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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicofarmacologia e Psicoterapia



Terapie integrate: problemi e sperimentazione

G. Guerani - E. Vercillo



Sempre di più compaiono in letteratura articoli riguardanti la Terapia Integrata (TI) tra diverse farmaco- e psico-terapie. D'altronde il problema si impone a livello della riflessione, dopo decenni di incomprensione reciproca ed anatemi, a partire innanzitutto dalla pratica clinica concreta, che vede sempre di più collaborare farmaco- e psico-terapeuti, spesso integrati -apparentemente- nella stessa persona dello psichiatra. A dispetto di ciò non può non colpire, nello scorrere il panorama della letteratura internazionale sull'argomento, l'esiguità dei lavori scientifici che nel trascorso decennio hanno affrontato il problema, qualora si consideri l'impianto sperimentale dei lavori come essenziali ad una maggiore comprensione dei fattori in gioco.

Infatti si tratta spesso di lavori teorici e qualitativi, che forniscono tuttavia valide riflessioni sulla necessità di un intervento integrato, definendo spesso i confini e le multiformi accezioni delle due modalità di intervento nelle diverse patologie. Sono presenti difatti un discreto numero di case reports, a conferma che la sistematizzazione in questo argomento è ben lontano dall'essere effettuata ed i contributi clinici, anche se relativi a singoli casi, vengono ben accolti dai comitati di redazione, ritenendoli comunque di interesse.

Oppure ancora, complice il sempre maggiore peso dell' Health Managed Care negli USA, in arrivo anche da noi, si tratta di lavori sperimentali principalmente di comparazione di efficacia tra trattamenti non integrati e TI, che pur necessari, evitano di entrare nel merito della ricerca e verifica sperimentale dei fattori in gioco nelle TI.


La Tab. I mostra la somma di lavori nel decennio 84-94 reperiti tramite una ricerca in Medline e manuale suddivisi per patologia; come si può vedere prevalgono gli studi sul TI nella depressione, probabilmente sia per il maggiore interesse portato nel decennio trascorso verso tale patologia, sia perché essa si propone come un campo privilegiato in cui farmaco- e psico-terapia possono essere non solo conviventi per necessità, ma anche di rinforzo reciproco.


TABELLA I

1984-1994

PATOLOGIA

No. LAVORI COMPLESSIVI

Depressione

31

Medicina Generale

18

D.A.P.

14

Disturbi d'ansia

13

Psicosi

11

Abuso

10

Dist. Bipolari

4

Dist. Pers. Borderline

4

P.T.S.D.

2



La Tab. II presenta un quadro scaglionato negli anni dei lavori, suddivisi tra sperimentali o case-reports, e descrittivi o teorici, oltre alle patologie considerate. Scorrendo la sequenza temporale dei lavori, si mostra che sono in crescita nel corso degli anni, a testimonianza di un campo di ricerca ancora fertile ed in grado di fornire interessanti prospettive. Del 1991 è il libro di Beitmann e Klerman che fa il punto sulla situazione, e nella sesta edizione (1995) del Textbook di Kaplan e Sadock si è aggiunto un capitolo sulla integrazione di farmaco- e psico-terapia.


TABELLA II

INTERVENTO INTEGRATO

ANNO

N. tot.

Sperimentali

o Case Report

Descrittivi

o Teorici

DIAGNOSI

1984

7

4

3

2 Depr, 2 Psicosi, 1 Med. Gen., 1 Bipolari, 1 Abuso

1985

9

5

4

1 Depr, 2 Psicosi, 3 Med. Gen., 2 D. ansia, 1 Abuso

1986

3

3

-

1 Depr, 1 D. d'ansia, 1 Abuso

1987

4

3

1

2 Depr, 1 Abuso, 1 Borderline

1988

12

6

6

3 Depr, 1 Psicosi, 1 Med.Gen., 1 Bipolari, 1 Abuso,
2 D. d'ansia, 2 DAP, 1 PTSD

1989

10

8

2

5 Depr, 3 Med. Gen., 1 D. d'ansia, 1 DAP

1990

15

9

6

5 Depr, 2 Med.Gen., 1 Bipolari, 1 Borderline, 2 DAP,
1 D. d'ansia, 3 Neurol

1991

17

9

8

2 Depr, 3 Psicosi, 3 Med.Gen., 3 Abuso, 2 D. d'ansia,
2 DAP, 1 Dist. sex, 1 Neurologia

1992

12

8

4

3 Depr, 2 Psicosi, 2 Med.Gen., 1 Bipolari, 3 DAP,
1 D. d'ansia.

1993

7

2

5

1 Depr, 1 Med.Gen., 3 D. d'ansia, 2 DAP

1994

15

6

9

6 Depr, 1 Psicosi, 2 Med.Gen., 2 Abuso, 1 PTSD,
1 Borderline, 2 DAP



Psicologia della farmacoterapia

Non bisogna confondere con il tema della TI un'altra corrente di studi importante, quella che con parole di Thomas Gutheil (1982) potremmo chiamare la "psicologia della farmacologia": i presupposti significativi spesso sottaciuti dello scambio farmacologico tra psichiatra e paziente, che, partita dai problemi della compliance spesso difficile dei pazienti alla farmacoterapia, meriterebbe ben altro sviluppo ed interesse da parte nostra (Gutheil 1977,1978,1982; Levy 1977, Appelbaum e Gutheil1980). Rimandiamo per questi aspetti al lucido capitolo , aggiornato al 1990, sulla ÎFarmacoterapia psicodinamica' del trattato di Gabbard del 1994. La "psicologia della farmacologia" costituisce un presupposto preliminare per chi voglia studiare le complesse interazioni all'opera nelle TI, ma, per così dire, esamina solo una delle direzioni della corrente tra i due poli, quella grossolanamente definibile del valore psicoterapeutico -leggi comunicazionale- del farmaco. Due delle aree problematiche della cui esplorazione sperimentale sentiamo la mancanza sono ad es. 1) il valore "farmacologico" del lavoro psicoterapeutico nella TI; 2) l'influenza della farmaco- terapia sul lavoro psicoterapico non solo come attenuazione dei sintomi tale da facilitare il processo comunicativo in opera, generalmente, nelle psicoterapie, ma come agente diretto delle modificazioni psicologiche verificabili in psicoterapia, magari in aree difficilmente aggredibili da questa. Ciò tanto più meraviglia in quanto la psicofarmacoterapia è giunta, rispetto ad es. ad una ventina di anni fa, ad un livello di sofisticazione tale da far guardare con sospetto chi voglia ancora, per alcune patologie, sostenere la natura solo grossolanamente sintomatica dell'azione sintomatologica.

Efficacia e integrazione

Come si diceva, tra i lavori pubblicati, una notevole parte non tratta l'intervento integrato, ma si limita ad osservare e confrontare pregi e difetti dei singoli interventi somministrati separatamente, segnale della sempre presente difficoltà ad unire i due approcci terapeutici, ma, anche, del superamento del tabù della non confrontabilità delle due tecniche di intervento. Si tratta della mole di studi, che con difficile e farraginoso, ma necessario, impianto sperimentale, verificano l'efficacia in diverse patologie dell' "applicazione" al paziente (a gruppi paragonabili di pazienti ) di interventi terapeutici da valutare nel trial di confronto; queste ricerche nascono dalla spinta, conseguente allo sviluppo della impostazione strettamente medica imperante nella psichiatria contemporanea, verso una formalizzazione e verifica degli strumenti psicoterapici utilizzati, a partire innanzitutto da quello ad impostazione cognitivista, fino al versante psicoanalitico: valga ricordare i nomi di Lester Luborsky e di Gerry Klerman, tra gli altri. Gli studi summenzionati di confronto hanno attirato molte critiche metodologiche sul loro impianto sperimentale, dai criteri di selezione dei casi, ai parametri considerati fondamentali nella efficacia, agli strumenti di verifica dei risultati. Qui ci interessa soprattutto ricordare che nei trial in cui veniva preso in considerazione un trattamento integrato farmaco-psicoterapeutico -es. Karasu 1990 per la depressione-, questo si rivelava superiore agli altri due isolatamente; pochi però si attardavano a considerare i fattori complessi implicati nella interazione, ed eventualmente quali fossero le carte vincenti.

Tecniche e patologie

La maggioranza degli studi condotti riguarda tecniche psicoterapeutiche di impianto cognitivista. Tali scuole presenta infatti una tradizione sperimentale ed è stata tra le prime a porsi il problema della validazione sperimentale dell'intervento psicoterapeutico stesso. Le differenze numeriche tra queste e quelle a impostazione psicodinamica aumenta se si considerano gli studi a stretto impianto sperimentale.

Le patologie prese in esame sono abbastanza varie, pur essendo la depressione, come si vedeva, quella maggiormente rappresentata.

Nell'ambito della depressione sono ancora presenti testimonianze di come nei casi di severità medio-grave la combinazione tra psicoterapia e farmacoterapia rappresenta il trattamento più efficiente e rappresenta inoltre la migliore forma di profilassi (Wollerscheim 1993). Sono concordi anche i giudizi sui differenti target delle due terapie. La farmacoterapia agisce infatti sulla rapida risoluzione dei sintomi neurovegetativi e psichici, mentre la psicoterapia aumenta le capacità di autoaffermazione (coping-skills), di problem-solving e di sopportare agenti stressanti, anche tramite la modificazione degli schemi cognitivi di base o della conoscenza tacita presente nell'organizzazione cognitiva dei soggetti predisposti a sviluppare episodi depressivi. Non è difficile tradurre in termini di scuole a orientamento psicoanalitico queste modificazioni strutturali notate dagli autori citati.

Un recente lavoro suggerisce addirittura di effettuare uno screeening neurovegetativo, oltre che clinico, nei pazienti più gravi, per meglio indicare quelli che si possono meglio giovare dell'associazione con la terapia farmacologica (Thase et al 1993).

Un caso particolare è rappresentato quello della depressione atipica in cui i sintomi neurovegetativi sono differenti dai normali sintomi depressivi. In un interessante report clinico, uno psicoanalista riferisce che la farmacoterapia con fenelzina (un IMAO) ha aiutato la paziente ad assumere i rischi emotivi legati all'esperienza transferale. Viene proposta l'ipotesi che la vulnerabilità emotiva della paziente aveva inibito la sua abilità di lavoro nella terapia psicoanalitico, prima della somministrazione del farmaco, che avrebbe dunque agito sui suoi meccanismi di difesa (Wylie e Wylie 1987).

Per quanto riguarda l'importante lavoro terapeutico integrato nel vasto campo delle psicosi, viene individuato nel trattamento psicoterapico, abbinato alla farmacoterapia, un importante ed insostituibile ruolo nella protezione del paziente dalle ricadute (Muller 1991). E' interessante notare che nella letteratura esaminata per quanto riguarda la terapia delle psicosi, a differenza di altre patologie, si esamini la problematica come integrazione dell'intervento farmacologico con la psicoterapia e non, come per altre patologie, nell'ottica opposta. Val la pena segnalare il complesso studio di Frank e Gunderson 1990, che si pone anche come modello di una sperimentazione raffinata in un campo così sfuggente nei parametri da esaminare; esso confronta due diverse psicoterapie individuali riguardo ai risultati a due anni su 143 pazienti schizofrenici non cronicizzati, sotto trattamento farmacologico, e sui fattori comuni ai due trattamenti che possano essere considerati necessari per l'efficacia terapeutica. Non è il trattamento combinato l'oggetto di esame, ma alcune considerazioni sulle ricadute farmacoterapiche riguardano il nostro studio, come quelle, centrali, sul ruolo dell'alleanza terapeutica come fattore centrale di efficacia, evidentemente non solo per le psicoterapie, come si dirà in seguito. Una letteratura in crescita sulla schizofrenia riguarda i trattamenti cosiddetti Îriabilitativi' psicoeducazionali, che, a partire ad esempio dalle esperienze di Faloon, non si limitano -né sarebbe possibile- ad essere semplici esempi di case-management, ma hanno diritto ad essere considerati di fatto interventi psicoterapici, anche se forse questo termine è stato evitato per il discredito cui è andato incontro in ambito nordamericano. Una rassegna si può trovare nel Cochrane Database 1986 ad opera di Mari e Streiner.

Patologie "più giovani" risultano meno rappresentate in letteratura. Ad esempio i primi lavori sul trattamento integrato della bulimia compaiono solo nel 1988 (Fairburn 1988) e viene confermato nel 1992 (Kennedy e Garfinkel 1992) come in tale campo di ricerca si sia ancora nella fase iniziale. Allo stesso modo compaiono segnalazioni per la TI degli attacchi di panico solo nel 1990 (Bronisch 1990), ma sono di fatto in crescita; una esperienza italiana di TI negli attacchi di panico è quella di Bria, Ciocca et al.. Tali considerazioni sono ancora più radicali nel caso dei disturbi d'ansia nei bambini ed in età adolescenziale, dove i dati disponibili sull'uso di farmaci necessitano di essere maggiormente ampliati (Popper 1993).

Per quanto riguarda la bulimia emerge il dato di una maggiore efficacia dei trattamenti psicoterapici sulla imipramina, capace in combinazione di agire sui sintomi di ansia e depressione, ma non sui sintomi bulimici in sé. Tali risultati potrebbero essere diversi ripetendo il lavoro con i più recenti farmaci SSRI, ma inducono comunque ad alcune prime importanti considerazioni.

Uno dei più importanti punti da chiarire nel rapporto tra lo psicoterapeuta ed lo psicofarmacologo è quello delle rispettive competenze rispetto al multiforme quadro presentato dal paziente. Non sempre infatti il farmaco disponibile si può rivelare ragionevolmente attivo su sintomi bersaglio o, ancora più difficilmente, su complesse situazioni scaturenti da molteplici problematiche intrapsichiche. Occorre allora che lo psicoterapeuta ed lo psicofarmacologo concordino un comune piano con estrema chiarezza sui propri limiti e le proprie rispettive competenze, ben attenti a taluni giochi di squalificazione reciproca operati o favoriti dai pazienti e concordino di usare le proprie armi per agevolarsi a vicenda il compito usando ad esempio i farmaci per agire su alcuni aspetti come ad esempio l'ansia o la depressione e delegare invece la più complessa gestione di taluni sintomi alla psicoterapia.

Altri lavori introducono all'importante problema della valutazione multidimensionale del paziente, indipendentemente dalla diagnosi categoriale. Appare infatti di estrema importanza nell'inquadramento di un paziente l'individuare il diverso peso delle componenti biologico/costituzionali, psicodinamiche, post-traumatiche (dove presenti) e di stile cognitivo e difensivo (Stone 1990). In questo modo sarà possibile limitare l'uso di tecniche che non rispondono a questo profilo multidimensionale del paziente.

Un caso particolare è quello costituito dai pazienti borderline. Da una parte su questi pazienti si è a lungo ritenuto che una farmacoterapia fosse inefficace, laddove Stone 1990, Soloff 1994 hanno mostrato che l'uso di appropriati farmaci si è rivelato utile a ridurre l'impulsività, l'aggressività ed i tratti psicotici. Questo è risultato utile a facilitare il lavoro psicoterapeutico sui parametri di personalità maladattativi, diminuire le risposte "tutto o nulla" a stimoli relativamente neutri, e facilitare i rapporti interpersonali. La terapia farmacologica dovrebbe pertanto essere vista come un utile complemento alla psicoterapia nel trattamento a lungo termine dei pazienti borderline. Considerazione anche più importante nell'ottica emergente che tende a vedere questi pazienti appartenenti allo spettro di patologia dei disturbi dell'umore, e a valorizzare il dato di Îtemperamento' più che di personalità, almeno per una parte più o meno grande del confuso calderone dei borderline.

Farmaci differenti

Sostanze diverse hanno diverso impatto sulla psicoterapia, e sulla farmacoterapia stessa. Consideriamo i due casi opposti, per certi riguardi, degli stabilizzatori dell'umore e delle benzodiazepine. Vale come premessa quanto già detto a proposito della evoluzione complessa della farmacoterapia.

Ora, non è un caso che il concetto della farmacoterapia come parte del processo di Îworking alliance' emerga in un lavoro che esamina un trattamento effettuato con la carbamazepina (Cegalik e Possick 1985). E' infatti l'affinarsi degli strumenti psicofarmacologici, e la disponibilità di molecole maggiormente selettive e dotate di caratteristiche di regolatori, -piuttosto che solo di spiccate proprietà sedative, e di insostenibili effetti collaterali palesi o maggiormente subdoli-, che iniziano a rendere possibile anche una "working alliance" tra le figure professionali dello psicoterapeuta e dello psicofarmacologo, consentendo a questi una modulazione meno grossolana dei parametri di rapporto interpersonale necessari per un qualsiasi intervento psicoterapeutico.

Sul versante opposto uno dei problemi emergenti in questi ultimi anni è quello della dipendenza dalle benzodiazepine. Troppo spesso si è stati portati ad identificare questi farmaci come assolutamente privi di effetti collaterali e sono stati pertanto prescritti in modo estremamente disinibito, causando sovente non meditate indebite ingerenze, esponendo il paziente al rischio di dipendenza ed al possibile sviluppo di tolleranza e svilendone, di fatto, la notevole potenzialità terapeutica. È specie nella concomitanza di un rapporto psicoterapeutico che la cronicità nell'uso delle benzodiazepine dovrebbe essere evitata e tali farmaci dovrebbero avere un loro valido ruolo terapeutico nell'uso a breve termine. Nei disturbi d'ansia è altresì necessario che lo psicofarmacologo non ometta una precisa diagnosi sull'asse II del paziente. E' stato infatti notato come, pur disponendo di una vasta ed efficacie farmacopea con numerose valide alternative per i diversi disturbi d'ansia, i concomitanti disturbi di personalità incrementano la resistenza alla farmacoterapia ed è necessario indirizzare questi pazienti ad uno psicoterapeuta (Coplan et al. 1993).

Osservazioni come queste si inseriscono nel vasto dibattito in atto non solo sulle comorbidità diagnostiche tra disturbi in Asse I e in Asse II (cfr. tra gli altri il recente Oldham et al. 1995), ma anche su come la compresenza di disturbi sull'Asse II -in se come è risaputo non aggredibili con trattamenti farmacologici (su questo argomento gli autori hanno in preparazione un lavoro)- generi fenomeni di resistenza farmacologica ed una serie di altre complicazioni, ad es. il fenomeno della revolving door ( Haywood et al. 1995), che pongono fortemente in questione la necessità di un trattamento integrato.

Conclusioni

A dispetto delle deficienze notate nella letteratura, alcune conclusioni sono lecitamente desumibili.

1) Considerare la terapia psicofarmacologica come parte del processo di "working alliance" che viene a costruirsi con il paziente.; tale alleanza dovrebbe portare ad un intervento integrato non solo dove la psicofarmacologia costituisce l'iniziale bastone della psicoterapia, per poi lasciarle il posto dopo il miglioramento della situazione clinica e la possibilità per il paziente di poter usare dosaggi sempre minori di farmaci (ove le patologie lo consentano). Nel caso della psicosi schizoaffettiva, ad esempio, il supporto di una molecola attiva sulla sfera timica permette al paziente di non essere più preda delle brusche ed ampie variazioni affettive causate dalla sua patologia, permettendogli una graduale presa di coscienza e differenziazione tra gli aspetti cognitivi, somatici, interpersonali e situazionali che influiscono sulla sua sfera emotiva. Viene infatti riportato che con l'affinarsi di tali capacità anche il dosaggio di farmaci necessari tende a diminuire (per es. Frank e Gunderson 1990).

2) Risulta altrettanto vero, ed è testimoniato dalla esperienza clinica comune, oltre che da studi documentati, che la alleanza di lavoro funziona altresì nella direzione inversa, fornendo il rapporto psicoterapeutico, anche iniziale, un aiuto alla compliance farmacologica spesso difficile del paziente a terapie prolungate nel tempo.

3) Vorremmo porre al termine una avvertenza finale sulla difficoltà del rapporto tra i due soggetti curanti implicati (diverso, ma non meno difficoltoso il caso in cui sia uno stesso psichiatra a svolgere entrambi i ruoli). Dal punto di vista operativo è estremamente importante che si delinei chiaramente il confine dei due interventi, ad evitare subdoli interventi psicoterapeutici da parte dello psicofarmacologo e la 'sopportazione' dei farmaci, o, peggio, la somministrazione di terapie farmacologiche ritenute "non dannose" da parte dello psicoterapeuta.


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