto depresso:
"Certo, non andrò a raccontarlo (...) nella terra dei Filistei, tuttavia ai tuoi occhi e ai miei, avverto più la sensazione di un trionfo che di una sconfitta".
Ma di chi potrebbe mai essere questo senso di trionfo e di chi, per quanto sommesso, il senso di sconfitta? Se applichiamo qui l'idea di Freud sul conflitto tra presenze identificatorie, potremmo ipotizzare che il trionfo è del padre, defunto pochi mesi prima, minacciato dal figlio di vedersi smascherato nelle sue "colpe" di seduzione nei confronti dei figli (5), e la sconfitta è di Freud in quanto soggetto nascente, che con questo vero e proprio atto di contrizione soffoca la sua propria parola per conformarsi all'episteme dei padri. Se possiamo credere che l'autoanalisi di Freud si sia sviluppata più come "reazione alla morte del padre" che non come riorganizzazione creativa del suo sapere, siamo legittimati a guardare tutte le successive costruzioni freudiane (teoriche e istituzionali) come campi di battaglia tra posizioni paterne (e/o posizioni filiali) e pensieri autenticamente innovativi. Questo perché qualsiasi esperienza ed opera umana si fonda su un conflitto tra conservazione e cambiamento: queste due polarità teleologiche si presentano come due ordini di necessità inerenti alla condizione neotenica o embrionica (v. in seguito) dell'uomo, ed esse sembrano parlate rispettivamente dall'una o dall'altra delle due declinazioni semantiche comprese nel concetto di coscienza: la necessità della conservazione è per lo più proposta dalla coscienza morale (Gewissen) mentre la necessità di cambiamento è per lo più proposta dalla coscienza noetica (BewuBtsein), confinata da Freud nella funzione della percezione, ma che si estende ad ogni momento della formazione del pensiero e a ogni suo atto.
Dopo aver fatto prevalere la sua coscienza morale, travestita da enunciati scientisti, nella sua drammatica abiura dei neurotica, egli torna più volte, anche solo per accenni, sul problema come quando (1910) si lascia andare a questa esclamazione:
"Ma non si ha forse il diritto di scandalizzarsi dei risultati di un'indagine che concede alla casualità della costellazione famigliare un così decisivo influsso sulla vita di un uomo? Naturalmente è mortificante pensare che un Dio giusto e una Provvidenza benevola non ci proteggano meglio da simili influenze nel periodo più indifeso della nostra vita" (6)
Freud raggiunge il punto più elevato della sua riflessione sulla coscienza (in quanto esito di una commistione tra tradizione morale e atto cognitivo originale) in Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921), quando, ripensando la suggestione ipnotica, afferma:
"Il fatto che l'Io sperimenta come in sogno tutto ciò che l'ipnotizzatore comanda e afferma, ci richiama all'obbligo di riparare a una nostra omissione, quella di non aver annoverato tra le funzioni dell'Ideale dell'Io anche l'esercizio dell'esame di realtà. Non deve sorprendere che l'Io consideri reale una percezione se l'istanza psichica cui normalmente spetta il compito dell'esame di realtà si pronuncia a favore di tale realtà."
E più avanti egli avanza un'ipotesi decisamente storicistica sulla natura dell'Ideale dell'Io e quindi sulla consistenza "gruppale" del Gewissen e sul suo potere in gran parte determinante nel cosiddetto esame di realtà, a confronto con la limitatezza del BewuBtsein::
"Ogni singolo è un elemento costitutivo di molte masse, è - tramite l'identificazione - soggetto a legami multilaterali e ha edificato il proprio ideale dell'Io in base ai modelli più diversi. Ogni singolo è quindi partecipe di molte anime collettive (...) e, al di sopra di queste, può sollevarsi fino a un minimo di autonomia e di originalità."
In questo passo egli non fa più cenno alla patologia delle "personalità multiple", e tratta la matassa identificatoria come elemento costitutivo dell'identità (o identicità transgenerazionale) dell'individuo, il quale dovrà districarsene per quel "minimo" che autonomamente può.
Ma come avvenne all'inizio della sua "autoanalisi", quando frettolosamente liquidò i suoi neurotica, egli ripete la medesima restaurazione del senso comune, rientra nell'ordine dell'episteme dominante, con due note molto marginali. La prima viene aggiunta a piè di pagina nel I923 a Psicologia delle masse e analisi dell'Io, dove afferma:
"Riguardo alla fondatezza di tale attribuzione [dell'esame di realtà all'ideale dell'Io] sembra però lecito un dubbio, che richiede una discussione approfondita"
I1 dubbio e il conseguente necessario approfondimento non saranno mai più raccolti né da Freud né da nessuno dei suoi epigoni, ma, al contrario, l'argomento viene perentoriamente chiuso da Freud (o, meglio, dalle sue "anime colletive", dalla sua coscienza morale) con una seconda nota, che appare in L'Io e l'Es (I922), in cui egli sbrigativamente dichiara:
"è soltanto errata e richiede una rettifica l'attribuzione da me fatta dell'esame di realtà a questo Super-io. Dovrebbe senz'altro corrispondere ai rapporti dell'Io col mondo della percezione, il fatto che l'esame di realtà rimanga un compito proprio dell'Io stesso".
Non ci sono altri momenti dell'opera freudiana in cui egli accenni con tanto rigore e originalità alla possibilità di intendere il conflitto al di fuori dei vincoli di una filosofia adattativistica secondo le leggi economiche delle pulsioni: egli contribuisce, con la sua specifica disciplina, alla messa in crisi del presenzialismo coscienzialistico con cui Cartesio aveva ritenuto di poter definire, una volta per tutte, l'assunto di una verità metafisica del pensiero: in misura in cui il soggetto del cogito è anche altro rispetto all'ego rappresentato come un monolite, il cogito ergo sum potrebbe essere così reso più complesso: "Qualcuno pensa in me, e quel che io vedo e penso di me è allora il prodotto del pensiero dell'altro in me. Ma nel pensare che un altro pensa in me, in qualche modo e per qualche tratto, me ne distinguo, ed è in questo distinguermene, per un minimo e mai totalmente e definitivamente, che si apre per me un'avventura non mai già concepita altrove, un divenire nel quale io sono per essere."
Suppongo che il "trionfo" delle "anime collettive" in Freud abbia comportato una sistematica mutilazione del suo pensiero più autonomo e originale. In Memorie di un malato di nervi, Daniel P. Schreber, il paranoico su cui Freud ha costruito una bizzarra teoria sulla genesi dell'omosessualità, ha scritto una frase straordinaria: "Dio in persona era dalla mia parte nella sua lotta contro di me!". Ma anche Freud, come del resto, più o meno, qualsiasi essere umano, ha sperimentato qualcosa del genere, anche se al posto della figura di Dio troviamo la figura complessa della sua tradizione famigliare, ammantata dallo scientismo positivista "forte", che già alla sua epoca mostrava segni di indebolimento. Freud ha poi trasposto la violenza del suo rigetto nei confronti di quanto in se stesso poteva minacciare la stabilità delle sue istituzioni interne, sul suo modo di gestire l'istituzione psicoanalitica da lui creata. Sono noti gli anatemi da lui lanciati contro i suoi "seguaci" colpevoli di opporre un'ottusa resistenza (come i pazienti inguaribili) alle verità sancite dalla sua "scienza" (1914). Questo modo propriamente transferale di intendere l'istituzione psicoanalitica costituisce a tutt'oggi il più vistoso retaggio del patrimonio culturale di Freud.
La parte più originale di tale patrimonio è soffocata dalla monumentalità dell'International Psychoanalytical Association, con il marchio del pragmatismo scientista nord-americano, a cui obbediscono le culture istituzionali delle varie nazionalità. L'affiliazione degli analisti alle loro società nazionali e di queste all'IPA segue un modello tipicamente familistico (è questo il pattern o il patron specifico della psicoanalisi?), per il quale i candidati vanno sottoposti ad un giudizio di conformità alla sedicente "verità psicoanalitica". Ciò avviene attraverso un processo di indottrinamento, sempre più meticoloso e prolungato, degli allievi, consistente nella procedura insidiosa dell'analisi didattica, così che il paziente/allievo viene finalmente accolto nella comunità degli analisti "maturi" solo dopo aver dato prova di aver fatto "sua" la visione del proprio analista: ciò che la mente dell'analista sa e crede sperimentalmente accertato (un modello teorico e non il mistero dell'anima) deve diventare noto e creduto dal paziente; quest'ultimo aderirà al significato dei suoi conflitti secondo il modello proposto dal suo analista, scambiando così la sua propria verità-in-divenire con la "verità" della teoria veicolata dalle interpretazioni.
D'altra parte il valore di tutta l'opera di Freud consiste in una straordinaria testimonianza di un processo di auto-etero-formazione. Questo processo si è sviluppato nello spazio che Freud ha aperto tra sé e se stesso, tra sé e i suoi pazienti, tra sé e il suo mentore Fliess e tra sé e la comunità di psicoanalisti. In questo unico vasto spazio relazionale, pur formalmente distinto in diversi setting, Freud ha inizialmente gettato germi dei suoi pensieri: in questo grembo polimorfo hanno progressivamente preso forma grumi confusi di materia mentale, anche se più volte il grembo è stato scosso da sussulti abortivi. Il merito straordinario della sua opera consiste nel suo documentarci, passo per passo, le vicende tra le sue necessità di conservazione della coscienza e le sue necessità di trasformazione creativa, e di offrirci così una panoramica eccezionalmente vasta e drammatica della fatica dell'uomo che intende "sollevarsi per un minimo di autonomia e di originalità".
La parola italiana formazione viene dalla traduzione latina del greco morfo-genesi, il cui modello paradigmatico ci viene dalla biologia: si tratta di quel processo per il quale alcune cellule indifferenziate si sviluppano in modo tale da creare organi e tessuti estremamente differenziati tra loro e capaci di dare quindi una nuova forma a quel grumo di materia vivente in cui consiste un embrione nelle sue fasi primitive. Mentre però in biologia la morfogenesi conduce, attraverso i più diversi stadi metamorfici, ad una forma compiuta e stabile, negli affari della mente le forme che essa assume, nello sviluppo degli individui delle culture e delle organizzazioni, non sono mai perfette (secondo un telos filogenetico) né stabili. Quest'incompiutezza della morfogenesi umana ha fatto confluire il pensiero moderno (filosofico, biologico e antropologico) sul concetto di mancanza come quella condizione che esige una continua e specifica autoriorganizzazione dell'uomo come unico animale embrionico. Il concetto di neotenia si riferisce in modo molto pregnante a questa visione antropologica, perciò questo concetto viene molto frequentemente utilizzato da psicologi e psicoanalisti per indicare quella specifica dipendenza dell'uomo dalla madre, al fine di sopravvivere, che si prolunga per un tempo molto più lungo a confronto dei tempi in tutte le altre specie animali. Intesa in questi termini, la neotenia indicherebbe uno sviluppo particolarmente lento delle condizioni biologiche e mentali necessarie per l'autosufficienza dell'individuo, e questo fenomeno viene poi chiamato in causa come condizione che favorirebbe la molto complessa maturazione dell'uomo e anche l'insorgenza di comportamenti o vissuti infantili in età adulta. In questo caso d'ibridazione, una preconcezione che vuole l'uomo al vertice della scala evolutiva - nel senso del più perfetto tra gli animali - fa violenza su un termine lessicale, piegandolo alla propria costruzione antropologica. La parola neotenia indica, infatti, in zoologia quel fenomeno per cui alcuni individui di determinate specie di invertebrati raggiungono una capacità riproduttiva nel periodo larvale, prima di subire la metamorfosi che porta alla definitiva conformazione adulta. In alcuni casi questo carattere si stabilizza e viene trasmesso geneticamente. Applicato all'uomo, questo termine indica il fatto che egli, nella sua stabile condizione d'incompiutezza embrionica, è in grado non solo di riprodursi sessualmente, ma anche, e specificamente, di concepire simbolicamente il mondo sin dalla sua più tenera età, di esercitare così la sua peculiare creatività (7).
La mancanza embrionica dell'uomo consiste, dunque, sia nell'insufficienza di specializzazioni del suo organismo rispetto all'ambiente, sia nella sua indefinita apertura cognitiva. Queste incompletezze coesistono, sono due modi di manifestarsi dell'embrionicità, non sono cioè in un rapporto di causa ed effetto, nel senso che l'apertura cognitiva non nasce dall'incompiutezza adattativa (o viceversa). Umberto Galimberti (1999) esamina le ascendenze mitologiche e filosofiche (Platone, Tommaso d'Aquino, Kant, Herder, Schopenauer, Nietzsche, Bergson fino all'ampia documentazione che ne dà A. Gehlen) della rappresentazione dello stato di carenza dell'uomo, a confronto con la "perfezione" animale, e considera quindi la tecnica come il rimedio che l'uomo produce nella (illusoria) convinzione che con essa potrà rendere, infine, "perfetta" la sua strutturale imperfezione biologico-cognitiva. In misura in cui l'antropologia psicoanalitica non prende in considerazione la mancanza strutturale dell'uomo (essa adopera largamente il termine mancanza in riferimento agli oggetti delle pulsioni, o all'ordine regolativo della parola o della funzione paterna), la pratica analitica si pone per lo più come rimedio tecnico e "cura", avallando la rappresentazione menzognera che ci sia un oggetto-mente da curare attraverso particolari procedure manipolatorie. In questo luogo di confluenza della psicoanalisi nel variegato campo delle psicoterapie, la psicoanalisi perde ogni specificità, mentre ogni altra tecnica più esplicitamente direttiva, suggestiva o persuasiva si rivela terapeuticamente più efficace. E in questa prospettiva il mercato psicoanalitico dovrebbe in breve esaurirsi.
Dobbiamo allora pensare alla psicoanalisi come ad una pratica isomorfa alla condizione embrionica dell'uomo, come ad un processo relazionale in incessante divenire i cui interlocutori sono simultaneamente coinvolti in un'esperienza formativa, morfogenetica. Abbiamo visto quanto fosse rilevante per lo stesso Freud la sua coscienzialità (le sue "anime collettive") rispetto alla "autonomia e originalità" del suo pensiero; l'autoanalisi è risultata un esercizio di ascolto più delle voci dei padri che non delle proprie personali idee germinali. Queste idee, per lo più, sono state prematuramente o rigettate o addomesticate nel gergo metapsicologico.
Il percorso di Bion, che negli ultimi anni dice di sé di essere un "analista in formazione", ci mostra un processo di auto-etero-formazione, in cui l'autoanalisi - come esperienza di rilettura di tutta la sua vita - gli consente una radicale ristrutturazione del suo pensiero. Dopo aver dedicato tutto il suo ingegno, fino alla fine degli anni '60, a costruire una gigantesca ibridazione tra il già noto della psicoanalisi (con un riferimento particolare all'opera di Melania Klein) e il suo daimon creativo, nell'ultimo decennio della sua vita egli si accorge del naufragio esistenziale cui fatalmente andava incontro, che egli così riassume icasticamente, nell'ultima pagina della sua opera finale (1979):
"Per tutta la vita sono stato imprigionato, frustrato, costretto, dal common-sense, la ragione, i ricordi, i desideri e - maggiore spauracchio tra tutti- dal capire ed essere capito. Questo è un tentativo di esprimere la mia ribellione, di dire addio a tutto ciò"
Questo tentativo è rappresentato dalla Memoria del futuro (M.F. 1975-77-79) di cui dice:
"Questo libro è un tentativo psico-embrionale di scrivere un resoconto embrio-scientifico di un viaggio dalla nascita alla morte, asfissiato e oppresso dalla pre-maturità di 'conoscenza', 'esperienza', 'gloria' e autointossicante compiacimento di sé."
Non avendo ancora letto della Memoria del Futuro il terzo volume, The Dawn of Oblivion (1979), mi avvalgo ampiamente dell'importante lavoro di F. Di Paola (1995), una guida alla lettura o rilettura di Bion d'ineguagliabile valore per completezza e profondità. Di Paola mette in evidenza il fatto che Bion, nel suo ultimo decennio di vita, si è impegnato a contestare radicalmente il Gergo che la psicoanalisi (e quindi lui stesso) ha creato e adoperato per esporre la propria logica. Ma, dice Di Paola:
"la logica non è mai stata propriamente una teoria del pensiero, ma, piuttosto, una teoria del pensato" sostanzialmente limitata "alla descrizione della statica del pensiero - alla giustificazione post factum, in base ad assiomi e regole deduttive fissati, del (già) pensato - ove il problema della dinamica del pensiero - del suo farsi - resta, a rigore, del tutto impregiudicato." (8)
Nel momento in cui Bion affronta questa dinamica, egli propone una "embrio-logia della mente", consistente nell'osservazione "microscopica" delle disposizioni della mente in quanto mente-in-formazione. Queste disposizioni si manifestano come idee larvali, non ancora definite in alcun concetto, come idee selvatiche che vanno "addomesticate" per poter entrare a confronto con la cultura e le sue istituzioni. Il già noto, quali che siano le sue forme sintattiche, relazionali o istituzionali, può essere un contenitore capace di allevare il nascente, fornendogli gli strumenti razionali ed estetici perché esso prenda forma; ma, al contrario, il nascente, nella misura in cui minaccia la stabilità del già noto anticipandone un cambiamento che Bion definisce con enfasi "catastrofico", può non trovare un accoglimento adeguato, per cui, a ogni passaggio evolutivo, rischia di esser soppresso sul nascere, diventare 'nato-morto' (still-born, MF, III, 446): "un'idea fetale può uccidersi o essere uccisa, e questa non è solo una metafora" (II, 417-18).
Bion affronta il conflitto tra il non ancora noto (l'"idea fetale", il "pensiero senza pensatore") e il già noto (l'"establishment" interno/esterno) nella medesima prospettiva che ho proposto tra necessità di cambiamento (di formazione in senso morfogenetico) e necessità di conservazione, sviluppando su se stesso il dramma anticipato da Freud con la sua folgorante immagine del sollevarsi dell'individuo dalle proprie "anime collettive" con un minimo di autonomia e originalità. Scrive Di Paola a commento della Memoria del futuro (op. cit.):
"s'immagina 'sepolto' sotto il suo stesso gergo, anticipa la visione di un "Bion" sommerso sotto il cumulo di stereotipi, "griglie", "vertici", freccette e simboli di maschile-femminile, sgraziata fraseologia "gruppale", tutto l'armamentario, insomma, del "bionese" ben noto. Anticipazione profetica, stante la storica ironia con cui lo strapotere 'satanico' (MF, II, 302) del Gergo si è vendicato del suo più strenuo oppositore infliggendogli, per contrappasso, il castigo della gergalizzazione massiva."
E precisa Bion:
"I1 Gergaiolo Satanico (Satanic Jargonieur) si era offeso; in qualche modo il gergo psicoanalitico cominciava a essere eroso da eruzioni di chiarezza. Fui costretto a cercar rifugio nel narrativo. Camuffata nel narrativo (disguised as fiction) la verità, a tratti, trapelava ("sgusciava via", "sfuggiva": slipped through)." (MF, II, 302)
Ma di quale verità Bion parla? Certo non di una verità razionalmente costruita, che sarebbe necessariamente un mentire, a prescindere dal modello logico adottato. Bion parla di una verità d'esperienza, della verità del mistero, della "cosa in sé"-che-diviene, che nel momento in cui dovesse essere de-finita sarebbe semplicemente finita, terminata, morta. Egli si è sentito quindi costretto a "cercar rifugio nel narrativo", ma in un genere narrativo tutto affatto particolare. Scrive Di Paola:
"Memoria del futuro, come dramma in tre tempi, è il documento di una psicagogìa. Mostrando al lettore quanti contrasti, dilemmi, rischi 'esplosivi' (l'angoscia catastrofica non vi è soltanto teorizzata), quale dantesco Purgatorio (MF, II, 349, 418) sia costato all'autore il cambiamento psichico, Bion non parla più al lettore bisognoso di nozionistiche 'caselle', appigli del solo intelletto che surroghino (e difendano da) la responsabilità di un diverso esperimento con se stessi, il 'coraggio' di una messa in gioco del proprio esistere (e quindi, nel caso, del modo di praticare un certo... mestiere). Nel dire di chi scrive 'dice' anche, illocutivamente, di chi legge."
E qui F. Di Paola ricorda Harris Williams che sull'Intern. Journ. of Psychoan. (1983, 10) scrive:
"Inevitabilmente, mettendo in crisi i suoi stessi pregiudizi e il suo gergo, i suoi 'vertici' storici, egli mette in crisi anche i nostri, come lettori - la particolare idea che abbiamo di lui, e forse anche di noi stessi."
In questi commenti si annuncia la svolta ("cambiamento catastrofico"?) cui la psicoanalisi può andare incontro, se vogliamo dare un senso alle prospettive narratologiche che si sono sviluppate negli ultimi dieci anni nel movimento psicoanalitico (9), avvalendoci in modo particolare dell'esperienza rifondativa di Bion.
La parola psicagogia, a cui lo stesso Bion fa più volte riferimento nei suoi scritti, indica una cerimonia religiosa o magica che, in certe aree culturali, era intesa a evocare l'anima di un defunto, normalmente a scopo di divinazione: una presenza, chiusa nel suo tempo passato, viene evocata, resa vividamente presente, condotta (agein significa condurre) nell'attualità, perché possa dirci del nostro futuro. Potremmo intendere "memoria del futuro" come una locuzione poetica che si riferisce ad una pratica psicagogica. Il "defunto", il passato, il già noto è il fondamento relazionale pluristratificato dell'identità individuale ed ha uno specifico potere di attrarre, assimilare ogni idea, ogni visione, ogni sogno generati dall'autòs (auto-poiesi, auto-nomia, aut-enticità), che tenta di riorganizzare incessantemente gli accoppiamenti neotenici dell'individuo umano. L'"inconscio" freudiano, in quanto luogo del rimosso, è il totalmente già noto che si fa presente, al di fuori di una consapevolezza critica, come una legge a-priori, la legge del defunto, la coscienza morale. Ogni volta che questo "inconscio" si attiva, il futuro si assimila al passato, e la divinazione predice solo il già stato che, più o meno identico, si ripete, anancasticamente. Se questo inconscio viene riguardato da chi, a sua volta, è immerso nel proprio già noto, esso può essere solo confermato - magari attraverso le più sofisticate argomentazioni razionali, che, in psicoanalisi, costituiscono l'armamentario del "Gergo satanico".
Secondo la prospettiva opposta, invece il defunto (letteralmente, "che ha compiuto il tempo della vita") viene reso presente perché compia il tempo della sua morte. Compiere questo tempo implica la possibilità per il suo erede di non restare con lui con-fuso, di prendere quella distanza riflessiva, critica, estetica nella quale "per un minimo" egli possa affermare la sua originalità. Ma perché il passato compia il tempo della propria morte non è sufficiente ricordarlo, ma bisogna evocarlo, chiamarlo fuori dall'opacità dell'inconscio, ed interrogarlo. Quali, di una madre, i suoi sogni, le sue paure, i suoi amori, quale la sua pena nel tentativo di sollevarsi dalle sue "anime collettive", che cosa d'inespresso ha affidato ai figli perché questi possano trovare la via della sua espressione? Se si riesce ad ascoltare la voce della madre, così evocata, che allude al proprio inespresso che, trascendendosi nei figli, cerca la sua via per entrare nel mondo, allora succede che nel figlio si mostrino le radici della sua personale originalità. Originalità non significa l'impossibile essere fuori dalla propria storia, ma significa un modo singolare di riprendere la propria storia (le proprie origini) non per ripeterla ma per trans-formarla, significa offrirsi come quel presente che rende futuro il passato ancora ignoto e non l'inconscio già noto.
Bion stabilisce più volte una connessione tra ciò che si concepisce come pensiero nascente e ciò che viene concepito come embrione nel grembo materno. Dice Di Paola:
"Al grado massimo dello spessore metaforico s'instaura l'analogia tra gestazione/nascita del feto/infante e gestazione/nascita dell'idea: in entrambi i casi v'è un tempo maturativo e un tempo precipitato (cambiamento catastrofico); così come sussistono vestigia immemoriali, eppure attive, tra ciò che fu virtualità e ciò che sarà evento."
Come l'embrione, nel suo formarsi, induce una trasformazione nel corpo materno, fino al punto "catastrofico" del parto, così l'idea fetale minaccia di trasformare il "corpo" culturale nel quale essa si produce. In entrambi i casi i contenitori del nascente esperiscono una profonda crisi di destabilizzazione, di deformazione rispetto alla forma fin lì assunta come stabile identità. L'angoscia che si produce legittima l'uso dell'aggettivo "catastrofico" per indicare un cambiamento trasformativo, e il rigetto da parte del "corpo" contenitore è un rimedio immediato a un simile male.
Perché un embrione possa seguire il suo sviluppo in un ambiente che contiene ("sufficientemente buono", direbbe Winnicott), è necessario che il corpo cognitivo sia dotato di quella capacità negativa già enunciata da Keats e poi da Bion. E' la capacità di tollerare il cambiamento ed è fondata sullo spostamento del baricentro esistenziale verso il futuro e il divenire. La mente che non rigetta il proprio concepimento ha fede (Bion collega questa certezza irrazionale al genio e al mistico) di potersi ritrovare, cresciuta nella propria continuità, oltre il cambiamento. In questo processo psico-embrionale Bion distingue due figure: "pre-mature" ed "em-mature". Mentre connota come prematura la mente che tiene saldo il suo baricentro nel già noto, egli definisce con em-mature l'idea fetale, in quanto procede verso la maturazione (10). Ma più che vedere un rapporto tra due soggetti (come la madre e il bambino), vedo il rapporto tra due momenti dell'esperienza complessiva di un soggetto: il soggetto umano nella sua interezza è embrionico, immerso in un indefinito processo morfogenetico, e nel momento in cui egli accoglie questa sua condizione e si confronta col tremore del nuovo con sufficiente fede, egli sarà em-mature, mentre sarà pre-mature ogni qual volta arretrerà di fronte all'evento recintandosi nei suoi pre-concetti, nel gergo, nella conformità ai codici pre-costituiti.
La pratica analitica, in questa prospettiva, ha tratti isomorfi alla condizione embrionica dell'uomo, in quanto è una pratica morfogenetica che coinvolge, personalmente e reciprocamente, analista e paziente collegati da una comune evocazione dei propri "defunti" (delle proprie storie, ideologie, common sense, teorie, saperi psicoanalitici) e dal comune impegno di attraversarne le trame - una, cento, mille volte - finché l'inespresso, raggrumato nel già noto, non venga raccolto come organizzatore di nuove forme di esistenza. L'analista avrà conferma del fatto di essere autenticamente in formazione se riuscirà a tollerare la provvisorietà dei modelli teorici, incessantemente rivisitati in quanto sempre approssimativi, implicitamente contraddittori, storicamente contingenti: è questa l'unica materia che gli si offre, alla luce della sua esperienza relazionale col paziente, come materia plastica, in divenire, in attesa di nuove riorganizzazioni. Se egli saprà comunicare questa sua tensione al paziente, allora questi potrà sentirla in se stesso come invito a percorrere le sue strade con medesimo coraggio, così come, secondo Harris Williams (v. la citazione su riportata), Bion svolgeva una funzione psicagogica nei nostri confronti in quanto suoi lettori. Testimoniando la nostra capacità di non restare ingabbiati nella nostra "pre-maturità", facilitiamo l'emergenza e la valorizzazione dell'"em-maturità" del paziente e, in definitiva, della struttura relazionale della nostra interlocuzione.
Questo pattern specificamente psicoanalitico potrebbe allora sottrarci dalla condizione di essere uno dei tanti ingredienti del minestrone psicologico, a cui, con felice ironia, faceva riferimento Hillman (v. citazione). La nostra metafora della psicagogia dovrebbe essere intesa non in modo transitivo sul calco di "pedagogia", ma in modo riflessivo-comunicazionale. L'analista è chiamato ad evocare il proprio passato o la propria disciplina archiviata in biblioteca, non per conoscerne archeologicamente i segreti (anche se potranno esserci pure improvvise rammemorazioni o chiarificazioni), non per ottenerne la grazia di rinnovate certezze in cambio di rinnovate fedeltà, ma perché nel far compiere al passato, in momenti successivi, il tempo delle sue piccole morti lo trasformi in una propria germinante originalità. In questa prospettiva l'"auto-analisi" va vista come una pratica formativo-trasformativa che accade nello spazio tra più soggetti, personali e istituzionali, e sostanzialmente centrata sullo sforzo di distinguere tra le voci forti della coscienza morale e la flebile voce della propria coscienza creativa. Questa tensione evocativa dell'analista viene trasmessa al paziente (e non la sua storia personale o dottrinaria: anche se l'analista ne accenna, non è questo il punto), e nella comunicazione fluttuano "idee fetali" di cui l'analista sa poco o niente e che possono trovare nella mente del paziente l'ambiente più idoneo per la loro maturazione. Non c'è analista, non troppo rigidamente "pre-maturo", che non abbia mai visto espresse, nelle parole o nelle scelte del paziente, fugaci intuizioni avute magari molto tempo prima e poi dimenticate. Il paziente è invitato a mantenere desta questa tensione evocativa, con la sua doppia declinazione riflessiva e comunicazionale, e dalla circolarità degli interrogativi che agganciano l'uno all'altro i due interlocutori si producono trasformazioni, arretramenti, improvvise cecità, e nuove espressioni.
Quando ho ricordato il concetto hillmaniano di pattern (o patron o padre), non mi riferivo ad una specifica teoria psicoanalitica. Il modello pragmatico, psicagogico, è un modello relazionale, storicistico, ermeneutico, è una procedura che si applica a qualsiasi struttura culturale istituita nella formazione già compiuta dell'identità individuale dell'analista. Quanto più netta, articolata, complessa è la teoria appresa dall'analista nella sua formazione didattica, tanta maggiore materia sarà disponibile per la sua neotenica capacità riorganizzativa. Non solo quindi è necessario un apprendimento approfondito di un sistema di teorie, ma perché questo possa essere evocato come un "caro estinto", esso deve essere riguardato con amore. Probabilmente se io non avessi amato, e non amassi ancora, Freud nel suo dramma umano e scientifico, non avrei potuto "evocarlo" con tanta continuità e passione. In assenza di amore, i nostri Autori rimarranno presenti nella nostra ubbidienza e nelle nostre patenti professionali, e noi stessi saremo tentati di conservarli come giudici severi a cui affidare la certezza del nostro cammino. Ma, per dirla con Bion, il "Gergo satanico" avvolgerà ogni nostro pensiero, stritolando sul nascere ogni possibile idea nascente. È solo nella fede del nostro divenire, attraverso le mille rinascite e morti del nostro passato, che vale la pena di vivere e di dedicarci a questo nostro "impossibile" mestiere.
NOTE
(1) Ibrido (generato da individui di specie diversa) deriva dal greco ubrizein che significa eccedere, superare i confini, ed anche stuprare.
(2) F. Nietzsche (1884) sostiene che "l'intero apparato cognitivo è un apparato di astrazione e semplificazione - non diretto alla conoscenza delle cose, bensì al dominio delle cose."
(3) Seguendo questa prospettiva freudiana non ha senso di parlare di una regressione a stadi infantili, ma di una riattivazione della figura del figlio a parità di quel che capita nelle riattivazioni di figure genitoriali. La differenza consiste nel fatto che quando sono quest'ultime a riattivarsi esse possono essere intese come espressioni di adultità.
(4) Lo sconvolgimento si produceva su due fronti: quello della sua relazione col paziente e quello della sua relazione con le proprie istituzioni interne/esterne, oltraggiate da quando andava scoprendo nelle storie famigliari dei suoi pazienti.
(5) Subito dopo la morte del padre, Freud ebbe modo di riflettere su alcune manifestazioni nevrotiche presentate da un fratello e da alcune sorelle, ed ebbe qui il sospetto che essi fossero stati in qualche modo coinvolti in esperienze sessuali col padre (E. Jones, 1962); un suo stesso sogno vagamente incestuoso con sua figlia Mathilde sembrava ormai confermargli che l'atteggiamento seduttivo fosse effettivamente molto frequente nel comportamento dei genitori. Lo sviluppo di tali prospezioni avrebbe dato un senso capovolto al mito di Edipo, rimettendo la figura di Laio al centro della tragedia.
(6) In Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci (Freud, 1910) egli sembra, nel contesto di un discorso tutto metapsicologico, ad un certo punto ricollocarsi nella tensione dello 'scandalo' e aggiunge "Questa accentuazione dell'importanza delle esperienze più remote non implica una svalutazione dell`influsso di quelle più tarde; ma mentre le impressioni di vita più tarde parlano nell`analisi con voce abbastanza alta per bocca del paziente, a favore dei diritti dell'infanzia deve essere il medico analista ad alzare la voce".
(7) Mi sono altrove occupato a fondo di questo problema (D. Napolitani, 1988, 1995) riprendendo la letteratura sull'argomento, con particolare riguardo a J. von Uexkull e L. Kriszat, 1967, A. Gehlen, 1983, E. Morin, 1984, 1987, 1989, e Maturana e Varela, 1985, 1987.
(8) La logica psicoanalitica segue un modello fisiologico causalistico che si inscrive in una rappresentazione cosmogonica, secondo un processo paradigmatico ereditato dalla cultura greca. Della cosmogonia Vernant e Vidal-Naquet (1972) dicono: "Invece di raccontare le nascite successive, la cosmologia definisce i princìpi primi, costitutivi dell'essere; da racconto storico si trasforma in un sistema che espone la struttura profonda del reale. Il problema della genesis, del divenire, si muta in una ricerca che mira a cogliere, al di là del mutevole, lo stabile, il permanente, l'identico."
(9) Valga per tutti il libro di Spence (1982) Verità storica e verità narrativa.
(10) Il prefisso "em-" non va confuso con l'"im-" di immaturo, che è una negazione, essendo un neologismo coniato da Bion per indicare uno "star per essere".
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