Questo testo - originalmente in francese - è stato inviato come contributo agli Stati Generali della Psicoanalisi, che si terranno all'Amfiteatro della Sorbona a Parigi l'8-11 luglio 2000. Esso costituirà una delle relazioni della sezione "Relazioni della Psicoanalisi con la Legge, le Neuroscienze, la Biologia e la Genetica".
In Italia, in questi ultimi anni la questione della plausibilità - scientifica, ma non solo - della teoria e pratica analitica sta ossessionando gli analisti.
Per quasi tutto il XXo secolo la psicoanalisi ha goduto di grande fortuna in Occidente anche perché molte persone di scienza - ad esempio Einstein, Russell o Carnap - hanno dato fiducia a Freud e agli psicoanalisti. A costoro è stato supposto un sapere sulla base della persuasività del loro stile di scrittura: "se gente così scrive in modo così serio, possiamo crederci; non c'è bisogno che andiamo in analisi per verificare di persona". E' solo negli ultimi decenni che, sulla scia della prescrizione post-moderna - che impone una trasparenza assoluta di ogni cosa - filosofi e scienziati hanno deciso di vedere le carte coperte, come a poker, degli psicoanalisti. La post-moderna pornografia epistemologica chiede agli analisti di dare mostrazioni pubbliche delle loro conclusioni, che affermavano di aver tratto dal loro ministerium in studio - il quale, essendo privatissimo, è di fatto un mysterium. In effetti gli analisti finora hanno portato delle testimonianze spesso impressionanti, non delle prove del loro misterium - ma la credibilità di una testimonianza dipende tutta dalla credibilità del testimone. Per gli analisti più anziani è stato uno shock, perché non erano abituati a questa mancanza di rispetto per il loro ministero. E' stato duro, per analisti coperti di glorie accademiche, dover passare finalmente per le forche della diffidenza pubblica e dover rendere conto del loro sapere. Perciò molti di loro sono stati tentati di rifugiarsi dietro lo schermo ermeneutico, senza capire che i tempi erano cambiati. Altri hanno elaborato altre soluzioni al problema di rendere conto della plausibilità sia della teoria che della pratica analitiche.
In questo saggio esaminerò le quattro soluzioni che di solito gli analisti (soprattutto in Italia) propongono:
(a) la tesi secondo cui la psicoanalisi si basa sul soggetto cartesiano come soggetto della certezza - è la soluzione cartesiana (cara soprattutto ai lacaniani),
(b) la tesi secondo cui la psicoanalisi non è una scienza positiva ma un metodo di ricostruzione storica - è la soluzione storico-narrativista,
(c) la tesi secondo cui la psicoanalisi è una scienza empiricamente verificabile e verificata - è la soluzione scientista (che accetta la sfida di Popper e Grünbaum),
(d) la tesi secondo cui l'analisi è un'attività ermeneutica, nel senso di Gadamer - la soluzione ermeneutica.
Cercherò di mostrare come queste "soluzioni" siano insufficienti. Mostrerò che possiamo trovare comunque ancora una persuasività alla psicoanalisi nella misura in cui le riconosciamo il potere di "mordere" in qualche modo su un reale. La psicoanalisi di fatto ha tratti delle quattro "soluzioni" qui sopra, ma ha una specificità etica che la distingue sia dalla terapia medica su base scientifica che dall'interpretazione ermeneutica: essa rende possibile una storia soggettiva aprendo il soggetto all'altro nel reale.
Contatto senza rasoio
Un film di fantascienza del 1997, Contact di Robert Zemeckis, è passato del tutto inosservato tra gli intellettuali nostrani. La protagonista di Contact è una astronoma (Jodie Foster), dal volto serio e duro, che crede solo in ciò che è pubblicamente verificabile attraverso i protocolli scientifici, e quindi respinge il divino e le verità intime come vaniloquio. Lei evoca spesso il rasoio di Occam: entia non multiplicanda praeter necessitatem, "le entità non vanno moltiplicate senza necessità", ovvero, tra le spiegazioni possibili di un fenomeno, occorre preferire sempre quella più semplice e più economica, che richiede il minor numero di ipotesi e concetti. Un collega della bella atea invece è credente, e le ricorda un suo punto debole: Jodie Foster amava teneramente suo padre, da tempo scomparso. Lui le dice: "Dici di amare tuo padre. Provalo pubblicamente!".
La Foster scopre la presenza nello spazio di un'istanza intelligente, e organizza un suo viaggio astronautico per andare incontro a questa mente. Ma il lancio, visto dall'esterno, risulta un fallimento completo: il missile non si stacca nemmeno da terra e la Foster cade in deliquio durante l'esperimento. Ma non è così per l'eroina, che durante quel "lancio" entra in uno stato a metà strada tra lo stupore, il sogno e l'allucinazione. In questo stato incontra, su una spiaggia bagnata da un'aura metafisica, un essere tale e quale al suo adorato padre: questi le dice che la mente "altra" ha scelto di rendersi a lei percepibile e tollerabile, per ora, in quella forma. Le dice che si tratta del primo contatto con menti umane, e che altri contatti probabilmente seguiranno. E svanisce. La scienziata è convinta che si tratti di un vero incontro e non di un sogno, ma non dispone di alcuna prova per convincere la comunità scientifica, che resta del tutto incredula. Il film si conclude mostrandoci che la Foster dedicherà la vita a cercare prove che il suo incontro con l'Altro era reale. Non accetta che il rasoio di Occam le tagli la gola.
E' evidente che lo sceneggiatore del film è al corrente del dibattito che dagli anni 50 in poi la filosofia analitica anglo-americana dedica a quello che ha convenuto di chiamare Argomento del Linguaggio Privato (ALP), a partire dalle Philosophische Untersuchungen di Wittgenstein. Detto rapidamente: posso esprimere (linguisticamente o in altri modi) il mio mondo interno ma non posso conoscerlo. Un enunciato come "sento amore per mio padre" pare avere la stessa grammatica dell'enunciato "ho un brufolo sulla mia guancia destra" ma Wittgenstein mostra attraverso uno straordinario tour de force argomentativo (un geniale sofisma, secondo Kripke) (1) che si tratta di mera apparenza. L'espressione "sento amore per mio padre" sembra essere una descrizione di enti interiori, di fatto ad un'analisi sottile si rivela essere un modo di esprimere l'amore per papà. L'insight psicologico - che ci fa cogliere certi aspetti dell'anima altrui - non ha nulla a che vedere con una qualsivoglia forma di descrizione o spiegazione scientifica. Non è possibile insomma una psicologia scientifica del mondo interno, ma solo del comportamento esterno cioè pubblico: si dà scienza solo di oggetti abbastanza stabili che ognuno di noi può constatare de visu. Ciò ha portato acqua al mulino del behaviorismo.
Questa profonda diffidenza sul mondo interno spiega, a mio parere, perché i filosofi si siano occupati solo di Freud, Jung e Lacan (2), tra gli psicoanalisti, ma mai della Klein, dei kleiniani e di Bion (3). E' un altro segno della crisi culturale della psicoanalisi: proprio gli autori che oggi egemonizzano il pensiero degli analisti dell'Internazionale psicoanalitica - Klein, Winnicott, Bion - non hanno mai attirato l'interesse dei teorici non-analisti (4). Per quanto riguarda i filosofi analitici, questo in parte è spiegabile col fatto che la tradizione kleiniana si basa su una pretesa descrizione dei processi interni e dei loro rapporti con il mondo esterno - il che cozza sùbito con l'ALP. La psico-analisi inglese e la filosofia analitica (malgrado la significativa omonimia) sono andate in direzioni del tutto divergenti. Quanto ai filosofi euro-continentali, hanno recuperato Freud e Lacan attraverso Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica, ma si disinteressano ad un approccio kleiniano che a loro appare un ingenuo oggettivismo psicologico.
L'analista e i suoi analizzandi si trovano in una posizione del tutto simile a quella di Jodie Foster dopo la sua avventura - ambedue sono sicuri di aver toccato nella loro relazione qualcosa di vero, un reale del cuore, ma non sanno come dimostrarlo pubblicamente a chi non è parte di questa relazione di cuori. In effetti, malgrado tutte le argomentate sfide di Popper, Eysenck, Grünbaum e Bouveresse (5) sull'attendibilità scientifica della psicoanalisi, l'analista si trincera dietro l'ineffabilità di quella che con sussiego chiama "la mia esperienza clinica". Quando intervistai Castoriadis e parlammo di Grünbaum, mi disse chiaramente: "contro di lui invoco un argomento di autorità: io ho una pratica ed esperienza quotidiana che lui non ha! Se mi si crede, bene; e se non mi si crede, non mi si creda." (6) E' l'"argomento" fideistico per eccellenza: accederai al mio sapere solo se diventerai come me. Come quando Pascal diceva a chi chiedeva prove per aver fede: "vieni in chiesa e prega, e crederai!" Il rito fonda la fede, non viceversa (7). Ma, a parte Castoriadis, la pratica privata mostra all'analista qualcosa secondo lui di inoppugnabile: che certe interpretazioni o costruzioni provocano in quasi ogni soggetto un forte sentimento di evidenza. Questo sentimento si rivela di solito con uno scatto di riso ("ma sì, si tratta proprio di questo!") o con un certo imbarazzo, come l'esser stati scoperti con le mani nel sacco. Tutto il complesso e grandioso sapere psicoanalitico si regge di fatto su questo saltuario affetto di verità: alcune ricostruzioni e/o interpretazioni in analisi esercitano una sorprendente e fulminante forza persuasiva. Invece il legame tra questi affetti di verità e l'eventuale remissione dei sintomi (che Grünbaum invoca come cruciale) appare incerto, indiretto, discutibile - solo talvolta si constata una concomitanza diretta tra questo affetto di verità e un miglioramento clinico. Più interessante è l'appello alla forza persuasiva delle interpretazioni o costruzioni analitiche. Del resto, in Costruzioni in analisi Freud parla molto poco degli effetti terapeutici dell'analisi come criterio di verità delle costruzioni; paragona l'analisi piuttosto ad un'attività "inutile", quasi puramente ludica, come la ricostruzione archeologica (8).
A chi obietta che potrebbe trattarsi di suggestione, l'analista fa notare che questo effetto/affetto può prodursi con chiunque, anche con una persona molto scettica nei confronti dell'analisi, e niente affatto disposta a compiacere l'analista. Anzi, spesso si stabilisce un transfert - e quindi tutti i possibili usi e abusi suggestivi di esso - spesso proprio grazie al fatto che un analista è riuscito a produrre nel soggetto alcuni "affetti di verità". Un soggetto ha la sensazione che d'improvviso un velo gli si squarci di fronte - come quando la Foster incontra il padre-extraterrestre - e solo grazie a quest'evidenza così forte è disposto a dar poi credito all'analista anche su ricostruzioni molto più opinabili. Certamente l'analista è un seduttore, ma usando come esca il fascino della verità.
La soluzione cartesiana: il bisogno di certezza
La sensazione privata di aver toccato una verità (che prima facie si presenta come verità soggettiva, ma vedremo poi che non è detto) non può essere assunta dal discorso scientifico in alcun modo come una evidence su cui costruire teorie falsificabili, appunto perché si tratta di evidenze private. Ma allora alcuni (di solito lacaniani) (9) evocano il cogito cartesiano come soggetto della certezza, a cui farebbe appello lo psicoanalista. Descartes con il cogito ergo sum trovò finalmente un punto inoppugnabile in cui pensiero ed essere si implicano: qualsiasi mio pensiero può essere privo di riferimento reale, tranne quando dico "penso di pensare", perché allora ipso facto mi riconosco con certezza come essere pensante (gli psicoanalisti francesi sono inclini ad assumere una variante: "je désire donc je suis" - il fatto stesso di desiderare certifica che sono un essere desiderante; anche se desidero di non desiderare affatto, come gli stoici, pur sempre desidero; l'essere umano sarebbe una coincidenza di essere e desiderio). Ora, sulla base di questa coincidenza tra pensiero ed essere Descartes pensava di costruire, pezzo per pezzo, tutto l'edificio del sapere teologico, psicologico e fisico: l'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima, la fisica dei vortici, ecc. Ogni idealismo successivo si appella a Cartesio: è convinto che la coincidenza iniziale tra essere e pensiero nel cogito autorizzi poi una ricostruzione speculativa che implichi sempre questa coincidenza - la storia dei nostri pensieri coincide ipso facto con il dispiegarsi della storia degli eventi. Nel nostro secolo a questo - per fortuna - ci si crede sempre meno. La scienza oggi si costruisce facendo a meno dei presupposti cartesiani: essa non parte da ciò che è certo, ma solo dai gradi di probabilità di qualcosa di pubblicamente constatabile (la constatazione non ha nulla a che vedere con il certo: è solo un gioco pubblico, una specie di kermesse). Le sole certezze sono forse quelle matematiche, che però non dicono nulla del mondo contingente nel quale viviamo (10). E l'ALP è un argomento squisitamente anti-cartesiano: la certezza che ci viene dalla percezione di noi stessi come soggetti pensanti e/o desideranti non fonda alcun sapere oggettivo, nemmeno sui suddetti soggetti.
Eppure gli analisti che fanno appello a Cartesio conoscono i paranoici, dei soggetti assolutamente certi delle loro interpretazioni. Il paranoico è così convinto che il suo persecutore lo diffami, per esempio, attraverso la stampa, che si stupisce che noi non percepiamo questa evidenza (da qui il suo sospetto che noi a nostra volta siamo complici del persecutore). La certezza spande un odore paranoico - solo il paranoico è davvero certo, noi "normali" siamo sempre incerti. All'inverso, quando ci mostriamo troppo certi delle nostre ragioni (altrimenti detto: fanatici, dogmatici), sorge sempre un sospetto di paranoia. Freud ha paragonato spesso la costruzione psicoanalitica ad una costruzione delirante - questa sensazione gli derivava probabilmente dal suo esserne troppo certo.
Pur senza essere mai stato un credente, nella mia vita ho conosciuto e stimato alcuni credenti. Ad un certo punto, ti confidano la loro commiserazione nei confronti dei non-credenti. Perché li vedono infelici, ma anche assolutamente ciechi. "Possibile che non percepite il divino attorno a voi e dentro di voi?" Poco ci manca che parlino di resistenze in senso psicoanalitico per spiegare la stupefacente cecità degli illuministi. Agli amici mistici faccio osservare che i miscredenti dal canto loro nutrono nei loro confronti un atteggiamento di sufficienza del tutto analogo: tra loro ridono di chi crede nel trascendente, come al limite un allucinato. Questo senso di superiorità speculare assomiglia ad un conflitto etnico: si è certi che il popolo inferiore è sempre l'altro. Il dibattito tra pro-freudiani e anti-freudiani oggi ricorda un po' i conflitti etnici e religiosi.
Quindi, l'appello al sentimento di certezza non dirime affatto questa incomunicabilità: il fatto che ognuno faccia appello al proprio senso interiore di certezza non fonda di fatto alcun consenso. Quindi la certezza cartesiana è un sapere vuoto, di fatto tautologico - je pense, donc je suis pensant. Wittgenstein pensava che le sole certezze fossero tautologiche - "a = a" è cosa certa - dunque che non dicessero nulla dell'essere (11). Ma è pur vero che la pratica e la teoria psicoanalitiche possono fare appello solo al sentimento di certezza che si è toccata una verità del cuore. Il punto non è concludere "chi ha fede in Dio o nelle interpretazioni psicoanalitiche si illude", ma piuttosto chiedere "come chi ha fede in Dio o nelle interpretazioni psicoanalitiche può riuscire a convincere chi non vi crede? E basta testimoniarlo?". La scienza crea un consenso tendenzialmente universale proprio perché non si appella alle certezze interiori - e per questo essa appare a tanti come, in fin dei conti, superficiale e irrilevante. "Che me ne importa che la luce sia composta di onde o di fotoni, rispetto all'evidenza del mio dolore?" Persino per Wittgenstein, nel Tractatus, il discorso scientifico - l'unico significante per lui - era ben poco significativo; quello che contava per lui era la differenza tra il mondo di chi si sente felice e quello di chi si sente infelice (12).
L'analisi più che alla conoscenza scientifica è allora paragonabile alla conoscenza intuitiva, quasi percettiva (da qui il ricorso di Freud - cosa che oggi appare ingenua - alle scene, a traumi visivi come l'Urszene). Quando talvolta ci percepiamo in una fotografia o in un film, d'un tratto "ci vediamo" - dato che gli specchi in cui ci ri-conosciamo di fatto, parafrasando Cioran, riflettono fin troppo prima di rifletterci. Talvolta ci vediamo (con raccapriccio) come ci vedono gli altri - non si tratta di scienza ma nemmeno di paranoia. Altre volte "vediamo" d'un tratto un teorema matematico o un'inferenza logica molto complessa che prima ci sfuggiva: la captazione (Begriff come "afferramento") intellettuale di un'argomentazione è un'evidenza interiore, non una semplice derivazione automatica. Ad altri questa mia captazione può risultare inaccessibile (quante persone sono in grado di percepire il teorema di Gödel?). Altro esempio: spesso siamo convinti di aver scritto una cosa magnifica, ma il confronto con lettori che stimiamo ci mostra che non la pensano così. Talvolta càpita che l'altro riesca a mostrarci - grazie ad un colpo di grazia argomentativa - che abbiamo scritto male (nel contenuto o nella forma o in ambedue). Allora ci rileggiamo e... vediamo. Ci diciamo "ma come potevo pensare, fino ad ora, di aver scritto una cosa valida?"
Insomma, sono cruciali i momenti della nostra vita in cui abbiamo l'impressione che una cataratta di fronte ai nostri occhi, intellettuali cada e finalmente guardiamo nel modo giusto. Ma in che cosa consiste questo "modo giusto"? Nel fatto che guardiamo noi stessi non tanto come "oggetti" di scienza, ma come altro da ciò che pensavamo di noi. Ci vediamo come un altro vede cose di noi a cui noi siamo ciechi perché è situato nel posto giusto. Credo che la psicoanalisi si giochi quasi tutta la sua credibilità su questa esperienza, che non è di certezza (perché non fonda nulla) né di dimostrazione scientifica: un'esperienza che Wittgenstein chiamerebbe vedere in modo perspicuo (13). La psicoanalisi talvolta offre un punto di vista più felice su cose che prima si vedevano da un'angolazione diversa e infelice. La forza della psicoanalisi risiede in questa "rappresentazione perspicua" (übersitliche Darstellung) difficile da definire.
La soluzione storicista: indifferenza per l'evento
Altri negano che la metapsicologia - vale a dire il costruire teorie esplicative, l'enunciare leggi universali, come in fisica - conti nella psicoanalisi, essendo questa piuttosto una scienza storica. La teoria esplicativa psicoanalitica sarebbe al massimo una finzione, per non smarrirsi nella pratica. Mettono un forte accento sul saggio freudiano Costruzioni in analisi, dove l'analisi appare chiaramente come una ricostruzione storica archeologica. In effetti tra gli epistemologi è diffusa l'idea che esistano due saperi oggettivi distinti: da una parte un sapere che mira alla formulazione di leggi naturali, dall'altra quello che mira ad una narrazione veridica di eventi (14). Un altro corrispettivo storico (spesso usato dagli artisti quando mettono in scena psicoanalisti) è l'inchiesta giudiziaria: occorre ricostruire un delitto in modo da raccontarne la storia più verosimile possibile.
Eppure l'analogia tra la psicoanalisi e le scienze storiche è parziale, e fonte di continui malintesi. Si prenda l'ipotesi storica di Freud secondo la quale la nevrosi dell'Uomo dei Lupi deriverebbe dall'aver assistito, da piccolo, ad un coito dei genitori nel quale la madre veniva presa da dietro - ipotesi nella quale oggi anche il freudiano più ferreo non crede assolutamente più. Come si comporterebbe un vero storico di fronte ad un'ipotesi del genere? Andrebbe alla ricerca di documenti che possano aumentare la sua verosimiglianza, e che potrebbero diminuirla (15): intervisterebbe i sopravvissuti di quell'epoca, studierebbe la disposizione della casa per vedere se un "incidente" del genere era possibile, ecc. La certezza interiore dell'Uomo dei Lupi di aver assistito ad una scena di coito (16) non può affatto bastare al vero storico. Al contrario, per l'analista è al limite irrilevante che la scena sia davvero occorsa oppure sia stata solo fantasticata. Se poi fa ricorso alla tesi lacaniana dell'après coup, diventa addirittura irrilevante persino il fatto che questa fantasia sia germogliata davvero nell'infanzia oppure proiettata retroattivamente dall'adulto fantasticante. La teoria romantica dell'après coup offre allora all'analista una sovrana (dispotica?) libertà interpretativa. "Non ci sono fatti, ci sono solo le mie interpretazioni".
Questa olimpica indifferenza degli analisti per la verità storica intesa come verità fattuale - che shocka ogni vero storico - si è drammaticamente riprodotta nel caso del dibattito a seguito del libro di Masson. Gli analisti hanno reagito alle tesi di Masson esibendo una sovrana indifferenza nei confronti della verità oggettiva: "dopo tutto, non ce ne importa nulla che si sia trattato di seduzioni reali o immaginarie! Il problema sollevato da Masson è per noi irrilevante." Gli analisti più sofisticati dicono che l'analisi è una ricostruzione non di eventi reali ma di interpretazioni soggettive - la psicoanalisi tenta insomma una storiografia del soggetto interpretante, non costruisce biografie oggettive. Sono analisti "crociani": per loro la storia si risolve in storiografia. L'analista sarebbe insomma uno storico assolutamente sui generis: non ricostruisce eventi nel tempo interpretandoli, ma ricostruisce interpretazioni soggettive attraverso l'evocazione di eventi che suppone immaginari.
La soluzione oggettivista: l'illusione del rovescio
Le confutazioni oggettiviste più note alla psicoanalisi sono quelle di Popper e Grünbaum. Per il primo la psicoanalisi non è una scienza perché non è confutabile; per il secondo essa invece ha la struttura esplicativa di una scienza, ma non è provata. Per Popper la psicoanalisi è una falsa scienza, per Grünbaum è una scienza falsa. Alcuni analisti hanno accettato la sfida di Grünbaum (non quella di Popper, in quanto partono dal presupposto che Grübaum su questo punto abbia confutato definitivamente Popper) e hanno cercato o cercano di mostrare che in qualche modo le teorie psicoanalitiche sono fondamentalmente verificate. Siccome per Grünbaum la sola possibilità di provare la psicoanalisi è il suo impatto terapeutico - le ipotesi freudiane sarebbero provate solo se si riuscisse a mostrare che esse sono capaci di curare i sintomi psiconevrotici - essi cercano di mostrare che gli effetti terapeutici dell'analisi non sono dovuti a suggestione ma al valore di verità delle interpretazioni-spiegazioni analitiche. In altre parole, la psicoanalisi sarebbe una scienza oggettiva come le altre che avrebbe questa sola stranissima particolarità: che enunciare la verità di per sé costituisce un atto efficace (17). Sarebbe l'unica scienza al mondo che coinciderebbe con la propria applicazione tecnologica.
I tentativi - alquanto radi - di dimostrare la verità oggettiva delle ipotesi analitiche in accordo con i protocolli scientifici standard sono apparsi poco persuasivi, in quanto danno per scontato che unicamente le spiegazioni freudiane sono capaci di indurre una remissione durevole dei sintomi - automaticamente, gli effetti terapeutici provocati da psicoterapie fondate su altri presupposti teorici vengono sbattuti nel calderone concettuale che viene chiamato suggestione. Ma questa pretesa resta pura petizione di principio: un freudiano dovrebbe non solo dimostrare che le sue interpretazioni sicuramente sono state l'agente della cura, ma anche e soprattutto che tutti gli effetti curativi di altre psicoterapie non sono dovuti ad interpretazioni vere ma a fattori suggestivi. Se la psicoanalisi seguisse davvero le metodologie scientifiche, allora i freudiani dovrebbero tentare analisi junghiane, gli junghiani terapie sistemico-relazionali, i sistemico-relazionali analisi freudiane, ecc. Di solito un freudiano, siccome non nega che pazienti curati con sistemi diversi migliorano, dice: "certo, quando due persone si incontrano, per mesi ed anni, ed uno dei due ascolta l'altra, qualcosa succede". E' troppo poco. Bisognerebbe mostrare che questo "qualcosa che succede" sia di ordine del tutto diverso da quel che succede in un'analisi freudiana autentica. Il che certamente è molto difficile da fare: ognuno può rendere conto al massimo della sua pratica, non di quella degli altri. Quanto alle trascrizioni pubblicate (per lo più incomplete) di analisi svolte, plana sempre il sospetto che siano in qualche modo manipolate in modo tendenzioso. Quindi, non mi pare che finora nessun fan della psicoanalisi abbia risposto in modo convincente a Grünbaum, quando ha accettato il terreno di scontro proposto da quest'ultimo.
C'è però un'opzione oggettivista diffusa tra gli analisti molto più sottile, che non si misura con l'epistemologia razionalista e positivista. Questo filone punta a demarcarsi piuttosto da ogni reinterpretazione ermeneutica dell'analisi. Essa non mira cioè a dimostrare direttamente la verità oggettiva delle teorie analitiche, ma si contrappone all'interpretazione ermeneutica delle interpretazioni analitiche.
Il pensiero post-heideggeriano ha fatto notare che, a meno di non ricorrere alla forza bruta o all'ipnosi, ogni atto umano (compreso l'atto analitico) può risultare efficace solo in un tessuto di credenze, istituzioni, leggi, costumi - insomma, attraverso una trama di interpretazioni. In altre parole: è impossibile non interpretare - l'uomo è un animale interpretante. Anche se l'analista non interpretasse mai esplicitamente, certo il paziente interpreterebbe: come ormai gli analisti meno ingenui ammettono, i pazienti leggono nella mente dell'analista e si comportano di conseguenza. In ultima analisi, non c'è nulla di oggettivo (18).
Ora, Jacques-Alain Miller, che si pone come l'erede di Lacan, scrive: "l'era dell'interpretazione è alle nostre spalle" (19); e cioè, "l'interpretazione non sarà mai più ciò che è stata. L'era dell'interpretazione, in cui Freud scombussolava il discorso universale tramite l'interpretazione, è chiusa" (20). Cosa fare allora? Ovviamente Miller propone l'analisi lacaniana. Perché Miller interpreta l'interpretazione secondo Lacan nel senso che "l'interpretazione non è altro che l'inconscio stesso"; il paradosso lacaniano sarebbe che "il desiderio inconscio è la sua interpretazione"; "l'interpretazione è innanzitutto quella dell'inconscio nel senso del genitivo soggettivo: è l'inconscio che interpreta" (21). Non si tratta solo delle idee di Miller: andare verso la fine dell'interpretazione tenta molti analisti di oggi, e non solo lacaniani (22).
Anche se Miller non lo ammetterebbe, questa conclusione è in linea con un approccio ermeneutico all'interpretazione psicoanalitica. Se assimiliamo l'inconscio a una trama testuale (come Lacan in fondo fa quando dice che l'inconscio è strutturato come un linguaggio), è un pilastro dell'approccio ermeneutico interpretare ogni trama testuale come essa stessa attività interpretante. Se non si interpretasse, si ricadrebbe nell'oggettivismo, per il quale il testo è un linguaggio-oggetto che richiede un metalinguaggio che lo interpreti adeguatamente.
In effetti, nota ermeneuticamente Miller, se interpretare è decifrare, è pur vero che "decifrare è cifrare un'altra volta". L'analista tradizionale, che dice al paziente che ha lasciato l'ombrello "lei voleva lasciarmi il suo pene", crede di decifrare, ma appunto cifra proprio come l'inconscio, crea anch'egli un mito ermeneutico. La gente di buon senso spesso dice "gli psicoanalisti delirano", e Miller pare essere d'accordo con loro: "è la via di ogni interpretazione: l'interpretazione con struttura di delirio" (23). Evidentemente Miller recepisce l'obiezione classica dei filosofi alla psicoanalisi, che suona: "Freud pretende di dare l'interpretazione vera dei miti e dei sogni, ma di fatto ha creato nuovi miti e nuovi sogni". Allora, se l'analista non può interpretare più nel modo solito, che cosa potrà mai fare con le interpretazioni inconsce del paziente? Star zitto? Ma questo silenzio eccessivo dice che egli non ha più nulla da dire ai soggetti, e in generale alla nostra epoca. Come uscire dalla morsa - o circolo ermeneutico - per cui l'analista decifrando l'inconscio lo ricifra, crea cioè altre fantasie e altri sintomi, in un rilancio interminabile?
A questo punto, Miller pare un po' aggrapparsi sui vetri quando fa intravvedere la possibilità di un'"interpretazione" che non sia delirante, che non alimenti il mito interpretandolo: sarebbe il rovescio dell'interpretazione. Questa, "se di decifrazione si tratta, è una decifrazione che non dà senso" (14). Ha l'aria di un mutante, come in certi film di fantascienza: ha ancora tracce della buona vecchia interpretazione in cui credono gli analisti non scafati, ma per altri versi ne è addirittura l'inverso (24).
La soluzione oggettivista: l'illusione decostruttiva
Un altro analista francese di indirizzo ortodosso, Jean Laplanche, finisce col dire cose alquanto analoghe a quelle di Miller. Certo il vocabolario di Laplanche è diverso, ma il nocciolo è lo stesso. Anche per Laplanche l'ermeneuta non è l'analista, ma l'io (moi) dell'essere umano: questi, nell'infanzia, si trova confrontato ai messaggi enigmatici degli adulti, ed è costretto a tradurli (25). I messaggi degli adulti sono traumi per il bambino, che per padroneggiarli è costretto a interpretarli, cioè a "tradurli". L'essere umano è insomma agitato da una "pulsione a tradurre", dal Trieb zur Übersetzung dei romantici - equivalente dell'affermazione lacanizzante "il desiderio è interpretazione". Ma ogni traduzione resta sempre inadeguata, incompleta, per cui viene a costituire un Es, vale a dire il coacervo dell'insensato, di ciò che è restato ribelle alla traduzione, e che minaccia il legame coesivo del moi.
Ora, ci si potrebbe aspettare a questo punto che l'analisi punti a tradurre il non-tradotto, lo slegato in cui consisterebbe l'Es. Ma non è così: Laplanche afferma invece che la psicoanalisi è antiermeneutica - l'ermeneuta, chi dà senso (anche se un senso sempre inadeguato) è piuttosto l'individuo. L'analista non traduce ma de-traduce (direi: non costruisce senso, ma lo decostruisce). Qui l'influsso del derridismo è patente. Ma allora, in che cosa consiste il processo terapeutico? Laplanche è costretto ad ammettere che nell'analisi i processi sono due: da una parte la funzione detraducente e quindi "slegante" dell'analista, attraverso la tecnica che chiama di "libera dissociazione", dall'altra il processo ritraducente e "legante" dell'Io (moi).
Questo lavoro di detraduzione progressivo, o per strati successivi, si accompagna costantemente al movimento inverso. Perché l'Io stesso, come ha detto Freud, è mosso da una coazione alla sintesi, proprio a causa del pericolo di slegamento riattualizzato dall'analisi. La forza di sintesi costituisce la tendenza riparatrice propria al movimento specificamente psicoterapico (19).
Quindi, sia per Miller che per Laplanche è essenziale rigettare l'idea che l'analisi sia un processo ermeneutico in quanto darebbe o troverebbe un senso all'insensato. Molto spesso, in discussioni pubbliche, quando chiedo ad analisti anche di rilievo in che cosa consista la forza mutativa dell'analisi, mi rispondono: "l'analisi serve al soggetto per trovare un senso alla sua sofferenza". Ma non è stato questo il compito, da sempre, delle religioni e delle ideologie politiche e filosofiche? Possibile che l'analisi non sia che l'eredità modernista di questa classica funzione consolatoria? Invece Miller e Laplanche - e in genere gli analisti francesi - negano che la psicoanalisi sia un modo di dar senso al dolore, e di dar senso in generale. La psicoanalisi sarebbe piuttosto sul versante della scienza, che certo non dà senso al mondo. Per questi analisti, il far senso o il tradurre sono piuttosto alla sorgente del sintomo e della nevrosi, lo scotto da pagare per "far senso" o "tradurre". L'analista opererebbe nel senso contrario - Miller parla di "rovescio dell'interpretazione", Laplanche di "anti-ermeneutica". Sottrae senso, anche se per altri versi l'essere umano, affamato di senso, finisce sempre con il ricostituire spontaneamente nuovi equilibri, cioè nuovi sistemi di senso - e nuove nevrosi.
Ma come interpretare il richiamo milleriano al rovescio dell'interpretazione, e il richiamo laplanchiano alla detraduzione? Si rivela in ambedue l'ideale illuminista che, rigettando come mito o delirio ogni auto-interpretazione da parte della vita umana, punta all'oggettività di qualcosa di elementare, a una causa prima che, in quanto causa, non ha senso, e che va rintracciata al di là di tutti i nostri miti interpretativi e superstizioni. Certo, né Laplanche né Miller prendono la psicoanalisi per una scienza applicata, ma restano fedeli all'ideale scientista e oggettivista. Non a caso ambedue provengono dallo strutturalismo, secondo cui occorreva una ricostruzione oggettiva dei soggetti non come cose (come voleva il positivismo) ma come sistemi di segni (o significanti). Lo strutturalismo sognava così un'uscita definitiva a buon mercato saussuriano dal circolo ermeneutico.
È come se Miller dicesse: "gli altri analisti sono nella superstizione, delirano non meno dell'inconscio, invece chi mi segue sarà capace delle vere interpretazioni, che non sono più veramente tali, perché ricostruirà quel che veramente è attivo nel soggetto." Ma in questo modo, credendo di essersi liberato della tentazione ermeneutica riducendola a decifrazione di significati, cade proprio sotto i colpi della critica ermeneutica (e dell'ALP) a ogni pretesa di scienza oggettiva dei soggetti: l'illusione che possiamo finalmente liberarci della pulsione interpretante, che possiamo emanciparci dall'interpretazione; magari entrando, come Alice, nel mondo dello specchio, del "rovescio".
Analogamente Laplanche parla di detraduzione, ma ogni detraduzione è per altri versi una traduzione. Non a caso egli nel suo testo oscilla in modo sintomatico, a un certo punto non parla di detraduzione ma di "traduzione di traduzione", che appare più una super-traduzione che una de-traduzione - comunque, pur sempre di traduzione si tratta. Per demistificare le interpretazioni devo a mia volta interpretare, rischiare quindi la mistificazione. È questo anche l'equivoco del derridismo: il suo decostruire i testi è un modo di ri-costruirli, cioè, in fondo, di reinterpretarli. Non a caso si accusano di solito i decostruzionisti di sovra-interpretare i testi, di non rispettare affatto la loro letteralità. Di fatto il derridismo, anche psicoanalitico, si risolve in una sovra-costruzione piuttosto che in una vera decostruzione.
Non Miller e nemmeno Laplanche hanno il coraggio di saltare il fosso verso il nichilismo ermeneutico - che consiste nel dire che ogni interpretazione interpreta sempre un'altra interpretazione, e non si giunge mai ad un dato originario ed elementare. Loro avvertono piuttosto che, siccome è l'inconscio a interpretare, l'analista non deve imitarlo. Sia Miller che Laplanche credono che possa esistere un'attività umana che non sia interpretante né traducente, che sia invece il rovescio dell'una o dell'altra: quella dell'analista. Quindi Miller ricorre all'illusione metalinguistica strutturalista: si tratta di isolare "oggettivamente" significanti. Mentre Laplanche ripropone l'utopia tradizionale dell'analista neutrale e indifferente, puro ascolto spassionato e slegante. Ma isolare significanti insensati è pur sempre un atto interpretativo. Prova ne sia che molti dissentono da questo atto - e la possibilità di dissentire è ciò che distingue l'interpretazione da tutto ciò che è dell'ordine della percezione del dato o della comprensione di una dimostrazione logica.
Ma ammettere che non usciamo mai dal circolo ermeneutico non implica la conclusione scettica secondo cui le interpretazioni sarebbero arbitrarie? Questa pare essere la denuncia degli anti-ermeneutici: "un'interpretazione vale l'altra - vi dico io come uscire veramente dall'interpretazione, cioè dall'inconscio". Da qui l'insistenza sui significanti elementari. L'amore per il termine "elementare" è sempre la spia di un atteggiamento riduzionista: l'oggettivista fugge il complesso (l'olon). Il nichilismo ermeneutico afferma invece che il nostro discorso non arriva mai a dire qualcosa di originario; non sono articolabili proposizioni o significanti (o fantasie, o pulsioni, o relazioni) elementari. Il sogno atomista della psicoanalisi rivelerebbe il suo bovarysmo scientista (è quel che Habermas (26) ha chiamato l'auto-fraintendimento scientista da parte di Freud) (27.)
La soluzione ermeneutica: la grazia contro il metodo
Ma allora, se la psicoanalisi è di fatto un'attività ermeneutica - interpretazione di interpretazione e non spiegazione causale - non conviene allora all'analista affermarlo con fierezza e ridescrivere (come molti hanno fatto) il suo operare come pratica ermeneutica? L'ermeneutica certo mira ad essere persuasiva, ma non sulla base dei criteri dell'oggettività - cioè non sulla base di una pubblica constatazione di dati di fatto. Per l'ermeneutica, le proposizioni psicoanalitiche non sono Bilder (immagini) di "cose psichiche", di oggetti interni, ma partecipano di una Bildung (formazione) soggettiva. L'analista non segue affatto le metodologie specifiche della verosimiglianza scientifica (abbandona l'idea della verità come adaequatio rei et intellectus) e si affida a ciò che chiamerei la grazia: la capacità - descritta come tempestività, essere nel posto giusto al momento giusto - di enunciare una verità di ordine squisitamente storico e temporale (nel caso della psicoanalisi, una verità della storia soggettiva) - "storico" nel senso di Geschichte, non di Historie. Questa grazia non è da confondere con il talento - in effetti ci vuole del talento per qualsiasi attività, anche per fare chimica o matematica - ma è piuttosto un dono che si merita attraverso una giusta formazione. Questa formazione (Bildung) degli analisti e poi degli analizzanti diventa allora l'essenziale: non deve iniziarli ad un metodo (per produrre le Bilder adeguate di un soggetto) ma renderli recettivi a questa grazia.
Il prezzo da pagare per godere di questa grazia è l'incomunicabilità tra psicoanalisti: ogni scuola analitica è convinta della propria grazia, per cui ognuna di esse fonda una tradizione sempre più diversa dalle altre. Mentre i periodici scientifici prestigiosi sono aperti a contributi di qualsiasi tendenza (basta che siano in accordo con certi standard metodologici accettati da tutti), le pubblicazioni psicoanalitiche sono rigorosamente separate in scuole, ognuna con la propria Bildung. Il dis-senso perpetuo, la mancanza cronica di un consenso, costituisce ad un tempo la vitalità e il limite della psicoanalisi. Gli analisti, a differenza degli scienziati di una data disciplina, non costituiscono di fatto una comunità (le scuole sono la negazione della comunità).
Così molti analisti si trovano a loro agio solo in certe filosofie post-heideggeriane ed ermeneutiche, che scrivono sulla loro bandiera "non esistono fatti ma solo interpretazioni" sulla scia di Nietzsche (28) - tutto è storia soggettiva, nulla è verificabile, la grazia costruttiva dell'analista non è vincolata dalla referenza a qualche reale. Come diceva una volta Lacan, la psicoanalisi è un savoir inventé. Quindi la psicoanalisi ha poco a che vedere con quello che fa il 99% degli storici (per non parlare dei detectives), i quali comunque cercano documenti che possano rendere più verosimiglianti le loro ricostruzioni.
A mio avviso, la rassegnazione dell'analisi a gioco ermeneutico - ad elaborazione di interpretazioni che solo la Storia potrà criticare - è segno della sua crisi. Se l'analisi è frutto di una grazia ermeneutica, in che cosa allora essa si distingue da ogni altra forma di interpretazione ideologica, filosofica, religiosa, artistica o morale? Non perché siano spregevoli queste interpretazioni, ma molti speravano che la psicoanalisi cogliesse un reale diverso da quello colto dall'arte, dalle etiche politiche o anche eventualmente dalla religione. Se l'analista si riconosce unicamente come ermeneuta, non è per questo un ciarlatano, ma di certo perde quella neutralità che costituiva l'attrattiva etica del gioco freudiano: allora l'analista si riduce di fatto ad un leader carismatico che tende a convertire l'analizzante alla sua (dell'analista) ricostruzione. Chi discredita la psicoanalisi pensa appunto che essa abbia a che fare solo con interpretazioni, mai veramente con il reale - che l'analista non è un testimone di qualche cosa (das Ding) che il soggetto scopre, ma un manipolatore delle credenze del soggetto. Una psicoanalisi ermeneutica di fatto rinuncia a confrontarsi con il reale.
Non staremmo qui a parlare ancora di psicoanalisi, nemmeno tra ermeneuti, se Freud non avesse convinto molti del fatto che la pratica analitica, attraverso delle interpretazioni, ci mette a contatto con un reale - con eventi mentali o esperienze che hanno forza causale. Non sarebbe così se l'interpretazione analitica fosse dello stesso tipo dell'interpretazione che Heidegger ha fatto dei testi di Aristotele o di Duns Scoto, o dell'interpretazione (che ha esercitato un grande influsso sul teatro britannico) che Jan Kott ha fatto di Shakespeare come "nostro contemporaneo". Anche se siamo convinti che le interpretazioni di questi testi avanzate da Heidegger o da Kott siano geniali, non per questo pensiamo che esse mettano in evidenza un potere causale in questi testi. Ridurre la ricostruzione che un analista fa di un sintomo, per esempio, all'interpretazione convincente che un filosofo o un critico fa di un testo di fatto taglia fuori il suo realismo causale. Un'isterica viene da noi zoppicando, e dopo un po' di conversazioni noi (o magari lei stessa) le diciamo "lei è convinta di aver commesso un passo falso". Lasciamo stare se dopo questa "rivelazione" l'isterica smetta di zoppicare, e chiediamoci se si tratti semplicemente di un'interpretazione ermeneutica del sintomo come metafora. Solo fino ad un certo punto. Anche se poi l'isterica "decide" di continuare a zoppicare, l'asso nella manica dell'interpretazione consiste nel fatto che il soggetto vede con perspicuità la forza causale di una convinzione del genere. Le metafore (per Freud inconsce) esercitano una forza reale, o comunque sono traccia di forze reali - cosa che l'ermeneutica corrente lascia del tutto da parte. Del resto, gli analizzanti che parlano tra loro usano un linguaggio ben poco ermeneutico! Ad esempio, la moglie di un uomo in analisi mi dice "un mese fa l'analista di mio marito gli ha dato finalmente una randellata sui denti... non si è ancora riavuto". Si riferiva ad interpretazioni che lo avevano molto scosso. La metafora hybrica (da hybris) della violenza è molto più adeguata a descrivere l'analisi delle rispettabili metafore accademiche di ermeneuti come Gadamer, Ricoeur o Vattimo.
Resta il fatto che gli analisti, dopo un secolo, non sono riusciti a convincere chi non è passato per l'analisi (e nemmeno i tanti che, pur essendoci passati, non ne hanno tratto granché) che questo atto di forza in cui consiste l'analisi - la scommessa sul fatto che certe interpretazioni hanno potere causale sulla vita concreta - si basa su delle verità, nel senso realista e non si riduce a manovra socio-esistenziale, a persuasione pedagogica o a Bildung spirituale. La crisi della psicoanalisi è tutta qui: essa riesce a persuadere sempre meno le élites colte di aver toccato un reale, così come Jodi Foster non riesce a persuadere i suoi colleghi di aver avuto un'esperienza di verità e non di illusione.
Comunque, anche se la persuasività delle interpretazioni o ricostruzioni analitiche è diminuita negli ultimi decenni, essa non è scomparsa. Esistono differenze individuali tra persone colte e razionali quanto agli standard di persuasività. Le testimonianze portate finora dagli analisti - e quindi l'impatto degli "affetti di verità", la verosimiglianza delle ricostruzioni invocate - sono sufficienti per convincere alcune persone razionali (ad esempio, filosofi come Davidson o Rorty) ma insufficienti per convincere altre persone razionali più esigenti. Gli analisti oggi dovrebbero finalmente avere l'umiltà di non parlare o scrivere solo per i credenti e i complici, ma cercare di aumentare la verosimiglianza di quel che elaborano nel loro ministerium, dovrebbero cercare di essere più convincenti insomma.
La conversione analitica
Ma allora, se le quattro soluzioni proposte - l'oggettivista, la storica, la cartesiana e l'ermeneutica - sono insufficienti, che cosa fa allora veramente la psicoanalisi? E soprattutto, ha ancora essa una persuasività? Credo di sì, purché essa si decida a rivendicare il suo tropismo al reale.
La domanda cruciale è: esiste una possibilità di contatto con il reale che non escluda a priori la dimostrazione scientifica, ma che si affermi indipendentemente da essa? Il punto non è dire, in modo dogmatico, "la psicoanalisi non sarà mai oggetto di dimostrazione scientifica" - oggi si fa scienza di qualsiasi cosa, persino dei nostri stati di coscienza, perché non si dovrebbe cercare di fare scienza anche della psicoanalisi? Il punto è piuttosto se la psicoanalisi, indipendentemente dai protocolli scientifici, può convincere (gli analisti primi tra tutti) che da qualche parte ci fa toccare del reale.
Questa domanda diventa fondamentale una volta che si sia abbandonata una concezione ermeneutica della Verità. Un approccio ermeneutico sfocia di fatto in un nichilismo storicistico: è vera ogni concezione che si affermi storicamente. La psicoanalisi è valida nella misura in cui essa ha successo storico, punto e basta. Una volta che essa non convince più un'epoca, cessa di essere vera. La verità ermeneutica si risolve in un conformismo storicista hegeliano. Personalmente cerco un superamento dell'opportunismo ermeneutico non tornando all'oggettivismo delle metodologie scientifiche, ma cercando un realismo aldilà dell'oggettività. E' possibile avere contatto con un reale su cui la scienza (per ora) non ha presa? A questa domanda mi pare essere sospeso il destino della psicoanalisi.
Si prenda il libro del filologo Sebastiano Timpanaro (29) che punta a smontare la teoria freudiana dei lapsus. Come già Wittgenstein prima di lui (30), in modo alquanto convincente Timpanaro mostra che quando Freud si imbatte nel giovane ebreo che dimentica il termine aliquis nella sua citazione di Virgilio (31), la sua interpretazione di questa amnesia di fatto non spiega la causa del lapsus. In altri termini, Freud compie una pura operazione ermeneutica: dà senso (o attribuisce significanti, se si preferisce) alla dimenticanza - connettendola alle preoccupazioni attuali del soggetto - ma non dimostra affatto che questo senso sia anche la causa di essa. E' ancora da dimostrare che quel senso abbia avuto anche forza causale. E' qui in causa quella che si potrebbe chiamare "la prova ontologica" dell'esistenza dell'inconscio da parte di Freud. In Freud non si tratta, come in Anselmo di Canterbury, di dimostrare l'esistenza di Dio a partire da un pensiero di perfezione, ma di dimostrare che il senso di un testo coincide con la causa di esso. Come Anselmo, anche Freud incorre quindi in una critica di stile "kantiano".
In effetti, non si è affatto certi che il dispiegarsi in modo convincente di un senso (la coerenza della costruzione) colga la vera causa, cioè qualcosa di reale. Ma la costruzione freudiana conserva comunque una verosimiglianza. L'incertezza di qualsiasi ricostruzione storica, sempre provvisoria e contestabile, è ineliminabile. Tra lo 0 dell'impossibile e l'1 della certezza, le costruzioni analitiche hanno una verosimiglianza frazionale, il cui grado dipende dal livello di tolleranza degli individui nei confronti dell'incertezza. L'analista è prima di tutto un temerario (può darsi un buon analista timido?): si costringe a considerare vere le sue costruzioni, perché si rende conto che questo è il solo modo di forzare l'inerzia della costruzione nevrotica.
Ma riflettiamo su un altro punto. Freud riesce comunque a farsi rivelare dal suo giovane interlocutore qualcosa: costui teme che la sua ragazza italiana sia rimasta incinta di lui. Certo non siamo affatto sicuri che questo pensiero sia la causa dell'amnesia, ma comunque Freud attraverso le "disassociazioni libere" del soggetto ha mostrato qualcosa di vero: vale a dire che il soggetto è travagliato da una discordanza. Da una parte, come faccia pubblica e politicamente corretta, egli invoca come Didone dei discendenti che lo vendichino - dall'alta poi ammette che di fatto teme di avere dei discendenti. Ora, riappare qui il punto cruciale di tutta la teoria freudiana: che comunque ogni nevrosi (al pari di ogni sogno e di ogni atto mancato) è connessa - anche se non possiamo più dire con certezza che ne è l'etiologia - ad una discordanza soggettiva, a qualcosa di egodistonico. Questa sfasatura conflittuale è stata interpretata dalla tradizione psicoanalitica in termini sempre più soggettivistici: si tratta essenzialmente di un conflitto intra-psichico, si tratta insomma di vedere come il soggetto sia condizionato, dominato, da vecchie interpretazioni infantili che occorre smontare (è quel che ci dicono Miller e Laplanche, ma un po' tutti gli analisti). Il giovane ebreo commetterebbe il lapsus perché sarebbe teatro di un conflitto squisitamente soggettivo tra desideri contraddittori. Ma questo modo di vedere le cose rimuove completamente qualcosa che si situa nel reale, e che proprio per questo risulta così rilevante: che l'amante del nostro giovane sia realmente incinta. E' dopo tutto con questa irruzione del reale - in quanto non previsto - che il soggetto deve fare i conti, interpretandolo. Così come, nel sonno, un soggetto deve fare i conti con pulsioni che tendono a svegliarlo - da qui il compromesso del sogno.
In effetti Freud diceva, molto giustamente, che ogni Io ha a che fare con due istanze "altre" non psicologiche: le pressioni del mondo esterno e le pressioni delle pulsioni che provengono dal corpo, l'Es. Freud oscilla spesso quando usa il termine Ich: ci si chiede spesso se stia parlando di das Ich della seconda topica, o dell'Ich che gli analisti anglofoni chiameranno Self, vale a dire la soggettività. Freud oscilla perché non solo per la psicoanalisi, ma per ogni essere umano, è problematico distinguere ciò che è autenticamente parte di noi e ciò che non lo è, ciò che è "veramente me stesso" e ciò che è "altro da me". (In questo, la teoria psicoanalitica si arrovella non meno che ognuno di noi - riformula, senza risolverla, la perplessità di ogni soggettività.) Ma in fondo la nevrosi mostra proprio l'efficienza su di noi di un'istanza altra, di qualcosa che viene o dalla fonte biologica dei nostri desideri o dal mondo delle cose che ci circondano e premono su di noi (32). Invece la teoria analitica da tempo ha preso una dirittura intimistica e anti-biologica: ha svalutato sempre più la dimensione traumatica, e si è concentrata su una pura descrizione di processi soggettivi. Il conflitto e la discordanza nel soggetto sono stati visti solo come messa in opera del soggetto: ricerca sempre più lunga e narcisistica delle sue verità del cuore, non dell'impatto dell'altro su di lui.
Nel film Contact, una mente radicalmente altra e lontanissima nello spazio prende la forma di ciò che per l'astronoma è più che mai vicino, intimo: il padre amato. Ma il punto è capire che l'intimità infantile del fantasma è una maschera di un'alterità inimmaginabile. Invece la teoria e la pratica della psicoanalisi ha finito col prendere alla lettera la maschera dell'intimità; manca l'alterità terribile, estranea, che si nasconde nelle forme nostalgiche dei ricordi del focolare.
E' vero che ogni nevrosi rimanda ad un sistema interpretativo - che si può far risalire all'infanzia - che occorre decostruire ricostruendolo o dis-interpretare interpretandolo. Ma occorre anche chiedersi: perché questo sistema interpretativo a cui il soggetto in pena è fissato appunto non funziona più? Ci sono infantilismi che non portano ad una discordanza nevrotica perché il soggetto trova del comfort in essi. Freud parla anche di "meccanismi di difesa", l'equivalente psicologico del sistema immunitario. Ma qui emerge una differenza cruciale tra una terapia medica classica e una cura analitica. La medicina cura una malattia puntando alla restitutio ad integrum, cioè rafforzando direttamente o indirettamente il sistema immunitario, le difese - occorre che il virus o la lesione prodotta dall'esterno vengano eliminati. Sin dall'inizio invece Freud ha optato per un'etica diversa: non si tratta di rafforzare l'Io - cioè le sue difese, la rimozione - perché espella più efficacemente l'alterità, ma al contrario di aprire l'Io all'altro, di integrare l'altro a sé, di permettere all'io di dis-integrarsi da quello che era. L'analista spinge l'Io a diventare permeabile all'alterità (pulsione biologica, trauma, richieste e interpretazioni invadenti dall'esterno) - cosa possibile grazie ad una riconversione soggettiva, ad una ristrutturazione del proprio sistema interpretativo. Grazie a questa accoglienza di ciò che per l'Io è reale, il soggetto può uscire dalla ripetizione ed avere finalmente una storia. L'analista di solito non suggerisce direttamente questa riconversione, ma la rende possibile mostrandone al soggetto l'"inevitabilità". E come la mostra?
Prendiamo un caso qualsiasi di Freud, quello di Dora. In che cosa consiste veramente il malessere di Dora? Non certo nei suoi sintomi di "petite hystérie", certo non sufficienti per allarmare tanto i suoi. Il vero "sintomo" di Dora consiste piuttosto nello scombinare le strategie del padre - essa è più il sintomo del padre che portatrice di sintomi suoi. Il punto è che, facendo da sintomo del padre, lei resta legata, appassionata ad una ronda familiare che include i K., e nella quale entra di straforo anche Freud. In questa sua febbre decostruttiva lei non si scombina mai dal gioco di scambi familiari. Freud è convinto che Dora ami sessualmente gli altri protagonisti della giostra - il padre, la signora K., il signor K., e poi anche Freud - ma soprattutto Dora ama quell'economia erotico-domestica. Freud - che entra nel girotondo - non riesce a tirar fuori Dora dall'oikos, non riesce a farla diventare una donna. Eppure è un tema ricorrente, anche nei suoi sogni: Dora scappa via da casa... anche da quella di Freud. Oggi ancora, continua a sfuggirci. L'isteria è il restare figlia da parte della femmina, l'indugiare in casa gesticolando innumerevoli fughe. Non diventa ancora capace di ricentrare la propria vita, sola o con un uomo, su moduli diversi da quelli dei giochi incestuosi familiari. In questo modo, la discordanza o conflitto soggettivi di Dora trova la sua chiave in qualcosa che trascende la pura soggettività, in una tensione etica in senso lato: da un lato la necessità sociale e biologica di accedere ad una femminilità per lei stessa accettabile (darsi finalmente ad un altro veramente estraneo), dall'altro il suo restare attardata in un'economia domestica di scambi e complicità con il medesimo.
Si prenda l'esempio dell'isterica che zoppica, come Elizabeth von R. Gran parte della teoria analitica è rimasta ipnotizzata dal carattere metaforico del sintomo - da qui la valanga di reinterpretazioni linguistiche, simboliste, ermeneutiche, della teoria standard. Ma così facendo si perde la causa del dramma che si esprime nella metafora sintomatica: che quello zoppicare segnala la difficoltà del soggetto a procedere nel mondo dove vigono leggi, quelle che proibiscono l'incesto e che prescrivono ai figli "abbandonerai tuo padre e tua madre!" L'interpretazione delle metafore - il versante linguistico - è solo una parte, forse nemmeno essenziale, di quel che l'analista eticamente fa: nel caso specifico delle isteriche, ad esempio, permettere al soggetto, pur zoppicando, di gettarsi nel reale. Ogni analisi riesce quando riesce questa Geworfenheit. La decostruzione delle interpretazioni soggettive produce effetti quando il soggetto arriva finalmente a misurarsi con quel reale che le sue interpretazioni nevrotiche cercavano di addomesticare. Il reale, per Dora, è quell'andarsene da casa che, di notte, lei si limita a sognare.
Al contrario del medico che rafforza l'organismo riportandolo all'equilibrio passato, l'analista si fa di fatto il corifeo di un'istanza di squilibrio e riconversione verso il futuro (nel senso in cui diciamo che una zona rurale si riconverte in un'area industriale): "non devi resistere al reale, ma anzi, accettarlo e farlo tuo". Potremmo dire che il precetto di ogni vero analista è quello che Kafka aveva dato a se stesso: "Nel conflitto implacabile tra te e il mondo, parteggia per il mondo".
Da qui il fondo persuasivo, malgrado tutte le incertezze, di quell'affetto di verità su cui la psicoanalisi trae, in ultima istanza, tutta la sua credibilità. Questo affetto è certamente il risultato delle verosimiglianti ricostruzioni storico-ermeneutiche dell'analista che mettono a nudo la difesa interpretativa del soggetto: ma esso indica all'orizzonte al soggetto, percepitosi finalmente come altro da quel che crede di essere, la possibilità di interpretarsi altrimenti aprendosi all'alterità che lo snida. Invece della disgrazia di un conflitto interminabile con il mondo, il soggetto può meritarsi la grazia di un lavoro con gli altri.
(1) Cfr. S. A. Kripke, Wittgenstein on Rules and Private Language, Oxford, Basil Blackwell, 1982.
(2) E persino di Wilhelm Reich - il pensiero di Deleuze è una forma di reichismo filosofico.
(3) Persino il filosofo inglese Richard Wollheim, molto legato agli ambienti kleiniani londinesi, ha dedicato opere a Freud ma nulla alla Klein o a Bion.
(4) Diego Napolitani mi segnala il buon libro di Furio Di Paola su Bion (Il tempo della mente. Saggio sul pensiero di Wilfred Bion, Sestante, Ripatransone (AP), 1995). Ma una rondine non fa primavera.
(5) K. Popper, Conjectures and Refutations, New York, Basic Books, 1962, pp. 156-7, 255-258; K. Popper, "Replies to my Critics" in The Philosophy of Karl Popper. P.A. Schilpp ed., book 2, LaSalle (Ill.), Open Court, 1974, pp. 984 sgg.; A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, Milano, Il Saggiatore, 1988; A. Grünbaum, Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, Roma, Armando, 1988; J. Bouveresse, Filosofia, mitologia e pseudo-scienza. Wittgenstein lettore di Freud, Einaudi, Torino 1998. Mi permetto di segnalare i miei commenti alle tesi di Grünbaum e Bouveresse: "Recensione a A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, ed altri volumi", Rivista Italiana di Gruppoanalisi, Vol. III, n. 2, luglio 1988, pp. 73-88; "Review of J. Bouveresse, Philosophie, Mythologie et Pseudo-Science. Wittgenstein Lecteur de Freud", Journal of European Psychoanalysis, n. 1, Spring-Summer 1995, pp. 172-180.
(6) Sergio Benvenuto & Cornelius Castoriadis, "A Conversation", Journal of European Psychoanalysis, 6, Winter 1998, p. 106..
(7) Sull'analisi come rito, si veda Bice Benvenuto, Concerning the Rytes of Psychoanalysis. Or , The Villa of the Mysteries, Polity Press, Cambridge, 1994.
(8) Ne parla a proposito della reazione terapeutica negativa. Freud considera di fatto una conferma della verità di una costruzione non il miglioramento clinico del paziente, ma il suo peggioramento (OSF, 11, p. 549; GW, 16, p. 52).
(9) Vedi per esempio S. Zizek, The Ticklish Subject, Verso, London-New York 1999.
(10) Questo non toglie che le scienze, nel loro sforzo di rendere prevedibile il mondo contingente, facciano sempre più uso dello strumento matematico: ma ne possono far uso proprio perché si tratta di un mero strumento, non di un'immagine predeterminata del mondo.
(11) E' noto che il celebre saggio di O.W. Quine (Two Dogmas of Empiricism) ha ridimensionato questa pretesa: le certezze logico-matematiche appartengono ad un dato sistema conoscitivo, quindi non si tratta di mere tautologie. Non ci sono da una parte proposizioni sintetiche conoscitive, e dall'altra proposizioni analitiche puramente tautologiche. Ciò va però in un senso ancora più anti-cartesiano: nemmeno le proposizioni logico-matematiche sono certe, anch'esse sono connesse all'insieme del sapere.
(12) Tractatus logico-philosophicus, 6.43, 6.52.
(13) Cfr. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (par. 122) e Note sul "Ramo d'oro" di Frazer, Milano, Adelphi 1975, pp. 29-30. La rappresentazione perspicua "designa la nostra forma rappresentativa, il modo in cui vediamo le cose"; la specifica intelligibilità fornitaci da una rappresentazione di questo tipo proviene dal fatto che essa ci fa scorgere chiaramente le connessioni, gli anelli intermedi e le transizioni, le somiglianze e le differenze tra elementi separati.
(14) E' un partito preso umanistico pensare che la narrazione storica riguardi unicamente eventi umani. Di fatto la palentologia, per esempio, è una scienza storica della vita biologica.
(15) La verifica e la falsifica, in storia come nelle scienze naturali, sono impossibili: si può solo aumentare o diminuire la verosimiglianza o la "falsomiglianza" di ipotesi e narrazioni. La letteratura poliziesca è piena di esempi che mostrano come una ricostruzione molto verosimigliante di un delitto alla fine crolli perché per caso si scopre un piccolo dettaglio che rimette tutto in discussione. La verità certa non viene raggiunta mai.
(16) In questo caso però la certezza era solo di Freud: il suo paziente non ha mai veramente accettato questa ricostruzione. Più tardi ha anzi escluso di aver assistito ad una scena del genere.
(17) Per tutte le altre scienze enunciare delle verità non coincide mai con un'azione efficace: occorre poi mettere in atto una tecnologia perché la scoperta della verità dia degli effetti pratici. Dire delle verità sul fiume non implica ipso facto che il fiume devi: occorre costruire una diga.
(18) Bion negli ultimi anni era solito dire che per lo più gli analizzanti non fanno altro che produrre sogni, fantasie e ricordi per compiacere i loro analisti. Bion interpretava sogni e fantasie come interpretazioni, da parte del paziente, di quel che l'analista desiderava che il suo paziente sognasse e fantasticasse. In effetti, un analista per il solo fatto di star lì, vivo e (talvolta) attento, interpreta e viene interpretato. Insomma, impossibile uscire dal circolo ermeneutico.
(19) Il rovescio dell'interpretazione, in La Psicoanalisi, 19, 1996, p. 121.
(20) Ibid., p. 124.
(21) Ibid., p.122.
(22) Sulla crescente diffidenza nei confronti dell'interpretazione, cfr. Lucia Pancheri, "Interpretation anc Change in Psychoanalysis: What is Left of Classical Interpretation", Journal of European Psychoanalysis, 6, 1998, pp. 3-17; e il mio "The Crisis of Interpretation", cit., pp. 19-46. In Italia Giampaolo Lai e la sua Accademia delle Tecniche Conversazionali praticano una forma di analisi che rinuncia a rischiare interpretazioni.
(23) Ibid., p.125.
(24) Questa rovescio-interpretazione consisterebbe "nel non aggiungere un S2, ma nell'isolare S1 - vale a dire nel ricondurre il soggetto ai significanti propriamente elementari sui quali, nella sua nevrosi, ha delirato", cioè, che con la sua nevrosi ha interpretato. Traduco dal lacanese in italiano: l'analista non deve decifrare-cifrare significati, ma ricondurre il soggetto a una "cifra" originaria, del tutto insensata, irrelata, non mitizzabile. E difatti "il rovescio dell'interpretazione consiste nell'isolare il significante in quanto fenomeno elementare del soggetto, non ancora articolato nella formazione dell'inconscio, che gli dà questo senso di delirio" (Miller, cit., p.125).
(25) Soprattutto Jean Laplanche, La psychanalyse comme antiherméneutique in Revue des Sciences Humaines, 1995, 240, pp. 13-24; Aims of the Psychoanalytic Process in Journal of European Psychoanalysis, n. 5, 1997, pp. 71-81.
(26) J. Habermas, Conoscenza e interesse, Roma, Laterza, 1973, pp. 239-254.
(27) Ogni approccio oggettivista deriva infatti dal presupposto che ogni complesso è riducibile a composizione di elementi ultimi. L'atomo, o elemento, o individuo indivisibile, è ciò che sarebbe alla base e/o all'origine di ogni occorrenza storica concreta. L'atomismo è però impraticabile in psicoanalisi: questa, in pratica, non va mai dal complesso al semplice, ma dal complesso al complesso (e non solo a quello di Edipo).
(28) Questo lo slogan inaugurale di una filosofia molto influente in Italia, quella di Gianni Vattimo, e in genere del filone noto come pensiero debole. Questo romanticismo di fine millennio è una esaltazione della soggettività interpretante contro le pretese selettive dell'oggettività.
(29) S. Timpanaro, Il lapsus freudiano, Firenze, La Nuova Italia 1974.
(30) L. Wittgenstein, "Conversations on Freud" in Lectures & Conversations on Aesthetics, Psychology and Religious Belief, C. Barret (ed.) (Berkeley and Los Angeles: Univ. of Calif. Press), p. 41-52.
(31) GW, IV, pp. 12-19; OSF, IV, pp. 63-68.
(32) A proposito di impulsi biologici, buona parte della psicoanalisi francese ha puntato le sue carte sulla distinzione netta tra besoins (biologici) e désirs (mentali, culturali, simbolici). La psicoanalisi è stata così separata fin troppo dal corpo. A mio avviso si tratta di un errore caratteristico della mentalità umanistica e spiritualista francese. La psicoanalisi ha impressionato il nostro secolo proprio perché invece ci ha fatto toccare con mano la forza degli impulsi biologici, e il fatto che il soggetto debba arrampicarsi sui vetri per controllarli e dominarli, interpretandoli.
PM
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